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Parte SecondaCOME LA LUCE

27 novembre 1996

Chinandosi a raccogliere le chiavi della macchina che gli erano cadute, Alan Franklin fece una smorfia di dolore. Gli mancavano quindici giorni alla pensione e il suo corpo, come un orologio di precisione, gli diceva che era proprio il momento giusto. Il dolore alla schiena e l’idea di un cottage all’estero in cui trascorrere la vecchiaia gli erano venuti esattamente nello stesso giorno.

Si raddrizzò, ansimando rumorosamente nel parcheggio deserto. Forse ne avrebbero parlato di nuovo quella sera, davanti a una bottiglia di vino. Sheila propendeva per la Francia, mentre lui preferiva la Spagna.

In un modo o nell’altro, comunque, se ne sarebbero andati.

Non c’era nulla che li trattenesse. I tre figli che lui aveva avuto da Celia erano adulti e avevano messo al mondo figli a loro volta. Lui ormai non aveva più contatti con loro, né aveva mai visto i nipotini.

C’erano gli amici, naturalmente, e di sicuro gli sarebbero mancati. Ma in fondo lui e Sheila non avevano nessun vero legame…

Infilò le chiavi nella serratura della Rover.

Probabilmente alla fine avrebbe vinto Sheila, come sempre. E bisognava ammettere che spesso lei aveva ragione.

Come, per esempio, quella mattina, quando gli aveva detto di coprirsi bene, perché avrebbe fatto freddo.

Girò la chiave, azionando l’apertura centralizzata.

Mentre stava per tirare la maniglia della portiera, qualcosa gli passò con un sibilo davanti agli occhi e lo colpì al collo facendogli perdere l’equilibrio.

Cadde a terra prima di poter urlare, con una gamba spezzata e piegata dietro di sé e l’altra protesa in avanti. Si portò le mani alla gola, cercando di infilare le dita tra il collo e la corda che lo stringeva.

Un pugno lo colpì in testa, poi sentì le dita insanguinate scivolare via dalla corda.

E un alito caldo dietro la nuca…

Guardò la gamba protesa in avanti scalciare disperatamente contro il cerchione della Rover.

Ricordò all’improvviso il volto della donna sotto di lui.

Sentì l’odore del dopobarba che usava allora, la forza che aveva nelle braccia. Vide le gambe di lei che scalciavano contro le scatole impilate nel magazzino e il tonfo sordo dei suoi piedi sul cartone.

Sentì il movimento sotto di lui farsi più debole e cessare, mentre gli occhi di lei si chiudevano.

Sembrava che l’oscurità stesse calando molto in fretta. Forse le luci del parcheggio avevano un timer per il risparmio energetico. Riusciva appena a distinguere il proprio piede, il tacco della scarpa che colpiva ripetutamente il cerchione.

Poi ci furono solo la tenebra e l’afflusso di sangue, e il rimbombare sordo delle pulsazioni nelle orecchie mentre la corda si stringeva.

Vide sua moglie che gli sorrideva in giardino e la donna sotto di lui che cercava di voltare la testa, e poi sua moglie e di nuovo la donna, e infine la donna al posto di sua moglie, che gli diceva che avrebbe fatto freddo.

La donna rideva, raccomandandogli di non dimenticare la sciarpa…

CAPITOLO 10

Carol Chamberlain era sempre stata mattiniera, ma quel giorno, quando il marito entrò in cucina ancora mezzo addormentato verso le sette, lei era già in piedi da almeno un paio d’ore. Lui accese il bollitore, annuendo tra sé.

Sapeva che la moglie avrebbe dormito poco, dopo quella telefonata.

Era arrivata la sera prima, durante l’intervallo pubblicitario tra Stars in their eyes e Blind date. Appena l’uomo si era qualificato e aveva iniziato a spiegare il motivo della chiamata, Jack le aveva passato il ricevitore, con un’espressione perplessa.

Carol aveva ascoltato tutto ciò che il comandante aveva da dirle, facendo però troppe domande, come si evinceva dal tono esasperato della voce all’altro capo del filo.

Un quarto d’ora dopo, aveva acconsentito a prendere in considerazione la proposta.

La nuova squadra era stata organizzata, le aveva spiegato il comandante, utilizzando alcune risorse che negli anni precedenti erano state… “sprecate” (sì, aveva detto proprio così). L’idea di fondo era che ex poliziotti di notevoli capacità avrebbero potuto portare il contributo della loro esperienza pluriennale nel riesame di vecchi casi “freddi”. Sarebbero stati in grado di valutarli con occhi nuovi…

Dopo la telefonata, Carol si era rimessa a guardare lo show del sabato sera. Era indecisa. Si considerava una “risorsa sprecata”, ma, per quanto avesse una gran voglia di rimettersi in gioco, aveva avvertito una nota dubbiosa nella voce di quel giovane comandante. E aveva capito subito che, probabilmente, lui e tanti altri temevano di veder comparire alla centrale schiere di ex poliziotti con occhiali e bastone, che sventolando un distintivo consunto avrebbero detto: «Posso ancora farcela… Ho ottantadue anni».

Jack le mise davanti una tazza di tè. «Hai intenzione di accettare, vero, tesoro?»

Lei alzò gli occhi. Per quanto tirato, il suo sorriso era senz’altro il più ampio degli ultimi tempi.

«Posso ancora farcela» disse.

Mentre Thorne rientrava da Hove a tutta velocità con la Corsa presa a noleggio, Brigstocke aveva isolato la scena del delitto al Greenwood Hotel. Quando Thorne arrivò, erano passate quasi tre ore dal ritrovamento del cadavere, che più tardi sarebbe stato identificato come quello di Ian Welch, e dovevano esserne trascorse più di dodici dall’assassinio.

A Thorne non rimase altro da fare che restare a fissare il corpo.

«Se non altro, questo è un hotel un po’ più decente» osservò Hendricks.

Holland annuì. «Ci hanno perfino mandato su il caffè.»

«C’è una tivù a circuito chiuso nella hall» disse Brigstocke. «È un modello base, credo, ma non si sa mai.»

Era un classico hotel da agenti di commercio. Stiracalzoni accanto al letto, bollitore e bustine di tè, sapone scadente nel bagno. La stanza, semplice e pulita, era molto diversa da quella di tre settimane prima. A parte ovviamente i macabri particolari che le accomunavano.

Anche in quel caso, il letto era stato disfatto e la biancheria portata via. I vestiti erano sparsi in giro, ma il cadavere era stato messo in posa con precisione. Al centro del letto, con la testa verso la parete, i polsi legati da una cintura, il cappuccio, la corda intorno al collo e le macchie di sangue secco lungo le cosce, come salsa di pomodoro rappresa…

Quest’uomo sembrava più vecchio di Remfry. Quarantasette anni circa.

Brigstocke riferì a Thorne le poche informazioni di cui erano in possesso e lui lo ascoltò fissando fuori dalla finestra. Erano a due minuti dall’autostrada, a cinquanta metri da un grande svincolo, eppure quella domenica mattina Thorne udiva soltanto il cinguettio degli uccelli e il fruscio del sacco di plastica in cui veniva infilato il cadavere.

Stavolta l’assassino aveva ordinato il suo omaggio floreale di persona. L’ordine era stato fatto alle otto e mezzo della sera prima, presso un fioraio aperto ventiquattr’ore, e il pagamento era stato effettuato con il bancomat della vittima. Era stato proprio grazie a questo che la polizia aveva potuto risalire subito alla sua identità.

«Stavolta non ha lasciato un messaggio» disse Brigstocke.

Thorne si strinse nelle spalle. O in questo caso l’assassino aveva imparato dal suo errore, oppure nel caso precedente l’aver lasciato la sua voce sulla segreteria di Eve Bloom era stato un atto intenzionale.

«Un fioraio aperto ventiquattr’ore? Ma chi cavolo può aver bisogno di fiori in piena notte?»

«Non è aperto davvero tutto il tempo» spiegò Brigstocke. «Ma c’è sempre qualcuno in negozio almeno fino alle dieci. Non garantiscono la consegna entro la mattina successiva, ma in questo caso l’hanno fatto, data la natura dell’ordine…»

Alle nove del mattino, un fattorino si era presentato alla reception con una corona funebre. La ragazza al banco, sorpresa, aveva telefonato alla stanza 313. Non ricevendo risposta, aveva chiesto al fattorino di aspettare ed era salita al terzo piano. Cinque minuti dopo, le sue grida avevano svegliato tutto l’hotel.

«Capo…?»

Thorne si voltò e vide entrare Andy Stone, che sorrideva sventolando un pezzo di carta. «La vittima si è registrata con il suo vero nome» disse.

«Perché non avrebbe dovuto farlo?» chiese Brigstocke. «In fondo pensava di venire qui a farsi una scopata.»

«È venuto per fottere ed è stato fottuto» commentò Holland.

Quando Stone ebbe smesso di ridere, Thorne gli disse: «Continua».

Stone gettò un’occhiata al foglio. «Ian Anthony Welch. Rilasciato otto giorni fa dalla prigione di Wandsworth. Condannato a cinque anni per stupro, ne ha scontati tre.»

«Non so perché non ci abbiamo pensato prima» disse Thorne, senza rivolgersi a nessuno in particolare. «Remfry non è stato ucciso per ragioni personali. Lui e questo qui sono stati assassinati a causa di ciò che hanno fatto. Cristo, è il genere di caso per cui normalmente veniamo tirati dentro…»

Brigstocke si stirò, facendo frusciare la tuta sterile di plastica. «Be’, stavolta ce lo siamo procurati da soli.»

Ora tutto sarebbe cambiato. Negli ultimi dieci giorni le priorità erano state riviste. Dopo tre settimane di indagini infruttuose sull’omicidio Remfry, vecchi casi finiti in coda erano stati riportati in cima alla lista. I membri della squadra si erano trovati immersi fino al collo nei preparativi per il processo a un adolescente che aveva accoltellato un amico durante una lite per un videogioco e avevano dovuto occuparsi di raccogliere la documentazione su una sparatoria per questioni di droga. E ora bisognava sconvolgere di nuovo il ruolino di marcia. Adesso che il caso Remfry era diventato il caso Remfry-Welch, gli altri sarebbero scesi a priorità zero.

Ora la Squadra 3 non si sarebbe occupata d’altro…

«Uno, due, tre!»

Thorne rimase a guardare mentre quattro agenti sollevavano il cadavere dal materasso per sistemarlo nell’apposito sacco aperto sul pavimento. La cintura era stata tolta, ma a causa del rigor mortis le mani erano rimaste strette dietro la schiena, con le dita intrecciate. Il corpo cadde goffamente di lato, con le ginocchia contro il petto. Gli agenti si guardarono senza sapere cosa fare e un sergente si fece subito avanti. Mise il cadavere supino, gli appoggiò una mano sul petto e con l’altra gli stese il più possibile le gambe, raddrizzandolo in modo da poter chiudere la cerniera del sacco.

«Ho dimenticato di chiedertelo» disse Brigstocke. «Com’è stato il matrimonio?»

Thorne stava ancora guardando il sergente, che, tenendo gli occhi chiusi, sistemava quel cadavere nudo. «Non molto più divertente di tutto questo» disse.

Un quarto d’ora dopo, a mezzogiorno in punto, il nucleo della squadra era riunito nella hall. L’autopsia era prevista per le due. Thorne avrebbe seguito Hendricks al Wexham Hospital; Brigstocke e gli altri, invece, sarebbero tornati in ufficio.

Mentre l’ispettore capo parlava al telefono prima con Jesmond e poi con Yvonne Kitson, gli altri se ne stavano seduti sulle poltrone in finta pelle, sorseggiando un caffè mentre il cadavere veniva caricato sul furgone dell’obitorio.

Finita la telefonata, Brigstocke li raggiunse, infilandosi il cellulare nella tasca interna della giacca. «Bene, ora dobbiamo correre, tutti quanti, me compreso.»

«Quali parole di saggezza ci invia l’onnisciente sovrintendente?» chiese Thorne.

«I giornalisti piomberanno qui prima ancora che siano state cambiate le lenzuola del letto. Quindi ecco la nostra versione: ufficialmente, noi non possiamo confermare, né smentire un collegamento con il caso Remfry.» Brigstocke fece una pausa, per assicurarsi che tutti avessero ricevuto il messaggio. «Secondo me ha senso. I giornali scandalistici solleverebbero un fottuto polverone, con una storia del genere tra le mani. Parlerebbero di vigilantes, lancerebbero sondaggi. “L’assassino sta facendo giustizia? Rispondete si o no.”»

«Potrebbe essere davvero l’opera di un vigilante?» chiese Stone.

Thorne allungò una mano verso il bricco e si versò un’altra tazza di caffè. «Questa è una faccenda molto personale. L’uomo che ha ucciso quei due non lo fa certo per me o per te…»

«Forse» disse Brigstocke. «Ma ciò nonostante saranno in molti a chiedersi se non dovremmo ringraziarlo, invece di dargli la caccia.»

Il direttore dell’hotel attraversò la hall, parlando sottovoce con un piccolo gruppo di ospiti in tenuta da golf. Poi strinse loro la mano e rimase a guardarli mentre passavano sotto il nastro di protezione teso dalla polizia e si allontanavano scuotendo la testa. Thorne immaginò che, durante la partita, avrebbero avuto un buon argomento di conversazione, diverso dalle solite chiacchiere su vacanze e automobili nuove.

Brigstocke si schiarì la voce. «Allora, la squadra di medicina legale farà il possibile per darci i risultati al più presto. Mentre aspettiamo, anche noi abbiamo parecchie cose da fare…»

«Non otterremo nulla» commentò Thorne. «La camera è più pulita dell’altra, ma è pur sempre una stanza d’hotel. Raccoglieranno campioni per una settimana.»

«Potremmo avere fortuna» disse Holland.

«È più facile che sabato escano tutti e sei i numeri che hai giocato all’Enalotto.»

Brigstocke batté il cucchiaino contro la sua tazza di caffè. «Smettiamo per un attimo di tirarci su di morale a vicenda e parliamo di ciò che possiamo fare.»

Holland alzò la mano. «Signore, se i miei numeri sabato escono davvero, chiedo ufficialmente il permesso di abbandonare il caso e tagliare la corda a Rio de Janeiro con due top model.»

La risata che seguì fece bene a tutti.

«Voglio sapere con esattezza tutto ciò che ha fatto Ian Welch dal momento in cui è uscito di galera» disse Brigstocke. «Dove alloggiava, chi ha incontrato…»

Stone intervenne: «È stato rilasciato come “persona priva di fissa dimora”. La prigione mi ha dato l’indirizzo di un ostello.»

Brigstocke annuì. «Ottimo. Ora dobbiamo chiamare un bel po’ di altre prigioni e parlare con tutti i detenuti per reati sessuali con una data di rilascio imminente. Questa è la parte facile. Inoltre dobbiamo rintracciare tutti i violentatori, esibizionisti o palpatori di culi rilasciati negli ultimi sei mesi, assicurarci che non abbiano ricevuto lettere e avvisarli di cosa rischiano nel caso in cui le abbiano ricevute.»

«Di quante persone stiamo parlando?» chiese Holland.

Brigstocke prese un pacchetto di biscotti e lo tenne penzolante tra due dita. «Stando agli ultimi dati del ministero degli Interni, nel paese, in media, ogni giorno viene rilasciato un detenuto condannato per reati sessuali gravi.» Aprì il pacchetto con i denti, sputò un pezzetto di plastica e fissò le facce intorno a lui. «Mica male, eh? Se partiamo solo dall’inizio dell’anno, dobbiamo rintracciare circa centocinquanta persone.»

Stone sollevò un sopracciglio. «Almeno in teoria, dovremmo sapere dove trovare la maggior parte di loro. Ma è comunque un lavoro sterminato.»

«Già» convenne Brigstocke.

«E saremo in grado di giustificarlo? Voglio dire, queste non erano precisamente vittime innocenti…» soggiunse Stone.

Brigstocke sbatté le palpebre e aprì la bocca con la chiara intenzione di sbraitare, ma Thorne lo precedette. «Non è un problema tuo, Andy.»

«Lo so, stavo solo dicendo…» Thorne sollevò una mano. «Quello che non possiamo giustificare sono i cadaveri…»

Una volta usciti, si diressero alle rispettive auto. Brigstocke prese Thorne sottobraccio. «Devo parlarti» disse, camminando verso la sua Volvo. «Di Stone.»

Thorne annuì. «Non ha fatto altro che ribadire ciò che tu stesso avevi messo in evidenza prima, capo. Remfry, Welch, quello che facevano, quello che erano. Alcuni potrebbero senz’altro pensare…»

Brigstocke premette il telecomando dell’auto, disattivando l’antifurto. «Intendevo riferirmi non a ciò che ha detto adesso, ma a ciò che ha fatto durante l’arresto di Gribbin.»

Thorne se lo aspettava. Sapeva che il comportamento di Stone in quell’occasione non sarebbe passato sotto silenzio. «Capisco…»

«Non preoccuparti, non ci saranno conseguenze. È stato giustificato come un tentativo di proteggere la bambina. Ciò nonostante, voglio che tu gli faccia sapere che ha esagerato.»

«Va bene.»

Brigstocke salì in macchina, accese il motore e cominciò a fare manovra. «Chiamami dal Wexham appena Phil ha finito.»

Holland raggiunse Thorne mentre stava per entrare nella Corsa. «Le va di venire a bere qualcosa, più tardi?» chiese.

«Mi va di venire a bere ben più di qualcosa» replicò Thorne.

Holland passò una mano sulla fiancata dell’auto a noleggio. «Questo è il tipo di macchina giusto.»

«Giusto per cosa?»

«Per lei. Sa bene che la sua auto è moribonda. Questa è carina.»

«È bianca. E poi la mia macchina non è affatto moribonda.»

Thorne aprì la portiera e salì a bordo. Holland si chinò verso di lui. «Però, se si trattasse di una donna, l’avrebbe già lasciata.»

Il finestrino elettrico si abbassò lentamente. «Hai uno strano modo di ragionare, Holland.»

«Come va con la fioraia?»

«Fatti gli affari tuoi.»

Il motore si accese con un basso ruggito. Thorne guardò Stone che li osservava, al volante della sua Ford Cougar grigio argento. Indicò l’auto a Holland con un cenno del capo. «E della macchina di Stone cosa ne pensi?»

«Un po’ troppo vistosa» fu la risposta.

Thorne vide Stone battere con impazienza la mano sul volante. «Datti una mossa. Mi sembra che Stone non veda l’ora di partire.»

Holland fece un passo indietro, poi si fermò. «Suo padre si è divertito, al matrimonio?»

«Divertito? Sì, penso di sì.»

«Ah, senta…» disse in fretta Holland, mentre Stone lo chiamava con un colpo di clacson. «Il primo Doctor Who è stato William Hartnell. L’ho scoperto cercando su Internet.»

«Lo riferirò a mio padre.»

Thorne mise in moto, mentre Holland attraversava il parcheggio di corsa e saliva sulla macchina di Stone. La Cougar lo sorpassò con lo stereo a tutto volume, immettendosi nella strada senza quasi rallentare.

Thorne guardò l’orologio e spense il motore. Non era ancora l’una. L’autopsia era fissata per le due e l’ospedale non distava più di dieci minuti in macchina. Mentre cercava di decidere se fare un pisolino o leggere il giornale, udì in lontananza urla, applausi, cori di tifosi portati dall’aria calda del pomeriggio.

Gli ci vollero venti minuti per scoprire che la partita si teneva in un piccolo parco lontano dalla strada principale. Mancavano ancora diverse settimane all’inizio del campionato, ma i calciatori della domenica non si preoccupavano del calendario, né di altre bazzecole come l’allenamento e l’abilità nel gioco. Una squadra in rosso e una in giallo e una dozzina di matti che facevano il tifo, godendosela un mondo.

Thorne non avrebbe potuto sentirsi meglio, lì in piedi a bordo campo a seguire la partita.

Di lì a poco, avrebbe dovuto guardare organi espiantati da mani esperte e deposti su un vassoio… Adesso, però, era ben contento di poter guardare una squadra in rosso e una in giallo, che si rincorrevano gridando e scalciando zolle di terra.

Thorne prese la sua birra e si voltò. Tranne Russell Brigstocke, che aveva uno dei figli malato, e Yvonne Kitson, la maggior parte dei membri anziani della Squadra 3 era tutta lì. Adesso che il caso aveva di nuovo priorità assoluta ed era stato trovato un secondo cadavere, chissà quando avrebbero avuto un’altra occasione di godersi una serata fuori.

Thorne non aveva intenzione di trattenersi a lungo. Era stanchissimo. Un drink, forse due, e poi a casa…

Erano seduti intorno a un paio di tavolini. Holland e Hendricks se ne stavano a un’estremità, con Stone e il sergente Sam Karim, che svolgeva mansioni di capufficio. Stavano giocando a “Scopa o Crepa”, un gioco che andava per la maggiore nell’Unità per i Reati Gravi. In pratica si trattava di scegliere tra due partner sessuali ugualmente poco desiderabili.

