175195.fb2 Quando il ghiaccio si scioglie - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 2

Quando il ghiaccio si scioglie - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 2

Parte Prima

1

Non puoi mai sapere quando il mondo sta per crollarti addosso e per stravolgerti la vita, che da serena e prevedibile di colpo si trasforma in un brutto sogno in cui ti sembra di correre al rallentatore senza avanzare di un solo passo. Ti sforzi di svegliarti e di tornare alla realtà, ma la realtà è un incubo.

All’epoca dei fatti che sto per raccontare ero ormai vicino ai cinquant’anni. Mi sentivo all’apice dell’esistenza. Ero soddisfatto, sicuro di me, saldamente ancorato alle mie abitudini. Avevo trovato l’amore, anche se in ritardo, e avevo una figlia meravigliosa.

Tutto cominciò con un bip del cellulare.

Stavo sdraiato a pancia in giù sulle rocce bollenti, la testa protetta da un cappello bianco. Attraverso la T-shirt chiara e i blue-jeans, il sole della Costa Brava mi scottava la pelle. Sotto di me, la caletta era deserta, accessibile solo dal mare. Manteneva le promesse dei depliant turistici: alcuni chilometri a sud del confine franco-spagnolo, un angolo appartato, incantevole e incontaminato, lontano anni luce dal vivace turbinio dell’affollatissima riviera balneare. Il mare si stendeva turchino e abbacinante come in una cartolina ritoccata al computer. Qualche barca a vela avanzava nella brezza e due costosi motoscafi tracciavano scie bianche nell’acqua. Uno correva veloce parallelo alla riva, l’altro cambiò bruscamente rotta e rallentò puntando verso la caletta. Era un grosso, scintillante venti piedi bianco dalla linea affusolata. Sul ponte era sdraiata una ragazza completamente nuda, eccetto che per un paio di occhiali da sole Ray-Ban.

Il ministro era al timone, a torso nudo, con disinvoltura dirigeva la barca verso la spiaggetta. Evidentemente conosceva bene quel tratto di mare.

Da vent’anni facevo il paparazzo, vivevo dell’insaziabile curiosità della gente per la vita dei ricchi e famosi. Per le loro debolezze, le disgrazie, gli scandali e gli errori. E non mi spiegavo il fatto che tanti personaggi importanti fossero disposti a giocarsi carriera, matrimonio e reputazione in cambio di un po’ di sesso con la bambolina di turno. Che fossero tanto sicuri della propria invulnerabilità da rischiare tutto, pur di riaffermare la propria virilità agli occhi del mondo, trascurando il semplice fatto che ovunque c’è un segreto, c’è qualcuno disposto a venderlo.

Mi trovavo in Costa Brava in seguito a una dritta ricevuta alcune settimane prima. Negli anni mi ero costruito una efficientissima rete di informatori in grado di tenermi aggiornato sugli spostamenti dei vip del pianeta. Avevo trascorso gli ultimi quindici giorni impegnato in preparativi e stavo constatando con piacere che le informazioni raccolte dal mio collaboratore erano dettagliate e precise.

Il rombo del motore cessò e l’uomo si sporse per gettare l’ancora. Posizionai la macchina. Era nuova di zecca, un vero gioiello di tecnologia computerizzata. Avevo scelto un teleobbiettivo da 400 mm e vedevo chiaramente le mie due vittime inquadrate nel mirino. Lei era sulla ventina, dal volto vagamente familiare, il corpo lucido e abbronzato. Un corpo femminile perfetto, simile a quelli che si muovevano ancheggiando lungo tutta la costa, da St. Tropez fino a Marbella, attirando uomini ricchi e potenti di mezza età come la carne attira le mosche. Pigiai l’indice sudato sul pulsante e scattai una prima serie di immagini. Poi allargai l’inquadratura in modo che comprendesse sia la ragazza, sia il ministro alle sue spalle. Lui era sui cinquanta, molto abbronzato, con il viso rasato di fresco e capelli neri ancora folti. Aveva braccia e spalle robuste, ma il ventre stava cedendo a un’incipiente pancetta. Mentre osservava la donna sorrise, rivelando denti bianchissimi e regolari.

Disse qualcosa alla donna lanciandole un paio di sandali di plastica. Lei li prese al volo, se li infilò, poi si tolse gli occhiali e afferrati maschera e boccaglio si lasciò scivolare in mare. Continuai a scattare mentre il sedere meravigliosamente tondo della ragazza affiorava in superficie per poi sparire di nuovo tra i flutti con la grazia di un delfino.

L’uomo slegò un canotto dal ponte, lo calò in mare e remando raggiunse la spiaggia. Tirò il canotto in secco, prese un telo, lo stese sulla sabbia e poi ci posò sopra un cesto da picnic dal quale sporgeva il collo affusolato di una bottiglia. La donna si avvicinò a nuoto, quindi lanciò boccaglio e maschera sulla spiaggia. Chiamò il ministro per nome e lui non si fece pregare. Si tuffò e in poche, misurate bracciate le fu accanto.

Inserii un nuovo rullino e scattai un’inquadratura dopo l’altra della coppia in acqua. Giocavano come due bambini, fra gli spruzzi colorati dai raggi del sole. A un tratto registrai una sensazione pungente, fastidiosa: era la coscienza che mi rimordeva, oppure soltanto invidia? Scacciai quel pensiero e tornai a concentrarmi su diaframma, otturatore, fuoco, definizione. La ragazza gli sfilò il costume, che si allontanò galleggiando come una grossa medusa rossa. Prendendola per le spalle, lui la sollevò sopra il livello dell’acqua e le baciò i seni. Cambiai macchina e scattai una nuova serie. Lui si immerse, si infilò in mezzo alle gambe della ragazza e la proiettò in alto. Il corpo di lei ricadde all’indietro descrivendo un ampio arco di spruzzi dorati. Lei gli cinse il collo con le braccia e serrò le lunghe gambe snelle attorno ai suoi fianchi. Era un’immagine bellissima, traboccante sensualità.

Scattai un altro paio di rullini mentre la coppia tornava a riva e riprendeva ad amoreggiare sull’asciugamano. Le foto adesso erano quasi pornografiche, non più erotiche, e più difficilmente vendibili. L’esperienza mi diceva che la foto migliore, quella che con un po’ di fortuna avrebbe ingrassato le mie tasche di centomila dollari nell’arco del prossimo paio d’anni, sarebbe stata quella più sottilmente, anche se inequivocabilmente, erotica.