In quel momento l’alternativa tra Ann Widdecombe e Camilla Parker Bowles aveva scatenato un acceso dibattito. Phil Hendricks, urlando per farsi sentire, sosteneva che, in quanto gay, non si riteneva obbligato a scopare con nessuna delle due. Il suo punto di vista, alla fine, fu considerato valido e gli fu data la scelta tra Jimmy Savile e il sovrintendente Trevor Jesmond…

Il Roval Oak non aveva alcuna attrattiva speciale, a parte il fatto di essere il pub più vicino a Becke House. E la presenza costante dei poliziotti sembrava scoraggiare avventori di altro tipo.

Thorne si guardò intorno. Era domenica sera e il locale era quasi deserto. A un tavolo vicino ai bagni era seduta una coppia. I due sembravano aver litigato e fissavano i bicchieri in silenzio. A parte le rumorose discussioni dello “Scopa o Crepa” e gli scatti metallici della quiz machine in un angolo, la sala era piuttosto tranquilla.

I presenti erano più o meno gli stessi che poche ore prima si erano ritrovati nella sala delle autopsie. Phil Hendricks, un trio di assistenti dell’obitorio, un tecnico della scientifica, un fotografo, un operatore video, il poliziotto che era arrivato per primo al Greenwood Hotel (venuto a confermare ufficialmente che il cadavere era lo stesso da lui visto sul letto della stanza 313). E Thorne…

Nove persone in una stanza gelida, con le superfici lavabili e le canaline di scolo nel pavimento, nella quale perfino il lieve rumore di una mentina masticata rimbombava sulle piastrelle crepate. Una piccola folla in attesa che il cadavere di Ian Welch venisse privato del lenzuolo che lo copriva e sezionato.

Thorne aveva assistito a centinaia di scene del genere e, per quanto ormai ci si fosse rassegnato, aveva notato che ultimamente gli riusciva sempre più difficile liberarsi di quelle immagini. Erano i particolari, le sensazioni impercettibili, le cose che lo disturbavano per giorni dopo ogni autopsia.

Si svegliava di colpo, con in testa il tonfo sordo di un cervello che cadeva in un recipiente di vetro. Lo schiocco delle mani sulla pelle, mentre si dava il dopobarba, gli rammentava quello delle dita che affondavano in quel cervello. Talvolta, al lavoro, l’acre mescolanza di sudore e odore stantio di cibo gli ricordava l’odore crudo della carne sezionata…

Nove persone in attesa, come ospiti imbarazzati di un party bizzarro, estranei gli uni agli altri.

Quel tremendo iato tra l’arrivo e il momento in cui cominciava ad accadere qualcosa…

Alla fine, Hendricks aveva scostato il lenzuolo bianco chiedendo al poliziotto, bianco come il lenzuolo, di confermare che si trattava dello stesso cadavere da lui visto quella mattina. L’agente, sforzandosi di reprimere un conato di vomito, aveva detto: «Sì, è lo stesso».

E poi era cominciata tutta la procedura…

Holland andò al bancone per ordinare un giro di birre e Thorne prese il suo posto, accanto ad Andy Stone. Karim si allungò verso di lui, ansioso di coinvolgerlo nel gioco, ma, prima che potesse dire una parola, Thorne si era già voltato verso Stone.

«Stupido gioco» commentò quest’ultimo. A quanto pareva, doveva essersi già scolato tre o quattro birre. «Se si trattasse davvero di scopare o crepare, uno scoperebbe chiunque, no? Perciò che senso ha?»

Thorne tracannò un sorso di birra. «Devo dirti due parole su ciò che è accaduto durante l’arresto di Gribbin» sussurrò nell’orecchio di Stone.

Stone sembrò riacquistare di colpo la sobrietà. «Stavo proteggendo la bambina. Non sapevo che cosa quel tipo avesse intenzione di fare…»

«Questo è esattamente ciò che l’ispettore capo ha scritto nel suo rapporto, ma mi ha anche incaricato di dirti, in modo non ufficiale, che hai esagerato e che una cosa del genere non deve più accadere. D’accordo?»

Stone fissò davanti a sé, in silenzio.

«Andy?» Thorne bevve un altro sorso. Mezza pinta se n’era già andata. «Nessuno ama particolarmente i tipi come Gribbin, ma dobbiamo rispettare certi limiti.»

«È che ce ne sono così tanti, come lui. Non capisco come possano essercene tanti in giro.»

«Senti…»

Stone si girò verso di lui e lo fissò. «Ho un amico nella Squadra per la Protezione dei Bambini, a Barnes. Mi ha raccontato di quella volta in cui hanno dato la caccia a un serial killer di bambini, in Scozia. Ne aveva già ammazzati tre. Avevano un identikit e una donna aveva segnalato di averlo visto su una spiaggia. Allora hanno fatto un appello, chiedendo a tutti coloro che si trovavano lì in vacanza di consegnare le foto che avevano scattato in quel periodo, nella speranza che in qualcuna di esse fosse stato casualmente ripreso anche quel bastardo.»

Thorne annuì. Ricordava il caso, ma non sapeva dove volesse arrivare Stone raccontandoglielo.

«Bene, hanno ricevuto centinaia di pellicole. Le hanno sviluppate e si sono messi a esaminare le foto.» Stone sollevò il bicchiere, fissandolo per un attimo. «La donna non è riuscita a riconoscere l’uomo che aveva visto, ma la polizia ha identificato trentasei noti pedofili. Trentasei, in un solo fine settimana, su una sola spiaggia…» Stone finì la sua birra. «Devo andare in bagno.»

Thorne lo osservò allontanarsi e finì la sua birra. Decise che sarebbe stato meglio per lui tornare a casa in metropolitana, lasciando la Corsa nel parcheggio di Becke House.

Il resto della serata trascorse tranquillamente. Thorne riscosse un certo successo con un paio di barzellette del padre.

Holland ebbe una discussione con Sophie sul cellulare, accompagnata da smorfie a beneficio dei ragazzi e battute sdrammatizzanti.

Nessuno riuscì a scegliere tra Vanessa Feltz ed Esther Rantzen. Holland ebbe un’altra conversazione con Sophie, poi spense il cellulare. Thorne scommise dieci sterline con Hendricks che lo Spur avrebbe superato l’Arsenal nella classifica della stagione successiva. Hendricks, dopo una birra di troppo, rivelò che Holland aveva suscitato fantasie in diversi suoi amici gay…

Stone afferrò Thorne per un braccio, mentre uscivano dal pub nella notte calda.

«Il mio amico mi ha raccontato anche un’altra cosa. Hanno arrestato un tizio che aveva la casa tappezzata di foto di bambini, scaricate da Internet. E il tizio ha detto che visitava quei siti nella speranza di trovare, un giorno, le foto che avevano scattato a lui…» Thorne cercò gentilmente di liberarsi dalla stretta, ma Stone sembrava non voler mollare la presa. «Queste sono soltanto balle» disse. «Stronzate, pretesti. Sono tutte menzogne, capo…»

Thorne entrò in casa e si fermò nell’atrio comune, che condivideva con la coppia dell’appartamento al piano di sopra. Ritirò la posta, separando le bollette dai dépliant pubblicitari delle pizzerie da asporto, e cercò nella tasca la chiave del suo appartamento.

Appena aprì la porta, si rese conto di quel che era successo. Sentì una corrente d’aria che non avrebbe dovuto esserci e il tanfo che essa portava con sé…

Percorse a passi rapidi il corridoio, mentre Elvis gli si sfregava contro una gamba. Appoggiò la ventiquattrore e la posta sul tavolo accanto al telefono ed entrò nel soggiorno.

Fissò lo spazio vuoto dove avrebbe dovuto esserci il televisore. Poi alzò gli occhi sullo scaffale polveroso che non si era mai deciso a dipingere e su cui avrebbe dovuto trovarsi lo stereo. Non c’erano più neanche i cavi, il che significava che i ladri avevano lavorato con relativa calma. Quando avevano fretta, infatti, si limitavano a strappare via lo stereo, lasciando i cavi penzolanti dalla presa sul muro.

Thorne raddrizzò alcuni libri che prima erano tenuti fermi dalle casse Bose. I ladri non amavano la lettura, ma in compenso si erano portati via tutti i CD. Quei coglioni avrebbero venduto la sua collezione per una dose o due di eroina.

Thorne entrò in cucina e vide la finestra da cui erano entrati. Era stato lui a dimenticarsela aperta, due sere prima, quando era corso via in fretta e furia per andare a calmare quello stupido di suo padre.

A parte stereo e televisore, sembrava non mancasse altro. Probabilmente in camera da letto avrebbe trovato un paio di valigie in meno. Di sicuro erano usciti dalla porta, tranquilli e indisturbati, come se quelle valigie contenessero i vestiti per le vacanze.

Il tanfo lo colpì allo stomaco come un pugno, non appena aprì la porta della camera da letto. Capì subito da dove veniva. Coprendosi naso e bocca con una mano, scostò le lenzuola. Il suo primo pensiero, quando la vide, fu che c’era voluta una certa abilità per farla nel centro esatto del letto.

Uscì rapidamente, chiudendo la porta. Elvis miagolava ai suoi piedi, affamata, o forse ansiosa di negare ogni responsabilità per la merda sul letto. Thorne si chiese se fosse troppo tardi per chiamare suo padre e inveirgli contro per un po’.

Guardò l’orologio. Mezzanotte e dieci.

Aveva appena compiuto quarantatré anni.

Era stato così per tutta la domenica: ogni volta che cominciava a divertirsi, gli veniva in mente quello stupido messaggio e si irritava. Lo aveva trovato sulla segreteria telefonica, quando era tornato da Slough sabato sera, ma non lo aveva ascoltato fino alla mattina dopo. Era proprio ciò di cui aveva meno bisogno. Rovinava tutto.

Doveva affrontare la questione.

Mentre si vestiva, pensò all’espressione sul volto di Welch, quando lui era entrato nella stanza. Era la cosa migliore. Anche Remfry ne aveva avuta una uguale. L’espressione di uno che crede di essere sul punto di ricevere una cosa e scopre che, invece, sta per fare un’esperienza completamente diversa.

Si domandò se anche loro avessero visto la stessa espressione sul volto delle donne che avevano violentato.

Non conosceva i particolari dei loro reati. Non gli interessavano. La violenza sessuale era violenza e basta. Sapeva che spesso non avveniva in vicoli bui e che molti violentatori erano persone di cui la vittima si fidava. Amici, colleghi, mariti…

Sicuramente quegli uomini avevano visto quell’espressione di sorpresa e di orrore sul volto delle donne che avevano assalito. La violenza era l’ultima cosa che quelle donne si aspettavano da loro.

Lui aveva osservato con piacere quell’espressione deformare il sorriso pieno di aspettativa di quegli uomini. L’aveva assaporata per alcuni secondi, prima di tirare fuori il coltello e la corda da bucato… dando vita a un espressione completamente diversa.

Infilò il giubbotto e prese le chiavi di casa. Si guardò nello specchio dell’ingresso e lanciò un’occhiata alla segreteria telefonica.

Si sarebbe occupato della questione del messaggio più tardi.

CAPITOLO 11

Dall’uscita della metropolitana a Becke House erano dieci minuti a piedi, ma Thorne arrivò in ufficio madido di sudore. Una figura indugiava di spalle accanto all’entrata principale dello stabile, avvolta nel fumo di una sigaretta. Thorne rimase sbalordito quando vide che si trattava di Yvonne Kitson.

«Buongiorno, Yvonne.»

Lei rispose con un cenno del capo, evitando il suo sguardo e arrossendo come una quattordicenne sorpresa a fumare in bagno.

Thorne indicò la sigaretta, ormai ridotta a una cicca. «Non sapevo che tu…»

«Be’, ora lo sai.» Lei sorrise e tirò un’altra boccata. «Non sono tanto perfetta, come vedi…»

«Grazie a Dio» disse Thorne.

Il sorriso di Yvonne Kitson si fece più caldo. Thorne vide che aveva ancora con sé la borsa a tracolla. «Ehi, non sei entrata in ufficio?»

Lei scosse la testa, soffiando fuori il fumo da un angolo della bocca. «Cristo, devi essere parecchio sotto stress, allora.»

Yvonne Kitson inarcò le sopracciglia, fissandolo come se l’espressione “sotto stress” fosse solo un blando eufemismo.

Rimasero lì a guardare in direzioni diverse per alcuni secondi, in silenzio. Thorne decise di muoversi prima che la situazione li costringesse a parlare del tempo. Appoggiò una mano sulla porta a vetri e disse: «Ci vediamo di sopra…».

«Oh, merda!» esclamò lei, come se si fosse appena ricordata di qualcosa. «Mi dispiace per il furto che hai subito.»

Thorne annuì, si strinse nelle spalle ed entrò. Salì le scale meravigliandosi della velocità e dell’efficienza del tamtam della polizia.

Un sergente di turno a Kentish Town, che conosce un agente a Islington, il quale a sua volta chiama qualcuno a Colindale…

Bastava aggiungere alla miscela una dose di sussurri in cinese, ed ecco pronto un cocktail interculturale di voci, pettegolezzi e stronzate che superava in efficacia tutti i sistemi in uso per combattere il crimine.

Thorne ci mise quasi cinque minuti per attraversare la sala di pronto intervento, fino alla macchina del caffè, tra le battute e i lazzi dei colleghi.

«Mi dispiace, amico…»

«Che aria sbattuta, signore! Ha dormito sul divano?»

«Mai frequentato un seminario sulla prevenzione, Tom?»

«Cento di questi giorni…» Era Holland.

Thorne aveva voluto tenere la ricorrenza sotto silenzio e la sera prima, al pub, aveva evitato di accennare al suo compleanno. Evidentemente, doveva aver rivelato la sua data di nascita a Holland in qualche altra occasione. «Grazie.»

«Non è stato un bel regalo di compleanno, eh? Intendo il furto, non…»

«No, non lo è stato.»

«Qualcuno ha detto che le hanno rubato anche la macchina…»

«È un sorriso di compiacimento il tuo, Holland?»

«Niente affatto, signore.»

La sera prima, mentre trascinava il materasso fuori dall’appartamento, Thorne si era ricordato che, quand’era rientrato a casa, non aveva visto la Mondeo parcheggiata davanti. E non aveva visto neppure le chiavi della macchina sul tavolo. Allora aveva lasciato cadere il materasso e si era precipitato in strada. Forse aveva parcheggiato da un’altra parte.

Invece no. Stronzi bastardi…

«Un brindisi di compleanno all’Oak, più tardi?» propose Holland.

Thorne si diresse alla macchina del caffè. Poi si voltò, frugandosi in tasca alla ricerca di monete. «Una cosa tranquilla, va bene?» rispose a bassa voce.

«Certo…»

«Non come l’altra sera. Magari solo tu e Phil.»

«Va bene.»

«Potrei chiedere anche a Russell se ha voglia di venire…»

«Se non è dell’umore giusto, capo, possiamo fare un altro giorno.»

Thorne infilò le monete nella macchina automatica. «Senti, dopo il casino scatenato dal ritrovamento del secondo cadavere e di fronte alla prospettiva di dover passare chissà quante ore al telefono con la compagnia di assicurazioni della casa, con quella dell’auto e con il dipartimento della nettezza urbana che si incarica di portare via i materassi pieni di merda, penso che un drink mi farà bene.»

Dopo che Holland si fu allontanato, Thorne rimase a sorseggiare il caffè, fissando la grande lavagna bianca che dominava un’intera parete della stanza. Colonne storte tracciate con un pennarello nero, frecce che indicavano indirizzi e numeri di telefono. Le “azioni” del giorno, con le mansioni di ciascun membro di ogni squadra assegnate dal capoufficio. I nomi di coloro che erano marginalmente coinvolti nell’indagine e quelli che, invece, avevano uri ruolo di cruciale importanza: REMFRY, GRIBBIN, DODD…

In una colonna a parte: JANE FOLEY?

Adesso sotto il nome di Douglas Remfry ne era stato aggiunto un secondo e lo spazio vuoto sottostante era pronto ad accoglierne altri. Il titolo della colonna era rimasto uguale: nessuno aveva ancora provveduto a cambiare la “A” di VITTIMA in “E”, ma lo avrebbero fatto presto.

Thorne udì un respiro alle sue spalle e si voltò, trovandosi di fronte Sam Karim.

«Come va la testa?»

Thorne lo fissò. «Che cosa?»

«Dopo ieri sera, intendo. Io sto di merda.»

«Io invece sto bene» dichiarò Thorne.

Sam Karim era un indiano imponente, con una folta zazzera di capelli grigi e un forte accento londinese, che gli usciva di bocca a raffica. Appoggiò metà del suo grosso sedere sul bordo di una scrivania. «Al diavolo tutte quelle cassette, a proposito…»

«Quali cassette?»

«Quelle della tivù a circuito chiuso del Greenwood Hotel.»

Thorne si strinse nelle spalle, per nulla sorpreso.

«Ci sono solo un paio di inquadrature che potrebbero servirci» disse Karim. «Ma sono di schiena. Le telecamere coprono bene soltanto il bar e la zona intorno alla reception e agli ascensori. Sapendo dove sono piazzate, è possibile entrare e salire per le scale senza essere visti.»

«Lui lo sapeva» concluse Thorne.

Fissarono entrambi la lavagna per un paio di secondi. «Questa è la differenza tra la nostra squadra e le altre, no?» disse Karim.

«Quale?»

«Loro hanno una vittima. Noi ne abbiamo una lista.»

Nei film e nei telefilm, c’è un momento, un cliché, un’inquadratura particolare, che indica l’accendersi di una lampadina nella mente. Per la gente reale, ciò significa ricordare il titolo di una canzone o il posto in cui si sono lasciate le chiavi della macchina. Per il poliziotto cinematografico, di solito è un’illuminazione meno piacevole. È l’istante che fornisce la chiave per risolvere il caso. Allora, nel momento in cui lui ha questa brillante intuizione, la macchina da presa fa una zumata, più o meno veloce, sul suo viso, mostrando la luce della comprensione che gli si accende negli occhi.

Thorne non era un attore. Non annuì con dura determinazione, non si esibì in uno sguardo enigmatico. Restò lì con la tazza di caffè in mano e la bocca aperta come un idiota.

«Una lista…»

La certezza lo colpì come una palla da cricket. Sentì il sudore affiorare da ogni poro della sua pelle per poi esserne di nuovo inghiottito. Caldo, freddo.

«Ti senti bene, Tom?» chiese Karim.

Thorne non sentì il caffè bollente che gli si versava sulla mano, mentre attraversava la stanza e il corridoio a passo di marcia ed entrava risolutamente nell’ufficio di Brigstocke. L’ispettore capo alzò gli occhi, vide la sua espressione e mise giù la penna.

«Cosa…?»

«So come fa a trovarli» annunciò Thorne. «Come fa a scoprire dove sono gli stupratori.»

«Come?»

«Potrebbe essere davvero molto semplice. Magari il nostro uomo lavora per il servizio carcerario, o frequenta pub intorno a Pentonville o agli Scrubs, e si è fatto amico qualche secondino, ma sinceramente non mi sembra probabile. In fin dei conti, scoprire in quale carcere si trova un detenuto per violenze sessuali non è tanto difficile. La famiglia, i verbali del processo… Basterebbe anche solo andare in biblioteca e sfogliare i quotidiani locali.»

«Tom…»

Thorne fece un rapido passo avanti, appoggiò il caffè sulla scrivania di Brigstocke e cominciò a misurare a grandi passi il piccolo ufficio. «Il difficile è il dopo. Scoprire la data di rilascio e l’indirizzo. Avevo pensato che potesse esserci qualche collegamento con le famiglie, ma Welch era privo di fissa dimora. La sua famiglia non ha voluto avere più nulla a che fare con lui e ha cambiato residenza diversi anni fa.» Thorne lanciò un’occhiata a Brigstocke, come se fosse tutto estremamente ovvio. Brigstocke annuì, aspettando il seguito. «I dettagli del rilascio sono soggetti a variazioni, giusto? I prigionieri possono essere trasferiti, la data può cambiare… L’assassino deve avere accesso a informazioni aggiornate…»

«Devo telefonare a qualcuno per saperlo,» si spazientì Brigstocke «o ti decidi a dirmi come cavolo fa a trovarli?»

Thorne si concesse un breve sorriso. «Esattamente come facciamo noi.»

Dietro gli occhiali, Brigstocke sbatté due volte le palpebre, lentamente. La confusione sul suo viso si trasformò in qualcosa di simile al rammarico. «Il Registro dei Condannati per Reati Sessuali.»

Thorne annuì e riprese in mano il suo caffè. «Cristo, non riesco a credere che ci abbiamo messo tanto…»

Brigstocke fece un respiro profondo e si mise a camminare avanti e indietro nello spazio tra la scrivania e la parete. Stava cercando di assimilare quella novità, di trasformarla in qualcosa che poteva gestire. «Non c’è bisogno di dirlo, vero?» disse alla fine.

«Cosa?»

«Che questa informazione deve restare tra noi.»

Thorne guardò fuori dalla finestra. Il sole stava per scomparire dietro una nuvola: i suoi raggi scaldavano ancora e sentiva il sudore colargli lungo la schiena. «Non c’è bisogno di dirlo» confermò.

«E non solo perché si tratta di un argomento… delicato.»