Dopo l’amplesso, i due si allungarono al sole con espressione beata. Erano perfettamente a loro agio nella loro nudità, vittime ignare del sofisticatissimo teleobbiettivo giapponese che catturava la loro felicità fissandola per sempre per gli occhi del mondo intero.

Il ministro si issò a sedere e cominciò a spalmare il corpo della ragazza d’olio solare. Le prese i piedi tra le mani per massaggiarglieli lentamente. Forse, nonostante i sandali, l’aculeo di un riccio si era infilato nella pelle delicata dei piedini di lei, che adesso sedeva sostenendosi con le braccia tese all’indietro, lo sguardo perso nel vuoto. Aveva un’espressione tranquilla e appagata, e sorrise maliziosa quando lui si infilò il suo alluce in bocca per succhiarlo con trasporto, come un bambino che assaggiasse una caramella particolarmente squisita.

Soddisfatto, decisi che era tempo di allontanarmi per concedere ai due un po’ di intimità. Fu allora che il cellulare trillò nella borsa posata sulle rocce accanto a me. Subito pensai che era impossibile che dalla spiaggia potessero udire quel discreto bip bip. Ma forse gli uomini potenti devono il loro successo a una sorta di sesto senso, alla straordinaria abilità di annusare il pericolo e di agire immediatamente per neutralizzarlo. Apparentemente travolto dalla passione, il ministro non aveva in realtà abbassato la guardia. Alzò la testa nello stesso istante in cui il mio telefono iniziò a squillare, e strizzando gli occhi puntò lo sguardo verso il costone roccioso su cui ero appostato. Infilai la mano nella borsa mentre anche l’uomo allungava il braccio per estrarre un cellulare dal cesto del picnic. Digitò un numero, gli occhi sempre fissi su di me. Probabilmente, mi dissi, c’erano un paio di guardie del corpo nei paraggi. Strisciando mi allontanai lungo il costone. Avevo le membra indolenzite.

«Hello?» dissi accostando l’apparecchio all’orecchio.

«Peter Lime?» Era una bella voce di donna, chiara e giovanile, priva di accento.

«Chi parla?» domandai.

«Clara Hoffmann, dei servizi segreti danesi» rispose.

«È uno scherzo?» domandai. Continuai a strisciare finché fui certo di potermi alzare senza essere visto dalla spiaggia, quindi mi avviai alla macchina a passo sostenuto.

«Ha un minuto?»

«No. Non ce l’ho.»

«È una cosa importante.»

«Non ne dubito, ma adesso non posso parlare.»

«Vorrei incontrarla.»

«Non sono a Madrid.»

Avevo parcheggiato nel punto in cui la piccola strada sterrata terminava bruscamente chiusa da due grossi massi. Il pastore che avevo visto al mio arrivo era fermo nello stesso punto, circondato dalle sue pecore e appoggiato a un bastone. Nonostante il cappello a falde larghe che gli nascondeva gran parte del volto, notai che teneva fra le labbra un mozzicone di sigaretta rollata a mano. Accovacciato ai suoi piedi c’era un grosso cane dal pelo folto e arruffato, mentre un altro pattugliava i margini del gregge.

«Dove si trova?» chiese la donna.

«Non vedo come la cosa la riguardi.»

«Si tratta di una faccenda delicata, vorrei incontrarla al più presto» ripeté.

«Mi richiami tra un paio d’ore» proposi.

«Devo vederla di persona. Le telefonerò una volta arrivata a Madrid.»

«Come le ho detto non sono a Madrid…» Esitai qualche secondo e poi aggiunsi: «Anche se rientrerò nelle prossime ore».

«Molto bene. Sono sicura che quando saprà di cosa si tratta deciderà di aiutarci» proclamò.

«L’avverto, non sento alcun debito di gratitudine nei confronti del mio paese d’origine» ribattei.

Rise. La sua risata era melodiosa quanto la sua voce.

«Sarò all’Hotel Victoria».

«A presto.» Chiusi la comunicazione. Quasi correndo proseguii verso l’auto. Era una jeep nuova fiammante, che avevo noleggiato una settimana prima. Buttai la borsa sul sedile posteriore e avviai il motore. Le pecore alzarono la testa belando quando, partendo, sollevai una nuvola di polvere probabilmente visibile dalla spiaggia. Il pastore girò lentamente la testa seguendomi con lo sguardo mentre mi allontanavo dalla costa sulla strada tutta buche, tra scossoni e sobbalzi.

Avevo stabilito il mio quartier generale nella cittadina balneare di Llanca, cinquanta chilometri più a sud. Al termine del tratto di sterrata accelerai ben oltre il limite di velocità. Il caldo faceva fumare l’asfalto. Eravamo solo agli inizi di giugno, ma la temperatura faceva presagire un’estate particolarmente torrida e secca. I primi villeggianti stavano già arrivando, e lente automobili con pesanti roulotte al traino punteggiavano le strade tortuose della costa. Guidavo come uno spagnolo. Prendevo velocità lungo le discese e frenavo bruscamente prima di un tornante, lasciando che la jeep mordesse la curva. Alla mia sinistra il mare si stendeva azzurro come il cielo, e in basso appariva di quando in quando lo scorcio di un villaggio di basse costruzioni bianche. Mi sentivo bene con il vento tra i capelli e il frutto della mia spedizione nella borsa sul sedile posteriore. Non vedevo l’ora di tornare a casa da Amelia e Maria Luisa, nella città che sentivo mia. Era in momenti come quello che mi rendevo conto di quanto la mia professione fosse importante per me. Guadagnavo più che bene, inutile negarlo, ma la verità era che senza il lavoro non avrei saputo come riempire le mie giornate.

Nonostante il mio stile di guida, impiegai un’ora e mezzo per fare cinquanta chilometri. Il traffico si intensificò man mano che mi avvicinai alla meta e due volte incappai in una coda per lavori in corso. Arrivai a Llanca che erano ormai quasi le tre del pomeriggio. Ero sudato, assetato e affamato. Le strade della città erano sprofondate nell’atmosfera sospesa e afosa della siesta. I turisti erano per lo più al mare, qualcuno fuori a passeggio, ma i residenti erano tutti a casa a pranzare o a guardare la televisione. Il mio albergo, affacciato sul lungomare, era vicino al porto e a una grande spiaggia affollata di famiglie che prendevano il sole sulla sabbia dorata o facevano il bagno. Le voci risuonavano attutite, come filtrate da morbida bambagia.