Thorne sapeva che Brigstocke aveva ragione. L’esistenza di quel registro era stata per anni quella che i giornali amavano definire “una patata bollente”. Non c’era affatto bisogno di riaprire il dibattito. Quando lanciò un’occhiata a Brigstocke, vide che l’ispettore capo sorrideva.

«Questo potrebbe essere l’amo con cui lo prenderemo, Tom…»

Thorne ci contava.

Brigstocke girò intorno alla scrivania. «Allora, partiamo dalle istituzioni che hanno informazioni sui dati di un criminale. Quelle che ricevono di routine tutte le variazioni e gli aggiornamenti. I servizi sociali, l’ufficio per la libertà vigilata…»

«E noi, ovviamente» concluse Thorne. «Non dimentichiamoci della polizia, Russell.»

La Mcpherson House si trovava in una strada laterale non lontano da Camden Parkway. Nel corso di un secolo, era stata un teatro, un cinema e una sala da bingo. Ora, quasi in rovina, ospitava un ostello.

«Che posto di merda» commentò Stone, fissando il soffitto sporco e ammuffito sopra la sua testa.

Holland alzò gli occhi. C’erano ancora residui di doratura lungo le modanature. Tralci di foglie di stucco si susseguivano attraverso il soffitto e scendevano avviluppandosi alle colonne ai quattro angoli della stanza. «Una volta doveva essere bellissima…»

Sul pavimento c’era una vecchia copia del «Daily Star». Stone la scostò con il piede. Annusò l’aria stantia e fece una smorfia. «È una vergogna…»

Mentre procedevano, Holland fece a Stone un riassunto della storia dell’edificio. Il teatro diventato cinema. Il cinema soppiantato dal bingo, negli anni Settanta. La sala da bingo resa obsoleta, trent’anni più tardi, dai gratta e vinci e dalla lotteria nazionale.

Stone sbuffò. «A proposito, suppongo che i tuoi sei numeri non siano usciti…?»

«Mi vedi ancora qui, no?»

I loro passi echeggiavano sui pavimenti di pietra, attutiti di tanto in tanto da un tappeto consunto. «Secondo te, che cosa sostituirà la lotteria?»

Holland scosse la testa. «Nulla, finché continuerà a essercene richiesta.»

Stavano camminando dietro il sorvegliante dell’ostello, un imponente cinquantenne di nome Brian, con i capelli grigi e lunghi, un grosso orecchino e un gilè multicolore. Senza voltarsi, Brian a un tratto allargò entrambe le braccia, in un gesto che indicava tutto quel luogo.

«C’è sempre richiesta anche di questo, ma…»

Sotto quei soffitti, lo spazio era tutto occupato da lavandini crepati e letti di metallo. C’erano anche una cucina, una sala mensa e un paio di piccoli televisori assicurati ai termosifoni con catene. Dietro i letti, lungo i muri, c’erano intere file di armadietti ammaccati, alcuni senza lucchetto, molti senza sportello. Tutti arrugginiti e coperti di scritte.

«Il municipio li ha avuti per nulla,» spiegò Brian «quando è stata chiusa la piscina in fondo alla strada.»

Holland osservò il pavimento, mentre continuavano a camminare. Sotto molti letti c’erano scarpe, quasi tutte da jogging. Qualche valigia malandata. Dozzine di borse di plastica.

Stone si tolse la giacca. «Un dormitorio per vagabondi, insomma.»

Brian si voltò a metà. Sembrava uno in grado di farsi rispettare, quando ce n’era bisogno. «Già. Ce ne sono di tutti i tipi. Vecchi, ragazzi scappati di casa, drogati… Qualche ex detenuto come Welch…»

«Dove vanno durante il giorno?» chiese Holland.

Brian rallentò e aspettò che lo raggiungessero. «Girano qua e là. Chiedono l’elemosina, cercano un posto dove dormire un po’…» Sorrise, vedendo l’espressione confusa di Holland. «Qui stanno al caldo e possono mangiare qualcosa, ma non dormono quasi mai. Hanno paura di essere derubati, se si addormentano. E, quand’anche volessero farsi un sonnellino, i colpi di tosse di un centinaio di persone e il cigolio continuo dei letti non sarebbero l’ideale per conciliare il sonno.»

«La mia ex mi teneva sveglio tutta la notte» disse Stone. «Parlava nel sonno, digrignava i denti…»

Brian sorrise. «Qui ora c’è un discreto silenzio, ma all’ora di cena per il casino non riuscireste a sentire neppure i vostri pensieri. Cominciano ad arrivare appena fa buio. Alle nove sono già tutti dentro.»

Holland guardò i letti, sistemati in file, immaginando la scena.

Il sorvegliante si fermò, diede un piccolo colpo sullo sportello aperto di un armadietto e si fece da parte. «Questo era di Welch. Mi troverete in ufficio, se avete bisogno di qualcosa.»

Stone e Holland si infilarono i guanti. Il primo si dedicò a perquisire l’armadietto, mentre il secondo si trovò, per la seconda volta in poco più di due settimane, a frugare in ginocchio sotto il letto di uno stupratore assassinato.

Ci vollero meno di due minuti per raccogliere gli effetti personali di Welch: una vecchia borsa da viaggio piena di vestiti che puzzavano di disinfettante, una borsa di plastica piena di mutande e calzini sporchi, una radio macchiata di vernice bianca, un rasoio elettrico e un paio di romanzi economici.

Tra le pagine di uno dei libri, le foto di Jane Foley.

«Eccola qui» disse Stone, tenendo una foto tra le dita. «Più bella che mai.»

Holland si alzò in piedi, avvicinandosi per guardare. «Quante ce ne sono?»

«Sei. Niente lettere. Deve averle gettate via.»

Stone fece scivolare le foto in una busta di plastica trasparente e se le infilò in una tasca interna della giacca. Holland raccolse tutto il resto in un sacco nero per la spazzatura. Quando ebbe finito, prese anche la borsa da viaggio. Era leggera.

«Non possedeva un granché, eh?» disse.

Stone chiuse l’armadietto e si strinse nelle spalle. «Non meritava di più» rispose.

Era quasi mezzogiorno e cominciava a fare davvero caldo. Holland si passò una mano sul collo per detergere il sudore. Cercò di immaginare cosa stesse passando per la mente di Stone. «Dici così perché era un ex detenuto o perché aveva violentato una donna?» chiese. «Sul serio, mi interessa saperlo…»

Stone ci pensò su. Holland si fece rimbalzare il sacco di plastica contro un ginocchio.

«Suppongo che gli avrei concesso un po’ più di compassione se fosse stato un falsario» rispose Stone. «Un po’ meno se avesse ammazzato cinque o sei ragazzine…»

Holland osservò l’espressione sul viso del collega. «La tua sì che è una scala di valori» commentò ridendo, mentre si avviavano verso l’uscita.

Percorsero la Parkway diretti verso il parcheggio a pagamento dove Stone aveva lasciato la Cougar. A intervalli regolari, il marciapiede era invaso da mucchi di sacchi neri come quello che portava Holland. Dopo il museo di Madame Tussaud, il mercato domenicale di Camden era ormai la seconda attrazione turistica della città e la pulizia stradale del lunedì doveva essere una fatica improba.

«Allora, quanto manca al lieto evento?» chiese Stone. «Un paio di mesi?»

Holland si passò il sacco da una spalla all’altra. «Dieci settimane.»

«Sophie avrà una pancia grande come una casa…»

Holland sorrise e si girò a guardare la vetrina di un ristorante giapponese, dove erano esposti dei sushi rossi, gialli e rosa. Si ripromise di assaggiarne uno, prima o poi.

Svoltarono a sinistra e Stone sbloccò le portiere dell’auto con il telecomando. «E allora? È una cosa eccitante, no?»

«Sì, lei è molto eccitata.»

Stone aprì la portiera. «Io mi riferivo a te…»

«Alza il culo. Culo per aria! Brava, così. Ora muovi le dita…»

Lo studio era stato noleggiato per un video e Charlie Dodd si era offerto di farne la regia, gratis. Stava appunto dando istruzioni alla ragazza dallo sguardo annoiato stesa sul letto, quando squillò il telefono.

«Un po’ di gemiti, tesoro…»

Afferrò il ricevitore con una mano sudata, borbottò un “Pronto?” e attese.

«Ho ricevuto il messaggio…»

Dodd riconobbe subito la voce. Senza voltarsi, indicò con un gesto alla ragazza di continuare da sola e si tolse la sigaretta di bocca.

«Mi chiedevo quando ti saresti fatto vivo.»

«Ho avuto parecchio da fare, questo fine settimana.»

Dodd allungò la mano e buttò la cenere della sigaretta in un bicchiere di plastica ancora mezzo pieno di tè. «Qualcosa di interessante?»

«Il messaggio diceva che volevi farmi un favore…»

«Te l’ho già fatto, il favore, amico» disse Dodd. «Un grosso favore.»

«Continua…»

Dodd pensò che l’uomo sembrava rilassato. Probabilmente era una messinscena, perché doveva aver già immaginato ciò che lui stava per dirgli. Sapeva che avrebbe dovuto tirare fuori del denaro e voleva mostrarsi sicuro di sé nel caso in cui ci fosse stato da contrattare il prezzo. Ma la sua era una messinscena molto convincente. Sembrava che sapesse già tutto…

«La polizia è stata qui, con una delle tue foto di quella ragazza con il cappuccio in testa.» Dodd rimase in attesa di una reazione, ma non accadde nulla. «Mi hanno fatto un sacco di domande…»

«E hai dovuto raccontare bugie, Dodd?»

Dodd tirò l’ultima boccata dalla sigaretta, stretta tra l’indice e il pollice. «Qualcuna, sì. Un paio di poco conto, ma una grossa.» Lasciò cadere la cicca nel bicchiere di plastica e si voltò a guardare la ragazza sul letto. «Ho detto di non aver mai visto la tua faccia. Ho detto che non ti sei mai tolto il casco in mia presenza.»

Il culo della ragazza ondeggiava a destra e a sinistra e quella deficiente gemeva come se avesse il mal di pancia. «Avanti, Dodd, sputa il rospo. Non essere timido» disse l’uomo alla fine.

Dodd infilò la mano nel taschino della camicia, in cerca di un’altra sigaretta. «Non sono timido, amico.»

«Bene, perché non ce n’è bisogno.»

«Non sono mai timido quando si tratta di soldi.»

L’uomo rise. «Siamo arrivati al punto, finalmente. Se non ricordo male, c’è uno sportello bancomat proprio all’angolo della strada dove hai lo studio, giusto?»

Thorne si trovava in un punto imprecisato tra Brent Cross e Golders Green quando cominciò a notare che faticava a rimanere sveglio.

Aveva tenuto fede alla promessa che aveva fatto a se stesso e a Holland, quella mattina, ed era venuto via dal Royal Oak in tempo per l’ultimo treno della metropolitana diretto a sud. Era stanco e doveva ancora sistemare parecchie cose in casa, perciò non era stato un grande atto di eroismo andarsene dal pub prima dell’ora di chiusura.

Era uscito proprio mentre Phil Hendricks cominciava a perdere il controllo. Il patologo aveva già detto chiaramente più volte quello che pensava della legge sui reati sessuali. E nel pub, quando era venuto fuori l’argomento del Registro, non era più stato possibile fermarlo.

«Non dimentichiamo i gay» aveva detto. «Quei porci dalla mente deviata che amano fare sesso con giovani diciassettenni consenzienti.» L’accento di Manchester rendeva l’ironia ancor più tagliente.

Thorne sapeva bene che Hendricks aveva tutto il diritto di essere incazzato. Era ridicolo che uomini condannati per quello che era ancora definito come “atto osceno” dovessero essere messi nella stessa categoria dei pedofili e degli stupratori. Anche quando l’età per i rapporti sessuali consensuali tra i gay fosse stata abbassata a sedici anni, come sarebbe accaduto un giorno, Thorne sapeva che quelli condannati prima dell’approvazione della legge sarebbero comunque rimasti sul Registro.

«Si tratta di un registro per la repressione dei froci» aveva detto Hendricks, mentre Thorne usciva dal pub.

E Thorne non poteva che essere d’accordo con lui.

Mentre si dirigeva verso la stazione della metropolitana, Eve gli aveva telefonato per fargli gli auguri. Parlando con lei, Thorne era passato accanto a un Kentucky Fried Chicken e a diverse rivendite di fish and chips e kebab. Lo stomaco lo avrebbe spinto a entrare, ma il racconto fatto a Eve del furto e del regalo che i ladri gli avevano lasciato sul letto gli aveva tolto la fame.

«Be’, è certamente originale» aveva detto lei.

Thorne aveva riso. «Già, i regali fatti in casa sono sempre i più graditi.»

Thorne camminava lentamente, immerso nella conversazione, ma attento come sempre a tutto ciò che lo circondava e pronto a cogliere un movimento dall’altro lato della strada, all’angolo o dietro un’auto parcheggiata. Il quartiere non era certo Tottenham o Hackney, ma la prudenza non era mai troppa, in un mondo dove ci si poteva beccare un proiettile per un cellulare da dieci sterline.

«Allora, quando hai intenzione di sostituire il materasso?» aveva chiesto Eve.

«Presto, credo.»

«Lo spero proprio.»

Stavano scherzando, ma Thorne aveva avvertito un cambio di registro nel tono di voce. Una punta di impazienza. Come se Eve avesse gettato l’esca e stesse aspettando che lui abboccasse.

«Be’, possiamo sempre andare da te, nel caso…» aveva detto allora.

C’era stato un silenzio. Poi: «Non so se è una buona idea. Denise può diventare antipatica in questi casi».

«Non vuole che porti uomini in casa?»

«Non vuole che porti uomini in camera.»

Thorne l’aveva sentita sospirare. Probabilmente doveva aver discusso a lungo di quell’argomento con Denise. «Scusa un attimo, ma lei si porta in camera Ben…»

«So che è assurdo, ma, credimi, non vale la pena parlarne.»

Thorne ormai era arrivato alla stazione della metropolitana. Mentre infilava le monete nel distributore automatico di biglietti, si erano salutati in fretta, prima che il cellulare perdesse il segnale, e si erano dati appuntamento alla settimana successiva.

Il treno era praticamente vuoto. Dalla parte opposta del vagone c’era una coppietta di adolescenti. La ragazza teneva la testa appoggiata sulla spalla del compagno e lui le accarezzava i capelli, mormorando parole che la facevano sorridere.

Thorne trasse un profondo respiro. Aveva un sonno tremendo e la testa gli sembrava più pesante a ogni sobbalzo del treno. Doveva rimanere sveglio. L’ultima cosa che desiderava era chiudere gli occhi e svegliarsi al capolinea.

Pensò alla conversazione con Eve. Quando si erano messi d’accordo per vedersi, perché lui non aveva insistito per anticipare l’appuntamento? Era panico la sensazione che aveva provato quando Eve aveva parlato del letto?

Forse il caso a cui stava lavorando, il furto subito e il padre malato erano già troppe cose a cui pensare. Forse, a livello inconscio, aveva stabilito delle priorità.

Comunque, adesso era troppo stanco per pensare con chiarezza.

Alla stazione di Hampstead salì un uomo che, a dispetto dei molti posti liberi, decise di rimanere in piedi, aggrappandosi con una mano alla sbarra sopra la sua testa. Thorne lo guardò. Era magro e alto, con lineamenti molto definiti, capelli grigi ribelli e una serie di tic che calanutarono lo sguardo di Thorne.

Si rese conto quasi subito che il tic, probabilmente una sindrome di Tourette, era in realtà uno solo diviso in tre parti. Prima l’uomo sollevava teatralmente le sopracciglia e il mento saliva verso alto, poi tutta la testa scattava di lato e infine le mascelle si chiudevano con uno schiocco secco. Thorne lo fissava ipnotizzato, con un vago senso di colpa, e, mentre il tic si ripeteva all’infinito, si trovò ad attribuire un effetto sonoro a ciascuno spasmo. Tre movimenti che sembravano manifestare, in rapida successione, sorpresa, interesse e amara delusione, con un suono che sembrava: «Ooh, Whahay, Clack!»

Dopo qualche minuto, l’uomo parve riprendere il controllo di sé e Thorne finalmente distolse lo sguardo. La coppietta intanto era scesa, sostituita da un’altra coppia, più vecchia e meno propensa alle carezze. La donna incrociò lo sguardo di Thorne e abbassò gli occhi.

Quando Thorne si girò di nuovo verso l’uomo con il tic, lo trovò immobile, intento a fissarlo. Si appoggiò all’indietro contro il finestrino, il vetro era fresco contro la nuca.

Thorne chiuse gli occhi.

Mancavano ancora un paio di fermate a Camden, dove avrebbe dovuto cambiare linea. Poteva permettersi il lusso di tornare un attimo con la mente su quella collina…

Non fece in tempo a finire il pensiero, che già dormiva.

Aveva parecchio da fare, molte immagini da stampare dopo averle scaricate dalla macchina fotografica, ma si meritava una pausa. Dieci minuti di navigazione in Rete lo avrebbero rilassato. Poi sarebbe tornato al lavoro. Doveva assemblare le immagini e infilarle nella posta…

Gli piaceva lavorare al computer, ora che aveva imparato. In meno di due anni si era trasformato da profano in esperto.

Selezionò dal menu l’opzione “Preferiti”, cliccò e attese l’apertura della pagina.

Quando si è esperti in qualcosa, la si fa con piacere. Proprio come il lavoretto che aveva fatto a quei bastardi con il coltello e la corda da bucato…

Aveva trovato il sito mentre cercava ispirazione per le foto di Jane. Ora tornava a visitarlo di tanto in tanto, per tenersi aggiornato. Per dare un’occhiata…

Era stata una settimana strana. Avrebbe avuto altre cose da fare, ma aveva dovuto rivedere i suoi programmi in vista dell’incontro con Dodd. Comunque, adesso era tutto sistemato.

C’erano parecchi nuovi link sul sito, dall’ultima volta che lo aveva visitato. Un paio sembravano particolarmente interessanti. Ne selezionò uno, trattenendo il respiro.

Non vedeva l’ora di poter tornare al lavoro serio. A parte tutto il resto, c’era il problema di dover cambiare sistema. Ora che le prigioni erano in all’erta, non poteva più mandare lettere.

«Cristo…»

La donna aveva la testa rasata ed era in ginocchio, con un collare collegato da una catena al laccio di pelle che le bloccava le caviglie. Sul viso aveva una maschera di pelle che l’avvolgeva come una ragnatela lasciandole scoperta solo la bocca, in cui era infilata una palla rossa.

Era proprio un peccato. Se avesse potuto usare altre foto, si sarebbe orientato verso roba del genere. Ma ormai era inutile pensarci. Con Remfry e Welch era stato un gioco lento e piacevole. Con il prossimo sarebbe stato tutto più semplice e diretto.

Sperava che sarebbe stato ugualmente piacevole.

CAPITOLO 12

Carol Chamberlain si sentiva ringiovanita di vent’anni. I suoi pensieri erano più rapidi, le sue sensazioni più forti. Si sentiva più sveglia, aveva più appetito. La notte prima, a letto, si era “servita da sola”, cosa che aveva sorpreso ed eccitato il marito. Forse quella cartellina verde che aveva in grembo sarebbe stata la salvezza di entrambi.

Jack sorrideva ancora, dodici ore dopo, quando le portò un piatto di tramezzini. Lei gli mandò un bacio sulla punta delle dita. Lui prese la giacca a vento dall’attaccapanni e uscì a comprare il giornale.

Carol aveva cinquantadue anni ed era ispettore capo da dieci quando l’assurda politica della pensione forzata dopo trent’anni di servizio l’aveva costretta a lasciare la polizia. Da allora erano passati tre anni. Tre anni di amarezza, fino a quella telefonata.

Carol sapeva di avere ancora molto da dare e si rendeva conto che quella possibilità era arrivata proprio in extremis. Se doveva essere sincera, negli ultimi tempi si era sentita sempre più vicina a gettare la spugna, così come aveva fatto suo marito.

Udì chiudersi il cancello e si voltò a guardare Jack che si allontanava lungo il marciapiede. Già vecchio a cinquantasette anni.

Carol prese la cartellina verde. Il suo primo caso “freddo”. Sull’etichetta autoadesiva in alto a destra c’era scritto URCI, Unità Riesame Casi Insoluti. Loro, però, preferivano chiamarsi SCF, Squadra Casi Freddi. Al pub, invece, erano semplicemente la Squadra dei Ripescati.

Si chiamassero pure come volevano.

Lei avrebbe fatto comunque un buon lavoro, come sempre.

Il giorno prima, quando era andata a prendere il dossier all’ufficio registri, aveva notato subito che era già stato consultato tre settimane prima da un agente dell’Unità per i Reati Gravi. Interessante. Aveva preso nota del nome dell’agente, pensando di chiamarlo per chiedergli cosa stesse cercando di preciso.

Tre anni fuori servizio. Tre anni passati a leggere montagne di libri, a cucinare, a occuparsi del giardino e a riallacciare i contatti con gli amici di un tempo, provando una fitta di malumore ogni volta che in tivù trasmettevano Crimewatch. Tre anni lontana, ma quel solletico allo stomaco, come un volo di farfalle, era ancora lì. Aprì il dossier e iniziò a leggere.