Ricordavo il tempo non troppo lontano in cui la vista di una famiglia riunita e serena mi irritava, suscitandomi una fitta d’invidia subito repressa. Ma adesso ero pronto a bearmi di quello spettacolo. Avevo anch’io una famiglia. Erano trascorsi i giorni in cui ripetevo che i lupi vivevano e cacciavano meglio in autonomia; che c’era differenza tra l’essere soli e l’essere solitari, rivendicando convinto la mia appartenenza alla seconda categoria di persone.

Parcheggiai la jeep in una stradina laterale. Prima di ritirare la chiave della stanza alla reception, passai al bar accanto all’albergo per un succo d’arancia e un’ottima tortilla di patate e cipolle che consumai in piedi al bancone. Mentre mi accendevo una sigaretta e ordinavo un caffè doppio, il barista mi rivolse un commento sulla recente sconfitta del Barcellona. Il club occupava il terzo posto nella classifica, un vero dramma per ogni catalano che si rispetti. Confessai di tifare Real Madrid, e la conversazione proseguì per qualche minuto. Intanto mi sforzavo di ritrovare la calma. Un appostamento andato a buon fine mi faceva lo stesso effetto di due ore passate alla scuola di karate di Calle Echégaray. Ero al contempo rinvigorito, su di giri ed esausto.

Una volta in camera feci una doccia e preparai i bagagli prima di telefonare a Oscar in agenzia. Le pellicole erano al sicuro nella borsa con il lucchetto, i miei vestiti in una piccola valigia che mi avrebbe consentito di evitare il check in. Ero abituato a viaggiare leggero, a fare affidamento sulle lavanderie dell’albergo.

Di solito Oscar si ripresentava al lavoro dopo la pausa pranzo alle quattro del pomeriggio e non alle cinque, come fino a qualche anno prima accadeva in gran parte degli uffici della città. Ma anche adesso che molti madrileni avevano deciso di adeguarsi a ritmi più “europei”, le prime ore del pomeriggio erano dedicate alle colazioni di lavoro, ai pranzi in famiglia o agli incontri amorosi clandestini. Per precauzione avevo in tasca il numero di telefono dell’attuale amante di Oscar, ma lo avrei usato solo in caso di necessità. A casa di Gloria, la moglie, lo si poteva trovare solo la domenica. Gloria era alta, ben fatta e ancora attraente. Gestiva un fiorente studio legale e si procacciava amanti più giovani che le confermassero la sua appetibilità. Né Gloria né Oscar si sarebbero mai sognati di divorziare. Si rispettavano e godevano della reciproca compagnia. Le loro vite private e professionali erano da troppo tempo legate a doppio filo: un eventuale divorzio avrebbe portato solo grane.

Erano entrambi miei amici e soci d’affari, e ci conoscevamo più o meno da vent’anni. Ci eravamo incontrati negli anni caotici e pieni di speranza successivi alla morte di Franco. Oscar era un giornalista tedesco che collaborava con una serie di piccole testate di sinistra. Gloria una studentessa di giurisprudenza che custodiva la tessera dell’allora illegale partito comunista come fosse uno dei gioielli scomparsi della corona dello Zar. Avevo avuto una breve relazione con lei, ma tutti sembravano andare a letto con tutte a quell’epoca, e la storia era finita rapidamente e senza rancori. L’incontro di Oscar con Gloria, invece, era stato folgorante per entrambi. Avevano perso la testa e, contro ogni previsione, non si erano più separati, scegliendo di non dare importanza alla fedeltà reciproca, almeno negli ultimi anni. Insieme eravamo stati giovani, poveri e rivoluzionari, e insieme eravamo diventati ricchi. Oscar e Gloria erano la mia seconda famiglia. Non avevano voluto figli e quando Gloria aveva scoperto di desiderarne uno, era ormai troppo tardi. Non era più riuscita a rimanere incinta, ma se la cosa rappresentò una delusione, fu abile a nasconderla. Oscar non sembrava dare gran peso alla faccenda. Se Gloria voleva un bambino, lui era più che disposto a collaborare. Dopo un paio d’anni di tentativi falliti avevano smesso di parlare dell’argomento, apparentemente a loro agio nella vita di sempre.

Chiamai il numero diretto di Oscar dal telefono dell’albergo. Rispose al primo squillo. All’inizio della nostra amicizia, Oscar e io comunicavamo solo in inglese. Anche se da tempo entrambi avevamo imparato a padroneggiare perfettamente lo spagnolo, spesso ci capitava ancora di preferire l’inglese nelle nostre conversazioni.

«Sì?» disse Oscar con la sua voce roca e profonda.

«È fatta!» esclamai.

«Ciao, old boy! Congratulazioni!»

«È un ministro conservatore.»

«Buon per te. Amelia non avrà niente da obbiettare quando lo sputtaneremo pubblicamente» rispose ironico. Oscar era molto affezionato ad Amelia, anche se non si capacitava del fatto che a differenza di lui non sentissi il bisogno di tradire mia moglie. Sosteneva che con il matrimonio mi fossi terribilmente “imborghesito”.

«Domani avrai il materiale» dissi.

«C’è bisogno di un avvocato?»

«Non vedo perché. Era suolo pubblico.»

Raramente io e Oscar parlavamo in maniera esplicita al telefono. Costretto a fare i conti con la minaccia del terrorismo, il governo spagnolo non si faceva troppi scrupoli a ficcare il naso negli affari dei suoi cittadini, e le intercettazioni telefoniche erano una pratica relativamente diffusa.

«Quando rientri?»

«Vado in macchina fino a Barcellona e da lì prendo il primo volo.»

«Okay. Signing off, old boy» la prospettiva di un bel gruzzolo dava alla sua voce un tono caldo e compiaciuto.

«Salutami Gloria» dissi.

«Non mancherò.»

Pagai l’albergo e mi avviai alla macchina. Nella destra avevo la borsa da viaggio, a tracolla quella da fotografo con dentro i negativi che avrebbero fatto affluire sul mio conto bancario tante belle migliaia di dollari.

Una Mercedes nera nuova di zecca era parcheggiata di traverso davanti alla jeep. Due uomini erano in attesa, appoggiati alla macchina. Le braccia conserte davano loro un’aria minacciosa. Il primo non mi avrebbe causato grossi problemi. Era un ometto piccolo e grassoccio con una faccia larga sotto la pelata. L’altro, invece, era sulla trentina con un paio di bicipiti ben in vista sotto la giacca e un ghigno provocatorio stampato sulla faccia. A ben guardare, però, i muscoli, dall’aspetto artificiale e “pompato”, da body builder, ne facevano un avversario meno temibile di quanto potesse sembrare a prima vista, soprattutto per un tipo ben allenato come me. Da anni praticavo il karate, avevo imparato a conoscere il mio corpo e a fidarmi della sua forza. Nonostante il caldo entrambi gli sconosciuti indossavano la giacca. Il fottuto pastore doveva aver fatto la spia. Evidentemente era in grado di leggere, se non altro un numero di targa.

«Oyes, hijo de puta» esordì il più grosso dei due. Si raddrizzò e lasciò scivolare le mani lungo i fianchi. La viuzza era deserta. Ma dalla strada principale arrivava il rumore del traffico, e sentivo il fracasso delle imposte dei negozi che riaprivano dopo la siesta.

«Figlio di puttana sarai tu.»

Fece un passo in avanti, parandosi fra me e la jeep.

«Permetti? Vorrei salire sulla mia auto» dissi con provocatoria disinvoltura.

«Avanti, dammela!» abbaiò lui indicando la mia tracolla.

«È roba mia» dissi.

«Voglio i rullini. Le macchine te le puoi tenere. Su, muoviti!»

Poggiai la borsa da viaggio sull’asfalto. Sentivo il sudore colarmi lungo la schiena e il cuore accelerare i battiti. Concentrai l’attenzione sull’uomo che mi stava davanti. Non era affatto sicuro di sé come voleva darmi a intendere. Il suo sguardo era sfuggente e la striscia di pelle sopra il labbro superiore imperlata di sudore. Spinsi la borsa a tracolla dietro la schiena e sperai che qualche passante apparisse all’imboccatura della via. Il gorilla avanzò di un passo e fece il gesto di strapparmi la borsa dalla spalla. D’impulso gli afferrai la mano, trovai il suo mignolo e lo torsi rovesciandogli il braccio all’indietro. Gli sfuggì un grido. Senza dargli tempo di riprendersi gli sferrai una potente ginocchiata all’altezza dei testicoli. Aumentai la pressione sul braccio finché sentii scricchiolare l’articolazione della spalla. Non appena allentai la stretta si accasciò ai miei piedi con un gemito strozzato.

Raccolsi la borsa da viaggio. L’uomo grassoccio che aveva assistito immobile e atterrito alla scena si scostò dalla Mercedes e alzò le mani come per proteggersi.

Caricai le borse sulla jeep e misi in moto. L’adrenalina mi faceva tremare le mani, e la camicia fradicia di sudore era incollata alla schiena. Una famiglia di turisti in fondo alla via doveva aver osservato la colluttazione. La madre si copriva il viso con le mani, il padre teneva stretti a sé i suoi due ragazzi con fare protettivo.

Ero agitato, ma mi costrinsi a guidare piano e con prudenza fino all’ufficio dell’Avis, dove cambiai la jeep con un’Audi coperta e veloce. In autostrada cominciai finalmente a calmarmi, nonostante lanciassi frequenti occhiate allo specchietto retrovisore per controllare di non essere seguito. Solo quando mi ritrovai seduto sull’aereo per Madrid sentii di essere finalmente al sicuro. Misi una cassetta dei Grateful Dead nel walkman e reclinai lo schienale del sedile. L’aereo mezzo vuoto virò lentamente dirigendosi verso l’interno, e il Mediterraneo uscì dalla mia visuale. All’apparire della hostess con il carrello delle bevande fui assalito dal familiare, intenso desiderio di un drink. Il pensiero corse ad Amelia e a Maria Luisa e ordinai una Coca, sforzandomi di pensare al fatto che di lì a poco sarei stato a casa.

2

Per fortuna non c’era alcun sconosciuto dall’aria poco rassicurante ad aspettarmi all’aeroporto di Barajas, affollatissimo come sempre. Dopo una breve attesa montai su un taxi. La città era sovrastata da una cappa violacea fatta di smog e oscurità incipiente. Madrid era la mia casa da quasi un quarto di secolo. Quando, otto anni prima, mi ero sposato, avevo deciso di non lasciarla più. Non mi sentivo più un nomade, avevo messo radici. Ero felice, al punto da temere, a volte, che tanta serenità non potesse durare a lungo.

Il centro città ci accolse con il solito traffico intenso e strombazzante. Apparentemente il tassista condivideva il mio umore silenzioso. Era un marocchino magro e asciutto, probabilmente sprovvisto di permesso di lavoro.

All’altezza dell’ufficio postale di Plaza Cibeles svoltammo in direzione di Plaza Santa Ana, ma a duecento metri dalla piazza ci ritrovammo imbottigliati in un brutto ingorgo. Decisi di pagare per proseguire a piedi su per la salita di Paseo de Prados, in mezzo ai fumi degli scarichi e ai clacson degli automobilisti esasperati. Nell’afa della sera estiva, la metropoli raccoglieva un’energia strana, inquieta e aggressiva, che vibrava nell’asfalto e rimbalzava tra le schiere di palazzi. Di notte Madrid era un animale eccitato, in preda a un movimento apparentemente senza meta.

Plaza Santa Ana era il cuore del mio barrio. Vi ero approdato da giovane, per caso, e da allora avevo cambiato diversi indirizzi senza mai allontanarmi dalla zona. Il Teatro Real sorgeva su uno dei lati corti del rettangolo della piazza, dirimpetto al grande edificio bianco dell’Hotel Victoria. Lungo i due lati più lunghi erano allineati vecchi palazzi residenziali con bar e ristoranti al piano terra.

Ogni volta che tornavo da un viaggio, mi piaceva fermarmi con le spalle rivolte al teatro e contemplare la piazza, sfogliando mentalmente l’album delle sue immagini passate, diverse fra loro solo nelle sfumature: la lunghezza dei capelli delle donne, il taglio di un vestito, la forma di un’auto, il giocattolo di un bambino. Nel complesso il quadro era rimasto lo stesso. Il rombo delle macchine e delle motociclette, il chiacchierio delle donne, gli uomini avvolti nel fumo delle sigarette con i loro discorsi di calcio e di corrida. L’odore di benzina e quello di aglio proveniente dai caffè e dai ristoranti. Tutto era come sempre. Come avrei voluto che continuasse ad essere per sempre.