Un uomo strangolato in un parcheggio deserto, sette anni prima…

Quarantatré anni compiuti da una settimana. Il ritrovamento della sua auto bruciata non era ancora il peggio. Tom Thorne era sicuro che quello non sarebbe stato uno dei suoi anni migliori. Sette giorni da quando era corso via da una festa di matrimonio per assistere a un’autopsia. Sette giorni durante i quali gli unici sviluppi del caso erano stati piacevoli più o meno come la merda che aveva trovato sul suo letto.

La ricostruzione dei movimenti di Welch dal momento in cui era uscito di prigione al ritrovamento del cadavere non aveva rivelato nulla. Le foto trovate nel suo armadietto all’ostello erano un buco nero, dal punto di vista delle indagini.

Oltre cento interrogatori di chiunque potesse aver visto qualunque cosa, e neppure una parola che avesse fatto salire un po’ la pressione alla squadra.

Le “azioni” scritte sulla lavagna bianca erano state assegnate e portate a termine con diligenza una dopo l’altra. I detenuti per reati sessuali che avevano firmato il Registro erano stati tutti contattati. Quelli meno scrupolosi, che si erano dimenticati di firmare, o si erano trasferiti in un’altra città, erano stati rintracciati. Le dichiarazioni di tutti erano state controllate e ricontrollate, a partire da quella della ragazza della reception del Greenwood Hotel fino a quella del vagabondo che aveva occupato il letto accanto a Welch nei giorni precedenti l’omicidio.

Tutto ciò rappresentava il novantanove per cento del lavoro di polizia. Erano sistemi come quelli, con l’aggiunta di un piccolo colpo di fortuna, che alla fine potevano portare a un risultato. E Thorne naturalmente, odiava ogni minuto di quella procedura.

Mentre aspettava l’arrivo di quel famoso piccolo colpo di fortuna, anche il suo unico momento di autentica ispirazione si stava rivelando un insuccesso.

Seduto nell’ufficio di Brigstocke, con una faccia da lunedì mattina, Thorne ascoltava il sovrintendente Jesmond che gli spiegava la completa inutilità di tutto ciò che avevano fatto. Aveva sperato che scoprire che l’assassino aveva accesso al Registro dei Condannati per Reati Sessuali fosse la chiave che avrebbe portato alla sua cattura. Ma il sovrintendente era stato felice di disilluderlo.

«Il fatto è,» disse Jesmond «che queste informazioni sono già a disposizione di tutti. Le forze di polizia seguono una politica di notifica comune. Le informazioni vengono trasmesse, a seconda dei casi, a scuole, centri giovanili e così via, ma, come per tutto il resto, non abbiamo modo di sapere dove vadano a finire dopo.»

Brigstocke lanciò un’occhiata a Thorne, sollevando le sopracciglia. Jesmond si stava scaldando…

«Certo, il nostro uomo potrebbe essere un secondino. Ma potrebbe anche essere l’amico di un amico di un maestro di scuola chiacchierone. O il vicino di casa di un’assistente sociale indiscreta…»

«Sta dicendo che non abbiamo fatto altro che perdere tempo per una settimana?» chiese Thorne.

Il sovrintendente si strinse nelle spalle, come se gli avessero chiesto se era dimagrito o se aveva preso il sole. «Mi faccia la domanda quando lo avremo preso.»

Jesmond sembrava assaporare i momenti come quello.

“Ti diverti a pisciare sulle mie carte, eh?” pensò Thorne. «Capisco il suo punto di vista, signore» disse poi. «Ma il fatto di presumere, almeno per il momento, che l’assassino abbia un contatto diretto con una delle istituzioni in questione, cioè i servizi sociali, l’ufficio per la libertà vigilata, eccetera, potrebbe rivelarsi utile.»

Jesmond piegò la testa di lato, poco convinto. Brigstocke provò a venire in aiuto di Thorne. «È una buona linea d’indagine, signore» disse.

«La nostra unica linea d’indagine» aggiunse Thorne.

«Allora penso che sia necessario trovarne un’altra, non crede?» commentò Jesmond.

Thorne non rispose. Osservò la mano del sovrintendente che spingeva indietro una ciocca di capelli color sabbia, la strana zona ai lati del naso, dove un reticolo di vene si mescolava a spruzzi di lentiggini. Guardò le labbra secche allargarsi in un sorriso e si stupì, come sempre, del fatto che Jesmond sorridesse a occhi chiusi.

Thorne sorrise a propria volta, ricordando la descrizione della faccia di Jesmond che una volta aveva fatto a Holland: «Il tipo di faccia che non vorresti mai smettere di prendere a cazzotti, dopo che gliene hai dato uno».

Jesmond si chinò sulla scrivania. «Proviamo a riflettere seriamente su quel che lei sta dicendo. Per esempio, perché non considerare la possibilità che l’assassino abbia un collegamento diretto con il servizio di polizia…?»

«Un poliziotto» disse Thorne.

«Un collegamento diretto con il servizio di polizia» ripeté Jesmond prima di continuare: «Ora, a parte il notevole numero di persone coinvolte, i metodi per l’accesso e l’utilizzo del Registro dei Condannati per Reati Sessuali variano molto da una forza all’altra. Alcuni lo consultano attraverso il Sistema Computerizzato Nazionale della Polizia. Altri acquisiscono dati dal Registro e li copiano su altri sistemi, oppure creano database dedicati…».

Brigstocke sbuffò. Thorne seguiva il discorso a fatica.

«Alcuni usano ancora sistemi manuali, basati sull’utilizzo di documenti cartacei» continuò Jesmond. «E tutti sappiamo quanto siano sicuri…»

Brigstocke annuì. «Ormai nulla è sicuro.»

Il cervello di Thorne ormai era da un’altra parte. Pensava al tamtam…

«Il fatto è che l’intero sistema è un casino» sentenziò Jesmond. «Non c’è un’unica strategia per gestire e condividere le informazioni sui condannati per reati sessuali. Alcuni credono nell’importanza di garantire ai funzionari locali il pieno accesso al servizio, perché esso possa dirsi davvero utile. Altre zone, altri commissariati hanno semplicemente un agente incaricato che viene informato ogni volta che il Registro subisce un aggiornamento…»

Thorne cominciava a sentire l’odore di un’altra merda nel suo letto.

«E non si tratta soltanto di noi» intervenne Brigstocke. «I tribunali devono notificarci quando è necessario iscrivere qualcuno nel Registro e per quanto tempo. Inoltre, quando viene rilasciato, il carcere, o l’ospedale, o chi per essi, devono darcene conferma. Questo, almeno, in teoria. In pratica, spesso scopri che hai tra le mani un condannato per reati sessuali solo quando è lui stesso a dirtelo.»

Jesmond sorrise a occhi chiusi. «Ora potete vedere che, quando dico che sarebbe meglio trovare un’altra linea di indagine, vi sto dando semplicemente un suggerimento pratico. Penso che il modo migliore, il modo più rapido di prendere quell’uomo…»

Thorne annuì e mormorò a bassa voce: «Ooh, Whahay, Clack!».

Nella sala di pronto intervento, l’attività procedeva con il consueto ritmo, ma nell’aria si percepiva la sensazione che le cose stessero per cambiare.

Per quanto impegnato al telefono o chino su una pila di scartoffie, ognuno dei presenti di tanto in tanto lanciava un’occhiata in direzione dell’ufficio di Brigstocke, sapendo che dietro quella porta chiusa si stavano prendendo decisioni che avrebbero avuto un impatto su tutti.

In ogni conversazione casuale c’era una nota di preoccupazione. Per le ore di straordinario, per il lavoro in generale…

«Jesmond aveva una brutta faccia, quando è entrato lì dentro» osservò Yvonne Kitson.

Holland sollevò lo sguardo dal computer. «A me è sembrato che avesse la stessa faccia di sempre…»

«Già» disse Yvonne. «È un miserabile idiota. Sono sicura che stanno discutendo di qualche errore che abbiamo commesso. E sono chiusi lì dentro da un pezzo.» Guardò verso il corridoio che portava alla piccola area degli uffici: quello di Brigstocke, quello suo e di Thorne, quello di Holland e Stone.

Si sedette sul bordo della scrivania dove Holland stava lavorando e appoggiò una mano sul computer. «Non puoi fare questo lavoro nel tuo ufficio?»

«C’è dentro Andy» rispose Holland, fissando lo schermo.

Yvonne prese un fazzoletto di carta, ci sputò sopra e iniziò a sfregarsi la mano che si era impolverata toccando il computer. «Non ci sarà qualche problema, vero?»

Ora Holland la guardò. «No, tutto a posto. È solo che a volte mi è più facile concentrarmi qui.»

Yvonne annuì, continuando a sfregarsi la mano anche se ormai era pulita. «Sam Karim mi ha detto che ultimamente ti sei offerto volontario per un bel po’ di straordinario. Lavori a tutte le ore…»

Holland cliccò furiosamente sul tasto del mouse. «Merda!» Alzò di nuovo lo sguardo. «Chiedo scusa…»

«È una buona idea quella di mettere da parte un po’ di soldi prima dell’arrivo del bambino.»

Il viso di Holland si rannuvolò per un attimo. E il sorriso che seguì non riuscì a dissipare del tutto le ombre intorno ai suoi occhi.

«Già» disse. «I figli costano.»

«Se pensi che i pannolini siano cari, aspetta quando vorrà i CD e l’ultimo modello di scarpe da jogging. È maschio o femmina?»

«Sophie non vuole saperlo.»

«Per me, invece, è stato il contrario» disse lei, abbassando la voce. Aprì il fazzoletto di carta e cominciò a strapparlo in piccoli pezzi. «Mio marito preferiva non sapere niente fino al parto, ma io non ho mai amato le sorprese e così, dopo l’ecografia, l’ho fatto uscire dalla stanza e mi sono fatta dire dal medico il sesso del nascituro. L’ho fatto con tutti i nostri figli e l’ho tenuto segreto fino al momento della nascita.»

Holland sorrise. Yvonne Kitson strinse nel pugno i pezzetti di carta e si alzò in piedi. «Ti prenderai qualche giorno, dopo?»

«Dopo?»

«Con tutti gli straordinari che stai accumulando, potrai senz’altro permetterti di passare un po’ di tempo con Sophie e il bambino. Anche se la Federazione sta ancora lottando per ottenere che la licenza di paternità venga prolungata oltre i due giorni attuali. Due giorni! È un’assurdità.»

«Non ne abbiamo ancora parlato.»

«Scommetto che a tua moglie piacerebbe parlarne.» Yvonne vide qualcosa negli occhi di Holland e scosse la testa con simpatia. «Sono certa che detesta il lavoro extra che stai facendo ora…»

Holland si strinse nelle spalle, tornando a fissare lo sguardo sul monitor. «Oh, sai com’è…»

Yvonne Kitson si alzò dalla scrivania, aprì la mano e lasciò cadere i pezzetti di carta in un cestino.

Holland la guardò allontanarsi. “No, probabilmente non sai com’è.”

Thorne si affacciò nella sala di pronto intervento e fu investito da una zaffata di aria calda e odore stantio di dopobarba.

Reprimendo un conato, fece un cenno a Yvonne Kitson, la quale si avvicinò rapidamente.

«Riunisci tutti all’altra estremità della sala» disse Thorne. «Ci sarà un briefing tra quindici minuti.»

Senza attendere risposta, Thorne si voltò e tornò verso il suo ufficio.

Sentiva che Jesmond probabilmente non aveva tutti i torti. E, per quanto sapesse di avere ragione riguardo al Registro, si rendeva anche conto che se l’assassino era un assistente sociale, un funzionario addetto alla libertà vigilata o un poliziotto, probabilmente avrebbero dovuto seguire un’altra strada per prenderlo.

Gettò la giacca sulla scrivania e si sedette a smistare della posta che non aveva ancora letto.

E se fosse stato davvero un poliziotto?

Thorne non era pronto a scommetterci. In tutti quegli anni di servizio aveva conosciuto parecchie mele marce, ma nessun assassino.

Era un’idea interessante, perfino seducente, in un certo senso, ma non aveva molto senso fuori da un serial televisivo.

Buttò un fascio di buste nel cestino senza neppure aprirle. Erano tutte circolari e comunicazioni interne. Lasciava sempre le lettere più interessanti per ultime.

C’erano alcuni aspetti di quel caso che lo lasciavano perplesso e intendeva farlo presente durante il briefing. Uno era il fatto che l’assassino si portasse via lenzuola, federe e copriletto. E l’altro era un pensiero indefinito, cui non riusciva a dare forma.

Qualcosa che aveva letto e qualcosa che non aveva letto…

Comunque, restava il fatto che non avevano neppure una pista decente. Sperava solo che qualche testa pensante se ne venisse fuori con un’idea brillante.

Quando dalla busta bianca uscirono le foto, Thorne ci mise qualche istante a capire che cosa aveva davanti agli occhi. Poi il suo cuore cominciò a galoppare.

Come le pulsazioni di un atleta diminuiscono con l’aumentare del suo grado di allenamento, così la reazione emotiva che foto come quelle suscitavano in Thorne era sempre meno intensa. Si era già calmato quando prese un paio di forbici da un cassetto e tagliò l’elastico che teneva insieme le immagini. Le separò una dall’altra con la punta di una matita e, quando decise di esaminarle più da vicino e si alzò per andare a prendere i guanti di lattice, le sue pulsazioni erano tornate regolari.

Thorne attraversò il corridoio, sentendosi stranamente calmo. Nella sua mente fluttuavano pensieri di varia natura. L’assassino aveva più sangue freddo di quanto avesse creduto. Più tardi doveva vedersi con Eve, ma avrebbe dovuto chiamarla per cancellare l’appuntamento. Chissà se lei sarebbe stata libera il giorno dopo.

Nella sala di pronto intervento, Yvonne Kitson si diresse verso di lui, con l’aria di volergli dire qualcosa. Thorne sollevò una mano, indicandole con un gesto che non era il momento.

La scatola dei guanti era posata su uno schedario in un angolo della sala, proprio dove lui ricordava di averla vista. Ne estrasse un paio.

Alle sue spalle, Holland disse qualcosa che Thorne non riuscì a sentire, mentre si voltava per tornare indietro.

“Il briefing sarà certamente più vivace di quanto si potrebbe immaginare” pensò. “Qualunque cosa pensi Jesmond della nostra linea d’indagine, queste foto ci faranno ripartire in quarta.”

Non proprio un colpo di fortuna, ma qualcosa che ci andava vicino.

Thorne entrò in ufficio e si infilò i guanti, sapendo che probabilmente si trattava di una precauzione inutile, perché l’assassino si era sempre dimostrato molto attento e di sicuro non aveva lasciato impronte su quelle foto. In ogni modo, la procedura andava rispettata.

E poi, un errore era sempre possibile.

Thorne passò rapidamente in rassegna le foto. I primi piani del viso insanguinato, le labbra ispessite e poi rotte. Le foto a figura intiera, scattate mentre la vittima era ancora viva, erano leggermente mosse.

Mise da parte le immagini di interni e le esaminò da vicino, sperando che l’assassino avesse commesso un errore.

Uno in particolare.

Osservò la foto che era stata intenzionalmente sistemata sopra tutte le altre. La prima che lui avrebbe dovuto vedere. La vetrina del negozio accanto.

Un piccolo scherzo dell’assassino.

Thorne notò appena Holland e Kitson che lo osservavano dalla porta, mentre lui fissava le foto. Sperava di vedere un’immagine distorta che probabilmente non sarebbe servita a nulla, ma che gli avrebbe almeno mostrato che aveva a che fare con un essere umano, capace di sbagliare.

Cercava il volto dell’assassino nell’occhio nero di un pesce morto.

Era sicuro di averne scelto uno buono.

Doveva esaminare la lista con attenzione. Non poteva certo stamparsene una copia e aveva poco tempo, ma stava imparando a selezionare rapidamente i candidati. Nei primi due casi aveva individuato due nomi promettenti e successivamente aveva vagliato i particolari con più calma. Aveva seguito la stessa procedura anche questa volta, scartando diversi nomi per varie ragioni, come per esempio il luogo di detenzione, la zona di residenza, eccetera.

Cristo, c’era davvero un’ampia scelta. L’attività era in espansione…

Questo qui aveva tutte le carte in regola. Viveva solo in una via tranquilla. La presenza e il numero di eventuali amici erano un’incognita, per il momento, ma almeno non sembravano esserci familiari tra i piedi. Forse sarebbe stato addirittura possibile evitare di ricorrere all’hotel…

Su quest’ultimo aspetto era indeciso. Farlo in un appartamento era più semplice, ma c’era un margine di imprevedibilità che lo innervosiva. Sarebbe stato più complicato fare un sopralluogo preventivo, per esaminare l’ambiente. Inoltre, confondere eventuali tracce sarebbe stato meno facile che in una stanza d’albergo. Infine, non sarebbe stato possibile evitare visite inaspettate appendendo sulla porta un cartellino con la scritta “Non disturbare”.

Con Remfry e Welch la scelta dell’hotel era stata obbligata, ma alla fine si era rivelata vincente, e lui era riluttante a cambiarla. In un hotel il numero dei possibili testimoni era più ridotto e aggirare i sistemi di sorveglianza non era un problema. Aveva imparato che la gente non vedeva assolutamente niente quando non prestava attenzione, e che le telecamere vedevano ancora meno, se si sapeva come evitarle.

E lui aveva evitato di farsi vedere, di farsi vedere davvero, per moltissimo tempo.

CAPITOLO 13

«Mi scusi, vorrei sapere quanto costa inviare un bouquet…»

«I bouquet partono da trenta sterline, più cinque e cinquanta per la consegna a domicilio…»

«Cristo, non vorrei spendere tanto. Non abbiamo neppure pomiciato, ancora.»

Eve rise. «È proprio sicuro che la pomiciata sia in programma?»

«Oh, certo» disse Thorne. «Lei non vede l’ora…»

«Merda, c’è un cliente, devo lasciarti.»

«Ascolta, mi dispiace per il bidone dell’altra sera.»

«Non c’è problema. Non lasciar cadere l’idea della pomiciata. Ci vediamo più tardi.»

«Sì, ma non so dirti a che ora.»

«Chiamami quando stai per uscire. Possiamo farci un drink da qualche parte, o qualcosa del genere.»

«Va bene.»

«Ah, nel caso ti interessasse saperlo, un mazzo di fiori non garantisce niente. Una scatola di cioccolatini, invece, ti farebbe ottenere quasi qualunque cosa.»

Eve riagganciò. Thorne sorrise, infilò una mano nella tuta di plastica e rimise il cellulare nella tasca interna della giacca. Bevve una lunga sorsata da una bottiglia di acqua minerale e, quando si voltò, si trovò davanti una famiglia di campeggiatori. Madre, padre e due bambini biondi, ognuno con lo zaino sulle spalle, lo osservavano dall’altra parte del nastro di protezione, pieni di aspettativa. Thorne li fissò con uno sguardo duro, finché loro decisero che probabilmente non stava per succedere nulla di interessante e si allontanarono.

Sei ore prima, quando c’era stata davvero la possibilità di vedere qualcosa da raccontare agli amici, era stato molto più difficile tenere alla larga i curiosi. I turisti avevano scattato foto, mentre veniva portato via il cadavere di Charles Dodd, tra le battutacce degli ubriaconi di zona.

Dopo che il furgone con il corpo a bordo si era allontanato, la sorveglianza era stata allentata. Ora c’era solo un nastro azzurro a impedire l’accesso al tratto di marciapiede tra la pescheria e la porta che conduceva allo studio di Dodd.

«Che cos’è successo?»

Thorne si voltò a fissare un tipo con le mèche color cacca di uccello, i pantaloni da jogging e una quantità di gioielli addosso. L’uomo tirò tre boccate in rapida successione dalla sigaretta che aveva in mano, poi la gettò in strada.

«Una retata» disse Thorne. «Io taglierei la corda, se fossi in te.»

Il tipo saltellò due o tre volte sul posto, fece una smorfia e riprese il suo jogging. Dall’altra parte della strada, una ragazza in minigonna di pelle e ombelico in vista mangiava un sandwich appoggiata all’ingresso di un peepshow. Indirizzò a Thorne un ampio sorriso. Erano appena le nove del mattino, ma evidentemente non era troppo presto per attirare qualche cliente. E faceva già abbastanza caldo perché i tavolini all’aperto di una caffetteria lì accanto fossero tutti occupati da individui intenti a bere cappuccino e mangiare brioche, fingendo di trovarsi in qualche località più amena.

Thorne li osservò, desiderando anche lui di essere da qualche altra parte. E pensando cose che avrebbero mandato la colazione di traverso a quella gente.

Quando avevano sfondato la porta, la sera prima, Thorne sapeva già cosa avrebbero trovato. Aveva visto le foto.

Ma la realtà, dopo diversi giorni di caldo estivo, era molto peggiore.

Il corpo di Dodd pendeva da un cappio. La corda era stata fatta passare sopra una delle sbarre di metallo che correvano lungo il soffitto e poi legata a un piede del letto. Il peso del cadavere teneva un angolo del letto sollevato da terra di almeno quindici centimetri. Le foto, scattate mentre la vittima era ancora viva, mostravano gli spasmi, i calci in aria, le mani strette intorno al collo nel tentativo di allentare la corda. Ora il cadavere era immobile e rigido. E ondeggiava leggermente tutte le volte che sotto la casa passava un treno della linea di Bakerloo.

Ogni volta Thorne aveva sentito lo strano impulso di fermare quel movimento. Di afferrare le gambe gonfie come salsicce che uscivano da un paio di calzoncini non troppo puliti, o i piedi lividi che premevano contro i sandali di plastica.

Davanti a quel letto aveva ripensato a due ragazze pallide che si contorcevano sulle lenzuola sintetiche. Aveva osservato un tecnico della scientifica raschiare dal materasso qualcosa che era gocciolato dal corpo appeso per aria. Aveva guardato la lingua blu e grossa come una mano che sporgeva dalla bocca di Dodd.

Una volta finito, era stato molto contento di andarsene a casa per cambiarsi, mangiare qualcosa che non era riuscito a finire e passare quattro ore steso sul letto senza dormire, prima di tornare di nuovo sulla scena del delitto.

Di fronte a lui, la ragazza inghiottì l’ultimo boccone di sandwich, si pulì la bocca con il dorso di una mano e prese la borsetta che aveva appoggiato per terra. Rivolse a Thorne un’occhiata delusa, poi cominciò a mettersi il rossetto.

Thorne si voltò sentendo scattare la serratura della porta alle sue spalle. Era Holland, che lo raggiunse aprendo la cerniera della tuta di plastica e respirando aria fresca a pieni polmoni.

«Fa un caldo d’inferno, là dentro.»

Thorne gli passò la bottiglia d’acqua. «Quanto ci vuole ancora?»

«Abbiamo quasi finito, credo.»

Holland si appoggiò contro la vetrina della pescheria. Entrambi fissarono l’ingresso del peepshow e la caffetteria dall’altro lato della strada. Un cameriere rivolse loro un sorriso, come se fossero passanti occasionali che potevano farsi tentare da un cappuccino. In fondo, in quella zona le loro tute di plastica non erano certo i vestiti più strani.

«Probabilmente ha voluto fare piazza pulita intorno a sé e assicurarsi che Dodd non parlasse» disse Holland.

«Forse.»

Holland si voltò e appoggiò le mani sulla vetrina, che era già stata esaminata in cerca di impronte. Il pescivendolo aveva avuto pochissimo tempo per mettere in frigo la merce e meno ancora per pulire. Holland fissò la scia rosata di sangue e interiora di pesce che galleggiava sull’acqua in un vassoio di metallo. «Sapeva che lei avrebbe capito il significato di quella foto» disse.

Thorne annuì. «Certo, sapeva che ero stato qui. Potrebbe avermi seguito, ma probabilmente c’è una spiegazione più semplice.» Holland si fece attento. «Credo che tu abbia ragione. Dodd è stato ucciso per quello che sapeva. E per quello che deve aver minacciato di rivelare.»

«Pensa che abbia cercato di ricattare l’assassino?»

Thorne incrociò le braccia. «Il problema è che quell’idiota non sapeva che si trattasse di un assassino. Non posso provarlo, ovviamente…»

«Ma sembra sensato» concluse Holland.

«Evidentemente Dodd mentiva, quando mi ha raccontato quella storia sull’uomo che non si era mai tolto il casco e tutto il resto. Avrei dovuto metterlo alle strette.»

«Non poteva sapere che mentiva.»

«Invece sì. Quelli come Dodd mentono ogni volta che aprono bocca. Non sapeva chi stavo cercando, ma non gli importava. Anche se si fosse trattato soltanto di uno che non aveva pagato il canone della tivù, avrebbe mentito lo stesso, nella speranza di ricavarne un po’ di soldi.»

Videro un uomo di mezza età allungare una banconota alla ragazza sulla porta del peepshow ed entrare in fretta. La ragazza colse lo sguardo di Thorne e mimò con la mano il gesto di farsi una sega. Thorne non capì se volesse indicare ciò che era andato a fare quell’uomo lì dentro, o quello che pensava di loro.

Holland si schiarì la voce e bevve un sorso d’acqua. «Quindi, dopo aver ricevuto la sua visita e aver visto la foto di Jane Foley, Dodd contatta l’assassino…»

Thorne si allontanò dalla vetrina e guardò in alto, verso la finestra dello studio. «Ho perquisito tutto lo studio e non ho trovato traccia di un’agenda di indirizzi da nessuna parte.»

«Forse l’assassino se l’è portata via» disse Holland.

«Forse» convenne Thorne, riparandosi gli occhi dal sole con una mano. «In ogni modo, meglio guardare di nuovo. Se c’è anche solo un frammento di carta sul pavimento, con un numero di telefono sopra, dobbiamo trovarlo.»

«E l’elenco delle chiamate?»

Thorne annuì, soddisfatto della velocità con cui Holland pensava. «Ho già incaricato Andy Stone di occuparsene. Voglio tutte le telefonate di Dodd, dal fisso e dal cellulare, se ne aveva uno. Ogni singola telefonata dal giorno in cui sono stato qui.»

«Forse è passato di persona, se aveva l’indirizzo…»

«In questo caso, siamo fregati.» Thorne si portò la bottiglia alle labbra e bevve una sorsata d’acqua ormai tiepida, tenendola in bocca per qualche secondo, prima di inghiottirla. «Non sappiamo ancora in che modo l’assassino si sia messo in contatto con lui, all’inizio. Quelli come Dodd non si trovano certo sulle Pagine Gialle. Non investono in pubblicità. Per loro contano solo i contatti personali e il passaparola…»

«Abbiamo già interrogato tutti quelli che siamo riusciti a trovare» disse Holland. «Chiunque abbia anche solo scattato una foto alle tette della moglie in quello studio ha rilasciato una deposizione.»

«Interrogateli di nuovo. E trovatene altri con cui non avete ancora parlato.» Holland gemette, appoggiando la testa contro il vetro. «Non c’è tempo da perdere, Dave» disse Thorne. «Yvonne può preparare un’altra lista. Ti raggiungo più tardi.»

Mentre Holland si toglieva la tuta di plastica, nella caffetteria di fronte due giovani manager di area pubblicitario-televisiva si alzarono da un tavolino. Erano vestiti casual, in calzoncini e scarpe da ginnastica, ma i cellulari ultimo modello e gli occhiali da sole firmati bastavano a tradirli. Forse una campagna pubblicitaria andata bene o un progetto televisivo approvato.

Thorne si domandò se sapessero che a poche centinaia di metri da lì, sopra un bar di Fritti Street, John Logie-Baird aveva dato la prima dimostrazione pubblica della televisione, circa ottant’anni prima.

Aprì la porta e, dopo aver lasciato passare qualche secondo, tornò dentro.

Cristo, un intervallo pubblicitario ci sarebbe stato bene. E un assassino di quelli che si fanno catturare, come nei film, ci sarebbe stato ancora meglio. Per l’ennesima volta quel giorno Thorne notò un passante che fissava lui, la tuta di plastica, il nastro azzurro della polizia… E si guardò intorno, in cerca della telecamera.

Dopo l’autopsia all’obitorio di Westminster, andarono in un piccolo ristorante italiano vicino all’abbazia e parlarono di omicidi davanti a una pizza e a una birra Peroni.

«Credo che abbia picchiato Dodd fino a fargli quasi perdere i sensi» disse Hendricks. «Poi gli ha legato la corda intorno al collo, l’ha fatta passare sulle sbarre di metallo per le luci e ha issato il corpo. Deve avere una bella forza.»

Thorne annuì e bevve un sorso di birra. «Quindi ora sappiamo che non è un peso piuma. Che altro?»

«È un fottuto bastardo.»

«Questo lo sapevamo già.»

Hendricks versò dell’altro olio al peperoncino sulla sua pizza. «Dodd ha recuperato brevemente i sensi e si è reso conto di che cosa stava succedendo, ma ormai era troppo tardi. L’assassino ha legato la corda al piede del letto, ha preso la macchina fotografica e ha cominciato a scattare.»

«Quanto tempo è durato?» chiese Thorne.

«Deve aver perso di nuovo i sensi dopo un paio di minuti.» Hendricks infilzò con la forchetta un pezzo di peperone. «La morte per ipossia cerebrale deve essere sopraggiunta di lì a poco.»

Dodd era senz’altro un pezzo di merda, pensò Thorne, ma non si meritava una fine del genere. Appeso come uno dei pesci nella pescheria accanto. Cercando di allentare il cappio con le mani, graffiandosi il collo, fissando negli ultimi istanti di coscienza il suo assassino che con calma cercava l’inquadratura migliore…

«Parlando di assassini come questo,» disse Thorne «spesso si usano i termini “organizzato” e “disorganizzato”. Due categorie fondamentali. Quelli che pianificano tutto, seguendo un sistema rituale per uccidere e per cancellare le tracce. E quelli che agiscono d’istinto, senza il pieno controllo di ciò che stanno facendo.»

«E il nostro a che categoria appartiene?»

Thorne mise giù coltello e forchetta. Aveva mangiato solo mezza pizza, ma era già sazio. «È appunto ciò che stavo cercando di capire. In parte è organizzato. Le lettere ai detenuti, la corda da bucato, l’assenza di tracce organiche, le foto che ha spedito a me…»

«Di sicuro sono cose che lo eccitano.»

«Sì, ma perché ha quasi picchiato a morte Dodd? Gli ha ridotto la faccia come un hamburger. Perché non si è limitato a dargli una botta in testa, prima di appenderlo a quella corda?» Una cameriera era apparsa al loro tavolo. Sicuramente aveva sentito parte della conversazione. Thorne le allungò il piatto, lei lo prese e si allontanò in fretta. «Sono tutti pieni di rabbia. Non ho mai incontrato un assassino che non fosse incazzato per qualcosa.» Thorne finì la sua birra, pensando ai corpi di Welch e di Remfry, a come era ridotto il loro collo. E il resto. «Questo qui, però, esagera.»

«Hai qualche impegno, in serata?» chiese Hendricks, pulendosi la bocca. «Potrei passare da te.»

«Cosa?»

Hendricks accennò con la testa alle cameriere che li fissavano. «Sto cercando di cambiare argomento, prima che quelle chiamino la polizia.»

«A spaventarle è stato il tuo aspetto, Phil, e non la nostra interessante conversazione. Comunque, non puoi passare da me, stasera. Ho un appuntamento con una persona molto più bella di te.»

«Impossibile.»

«E senza piercing imbarazzanti.»

Hendricks rise. «Chi lo sa. Magari ce li ha in qualche posto segreto…»

La cameriera si avvicinò di nuovo e prese il piatto di Hendricks, che aveva lasciato un anello perfetto di crosta di pizza.

«Ai bambini che lasciano cibo nel piatto non crescono i riccioli» disse Thorne.

Hendricks si passò una mano sulla testa rasata. «Con il mio look, non è affatto un problema.»

Il pomeriggio era diventato sera e, quando finalmente Thorne entrò nel pub vicino all’Hackney Empire dove Eve lo aspettava, non mancava più molto all’ora di chiusura. Ma fece, comunque, in tempo a scusarsi, bere una bottiglia di vino con lei e non parlare affatto della giornata che aveva passato.

Quando uscirono su Mare Street, si guardarono intorno lungo la strada, si abbottonarono le giacche, fissarono le macchine parcheggiate, cercando di sciogliere l’imbarazzo che si era improvvisamente creato tra loro. Poi Eve gli si avvicinò, gli mise le mani sulle spalle e disse: «Bene, riguardo a quella pomiciata…».

Thorne non se lo fece ripetere due volte.

Si baciarono. Le mani di lui sui fianchi di lei, quelle di lei dietro il collo di lui. Eve gli morse piano il labbro inferiore. Lui affondò la lingua nella sua bocca. Poi sorrise. Si staccarono un attimo. «Lo sapevo che non vedevi l’ora» disse Thorne.

Lei gli diede una palpata al sedere. «Non vedo l’ora di passare al resto.»

L’appartamento di Eve era abbastanza vicino. Quello di Thorne un po’ più lontano, ma in taxi ci sarebbe voluto solo qualche minuto. Ma non era questo il motivo della perplessità che Eve lesse negli occhi di Thorne. «Non hai ancora comprato un letto nuovo, vero?»

Thorne assunse un’espressione da scolaro pentito. «Non ho avuto tempo…»

Lei gli prese la mano e si avviarono a piedi lungo Mare Street, svoltando a destra per attraversare la ferrovia e tagliare attraverso i London Fields. Era una notte calda, ma non afosa, e c’era un sacco di gente in giro.

«Non starai aspettando i soldi dell’assicurazione?» chiese Eve all’improvviso.

«Cosa?»

«Per cambiare il letto, intendo.»

Thorne rise. «In realtà si tratta solo del materasso, perciò non credo che andrò in bancarotta comprandone uno nuovo.» Aveva già ricomprato lo stereo e una ventina di CD di cui non poteva proprio fare a meno. «Però i soldi dell’assicurazione mi servono per una macchina nuova. Comincio ad averne piene le palle di autobus e auto a noleggio.»

«Quale macchina vorresti prendere?»

Thorne non sapeva se, nell’ultima settimana, avesse passato più tempo al telefono con la compagnia d’assicurazioni o a sfogliare riviste di auto. «Non lo so» disse.

Eve gli si strinse contro, per lasciar passare un corridore notturno. «Anche i poliziotti cercano di fregare l’assicurazione come tutti i mortali?»

«“Fregare” è una parola grossa. Certo, forse nel compilare il modulo ho commesso qualche errore riguardo alla marca e al modello dello stereo. E… certo, anche sul prezzo. Magari ho aggiunto una o due raccolte in cofanetto all’inventario dei miei CD. Ma sicuramente ci sono anche cose che ho dimenticato di citare.»

Camminarono in silenzio per un paio di minuti, poi si fermarono a guardare un gruppo di ragazzi che davano qualche tiro al pallone sotto la luna piena.

Thorne ricordò la partita cui aveva assistito in quel parco vicino all’hotel di Slough, poco prima dell’autopsia di Welch.

«È stato ritrovato un altro cadavere, oggi» disse. «Cioè, ieri notte, per la precisione. Per questo ho dovuto rimandare l’appuntamento con te.»

Eve gli strinse la mano. «Sempre lo stesso assassino? Quello che ha lasciato il messaggio sulla mia segreteria telefonica?»

Ripresero a camminare verso la via parallela a quella in cui abitava Eve.

«Uccide uomini che hanno violentato delle donne» disse Thorne. «E che sono finiti in prigione per questo. L’omicidio di ieri è una storia a parte. Il punto è che non ho la minima idea del perché lo faccia, di quando lo farà di nuovo e di come fermarlo.»

«Allora non fermarlo.»

Thorne rise e abbassò lo sguardo sul marciapiede. Evitò una cacca di cane. «Non sono io a decidere.»

«In fondo non fa a pezzi vecchiette indifese, no?»

Svoltarono in una viuzza laterale, camminando lentamente in mezzo alla strada. Mano nella mano.

«Leggo in continuazione che la polizia ha pochi uomini e mezzi» continuò Eve. «Allora perché non li usa per cose più importanti?»

«Più importanti di un omicidio?»

«Considera chi sono le vittime…»

Thorne fece un respiro profondo. Avrebbe fatto meglio a non dirle nulla. Non voleva assolutamente imbarcarsi in una discussione del genere. «Ascolta, qualunque cosa avessero fatto, quegli uomini avevano già scontato la loro condanna. Io non ho il massimo rispetto per il nostro sistema giuridico, ma di sicuro…»

«Va bene. Allora mettiamola così: questo tizio lavora per abbassare il tasso di recidività.»

Thorne la fissò. Sorrideva, ma c’era qualcosa di duro nei suoi occhi. Era davvero convinta di ciò che diceva. «Io non posso pensarla così, Eve. Non posso imboccare una simile strada.»

«Come poliziotto, intendi? Oppure… come persona?»

Arrivarono alla fine della viuzza. Il negozio di Eve sull’angolo opposto era buio.

Thorne cambiò bruscamente argomento. «Ascolta, credi che sarebbe davvero un problema, con Denise, se io volessi fermarmi da te?»

Eve sospirò. «Te l’ho detto, se la prende parecchio.»

«Non ci sono notti in cui non è in casa? Non resta mai a dormire da Ben?» Eve scosse la testa. «Perché no?»

«Non lo so. Lui è matto come lei. Li hai visti insieme, no?»

Oltrepassarono il negozio e si fermarono davanti al portone di Eve. Lei cercò le chiavi di casa nella borsa.

«Denise non ha il diritto di importi una cosa del genere» disse Thorne.

Eve gli appoggiò le mani sul petto. «Non me lo impone. È solo che così mi evito un sacco di problemi.» Afferrò Thorne per il bavero della giacca e lo attirò a sé. «In fondo, per risolvere la questione basterebbe che tu comprassi un materasso nuovo. Te lo compro io, se vuoi…»

Mentre si baciavano la porta si aprì all’improvviso e apparve Denise, con un’espressione sorpresa. Dietro di lei, Thorne riconobbe l’uomo che aiutava Eve in negozio.

«Ciao, Eve» disse l’uomo.

Denise uscì in strada. L’uomo la seguì. «Keith era passato per dirti che sabato non potrà venire» spiegò Denise.

Eve fece un passo avanti e appoggiò una mano sulla spalla di Keith. «È tutto a posto?»

Lui scosse la testa, arrossendo. «È difficile…»

Eve si voltò verso Thorne. «Sua madre non sta affatto bene…»

Ci fu un silenzio imbarazzato. Denise si sfregò le braccia nude con le mani, Keith si infilò il giubbotto di jeans che portava piegato sul braccio. «Vado a casa» disse, annuendo un paio di volte. Poi si voltò e si allontanò rapidamente. Gli altri restarono a guardarlo per qualche secondo.

«Vado a letto, tesoro» annunciò Denise. «Sono letteralmente a pezzi. Ci vediamo domattina.» Abbracciò Eve e la baciò su entrambe le guance. Thorne restò un po’ sorpreso quando baciò anche lui.

«Buonanotte, Tom.» Si voltò e rientrò in casa, lasciando la porta socchiusa.

Thorne guardò l’orologio. Faceva ancora in tempo a prendere l’ultimo autobus. «Sarà meglio che vada anch’io» dichiarò. «È stata una serata interessante…»

«Se vuoi che l’interesse prosegua,» disse Eve, con uno sguardo allusivo «comprati un letto nuovo. Ti accompagno all’Ikea, questo fine settimana.»

«Mio Dio, no!» esclamò Thorne.

Keith era un centinaio di metri davanti a lui. Thorne rallentò, per evitare di raggiungerlo. Non avrebbe saputo che cosa dirgli. Si sentì sollevato quando lo vide svoltare in una traversa. Prima di scomparire dietro l’angolo, Keith si voltò e lo fissò. Quando Thorne arrivò all’altezza dell’incrocio, Keith era sparito.

Affrettando il passo verso la fermata di Dalston Lane, Thorne dovette ammettere con se stesso una cosa piuttosto strana. Aveva chiesto a Eve se ci sarebbero stati problemi con Denise, proprio perché conosceva la risposta. Perché sapeva che quella sera tra loro non sarebbe accaduto nulla. E ciò gli dava un senso di tranquillità…

Poco lontano dalla fermata c’era un baracchino di hamburger dall’aria poco pulita. Thorne scoprì di avere fame e cercò di decidere se valesse la pena rischiare di perdere l’autobus per intossicarsi con quel cibo.

L’autobus arrivò sferragliando più di dieci minuti dopo, quando Thorne si era già pentito di avere mangiato l’hamburger. Mentre cercava in tasca gli spiccioli per il biglietto, si chiese come mai provasse sollievo rincasando da solo.

L’uomo seduto sulla cyclette accanto alla sua smise di pedalare e rimase a occhi chiusi per alcuni secondi, riprendendo fiato. Quindi scese e si avviò verso il rubinetto dell’acqua. Bevve a grandi sorsi, poi si avvolse l’asciugamano intorno al collo ed entrò nella sala pesi.

Lui aspettò la fine della canzone che stava ascoltando, poi si tolse le cuffie, scese dalla cyclette e lo seguì.

Howard Anthony Southern era un tipo abitudinario e amava tenersi in forma. Le due cose insieme facevano sì che sorvegliarlo fosse non soltanto facile, ma anche piacevole. Lui andava già in palestra per conto suo, ma qualche ora in più alla settimana non gli avrebbe certo fatto male. Era stato semplice iscriversi alla palestra di Southern e frequentarla nei suoi stessi orari. Qualche volta gli era capitato di non trovarlo, ma in ogni caso ormai si era fatto un’idea abbastanza precisa del soggetto.

Sapeva quel che c’era da sapere. Che Southern aveva commesso il reato e che il suo nome si trovava sul Registro. Era più che sufficiente. E tuttavia, non avrebbe guastato scoprire qualcosa in più. Come, per esempio, quanto lui fosse più forte di Southern, quanto sarebbe stato facile prenderlo, al momento giusto. Vedere la sua faccia stravolta e sudata, immaginare in anticipo la sua espressione mentre si contorceva, cercando di liberarsi dal cappio.

Entrò nella sala pesi. Southern era sulla panca per i pettorali. Lui gli si sedette accanto e cominciò a pompare.