Cercai con lo sguardo Amelia e Maria Luisa.

Scorsi per prima mia figlia, e una familiare sensazione di calore mi invase il corpo. Stava saltando alla corda con tutta l’accanita concentrazione dei suoi quasi sette anni. Somigliava più alla madre che a me, con quei capelli neri e la pelle olivastra, ma aveva i miei occhi azzurri e gambe e braccia lunghe come le mie. La faccia era tonda e dai tratti delicati, ma con la bocca grande facile alla risata. La corda le colpì la caviglia e bruscamente si arrestò, l’espressione delusa. Sebbene fosse impossibile, mi sembrò di distinguere la sua voce nella cacofonia di voci infantili. Maria Luisa era nata che Amelia aveva trentasei anni e i medici avevano annunciato che non avrebbe potuto avere altri bambini. Con il primo marito non ne aveva voluti. Non parlavamo molto di lui, ma mi aveva confessato di essersi pentita appena un mese dopo il matrimonio. Aveva retto tre anni, poi l’aveva lasciato e quando era stata approvata la legge sul divorzio avevano divorziato. Erano trascorsi degli anni, e quando la nostra relazione era nata e poi si era consolidata, fare un figlio si era rivelato più difficile del previsto. C’era voluto un anno di tentativi perché Amelia restasse incinta.

Seduta su una panchina, Amelia chiacchierava con l’inquilina del piano di sotto. Eravamo sposati da otto anni. Era magra e bella di una bellezza indefinibile. Non aveva lineamenti classici, regolari, ma il suo era un viso impossibile da dimenticare per chi l’avesse vista anche una sola volta. Era in pace con se stessa e credeva nella vita, per questo trovavo le rughe intorno ai suoi occhi e alla sua bocca così seducenti. Amelia amava ridere e aveva il dono della leggerezza.

Mi scorse mentre la raggiungevo e mi sorrise, alzandosi in piedi.

Salutai la vicina con i tre tradizionali bacetti all’altezza delle guance prima di abbracciare mia moglie e baciarla sulla bocca. Avevo ancora addosso la tensione di qualche ora prima e prolungai il bacio pur sapendo che Amelia non amava le effusioni in pubblico. Si ritrasse.

«Bentornato!» disse. «Com’è andata?»

«Benissimo» risposi.

«Dove sei stato, Pedro?» domandò la vicina.

«Catalogna.»

«Ah, i catalani. Quelli si rifiutano di parlare lo spagnolo: come te la sei cavata?» domandò con una risata.

«Non male, Maria» dissi.

Maria scriveva libri di cucina ed era sposata con un avvocato, aveva appena trentadue anni. In netta controtendenza rispetto alle scelte di una generazione di eterni adolescenti, aveva già tre figli, in quel momento impegnati a giocare lì in piazza. Maria era originaria dell’Andalusia e aveva conservato lo spagnolo rapido e smozzicato della sua terra, in cui tutte le esse si tramutano in dolci zeta.

Tornai a osservare mia figlia. Era di nuovo il suo turno di saltare.

«Questa volta le sei mancato molto» disse Amelia.

Maria Luisa a un tratto incontrò il mio sguardo e con un gridolino eccitato abbandonò corda e amiche per correre ad abbracciarmi.

La presi in braccio. Aspirai avido il suo buon profumo di pulito. Mi cinse il collo e tirò il codino che mi ero fatto crescere anni addietro, quando i capelli avevano cominciato a diradarsi. Probabilmente tradiva i sentimenti di rifiuto che nutrivo per la vecchiaia che si avvicinava, ma era il mio piccolo vezzo: mia figlia lo trovava divertente, e secondo Amelia mi donava.

Posai Maria Luisa a terra. Si era lanciata in un torrenziale resoconto delle avventure dell’ultima settimana e mi mostrava un ginocchio sbucciato rosso di tintura disinfettante. Mi sedetti sulla panchina accanto a mia moglie e la piccola mi si sistemò in grembo. Continuammo a chiacchierare finché le due bambine della Corale chiamarono Maria Luisa che con un balzo abbandonò le mie ginocchia e corse loro incontro.

«Bueno,» disse Maria «devo salire a finire di preparare la cena. Juan rientrerà a momenti.»

«Lascia qui i bambini, li porto su io», si offrì Amelia, «noi ci fermiamo ancora un po’. Ho comprato delle bistecche.»

Maria salutò e si allontanò e Amelia si strinse a me.

«Allora, amore, racconta.»

Le feci il resoconto degli eventi della giornata. Mentre parlavo mi sfiorò il pensiero che non sapevo quale opinione avesse veramente Amelia del mio lavoro. Sospettavo che in fondo lo disprezzasse un po’, anche se non l’avrebbe mai ammesso per amor mio. Inoltre era grata del fatto che ci permettesse di vivere agiatamente.

«Ti aspetti qualche grana?» chiese.

«Non credo» risposi. «Ma se anche fosse, toccherà a Gloria e Oscar occuparsene.»

«Forse faresti meglio a non venderle.»

«Mia moglie che si schiera dalla parte di un ministro conservatore? Questa è buona!» esclamai.

Amelia rise.

«Per carità. Quelli si meritano ben di peggio. Sono preoccupata per te, tutto qui.»

«Sono grande e vaccinato» ribattei.

«Sì, ma…»

«Stai tranquilla.»

Raddrizzò la schiena.

«Ha telefonato una donna, una danese» disse. «Non parlava lo spagnolo, ma il suo inglese era ottimo. Ha detto che era della polizia…?»

«Dei servizi segreti. Mi ha chiamato sul cellulare. È scesa al Victoria.» Indicai il vecchio, bellissimo albergo dei toreri che s’ergeva all’altro capo della piazza, simile a una nave bianca e tranquilla nella luce precoce dei lampioni.

«Che cosa vuole?»

Mi accesi una sigaretta.

«Non ne ho la più pallida idea» ammisi.

«Ha detto che avrebbe richiamato.»

«Le parlerò.»

«Hai fame?» mi domandò Amelia. «Vuoi andare a cena fuori?»

«Non ho troppo appetito. Preferisco mangiare a casa. Diamo ai bambini altri dieci minuti.»