Vide immediatamente che Southern occhieggiava una donna dall’altra parte della sala. Lei faceva stretching e le sue forme risaltavano attraverso il tessuto aderente della calzamaglia nera. Southern continuava ad allenarsi, senza perdere di vista la donna riflessa nello specchio lungo la parete.

Lui sapeva che era quello il motivo per cui Howard Southern frequentava la palestra.

Si domandò se Southern avesse commesso un altro reato dopo il rilascio. Forse dopo essersi fatto beccare una volta era diventato più cauto. Probabilmente avrebbe potuto farlo di nuovo impunemente per anni. Mentre guardava quella donna, forse immaginava di prenderla con la forza. Gli occhi di Southern erano come mani sudate sul corpo della donna, di sicuro si stava convincendo che lei volesse proprio quello…

Southern lasciò le maniglie e i pesi caddero con un rumore metallico. Si voltò verso di lui e sbuffò. «Ma chi ce lo fa fare?» disse.

Quello sì era un colpo di fortuna! Lui aveva pensato di attaccare discorso proprio quel giorno, nello spogliatoio o nel bar della palestra.

«È un’autentica follia, vero?» continuò Southern, accennando con il mento alla donna in calzamaglia. «Star qui ad ammazzarsi per quelle come lei.»

Lui gli sorrise, pensando che l’idea era giusta, anche se lui la intendeva in maniera completamente diversa.

CAPITOLO 14

Carol Chamberlain rappresentava i tre quarti di una squadra di due persone. Le era stato assegnato un aiutante per le ricerche, ma l’ex sergente Graham McKee era, per usare un’espressione di suo marito, “utile come una teiera di cioccolato”. Quando non era al pub, lasciava chiaramente intendere che, secondo lui, era Carol quella che avrebbe dovuto occuparsi di fare il caffè e le telefonate, mentre lui era fuori a parlare con le persone.

Qualche anno prima, Carol gli avrebbe strappato le palle. Adesso, invece, si accontentava di procedere con il lavoro, facendo anche la parte del sergente. Ci avrebbe messo più tempo, ma avrebbe anche ottenuto risultati migliori. Carol non ne era ancora sicura, ma credeva che, se il caso di cui si stava occupando fosse stato gestito bene dall’inizio, non ci sarebbe stato nessun bisogno di rivolgersi a lei.

Hastings non era molto lontana, ma per non correre rischi lei era partita presto. Jack si era svegliato di buon’ora e le aveva preparato la colazione. Non era contento che lei lavorasse di domenica, ma aveva cercato di buttare la cosa sul ridere.

«Sveglia a ore assurde, domeniche andate in fumo… Ora ho l’assoluta certezza che sei tornata a lavorare nella polizia.»

Prima di scendere dalla macchina, Carol controllò il trucco nello specchietto retrovisore. Forse aveva esagerato un po’ con il fondotinta, ma ormai era tardi per rimediare. I capelli invece erano perfetti. La sera prima aveva dato un ritocco alla tinta, per eliminare la ricrescita.

Jack le aveva detto che stava benissimo.

Si avvicinò alla porta e bussò, imponendosi di rimanere calma. Era una cosa che aveva fatto centinaia di volte e non c’era bisogno di stringere così forte la maniglia della cartella.

«Sheila? Sono Carol Chamberlain, dell’Unità Riesame Casi Insoluti. Ci siamo sentite al telefono…»

Era evidente che la donna che venne ad aprire non si aspettava affatto una come lei.

Carol era ingrassata cinque chili per ogni anno che era stata fuori dalla polizia e, poiché non arrivava al metro e sessanta di altezza, era ben consapevole del proprio aspetto. I capelli potevano essere tinti all’ultima moda, ma i trent’anni passati in servizio si notavano eccome sul suo volto.

Si augurava soltanto che la tipica riservatezza inglese impedisse a Sheila Franklin di manifestare troppo apertamente il suo sconcerto.

«Vado a preparare il tè» disse la donna, facendola accomodare.

In cucina, mentre aspettavano che l’acqua bollisse, parlarono del tempo e del traffico. Solo quando furono sedute nel piccolo soggiorno, Sheila diede voce alla propria confusione.

«Mi scusi, ma credevo che avesse detto che il caso era stato riaperto…»

Carol non aveva detto nulla del genere. «Mi dispiace, temo che ci sia stato un malinteso. Io sto riesaminando il caso, che sarà riaperto solo se troveremo elementi validi per farlo.»

«Capisco.»

«Per quanto tempo lei e suo marito siete stati sposati?»

La vedova di Alan Franklin era una donna alta e magra che dimostrava solo qualche anno più di Carol, aveva i capelli tirati all’indietro e due occhi verdi che non si fissavano mai su nulla per più di qualche secondo. Disse di aver conosciuto Franklin nel 1983. Lui aveva dieci anni più di lei e, all’epoca, era prossimo alla cinquantina. Pochi anni prima aveva lasciato la moglie e un’attività a Colchester, trasferendosi ad Hastings per iniziare una nuova vita. Si erano conosciuti sul lavoro e si erano sposati nel giro di pochi mesi.

«Alan era uno che non perdeva tempo» disse ridendo. «Ma è anche vero che io non ho opposto molta resistenza.»

Come sempre, Carol aveva fatto le sue ricerche e conosceva i particolari. «Come reagirono i figli di Alan? All’epoca dovevano avere sedici o diciassette anni, giusto?»

Sheila fece un sorriso un po’ forzato. «Sì, più o meno, ma non ne sono sicura. In tutti gli anni del nostro matrimonio, credo di averli visti una volta sola. E soltanto uno di loro è venuto al funerale di Alan.»

Carol annuì, come se fosse una cosa perfettamente normale. «E cosa può dirmi della prima moglie?»

«Celia? Non l’ho mai conosciuta. Non abbiamo neppure mai parlato al telefono. E Alan non mi ha mai detto nulla di lei.»

«Capisco…»

Sheila si chinò in avanti, appoggiando tazza e piattino sul tavolino. «So che può sembrare strano, ma è la verità. Per Alan, Celia era il passato…»

Carol cercava di non giudicare, ma era difficile. Lei e Jack si erano sposati abbastanza tardi e i rapporti con l’ex moglie di lui erano sempre stati un po’ tesi, ma civili. Inoltre la figlia di Jack aveva sempre avuto una parte importante nella loro vita.

«Ho fatto qualche tentativo, con i ragazzi» disse Sheila. «All’inizio dicevo ad Alan che doveva vederli, che dovevamo cercare di costruire un ponte… Ma lui è sempre stato un po’ strano al riguardo.»

«Forse pensava che Celia glieli avesse messi contro.»

«Può darsi, ma non l’ha mai detto. I ragazzi comunque erano già quasi adulti. Abbiamo anche fatto qualche tentativo di avere dei figli nostri, per un certo periodo.» Sheila rimise tazze e teiera sul vassoio con il quale le aveva portate nel soggiorno, poi si alzò in piedi. «Ma io avevo già quarant’anni e non ce l’abbiamo fatta.»

Carol la seguì in cucina. «Alan ha mai parlato del motivo del suo divorzio?»

«No. Credo che sia stato piuttosto spiacevole.»

Da quello che Carol sapeva, “spiacevole” era un eufemismo. «Ma doveva comunque pagare gli alimenti alla moglie, no? Dovevano comunicare in qualche modo, se non altro attraverso i rispettivi avvocati…»

«Negli ultimi anni non sapevamo neppure dove abitassero. Il figlio che è venuto al funerale ha saputo della morte di Alan dal telegiornale.»

«Ah.»

Sheila si era messa a lavare tazze e piattini. Quando si voltò, probabilmente lesse sul volto di Carol quel giudizio che lei aveva cercato di non lasciar trapelare, perché disse: «Senta, esistevamo solo Alan e io. Tutto quello che c’era stato prima non importava. Non frequentavamo quasi neppure la mia famiglia. Bastavamo a noi stessi.» Fece un passo verso Carol, che era rimasta sulla soglia della cucina. «Alan diceva sempre che io ero la sua vita. La vita di prima non aveva funzionato e quindi non voleva pensarci più. Stava cercando di allontanarsene…»

Carol annuì. «Posso usare il bagno?»

Si appoggiò al lavandino, lasciando scorrere l’acqua.

Non si era mai molto affidata all’istinto nel lavoro, ma in trent’anni aveva imparato a lasciare comunque un po’ di spazio alle intuizioni. Nel 1996, l’omicidio di Alan Franklin era rimasto insoluto. In gran parte perché sembrava che mancasse un movente.

Annusò il sapone e cominciò a lavarsi le mani.

Era possibile che la vita da cui Alan Franklin aveva cercato di scappare, cambiando città, moglie e lavoro, lo avesse raggiunto in quel parcheggio deserto…

Sheila Franklin l’aspettava ai piedi delle scale.

«Ha conservato le cose di Alan?» chiese Carol.

«Ci sono un paio di scatole in soffitta. Carte e poco altro, credo. È stato Alan a metterle lì, quando abbiamo traslocato in questa casa.»

«Le dispiacerebbe lasciarmele esaminare?»

«No, anzi. Mi faccia un favore, se le porti via.» Sheila lanciò un’occhiata in direzione delle scale e un’ombra passò nei suoi occhi. «È tempo di fare un po’ d’ordine…»

Non era un identikit perfetto, ma era già qualcosa.

Thorne aveva tirato fuori il disegno dalla borsa mentre il treno usciva dalla stazione di King’s Cross, lo aveva appoggiato sul tavolino davanti a sé e lo fissava da dieci minuti buoni.

Il cameriere della caffetteria di fronte allo studio di Dodd aveva rilasciato la sua deposizione il giorno dopo il ritrovamento del cadavere di Dodd. Aveva visto un uomo in moto aggirarsi in zona alcuni giorni prima. Era vestito di pelle nera e indossava un casco scuro. No, non lo aveva visto salire da Dodd, ma era un pomeriggio caldo e lui era occupato a servire ai tavoli.

Era accaduto un mercoledì, cinque giorni prima che il cadavere di Dodd fosse ritrovato. Da quel giorno erano passate quasi due settimane.

Quindi Charles Dodd non aveva mentito su tutto. L’uomo a cui aveva noleggiato lo studio indossava davvero un casco. La menzogna probabilmente era che non se lo fosse mai tolto. Una menzogna che Dodd aveva pagato cara.

Udendo il rumore del carrello del servizio ristorazione che avanzava lungo la carrozza, Thorne alzò gli occhi. La colazione che le ferrovie proponevano non era il massimo, ma lui aveva fame. Si tastò le tasche alla ricerca di spiccioli.

Dodd probabilmente non aveva sospettato nulla quando l’uomo in tuta di pelle era salito nel suo studio, quel pomeriggio. Anzi, probabilmente credeva di essere lui a controllare la situazione e si apprestava a spremere al pollo tutto il denaro possibile. Non sapeva con chi aveva a che fare.

I testimoni interrogati per gli omicidi di Welch e Remfry non avevano mai parlato di un uomo in tuta da motociclista, ma bisognava controllare. Ogni giorno a Soho giravano decine di fattorini in moto e in bici, a consegnare sceneggiature, video, sandwich e sushi. Ci erano voluti due giorni per rintracciarli tutti ed eliminarli uno alla volta. Due interi giorni per confermare ciò che Thorne sapeva dal momento in cui il cameriere del bar aveva rilasciato la sua deposizione: la faccia sotto quel casco era quella dell’assassino e lo zainetto nero che aveva in spalla conteneva una corda da bucato blu.

«Desidera qualcosa?»

Il carrello era arrivato accanto a lui. Thorne scelse un tè e un Kit-Kat. Prese il bicchiere di carta, asciugò con il tovagliolo le gocce che erano cadute sul tavolino e mise la bustina a mollo nell’acqua calda.

Fissò di nuovo il disegno che stava tracciando da alcuni giorni. Un uomo in casco da moto era un’immagine troppo generica per giustificare l’intervento di un disegnatore ufficiale, perciò Thorne si era messo a tracciare schizzi su un foglio di carta mentre era seduto alla sua scrivania o sulla metropolitana. Il suo talento per il disegno era più o meno pari a quello che poteva avere come ballerino di danze medievali, e tuttavia lui riusciva a vedere qualcosa nei suoi scarabocchi. I tratti di penna che si incrociavano fittamente suggerivano un’oscurità dietro la visiera. Più nera e più fitta di quella prodotta dalla plastica polarizzata.

Alzò lo sguardo a fissare il paesaggio. La campagna diventava più verde e le case più grandi, a mano a mano che il treno avanzava nello Hertfordshire.

Bevve il tè e mangiò la cioccolata, mentre il tizio seduto davanti a lui era ancora indeciso su cosa ordinare. Una delle due donne addette al carrello alzò gli occhi al cielo e un adolescente in tuta, bloccato nel corridoio, si mise a sbuffare, impaziente di poter tornare al proprio posto.

Zia Eileen aveva chiamato da Brighton un paio di sere prima. La donna che si occupava del padre di Thorne era malata, lei aveva chiesto a una vicina di portare qualcosa da mangiare a Jim il venerdì e stava cercando una sostituita temporanea, ma fino a lunedì non aveva trovato nessuno e sicuramente il vecchio, lasciato a se stesso, non avrebbe mangiato nulla…

Thorne si era sentito in colpa perché lei glielo aveva chiesto come un favore. E ora, a pochi chilometri da St Albans, con in tasca un pacchetto delle mentine preferite dal padre, si sentiva ancora più in colpa perché avrebbe desiderato essere altrove. Per esempio, con Eve, in un pub lungo il fiume.

La porta automatica della carrozza si aprì e le due donne del carrello passarono accanto all’adolescente in tuta, che ora stava beatamente fumando una sigaretta rollata a mano accanto alla porta del bagno.

A Thorne venne in mente Yvonne Kitson che fumava fuori da Becke House. Yvonne non era esattamente un’amica, non si erano mai frequentati fuori dal lavoro, eppure in quell’incontro c’era stato qualcosa che adesso lo preoccupava. Senza pensarci troppo, Thorne prese nella borsa l’agenda, cercò il numero di casa di Yvonne e la chiamò. Di sicuro l’avrebbe trovata intenta a preparare il pranzo domenicale per la famiglia.

Rispose un uomo, probabilmente il marito.

«Buongiorno, potrei parlare con Yvonne, per favore?»

«Non è in casa.»

Thorne rimase in attesa di altre informazioni, ma non ne arrivarono. «Non è una cosa importante» disse. «Quando torna può dirle soltanto che ha chiamato Tom Thorne? Magari riprovo più tardi.»

«Provi pure, ma non so quando tornerà. Ha detto che sarebbe stata via solo un paio d’ore…»

Thorne stava pensando ancora a quella conversazione cinque minuti dopo, quando uscì dalla stazione di St Albans e si mise in cerca di un taxi. Forse il marito di Yvonne Kitson era un tipo scontroso per natura. Forse non aveva gradito che la moglie l’avesse lasciato solo con i bambini di domenica mattina. O forse il problema era completamente diverso. Comunque, qualunque fosse il motivo del suo fastidio, non si era fatto problemi a lasciarlo trasparire con un estraneo.

“Ha detto che sarebbe stata via solo un paio d’ore…”

Thorne vide una coppia salire sull’unico taxi disponibile. Pensò ancora a Eve, alle cose che avrebbe potuto fare insieme a lei. Se non altro, comunque, aveva evitato di dover passare la domenica in giro per l’Ikea.

Quando Thorne aveva suggerito di cucinare qualcosa, il padre era diventato rosso di collera e lo aveva chiamato “stupido, piccolo bastardo”. Mezz’ora dopo, al pub, aveva completamente cambiato umore. Era incredibile l’effetto che una pinta di birra e un piatto di salsicce con patate potevano avere sulla chimica alterata del suo cervello.

«Questa è la regola numero tre della mia lista» disse suo padre.

Erano seduti a un tavolo d’angolo: Thorne, il padre e un amico del padre di nome Victor. In passato erano un bel gruppo e si ritrovavano in quel pub due o tre sere alla settimana. Ma dopo che a Jim Thorne era stato diagnosticato l’Alzheimer, dei vecchi amici era rimasto solo Victor, l’unico che evidentemente non temeva il contagio…

«Quale lista?» chiese Thorne.

Suo padre sollevò il bicchiere, dicendo soddisfatto: «Questa: “niente birra”, che viene dopo “non andare in cucina” e “non uscire da solo”. La lista di stupide regole che mi hanno imposto i medici, hai presente?».

Thorne annuì.

«Niente alcolici» disse Jim Thorne, con un’enfasi da deejay. «Al terzo posto nella hit-parade dell’Alzheimer.» Thorne e Victor risero, ma a un tratto Jim smise di colpo di canticchiare la sigla dei “successi della settimana” e fissò Victor, con il viso contorto in una smorfia di panico. «Chi sono i tre primi in classifica di tutti i tempi? In termini di settimane passate tra i primi dieci, intendo.»

Victor si chinò verso di lui. «Elvis, Cliff Richard…»

«Sì, certo» disse Jim, nervoso. «Ma è il terzo che non mi viene in mente. Cristo, eppure lo so…»

«I Beades?» buttò lì Thorne, cercando di collaborare.

Con un tempismo da commedia musicale, Victor e Jim si voltarono verso di lui e dissero all’unisono: «No».

Jim Thorne cominciò a sudare e a respirare con affanno. «Lo vedo, vedo la sua faccia» disse, alzando la voce. «È un tizio a cui piacciono gli uomini… e suona… quella cosa con i tasti…»

«Il pianoforte» suggerì Thorne. Suo padre ricorreva spesso a quelle perifrasi, quando non gli veniva la parola giusta. “La cosa che ti metti in bocca per lavarti i denti”; bacon e… “quelle cose che escono dai polli”.

Victor picchiò trionfante il pugno sul tavolo. «Elton John!» esclamò.

«Lo sapevo» disse Jim. «Lo sapevo, cazzo.» Cominciò a infilzare le patate, con l’espressione di chi è prossimo alle lacrime.

«Vado a prendere un’altra birra» si affrettò a dire Thorne. «Visto che hai deciso di violare una delle tue regole, tanto vale infrangerla fino in fondo.»

Victor scolò la sua pinta e tese a Thorne il bicchiere vuoto. «Naturalmente, potrebbe anche darsi che tuo padre non abbia affatto l’Alzheimer…»

Thorne lo guardò storto. Discussioni come quella erano inutili, anche se, da un punto di vista strettamente medico, Victor aveva ragione. L’Alzheimer non poteva mai essere confermato. Ma i medici erano sicuri al novanta per cento e questo poteva bastare.

«Un’altra uguale, Victor?»

«Hai sentito, Jim?» disse Victor. «Non puoi essere sicuro di avere l’Alzheimer.»

Thorne gli appoggiò una mano sul braccio. «Victor…»

Stavolta fu Victor a rivolgergli un’occhiataccia. All’improvviso Thorne capì che l’amico stava solo offrendo a suo padre il pretesto per una delle sue battute preferite e si sentì avvampare di vergogna.

Jim Thorne mise giù le posate e colse l’occasione al volo: «Esatto, Vic. Il medico mi ha detto che l’unico modo per esserne sicuri è quello di effettuare un’autopsia e io ho risposto: “No, grazie, è un tipo di esame per cui non mi sento ancora pronto!”».

Victor e Jim stavano ancora ridendo, mentre Thorne aspettava di essere servito al bancone.

La condizione del padre gli era stata descritta come “lo stadio intermedio della demenza”. Era una definizione un po’ vaga, ma Thorne immaginava che perlomeno ci sarebbe voluto ancora qualche tempo, prima di arrivare allo stadio finale. Finché erano più le battute sceme che i momenti di paura e disperazione, non c’era da preoccuparsi troppo.

Per un paio di minuti, Carol si era chiesta che cosa stesse facendo. Era una donna di mezza età, Cristo, e avrebbe dovuto trovarsi in casa con Jack, seduta sul divano a guardare Heartbeat, invece di rovistare tra sudicie scatole di cartone nel garage gelato.

Ma quella perplessità era durata poco. Appena aveva cominciato a immergersi nel passato di Alan Franklin, il suo primo passato, non aveva più sentito il freddo. Aveva riscoperto quella strana ed eccitante sensazione di cercare accanitamente qualcosa, senza sapere bene che cosa.

In quel momento, nei soggiorni e nelle cucine delle case vicine, donne della sua età facevano cruciverba, leggevano un romanzo rosa o preparavano la tavola per la colazione del mattino dopo. Mentre estraeva da una scatola una pila di documenti impolverati, Carol pensò che per nulla al mondo avrebbe voluto trovarsi al posto di quelle donne.

In entrambe le scatole c’erano un sacco di carte ingiallite, oltre a buste, etichette autoadesive e scatole di punti metallici arrugginiti. Franklin aveva conosciuto Sheila mentre lavorava per una compagnia di assicurazioni ad Hastings, ma aveva voluto conservare qualcosa anche della sua attività precedente.

Per quanto riguardava gli altri oggetti, non c’era niente che avrebbe fatto gola a un antiquario. Un paio di agende Letts nuove, anni 1975 e 1976. Un mazzo di chiavi con un portachiavi Ford, piatti e tazze da tè avvolte in vecchi giornali. Un paio di Polaroid in una busta gialla (due bambini piccoli, di cui uno un po’ più grande dell’altro, e poi gli stessi bambini trasformati in goffi adolescenti).