Restammo seduti abbracciati parlando di tutto e di niente come capita fra marito e moglie. Amelia faceva l’insegnante e lavorava in un istituto per bambini con problemi psichici. Era pagata malissimo, ma non ci avrebbe rinunciato nemmeno se avessero smesso di darle lo stipendio. Mi raccontò di un ragazzo che dopo molti sforzi era riuscito a leggere qualche riga del testo di un fumetto. Aveva quindici anni ed era un caso disperato, ma Amelia era entusiasta del fatto che tre anni di lavoro avessero portato a quel risultato. Io non avrei mai potuto fare il suo mestiere: non avrei retto nemmeno un’ora.

Una donna sui quarant’anni in tailleur azzurro e camicetta bianca si avvicinò alla nostra panchina. Portava un rossetto vermiglio e un tocco di ombretto scuro sulle palpebre. I capelli, pettinati all’indietro, le davano un’aria un po’ severa, ma l’espressione degli occhi azzurri era affabile.

«Peter Lime?» domandò.

Vidi che Amelia la studiava attentamente.

«Clara Hoffmann» disse la donna. Mi alzai per stringere l’esile mano che mi porgeva.

«Mia moglie» dissi in inglese. «Amelia, Clara Hoffmann. Di Copenaghen.»

Le due donne si scambiarono una stretta di mano. «Ci siamo parlate per telefono» disse Clara Hoffmann.

«Certamente. Ma al telefono non avevo afferrato il suo nome» disse Amelia nel suo inglese lento ma impeccabile.

«Mi perdoni l’invadenza» proseguì Clara Hoffmann rivolta a mia moglie. «Volevo fare una passeggiata con questa bella serata, poi ho visto suo marito qui seduto e allora…»

«Come ha fatto a riconoscermi?» chiesi.

«L’ho vista in diverse foto. Certo, era più giovane, ma non è cambiato molto.»

Amelia mi lanciò un’occhiata indecifrabile.

«È ora che porti su i bambini» annunciò. «Voi, invece, perché non andate alla Cervecería Alemana, dove potrete parlare in pace, e in danese?»

Era un’ottima idea. Me la sarei cavata in pochi minuti e poi sarei salito a cena. È più facile liberarsi di una persona dopo averle offerto da bere.

«Le va una birra?» dissi rivolto a Clara Hoffmann e quando lei annuì presi congedo da mia moglie con un bacio. Amelia raccolse la mia borsa da viaggio e chiamò a raccolta i bambini. Non si offrì di portare la tracolla perché sapeva perfettamente che non avrei accettato di separarmi dalle macchine.

«Da questa parte» dissi guidando Clara Hoffmann verso la Cervecería Alemana, sul lato opposto della piazza. Portava un paio di scarpe comode senza tacco ed era alta quanto la mia spalla. Era avvolta da una nuvola di un profumo delicato, molto gradevole.

«Che bello qui» commentò mentre raggiungevamo l’ingresso del bar. Era affollato, ma per fortuna tre giovani si alzarono in piedi proprio mentre entravamo, liberando un tavolo accanto alla finestra. Come in tutti i bar spagnoli c’era molto chiasso. Dietro il bancone due barman indaffarati consegnavano caffè, tapas, birre e cocktails a una squadra di camerieri in giacca bianca e pantaloni neri. Una grossa testa di toro campeggiava su una delle pareti, le altre erano decorate da fotografie in bianco e nero di famosi toreri oppure di vecchi attori degli anni Quaranta e Cinquanta. La clientela era composta prevalentemente da giovani.

«Davvero carino» ripeté Clara Hoffmann con un sorriso.

«Già. Hemingway è stato uno dei suoi clienti più famosi.»

«Davvero?» disse con aria indifferente, prendendo una sigaretta dalla borsa.

«Non le piace?» domandai.

«Non ho letto più niente di suo dai tempi del liceo. Trovo che sia un po’, come dire, superato.»

Accostai la fiamma dell’accendino alla sua sigaretta.

«Non è d’accordo?» I suoi occhi mi parvero adesso quasi grigi.

«È uno dei miei scrittori preferiti» dissi scrutando il ripiano marmoreo del tavolo e poi fissando lo sguardo fuori della finestra. Il marciapiede pullulava di madrileni diretti all’aperitivo che di rito precedeva la cena, prevista solo per le undici.

«Dicono che questo fosse il suo tavolo abituale. Qui si sedeva a scrivere durante la guerra civile, mentre i fascisti bombardavano Madrid. Di solito quando veniva in città, alloggiava nel suo stesso albergo, il Victoria, insieme ai toreri famosi dell’epoca. Fino a qualche anno fa qui si potevano ancora incontrare dei camerieri che lo avevano conosciuto e che lo avevano accompagnato in albergo le mattine in cui era troppo ubriaco per tenersi in piedi.»

Lei si guardò intorno.

«Comunque, non è di Hemingway che voleva parlarmi» dissi.

«Propongo di darci del tu.» Annuii.

«Vuoi bere qualcosa? Un bicchiere di vino?»

«Sì, grazie» rispose liberando una boccata di fumo.

Feci un cenno a Felipe che accorse al nostro tavolo. Lavorava lì da decenni. Un tempo era stato un giovane e promettente torero, ma poi un toro lo aveva incornato e “aveva perso i coglioni”, come dicono gli spagnoli. Benché la ferita fosse guarita rapidamente, non aveva più osato mettere piede nell’arena. Era un uomo tarchiato, con gli occhi tristi e il naso rosso. Viveva da solo in una piccola pensione e ogni anno tornava a Ronda, dove era nato, per visitare l’arena in cui aveva debuttato. Che cosa ci andasse a fare, non lo so. Forse malediceva il toro e la sua cattiva sorte. Forse si accontentava di contemplare i suoi sogni infranti.

Accolse la mia ordinazione con il solito sorriso stanco: un bicchiere di vino rosso per la signora, un’acqua tonica per me, una porzione di gamberetti all’aglio e un piatto di prosciutto di montagna.

Felipe si allontanò e Clara Hoffmann cercò il mio sguardo.

«Ho un paio di domande da farti» disse.

«Solo così, per formalità,» la interruppi, «potrei vedere un documento?»

«Ma certo» rispose frugando nella borsa e porgendomi la carta d’identità. La foto era somigliante. Sicché aveva quarantatré anni.

«Vicecommissario. Complimenti!» dissi.

«Il mio capo, una donna, ha solo qualche anno più di me. Non sono un caso tanto straordinario…»

Era una mia impressione o aveva pronunciato l’ultima frase con una punta di rassegnazione? Quasi ritenesse di non doversi aspettare alcun ulteriore avanzamento. Le restituii il documento. Felipe ricomparve e posò sul tavolo il vino, la tonica e il cibo insieme allo scontrino. I gamberetti sfrigolavano ancora nell’olio e aglio. Il prosciutto stagionato e affumicato era tagliato a fettine sottili, disposte con cura sul piatto.

«È la prima volta che vieni in Spagna?»

«Sono stata a Mallorca, un secolo fa. Poi i miei interessi mi hanno portato… più a Est.»

«Hai dato la caccia alle spie russe?»

«Qualcosa del genere.»

Sorrise evasiva. Quando sorrideva gli occhi grigio azzurri si facevano incredibilmente vivi e luminosi. Assaggiò del prosciutto e subito tornò a servirsene.

«Mmm… Devo ricordarmi di portarmene un po’ a casa» disse.

«Già. È squisito.»

Spizzicammo in silenzio per qualche minuto. Poi Clara Hoffmann si sporse verso di me e assunse un’espressione professionale. Il livello del rumore all’interno del bar era alto. Stavo seduto con le spalle rivolte alla parete, in modo da tenere d’occhio la porta d’ingresso. Molti dei clienti abituali mi conoscevano, ma nessuno si fece avanti per salutarmi.

«Non ti tratterrò per molto. Ma se permetti, vorrei farti alcune domande…»

«Prego.»

«Al telefono, però, mi sei sembrato piuttosto indisponente.»

«Mi trovavo in una situazione… complicata» mi giustificai.

«Laila Petrova» disse scrutandomi in viso. «Il nome ti dice qualcosa?»

Scossi la testa. «Assolutamente niente. Chi è?»

«Quarantotto anni. Capelli castani, probabilmente tinti. Magra, altezza un metro e settantacinque, costituzione normale. Viso ovale dai tratti regolari, anche grazie a un paio di interventi chirurgici. Occhi azzurri o marroni, a seconda delle lenti a contatto. Elegante. Fotogenica. Si è laureata in storia dell’arte e si è sposata due volte. Ignoriamo il nome del primo marito. Il secondo era un pittore russo da cui si è separata dieci anni fa. Il cognome da ragazza sembra fosse Nielsen. Il pittore, ovviamente, si chiamava Petrov.»

«Non conosco nessuna che risponda a questa descrizione.»

«Leggi i giornali danesi?» domandò. Il suo sguardo si staccò da me per posarsi fuggevolmente sugli stuzzichini. Doveva aver fame, l’orologio del suo stomaco non era regolato sui ritmi spagnoli. Allungò la mano verso il piatto del prosciutto. All’anulare destro portava un anello con uno zaffiro, al sinistro niente.

«No, non li leggo» risposi. «Anche se di tanto in tanto mi capita sotto gli occhi qualche articolo. La mia agenzia vende foto in tutto il mondo. Così ci appoggiamo a un’agenzia specializzata in rassegne stampa, per essere informati su chi utilizza le nostre foto. Nel caso dimenticassero di pagare il copyright.»

«Capisco. Permetti?» Prese l’ultima fettina di prosciutto dal piatto, masticò con cura e bevve un sorso di vino.

«Tornando a Laila Petrova. Era… è direttrice di un prestigioso museo danese inaugurato di recente. È scomparsa, e con lei un bel mucchio di quattrini: quattro milioni e mezzo di corone di finanziamenti.»

«Sei venuta fin qui per raccontarmi la storia di una tizia scappata con la cassa? Non l’ho mai sentita nominare. Perché non me ne hai parlato al telefono? Avremmo evitato di sprecare tempo.»

«Già, ma non avrei potuto mostrarti questa» disse estraendo dalla borsa una cartellina. Aveva l’aria di contenere parecchi documenti, ma lei selezionò una foto in bianco e nero e me la porse scrutandomi, pronta a registrare ogni mia più piccola reazione. Era una foto d’agenzia formato 25x36, chiaramente una riproduzione, per quanto nitida. Ritraeva una giovane donna bionda e sorridente, gli occhi semichiusi fissi su un punto alla destra del fotografo. Mi pareva di averla già vista da qualche parte. Aveva lunghi capelli lisci sciolti sulle spalle e una frangia dritta che le sfiorava le sopracciglia. Quella pettinatura alla Marianne Faithful faceva pensare che la foto fosse stata scattata all’inizio degli anni Settanta, certamente d’estate. Indossava una camicia a fiori generosamente sbottonata e pantaloni a vita bassa, all’apparenza blue-jeans. Uno degli incisivi era un po’ storto, ma questo non faceva che aumentare il fascino del suo sorriso. Sullo sfondo si intravedevano le sagome di alcuni pescherecci. La ragazza stava suonando la chitarra. Nel margine di sinistra un uomo con la barba le rivolgeva un sorriso pieno di ammirazione.

Alzai lo sguardo sul volto di Clara Hoffmann.

«È una bella foto» dissi.

La girò. Il copyright era della Polfoto. In basso qualcuno aveva scritto Foto di Lime? in una grafia inclinata. Clara continuava a fissarmi.

«Precisamente» disse. «Foto di Lime? Punto di domanda.»

Controllai se ci fosse una didascalia, ma tutto ciò che trovai fu l’indicazione Presumibilmente scattata in Danimarca, 15 giugno 1970.

«Ho fatto migliaia di foto in vita mia» dissi. Ero sempre più sicuro di avere già visto la ragazza. «È lei?»

«Laila Petrova. Da giovane» confermò Clara.

«Non si chiamava Laila…» dissi sforzandomi di ricordare. «Si chiamava Lola. Lola Nielsen. O Jensen. O Petersen. Un cognome molto comune.»

«Allora la foto è tua.»

«Può anche darsi. Non ne sono sicuro.»

Finii di bere la mia acqua tonica.

«Se la donna è una truffatrice, cosa c’entrano i servizi segreti?»

«E l’uomo chi è?» chiese Clara Hoffmann ignorando la mia domanda. Lo osservai con più attenzione. Anche lui era giovane, sulla ventina. Portava i capelli piuttosto lunghi. I denti risaltavano bianchi e regolari in contrasto con il nero della barba. Indossava una giacca a vento scura, forse blu.

«Non lo so» risposi. «È lui che i servizi segreti stanno cercando?»

«Diciamo che ci interessa, e perciò ci interessa anche la foto di Lime.»