Carol distese sul pavimento il foglio di giornale che avvolgeva un grosso boccale d’argento e ne stirò le pieghe con la mano. Era un quotidiano locale e presumibilmente la data riportata era quella del giorno in cui Franklin aveva lasciato la moglie, o era stato lasciato da lei. Non sembrava che fosse avvenuto niente di interessante a Colchester, quel giorno. Una piccola protesta riguardante la costruzione di una tangenziale, un centro di fitness che riapriva dopo una ristrutturazione, un furto commesso in una gioielleria su High Street dopo averne infranto la vetrina…

Carol sorrise leggendo quel resoconto. Non erano passati più di vent’anni da quell’evento e anche i crimini sembravano in qualche modo più innocenti.

Sollevò il boccale, esaminandolo da vicino. In realtà era argento placcato. Era un po’ annerito, ma l’iscrizione si leggeva ancora bene:

«Dai ragazzi della Baxters, maggio 1976.

Bentornato.

Uno per festeggiare e molti di più per dimenticare!»

Lì per lì Carol pensò di chiamare Sheila, ma poi sentì istintivamente che non ne avrebbe ricavato molto. Franklin non aveva condiviso con lei quasi nulla del suo passato. Forse di tanto in tanto andava in soffitta e guardava quel boccale. Oppure aveva cercato davvero di dimenticare tutto. Comunque fosse, Carol era abbastanza sicura di doverlo scoprire da sola. A cominciare dall’indomani mattina. Non era poi così difficile: avrebbe solo dovuto convincere quel pigro bastardo di McKee a fare qualche telefonata.

Si alzò dal pavimento, dove era inginocchiata, con una smorfia di dolore. Aveva appoggiato un cuscino sul cemento, ma muscoli e giunture le dolevano ugualmente. Spense la luce del garage e prima di entrare in casa rimase qualche secondo immobile al buio, chiedendosi che cosa aveva festeggiato Alan Franklin nel 1976. E che cosa aveva voluto dimenticare.

Durante i venticinque minuti del viaggio in treno che lo riportava a casa, Thorne ebbe tutto lo scompartimento per sé.

Tirò fuori il suo lettore portatile e vi inserì il CD di un gruppo che si chiamava Lambchop. Si trattava di un regalo di compleanno di Phil Hendricks e per alcuni giorni, dopo il furto in casa, era stato il suo unico disco finché non si era deciso a ricomprare buona parte della collezione. Hendricks gli aveva detto che si trattava di musica “alt country”. Evidentemente, Thorne doveva aggiornarsi un po’.

Premette il tasto “Play” e si immerse nelle sonorità di quelle canzoni, pensando al modo curioso in cui lui e il padre si erano salutati.

Mezz’ora dopo che Victor se n’era andato, Thorne e il vecchio Jim si erano trovati sulla soglia, ciascuno cercando le cose giuste da dire.

A Jim Thorne non erano mai piaciute le dimostrazioni fisiche di affetto, ma stavolta non gli aveva concesso neppure una stretta di mano. Invece, si era chinato verso di lui e con un lampo negli occhi, come se gli stesse elargendo una perla di saggezza, gli aveva detto che Three steps to heaven di Eddy Cochrane era al primo posto nella hit-parade il giorno in cui Thorne era nato.

Thorne si tolse le scarpe e appoggiò i piedi sul sedile di fronte. Le cose che gli aveva detto il padre, i suoi ricordi, erano commoventi, in un certo senso.

La musica che gli arrivava nelle cuffie era lenta, ricca e strana. Il testo delle canzoni sembrava non avere né capo, né coda. Si sentivano anche i corni. Non trombe messicane stile King of fire, ma veri e propri corni da orchestra, come in un disco soul.

Thorne tolse il CD dal lettore e lo rimise nella custodia. Un altro giorno, magari… Mise Train a Comin, di Steve Earle e chiuse gli occhi.

Il soul era una bella cosa, ma c’erano momenti in cui una musica viscerale faceva più piacere.

Era stato facilissimo. Non cessava di stupirsi di come fossero patetici quegli animali. Di come fosse semplice menarli per il naso. Per quel naso che avevano tra le gambe…

Era passata meno di una settimana da quando aveva parlato per la prima volta con Southern ed era già arrivato il momento di pensare a dove e quando avrebbe avuto luogo l’omicidio. Era stato così semplice da fargli quasi rimpiangere tutte le energie sprecate con gli altri. I mesi di preparativi le lettere… Avrebbe potuto aspettare che uscissero di prigione e poi agganciarli in un bar.

Con i tipi come Southern non c’era bisogno di sottigliezze. Non le capivano, non le riconoscevano. Usavano solo il cazzo per pensare…

Ci aveva messo pochissimo a guadagnarsi la fiducia di Southern e ora tutto il resto sarebbe venuto da solo. Tempi e luoghi. Accordi.

Era tutta una questione di fiducia e lui era bravo a guadagnarsi quella degli altri. Gliela concedevano tutti, senza che avesse bisogno di chiederla. Come un dono.

Lui, viceversa, non si fidava mai di nessuno. Non più. Sapeva perfettamente che cosa poteva accadere alle persone che si fidavano.

CAPITOLO 15

Carol sollevò il ricevitore e compose lentamente il numero, controllandone ogni cifra sul suo taccuino. Quando il telefono dall’altra parte iniziò a squillare, allungò una mano per raddrizzare un quadro sulla parete.

Aveva resistito un po’, osservando McKee che perdeva tempo, poi aveva preso in mano la situazione. Due giorni e mezzo passati al telefono, cercando dati, irritandosi perché non li trovava, ricordando che quello era perlopiù un lavoro di merda.

«Nessuno ti ha costretta ad accettare» le aveva detto Jack. «E nessuno potrà dirti nulla, se rinunci.»

Nessuno, a parte lei stessa.

Rintracciare la Baxters, la ditta di Colchester dove Franklin aveva lavorato più di trent’anni prima, si era rivelato molto frustrante. Carol aveva scoperto che si trattava di grossisti di cancelleria, ma, a parte quello, nient’altro. L’azienda si era trasferita e aveva cambiato nome nei primi anni Ottanta e lei aveva passato ore al telefono parlando con tutte le ditte di cancelleria dell’Inghilterra meridionale, senza arrivare da nessuna parte. Poi, quando Jack cominciava già a parlare di divorzio, aveva avuto fortuna. Il direttore del personale di una ditta di Northampton conosceva tutti nel settore della cancelleria, giocava a golf con molti di loro ed era stato felice di indicarle esattamente dove trovare la persona con cui doveva parlare…

«Buongiorno, qui è la Bowyer-Shotton. In cosa posso aiutarla?»

«Vorrei parlare con Paul Baxter» rispose Carol.

«Glielo passo subito.»

Seduto alla scrivania, Andy Stone sudava nella camicia bianca, mentre solo una piccola parte della sua mente era concentrata sul rapporto che stava scrivendo.

Pensava soprattutto alla donna al cui fianco si era svegliato. Ricordava l’espressione che aveva la sera prima e lo sguardo che gli aveva lanciato quella mattina, scendendo dal letto senza una parola…

Assisteva a un noioso convegno al Greenwood Hotel, il giorno in cui era stato ucciso Welch. Stone l’aveva interrogata e le aveva lasciato il suo numero, nel caso in cui le fosse venuto in mente qualcos’altro. E a lei era venuto in mente che lui le piaceva, così lo aveva chiamato, invitandolo fuori a bere qualcosa.

Probabilmente la eccitava il fatto che lui fosse un poliziotto. Molte donne sembravano trovarlo eccitante. Il potere, le manette, le storie cruente. Qualunque fosse il motivo, comunque, a un certo punto la novità finiva e le donne perdevano rapidamente interesse.

Nel frattempo, però, in genere le scopate non erano affatto male.

Andy preferiva avere il controllo della situazione, a letto. Gli piaceva stare sopra, la donna con le braccia sopra la testa, lui che le stringeva i polsi, tenendosi sollevato mentre la penetrava. Aveva lavorato molto con i pesi ed era in grado di mantenere quella posizione per tutto il tempo necessario.

La notte prima era iniziata bene. Lei lo aveva fissato con gli occhi spalancati, dicendo le cose giuste, proprio quelle che accendevano la fantasia di Andy. Gli aveva detto che ce l’aveva troppo grosso, che le avrebbe fatto male. Lui aveva gettato indietro la testa e aveva spinto forte…

Poi lei aveva rovinato tutto. Aveva cominciato a gemere, ad afferrargli le spalle, dicendo che le piaceva così. E alla fine, ansimando, gli aveva sussurrato che voleva che le facesse male.

In pochi secondi Andy si era ammosciato, si era voltato su un fianco e la donna aveva fatto lo stesso dall’altra parte del letto, con un sospiro.

Un collega lo salutò passando accanto alla scrivania. Andy gli rivolse un sorriso e continuò a battere sui tasti, ricordando la sensazione calda della propria mano sui genitali e il fruscio del corpo di lei che si allontanava dal suo…

Carol, in attesa al telefono, ascoltava Celine Dion e si sentiva invecchiare rapidamente.

Momenti come quello, i minuti vuoti che riempivano tanto tempo di ogni caso, le ricordavano che aveva fatto benissimo ad accettare quel lavoro solo a patto di poterlo svolgere da casa. Di certo per l’Unità Riesame Casi Insoluti non era previsto l’uso delle nuove tecnologie e probabilmente Carol avrebbe dovuto ritenersi fortunata se le avessero assegnato un armadietto.

Jack le aveva allestito una postazione di lavoro in una stanza che usavano come ripostiglio. Avevano installato nuovi programmi nel vecchio computer della figlia e investito venti sterline nell’acquisto di un secondo ricevitore per il cordless.

Il suo schedario consisteva in una serie di Post-it gialli appiccicati sopra una foto incorniciata; Jack le preparava il caffè e, quando Carol alzava lo sguardo verso lo specchio davanti alla scrivania, vi vedeva riflesse cappelliere impolverate, vecchie lampade e una collezione di cani di porcellana che un paio di anni prima le era sembrata un buon acquisto.

Lo spazio era poco, ma a lei piaceva lavorare circondata dalle sue cose.

Il giorno in cui aveva preso possesso di quel suo nuovo ufficio, lei e Jack si erano guardati nello specchio, poi lei si era seduta alla scrivania, sorridendo al riflesso della sua faccia da pensionata.

«Così non ti prenderai troppo sul serio» aveva detto Jack.

La canzone di Celine Dion si interruppe di colpo. «Pronto?» disse una voce maschile.

«Vorrei parlare con Paul Baxter, per favore.»

«Ha sbagliato reparto. Questa è l’amministrazione. Aspetti che trasferisco la chiamata…»

Dieci secondi di rumori vari, poi di nuovo la voce che le aveva risposto all’inizio.

«Paul Baxter, per favore».

«È di nuovo lei? Mi dispiace, la telefonata è tornata al centralino. Attenda in linea…»

Verso mezzogiorno, il sole che entrava dai vetri sporchi aveva trasformato la sala di pronto intervento in una sauna. Yvonne Kitson non aveva bisogno di ridarsi il rossetto sulle labbra, ma lo fece ugualmente. Qualunque pretesto era buono per passare qualche minuto nella frescura del bagno.

Di solito non si truccava molto. In quel lavoro la gente era pronta a giudicare, formandosi opinioni che una volta diffuse diventavano irremovibili. Yvonne sapeva bene che cosa i colleghi pensavano di lei. Sapeva ciò che pensavano quelli come Tom Thorne e quanto fossero lontani dalla verità.

Il tipo di trucco che una donna usava mandava dei segnali, caratterizzandola in un modo oppure in un altro. Nascondendo, mentendo… Non a caso si chiamava “trucco”…

Yvonne fissò la propria immagine nello specchio crepato, spostando il viso di pochi centimetri finché la crepa lo divise esattamente a metà. Era proprio così che si sentiva.

Carol decise che avrebbe atteso un altro minuto e basta. Cominciò mentalmente il conto alla rovescia. Altri cinquantacinque secondi, poi avrebbe sbattuto giù il telefono e sarebbe andata a preparare un tè e a maltrattare un po’ Jack. Anzi, no, avrebbe chiamato McKee e avrebbe maltrattato lui…

Cominciò a dire parolacce sottovoce. «Merda, merda, merda…»

Sarebbe ritornata al giardinaggio, alla tivù pomeridiana e al «Reader’s Digest»…

«Ufficio di Paul Baxter…»

Carol per poco non lanciò un urlo di trionfo. «Grazie a Dio. C’è il signor Baxter?»

«C’era fino a un minuto fa» disse la donna, esitando. «Forse è andato a mangiare. Attenda in linea, provo a cercarlo.»

Il ricevitore dall’altra parte venne appoggiato con un rumore sordo. Trenta secondi dopo Carol udì voci, risate soffocate che divennero più distinte per un attimo, poi qualcuno sollevò il ricevitore e chiuse bruscamente la comunicazione.

Carol fece un respiro profondo e compose di nuovo il numero, premendo i tasti come se ciascuno di essi fosse l’occhio di un impiegato della Bowyer-Shotton.

«Qui la Bowyer-Shotton. Può attendere un attimo in linea, per fav…»

«No!» urlò Carol.

Era troppo tardi.

Dave Holland era quasi di buonumore, prima che quella stupida cominciasse a farlo innervosire.

«Ascolta, non è necessario scendere nei particolari, no?»

«Dipende» rispose Holland. «Se non collabori, ti porto in centrale e ti faccio il terzo grado.»

«Ho lavorato come modella in quello studio, okay?»

«Certo. Cos’era, la collezione autunno/inverno del catalogo Debenham?»

«Mi hai chiesto qual era il mio collegamento con Charlie Dodd e io te lo sto dicendo. Ho fatto qualche film con lui. Adesso sei contento?»

«Ne hai mai parlato con qualcuno?» chiese Holland. «Hai mai passato ad altri il nome di Dodd, o l’indirizzo dello studio?»

Ci fu una risata amara all’altro capo del filo. «Come no, ero così orgogliosa del mio lavoro che avevo voglia di parlarne a tutti.»

Holland riattaccò e cancellò un altro nome dalla lista.

Charlie Dodd conosceva una quantità di gente. Avevano controllato tutti i numeri trovati sull’elenco delle chiamate fornito dalla compagnia telefonica e tutte le persone a essi corrispondenti sembravano avere avuto con lui rapporti d’affari o di amicizia. Fotografi, tecnici di laboratorio di stampa, fornitori vari, società di produzione video, prostitute. Ciascuno di loro aveva fornito altri nomi e ciò aveva generato una lista sempre più lunga.

Holland soffocò uno sbadiglio. Alla fine, l’unico risultato era proprio quella lista di contatti, che magari sarebbe stata utile alla buoncostume, ma che di sicuro non serviva per trovare l’assassino. Perché, contrariamente a quanto Thorne credeva, Dodd aveva scoperto che la pubblicità aveva la sua importanza. Uno dei primi numeri della lista era quello di una rivista sadomaso. Il direttore si era molto rattristato alla notizia che un buon cliente come Dodd non avrebbe mai più inserito annunci a pagamento per pubblicizzare la sua attività.

Holland sollevò in alto le braccia e si stirò. Stava sprecando tempo. Anche la sera prima, a casa, si era dedicato a fare telefonate che avrebbero potuto aspettare, a cancellare nomi da quella lista. Una scusa, un pretesto per starsene da solo…

Sophie a un certo punto era entrata, tenendosi la pancia con una mano, e gli aveva messo davanti una tazza di tè. Era rimasta a guardare le carte sparse sul tavolo, con la mano appoggiata sulla testa di Holland.

«Il piccolo mi ha preso a calci per tutto il giorno» aveva detto, ridendo piano.

Quando Holland aveva finalmente alzato lo sguardo, mezzo minuto dopo, lei era in piedi sulla soglia. Lui aveva sollevato la tazza, ringraziandola con un sorriso.

«Tu credi che io voglia costringerti a scegliere» aveva detto Sophie. «Ma non è così. E vero, a volte odio il tuo lavoro, e mi fa incazzare il tuo capo e il fatto che tu baci la terra sotto i suoi piedi. Questo lo sai già. E sarei felice se ogni tanto ti prendessi qualche giorno di vacanza. Ma non voglio affatto chiederti di scegliere tra la famiglia e il lavoro, Dave.» Si era voltata un attimo a fissare fuori dalla finestra, poi aveva aggiunto: «Avrei troppa paura di chiedertelo».

Per alcuni secondi si era udito solo il rumore del traffico su Old Kent Road. Holland aveva sollevato il ricevitore del telefono e aveva preso in mano la penna. «Possiamo parlarne dopo?» aveva chiesto, abbassando lo sguardo su quell’inutile lista di nomi. «Si tratta di una cosa importante.»

Thorne osservava la sua squadra che fingeva di essere operativa. Holland, Stone, Kitson… E decine di altri agenti e civili. Parlavano, scrivevano, pensavano, ma la carica si stava esaurendo. Come se il caldo avesse ispessito l’aria, rendendo difficile qualunque movimento.

Rimase a osservare tutti dalla porta della sala di pronto intervento, pensando a un corpo che scalciava disperato prima di morire.

Era sempre così. Subito dopo il ritrovamento di un cadavere l’attività era frenetica. La squadra sapeva che le ore e i giorni successivi rappresentavano la migliore opportunità di scoprire qualcosa. Dopo Dodd, si erano mossi vorticosamente: avevano controllato liste di nomi, rintracciato persone, raccolto deposizioni, in attesa che succedesse qualcosa. Qualunque cosa.

Poi, a poco a poco, tutto aveva iniziato a calmarsi, come i movimenti della vittima a mano a mano che si avvicinava la morte. La frenesia si era trasformata in passività. Le scintille di speranza si erano affievolite, e il corpo dell’indagine aveva cominciato a irrigidirsi.

C’era bisogno di qualcosa, di una scossa, per infondere nuova linfa al caso e a coloro che ci lavoravano. Una forza esterna, come il passaggio del treno che aveva fatto oscillare il cadavere di Dodd. E Thorne non aveva idea di cosa potesse essere quella forza, o da dove sarebbe venuta.

«Paul Baxter…»

«Parlo proprio con Paul Baxter?»

«Sì, e io con chi parlo?»

Carol sentì che la tensione del collo cominciava a sciogliersi. «Mi chiamo Carol Chamberlain, Unità Riesame Casi Insoluti della Polizia Metropolitana. Non ha idea di quanto mi sia costato rintracciarla, signor Baxter.»

«Rintracciare me?»

«Lei e la sua azienda.»

«Ma siamo sull’elenco del telefono…»

«Già, solo che io cercavo una ditta di nome Baxters.»

Ci fu una pausa, durante la quale Carol udì Baxter bere un sorso di qualcosa e mandarlo giù. «Accidenti, stiamo parlando di molto tempo fa. Era la ditta di mio padre che la Bowyer-Shotton si è comprata nell’82, se non sbaglio. Una clausola del contratto prevedeva che io restassi come direttore delle vendite ed eccomi qui.»

«Capisco…»

«Allora, cosa posso fare per lei?» Paul Baxter rise. Aveva una voce sexy, dai toni bassi. Una voce da deejay. «La polizia ha bisogno di una nuova carta intestata?»

«Ricorda un impiegato di nome Alan Franklin? Credo che si sia licenziato nel…»

«Certo che lo ricordo» la interruppe Baxter. «Stavo aiutando mio padre nel magazzino, quando accadde. Eravamo sotto Natale, se non sbaglio.»

«Quando accadde che cosa?»

Carol percepì confusione, perfino sospetto, nella risposta di Baxter. «Ecco, ciò che accadde davvero suppongo che non lo sapremo mai, ma ricordo il verdetto del tribunale, naturalmente, e tutto ciò che seguì. Una cosa orribile.»

Carol si rese conto all’improvviso di essersi alzata in piedi. Nello specchio vide il volto di una donna che per la prima volta in tre lunghi anni sentiva il formicolio. Lo sentiva nel petto, come il principio di un infarto. Nella testa, come un vortice che risucchiava il respiro. Nel sangue e nelle ossa, come una luce.

Come una forza vitale.

«Pronto…?»

Sentì la voce di Baxter provenire da lontano. Si sedette di nuovo e aspettò un attimo prima di rispondere.

«Bene, signor Baxter, quando posso venire a trovarla?»

Facilissimo.

Il suggerimento era arrivato dallo stesso Southern. Incredibile, davvero.

Un invito nell’appartamento di Southern a Leytonstone era stato cortesemente rifiutato.

Lui aveva già deciso di proseguire con gli hotel. Southern si era entusiasmato all’idea. C’era qualcosa di eccitante nel fatto di darsi appuntamento in un hotel. Era così per entrambi, con la differenza che lui sapeva esattamente quanto lo sarebbe stato…

Gli hotel che aveva scelto nelle occasioni precedenti erano in accordo con l’atmosfera dell’evento e con il carattere dell’individuo prescelto.

Gli piaceva curare quei dettagli, senza trascurare la sicurezza, naturalmente.

Remfry, se ne avesse avuto la possibilità, lo avrebbe fatto in un vicolo, sopra un bidone arrugginito. E quell’hotel di Paddington aveva proprio il genere di squallore che lo eccitava.

Welch, invece, aveva bisogno di un posto più carino. Era un uomo con aspirazioni al di sopra del suo status. E il Greenwood era quel che faceva per lui.

Il posto che aveva scelto per Southern era ideale. Un piccolo hotel di campagna a Roehampton, con vista sui boschi.

Era sicuro che sarebbe andato tutto liscio come l’olio. Howard Southern amava la campagna. Non aveva picchiato e violentato brutalmente la sua prima vittima proprio su un sentiero fuori mano nella foresta di Epping?

Facilissimo.

CAPITOLO 16

Due B e una C. Due B e una C.

Erano i risultati che voleva vedere, quando avrebbe aperto la busta alla fine di agosto. L’offerta dall’università che aveva scelto. E i voti necessari per essere ammessa al corso di arte drammatica a Manchester. Due B e una C. Dal giorno dell’esame in poi, quello era diventato il mantra di Fiona Meek.

La maggior parte dei suoi amici stava ancora festeggiando la fine degli esami. Un paio di quelli con i genitori ricchi erano in viaggio, mentre i meno abbienti si dedicavano al riposo e alle sbronze. Solo lei e pochi altri avevano deciso di trovarsi un impiego estivo per mettere da parte qualche soldo. Fiona sapeva che a volte si comportava un po’ troppo da ragazza modello, ma non le importava che i suoi amici la prendessero in giro. Avrebbero smesso di farlo, quando il denaro delle loro borse di studio sarebbe finito a metà del primo semestre.

Inoltre, il lavoro che aveva trovato era perfetto. Un amico di suo padre ci aveva messo una buona parola e lei era stata assunta in quell’hotel. I due turni che le avevano assegnato erano ideali. Il primo cominciava alle sette e finiva alle dieci del mattino e il secondo partiva dalle cinque del pomeriggio. Così lei aveva buona parte della giornata per sé.

Fiona fece un cenno di saluto a un’altra cameriera, che usciva da una stanza con le braccia cariche di asciugamani sporchi. Lasciò il carrello in corridoio e cominciò a riempire un piccolo cestino di shampoo e saponette. L’odore le era familiare, perché ormai a casa ne aveva una montagna.

Il primo turno era il più duro. Fiona era rimasta impressionata dal livello di sporcizia e sciatteria che alcune persone riuscivano a raggiungere quando non erano a casa loro.

Non le era ancora capitato nulla di realmente schifoso, tipo preservativi usati o simili, ma a volte quelle stanze le sembravano tane di animali. E le facevano impressione anche le camere in cui sembrava che non avesse dormito nessuno. Asciugamani piegati, letti rifatti. Tipico di chi puliva la casa prima dell’arrivo della donna di servizio.

Mentre sostituiva le saponette, reintegrava le scorte di bustine di tè e di caffè e faceva i letti, Fiona si divertiva a cercare di entrare nella testa dei clienti. Ricostruiva la loro vita dalla marca delle scarpe, dagli odori del bagno e dai romanzi lasciati sul comodino.

Era tutta esperienza interessante, per una futura attrice. Sempre se avesse avuto la possibilità di diventarlo. Due B e una C. Due B e una C…

Fiona inserì la chiave magnetica nella fessura e aprì la porta di una stanza.

Gli omicidi che restavano insoluti erano moltissimi, ma pensando alla quantità di furti con scasso i cui colpevoli non venivano mai scoperti, Thorne decise che quelli come lui facevano un ottimo lavoro.

«Porca puttana, sono passate quasi tre settimane» disse. «Sicuramente conoscete tutti i delinquenti della zona…»

All’altro capo del filo, il sergente capo Chris Barratt, di Kentish Town, rise di gusto. «Tu non sei un privato cittadino, Tom» disse. «Sai come funziona. A quest’ora, di sabato mattina, puoi dirti già fortunato se trovi qualcuno che risponde al telefono.»

Thorne sapeva quanto fosse difficile la situazione in molte zone. In quel periodo tutta l’attenzione della polizia era concentrata, giustamente, sulla criminalità di strada, quindi moltissimi agenti non avevano più il tempo di occuparsi di bazzecole come il furto con scasso negli appartamenti. E sapeva anche che, proprio perché lui era un collega, i ragazzi di Kentish Town stavano dedicando al suo caso il doppio del tempo e degli sforzi che riservavano di solito a quel tipo di problemi. Ma il doppio di niente era sempre niente.

«Sono passate tre settimane, Chris…»

«Ti abbiamo ritrovato la macchina.»

«E dalla macchina non siete risaliti a nessuno…»

«Era bruciata.»

«Soltanto dentro.»

La Mondeo era stata trovata in un campo dietro la stazione di Euston. L’interno era stato bruciato, le ruote rubate e sul tettuccio qualcuno aveva scritto con la vernice spray “Poliziotti mezze seghe”. Motivo di ilarità per la sala di pronto intervento di Becke House.

«E che mi dici dei ricettatori locali? Quei bastardi dovranno pur aver cercato di vendere il mio stereo…»

«Ma davvero? Non ci avevamo pensato.»

Thorne sospirò. Si tolse di bocca la gomma che stava masticando e la gettò fuori dalla finestra aperta. «Scusami, Chris. Avvertimi, se vieni a sapere qualcosa. Qualunque cosa.»

«Hai risolto tutto con l’assicurazione?» gli chiese Barratt.

«Sì, tutto a posto.» Stava ancora aspettando i soldi per l’auto, ma sarebbero arrivati presto e…

«Allora perché ti brucia tanto?»

Un sabato afoso, il sudore che colava goccia a goccia, una settimana di merda da cui Thorne desiderava solo uscire.

«Mi brucia e basta» rispose. «E dovrebbe bruciare anche a voi. E quando finalmente prenderete quel figlio di puttana che ha usato il mio letto come un cesso, a lui brucerà molto di più.»

Un cliente in giacca e cravatta si avviò in fretta verso l’ascensore. Fiona gli augurò il buongiorno e si appoggiò una mano guantata sulla bocca per soffocare uno sbadiglio. Spinse il carrello verso la stanza successiva, pensando a ciò che avrebbe fatto dopo.

Il turno del tardo pomeriggio era noioso, ma c’era la possibilità di flirtare un po’ con un cameriere che le piaceva, mentre puliva i tavoli del bar, oppure di spettegolare con le ragazze della reception, mentre passava l’aspirapolvere. A volte riusciva a terminare le sue mansioni prima del tempo e trascorreva il resto del turno nascosta in un angolo tranquillo, a leggere un libro.

Se quella sera non fosse stata troppo stanca, magari avrebbe fatto un salto al pub, per un paio di birre con gli amici. Forse poteva perfino riuscire a tagliare la corda qualche minuto prima della fine del turno…

La sera precedente non era stato possibile. C’era in giro un’epidemia di influenza e l’hotel era a corto di personale. Fiona aveva dovuto pulire da sola tutta la hall e, prima di riuscire a defilarsi, era stata trascinata in sala conferenze, dove aveva dato una mano a preparare il tavolo per la colazione di lavoro del giorno dopo.

Aveva spinto il carrello carico di posate e tovaglie nell’ascensore e aveva premuto il bottone per l’ultimo piano. Proprio mentre le porte si stavano chiudendo, era entrata una coppia. Lei era abbastanza carina, in gonna elegante e camicetta di seta. Lui era molto attraente e vestiva casual.

La donna era scesa al primo piano. Non erano una coppia, quindi. Appena l’ascensore era ripartito l’uomo si era voltato verso di lei, sorridendo. Sentendosi arrossire, Fiona aveva abbassato gli occhi e si era messa a contare forchette e coltelli.

Quando erano arrivati all’ultimo piano, lei aveva spinto fuori il carrello, avanzando di un paio di metri lungo il corridoio, poi si era voltata a guardare quell’uomo, un po’ stupita che non fosse uscito dall’ascensore anche lui.

Mentre le porte cominciavano a chiudersi, l’uomo aveva notato il suo sguardo e aveva scosso la testa. «Che stupido, ho sbagliato piano!»

C’erano momenti in cui le indagini sembravano avvolte nell’oscurità, come se la luce, indipendentemente dall’ora e dalla stagione, si fosse ritirata dalle stanze in cui si lavorava a un determinato caso. E coloro che procedevano a tentoni nel buio avevano sempre la sensazione irritante che sarebbe bastato puntare una torcia elettrica nella direzione giusta per vedere un particolare importante. Ma nessuno sapeva quale fosse la direzione giusta.

La giornata era partita al rallentatore, ma Brigstocke sembrava deciso a non usare la frusta. Per Thorne andava benissimo. Sentiva che altri dieci minuti di chiacchiere, prima di mettersi al lavoro, avrebbero fatto bene a tutti.

Erano seduti sopra e intorno a tre scrivanie, nella sala di pronto intervento, intenti a sorseggiare tè e caffè, a fissare nel vuoto e a sfogliare riviste e giornali.

«Qualcuno ha passato una serata decente, ieri?» chiese Thorne. Tutti bofonchiarono, nessuno rispose. Lui rise. «Cazzo, che squadra di festaioli!» Si voltò a guardare Stone. «Dài, Andy, tu sei giovane e single…»

Stone alzò lo sguardo solo per un secondo. «Ero troppo stanco.»

Holland rise. «Non mi dire.»

«Avrai poco da ridere, dopo la nascita del bambino» osservò Brigstocke.

«Già» convenne Yvonne Kitson, dirigendosi verso il distributore dell’acqua da poco installato. «Dovresti approfittare delle tue ultime serate libere, Dave. Presto i venerdì sera con gli amici saranno solo un ricordo…»

Holland grugnì e tornò a concentrarsi sulla pagina sportiva del «Daily Mirror». Thorne allungò il collo per leggere il titolo. Sembrava che gli Spur fossero sul punto di ingaggiare un famoso centravano, italiano.

«E che mi dite del resto del fine settimana?» chiese Thorne, senza rivolgersi a nessuno in particolare. «Qualche progetto?»

La risposta non fu molto più entusiastica della precedente. Thorne cominciava a pensare che la propria scarsa vita sociale fosse alquanto movimentata, rispetto a quella dei colleghi. E, del resto, ultimamente era migliorata parecchio.

«Le domeniche della famiglia Brigstocke sono sacre e immutabili» dichiarò l’ispettore capo, prendendo la cartella e avviandosi in direzione del suo ufficio. «Passeggiata con il cane e bucato, poi il massacro del pranzo con i parenti. Ah, un giro al centro per il giardinaggio, e magari una cena fuori, se la giornata è particolarmente fortunata…»

Thorne rise e si guardò in giro per condividere con gli altri quel momento di buonumore. Qualcosa in ciò che aveva detto Brigstocke gli fece venire in mente la sua telefonata a Yvonne. «Hai ricevuto il mio messaggio, domenica scorsa?» le chiese.

Lei si stava già allontanando, con in mano un bicchiere pieno di acqua fredda. Si voltò e lo fissò con uno sguardo vuoto.

«Ti ho telefonato. In tarda mattinata, mi pare.»

Yvonne vuotò il bicchiere e lo gettò in un cestino. «Per qualche motivo in particolare?»

«Be’, se ce n’era uno non me lo ricordo» rispose Thorne. Lei continuò a fissarlo, impassibile. «Non ho ricevuto il messaggio.»

Thorne si strinse nelle spalle. «Non importa.» Accennò con il mento verso il posto in cui fino a un minuto prima era seduto Brigstocke. «Credevo che fosse un buon momento per chiamare. Immaginavo che anche le tue domeniche si svolgessero secondo un copione familiare fisso.»

Yvonne raccolse la rivista che prima aveva sfogliato, la infilò nella borsa e fece un passo verso il bagno. Poi si voltò verso Thorne come se si fosse appena ricordata di qualcosa. «Ero in palestra.»

La sala di pronto intervento cominciava a riempirsi di rumore e movimento. Holland colse le ultime parole di Yvonne Kitson e disse: «Allora dovresti frequentare Stone. Lui è un fanatico di pesi e quant’altro. Sembra mingherlino, ma a torso nudo ha tutt’altro aspetto».

Yvonne guardò Thorne e inarcò le sopracciglia. La sua espressione, adesso, era rilassata e cordiale. «Vacci piano, cucciolo» consigliò poi a Holland in tono amichevole.

Thorne si allontanò, proprio mentre Holland stava per dire qualcosa. Sapeva che a fine giornata il caldo e la frustrazione lo avrebbero lasciato teso come una corda di violino.

Voleva entrare nel suo ufficio, chiamare Eve e organizzare qualcosa che lo aiutasse a liberarsi almeno in parte di quella tensione.

«Cristo, hai una voce ancora più esausta della mia.»

«Il sabato è il giorno più faticoso, te l’ho detto.»

«La mamma di Keith è ancora malata?»

«Come, scusa?»

«Keith non è lì ad aiutarti?»

«Ah, no, non c’è.»

Yvonne Kitson entrò in ufficio e Thorne alzò lo sguardo. Dall’espressione della collega capì che lei sapeva benissimo con chi era al telefono. Thorne abbassò la voce.

«Ti andrebbe un cinema, stasera?»

«Sì, perché no? In casa devo avere una copia di “Time Out”. Più tardi guardo che cosa danno…»

All’improvviso, senza una ragione precisa, nella testa di Thorne irruppe il caso cui stava lavorando. Il pensiero indefinito cui non riusciva a dare forma.

Qualcosa che aveva letto e qualcosa che non aveva letto…

«Tom?»

Al suono della voce di Eve, quel pensiero fantasma svanì all’improvviso.

«Si, perfetto. E forse domani potremmo fare un po’ di shopping insieme.»

Un silenzio, poi: «C’è qualche posto in particolare dove vorresti andare?».

Thorne abbassò ancora di più la voce e mise una mano a coppa intorno al microfono. «In un negozio di letti…»

Eve rise e, quando parlò di nuovo, anche lei sussurrava.

Dal rumore in sottofondo, Thorne dedusse che il negozio fosse pieno di gente. «Grazie a Dio ti sei deciso» disse.

«Sono contento che tu sia contenta.»

«Be’, era ora. Mi ero ripromessa di non tornare più sull’argomento. Non volevo darti l’impressione di essere disperata.»

Thorne gettò un’occhiata a Yvonne, china su un fascio di carte. «Senti, stamattina mi sono guardato attentamente allo specchio. E direi che per me la parola “disperato” è perfetta.»

Fiona aveva quasi finito. Le restavano solo un paio di stanze.

Di solito le cameriere dell’hotel seguivano uno schema prestabilito per quanto riguardava i piani e i corridoi, ma l’ordine secondo cui venivano riordinate le singole stanze variava di giorno in giorno. Quelle con il cartello “Non disturbare” appeso alla maniglia venivano, ovviamente, pulite per ultime e alcune slittavano addirittura al turno successivo.

In fondo al corridoio del primo piano c’erano ancora due stanze da fare. Fiona guardò l’orologio. Erano le dieci meno venti.

Prese un secchio pieno di spugne, spray e flaconi, spingendo con il piede l’aspirapolvere verso la porta della stanza. Bussò e contò mentalmente fino a cinque, pensando alle uova con pancetta e al letto che l’attendevano a casa. Succedeva la stessa cosa ogni mattina. Verso quell’ora, lei cominciava a pensare alle gioie di una ricca colazione casalinga e di qualche piacevole ora di sonno.

Erano le dieci meno venti. Con un po’ di fortuna, sarebbe riuscita a riordinare entrambe le stanze prima della fine del turno. Naturalmente molto dipendeva dallo stato in cui le avrebbe trovate.

Prese il passe-partout magnetico e l’avvicinò alla fessura della porta. Nella mente le riecheggiava il ritornello della canzone con cui la radio l’aveva svegliata quella mattina. Era una canzone vecchio stile — solo una voce e una chitarra — e la melodia le era rimasta in testa.

Quando la chiave magnetica entrò nella fessura, si accese la luce verde sotto la maniglia. Fiona spinse la porta e con la coda dell’occhio vide qualcuno che avanzava lungo il corridoio. Le sembrò che fosse una delle responsabili del piano, ma non avrebbe potuto dirlo con certezza, perché la testa della donna era nascosta dietro un’enorme composizione di gigli. Fiona spinse avanti l’aspirapolvere, in modo da impedire alla porta di richiudersi, si voltò verso il carrello per prendere le altre cose di cui aveva bisogno, quindi entrò…

Due mesi dopo, il suo sogno di vedersi offrire un posto al corso di arte drammatica di Manchester divenne realtà, ma Fiona lo rifiutò. Aveva avuto le sue due B e una C, ma ormai non le importava più. Sua madre aveva aperto la busta e aveva cercato di manifestare entusiasmo nel leggere i risultati dell’esame, ma Fiona non l’aveva neppure sentita. L’urlo che aveva lanciato otto settimane prima le rimbombava ancora nella testa, sovrastando tutto il resto.

L’urlo e il ricordo di ciò che aveva visto entrando in quella stanza. Macchie che non sarebbe mai riuscita a pulire con nessuno dei detersivi che portava nel secchio e che aveva lasciato cadere rumorosamente a terra.

Erano passate da poco le dieci e Thorne si stava già chiedendo quale sarebbe stato il piatto del giorno al Royal Oak, quando una donna di mezza età si presentò nel suo ufficio.

«Sto cercando l’agente Holland» disse. Era entrata senza bussare, perciò Thorne si sentì subito maldisposto verso di lei, ma fece uno sforzo per mostrarsi gentile. La donna era bassa e rotondetta, più vicina ai sessant’anni che ai cinquanta. Gli ricordava vagamente sua zia Eileen, e all’improvviso capì chi poteva essere.

«Lei è la mamma di…?»

«Niente affatto» lo interruppe la donna, trascinando una sedia davanti alla scrivania di Thorne e mettendosi a sedere. «Mi chiamo Carol Chamberlain. Ex ispettore capo Chamberlain, dell’Unità Riesame Casi Insoluti.»

Thorne si munì di carta e penna, preparandosi a prendere nota. “Mi mancava solo la Squadra dei Ripescati, stamattina” pensò. Si allungò verso la donna sopra la scrivania e le tese la mano. «Ispettore Thorne.»

Carol Chamberlain lo ignorò e si mise, invece, a frugare nella sua borsa. «Perfetto, lei fa al caso mio. Avevo chiesto di Holland solo perché ho trovato il suo nome su questo.» Ed esibì un fascicolo dalla copertina verde consunta e piena di Post-it gialli.

Lo appoggiò sulla scrivania. Thorne alzò entrambe le mani e cercò di assumere il tono più gentile possibile. «Senta, non potremmo parlarne un’altra volta? Siamo immersi fino al collo in un caso piuttosto importante, e…»

«So perfettamente di quale caso si tratta» lo interruppe Carol. «Per questo è importante che ne parliamo ora.»

Thorne la fissò. Nella voce di quella donna c’era una nota dura che denotava un temperamento poco incline al compromesso. Con un sospiro, prese il fascicolo e cominciò a sfogliarlo.

«Cinque settimane fa, l’agente Holland ha esaminato il dossier di un delitto avvenuto nel 1996 e rimasto insoluto.» Nella sua voce c’erano quella ricercatezza e quel distacco acquisiti con il grado gerarchico e Thorne vi colse anche una traccia di accento dello Yorkshire. «Il nome della vittima era Alan Franklin. Strangolato in un parcheggio con una corda da bucato.»

«Ricordo quel caso. Ne abbiamo esaminati vari simili e poi li abbiamo lasciati perdere, perché nulla suggeriva…»

Carol Chamberlain annuì. «Infatti si tratta di un caso “freddo”. Il primo che mi è stato affidato.»

«Ho letto di questa iniziativa e la trovo ottima.»

«Ho riesaminato il caso Franklin.»

«Ebbene…?» disse Thorne. Notò una vaga traccia di piacere nella donna. Un accenno di sorriso che durò meno di mezzo secondo, ma fu sufficiente a provocargli quel formicolio che, come sempre, cominciava dalla nuca…

«Alan Franklin era un nome che avrebbe dovuto risultare familiare a chi di noi ha indagato sulla sua morte nel 1996. Il suo nome sarebbe dovuto emergere subito, al primo controllo di routine.»

Thorne sapeva che non c’era bisogno di chiedere spiegazioni, in quanto lei gliele avrebbe fornite spontaneamente di lì a poco. Si dispose, dunque, all’ascolto, sentendo il formicolio che aumentava e si estendeva a tutto il corpo.

«Nel maggio del 1976, Alan Franklin era stato processato dal tribunale di Colchester e assolto. L’accusa era di violenza carnale.»

Thorne lasciò andare lentamente il fiato. «Gesù…»

“Come un raggio di luce nella direzione giusta…”

In seguito, quando Thorne e la donna che in un primo momento aveva scambiato per la madre di Holland impararono a conoscersi meglio e ad apprezzarsi a vicenda, Carol Chamberlain gli confessò che quello era stato uno dei momenti che più le erano mancati, nei suoi anni da pensionata. Il momento in cui, fissando Thorne, prima di rivelargli il particolare più importante di tutti, aveva dovuto fare uno sforzo enorme per non sorridere.

«Alan Franklin era accusato di aver violentato una donna di nome Jane Foley.»