Le restituii la foto.

«Non posso aiutarvi.»

«Mi chiedevo se avessi ancora il negativo. E magari altre foto scattate nella stessa occasione.»

«Se la foto è mia può darsi che abbia il negativo. E se ho il negativo, può darsi che riesca a trovarlo. E se riesco a trovarlo, può darsi che ci siano anche altre foto. Chi è il barbuto?»

«È ricercato in tutto il mondo da oltre vent’anni. È tedesco. Uno dei suoi tanti nomi è Wolfgang. Ha fatto parte della Rote Armee Fraktion. Omicidio, incendio doloso, rapina e sequestro di persona. I servizi segreti tedeschi credevano di averlo stanato alla caduta del Muro di Berlino, ma all’ultimo momento riuscì a dileguarsi. Era rimasto nascosto in Germania dell’Est per quindici anni, lavorando come meccanico. Uno dei miei colleghi tedeschi ha visto la tua foto su “Bild Am Sonntag” e ha riconosciuto il nostro Wolfgang. Poi si è messo in contatto con noi. Non avevamo la più pallida idea del fatto che Wolfgang avesse conoscenze in Danimarca. Dove è stata scattata la foto?»

La conversazione informale di poco prima si era definitivamente trasformata in un interrogatorio.

«Non lo so. Non sono nemmeno sicuro che quella foto sia mia. Sono passati quasi trent’anni.»

Lei me la porse.

«Tienila. Io ho diverse copie. Pensaci. Fai uno sforzo di memoria, fruga nel tuo archivio, Lime. Aiutaci.»

«Okay. Vedrò quel che posso fare.»

A un mio cenno Felipe corse al tavolo, pagai il conto non senza lasciargli la consueta, generosa mancia. Mi alzai.

«Ti telefono» dissi. «Fra un paio di giorni. Intanto goditi Madrid.»

«A spese dei contribuenti» rise.

«Non è affar mio. Non pago le tasse al governo danese» dissi, prendendo la tracolla con le macchine che avevo appoggiato sulla sedia accanto.

Mi allontanai con l’animo stranamente pesante, pieno di un’inquietudine che non riuscivo a spiegarmi. Vecchi ricordi riaffioravano alla memoria, confusi e apparentemente insignificanti. Me li scrollai di dosso mentre rientravo a casa. Abitavo di fronte alla Cervecería, all’ultimo piano, in un appartamento che avevo acquistato diversi anni prima, e poi ampliato a più riprese incorporando gli appartamenti attigui. Disponevamo di oltre trecento metri quadri, incluso il mio studio e un terrazzo. Ricevevamo continue offerte d’acquisto. E siccome era un appartamento fantastico proprio nel cuore della città, invariabilmente rispondevamo «no grazie». Entrai in casa, accolto come sempre dal sorriso di una Jacqueline Kennedy quasi interamente svestita, la cui foto a figura intera decorava la parete alle spalle della porta.

«Sono io» gridai in direzione della cucina dove, data l’ora, sicuramente si trovavano Amelia e Maria Luisa. Misi i rullini da sviluppare al sicuro nella cassaforte dello studio e gettai la foto di Clara Hoffmann sulla mia scrivania. Poi mi lavai le mani e andai a sedermi a tavola, di fronte alle mie due ragazze preferite. Maria Luisa parlò ininterrottamente per tutta la durata della cena. Mentre ascoltavo incantato le sue storie, leggevo la mia stessa gioia negli occhi di Amelia.

Dopo mangiato portai a letto la piccola. Quando si fu addormentata mi feci una doccia rapida e poi corsi a infilarmi a letto dove Amelia mi aspettava nuda sotto il lenzuolo. Ritrovare il suo corpo fu bellissimo. I rumori della città entravano dalla finestra aperta confondendosi ai nostri gemiti.

Ero troppo sveglio per sperare di riuscire a prendere sonno e quando il respiro di Amelia si fece regolare mi alzai. Andai a sedermi sul terrazzo con una Coca, una sigaretta e la fotografia vecchia di trent’anni. Circondato da gerani, rose, eucalipti, aranci e limoni, sentivo le pulsazioni della città salire fino a me dalla piazza sottostante. E ricordavo.

La foto che aveva portato Clara Hoffmann fino a Madrid era stata scattata a Bogense durante una sagra paesana e pubblicata su un giornale locale che l’aveva acquistata insieme ad altre della stessa serie. Lo stesso giornale doveva poi averla venduta all’agenzia Polfoto. Lola allora aveva vent’anni e abitava nella stessa comune in cui vivevo io. Voleva fare la cantante folk, sognava una carriera da Bob Dylan al femminile. Avevamo fatto sesso qualche volta. In un contesto in cui tutti, donne e uomini, si sforzavano di superare la gelosia in quanto sentimento meschino e tipicamente borghese, la bella Lola era una dei pochissimi ad essere riuscita nell’intento: passava da un letto all’altro con assoluta disinvoltura, seminando tensione fra i suoi partner e spezzando più di un cuore. L’uomo della foto non si chiamava Wolfgang. Il suo nome era Ernst. Era un ragazzo di appena diciott’anni e veniva da Amburgo. Come tutti si sentiva un artista, voleva scrivere romanzi. Era politicamente impegnato, naturalmente a sinistra, ma a quel che ricordavo non aveva simpatia per le bombe. Si era innamorato perdutamente di Lola, e lei aveva giocato con il suo amore, seducendolo e poi abbandonando il suo letto per il mio, oppure per quello di un altro. Ernst aveva continuato a guardarla con occhi infelici e a seguirla come un cagnolino segue il padrone.

Era tutto quanto riuscissi a rammentare. Non avevo più ripensato a Lola nel corso di quei quasi trent’anni. Ma a un tratto, sul terrazzo immerso nell’aria tiepida della notte, mi tornò in mente un episodio: l’ultima volta in cui eravamo stati insieme aveva pianto. Io la trovavo attraente e sexy, ma non ero innamorato di lei. Non avevo intenzione di fermarmi a lungo alla comune, volevo viaggiare. Quando le dissi che stavo per partire, fu come se le avessi tolto una parte del suo potere.

Mi risuonò nella mente la sua esile voce.

«Peter. Sedurre è l’unica cosa che so fare, il mio unico talento. Di solito riesco a ottenere che gli uomini facciano quello che voglio. Perché con te non funziona?»

Chissà perché le sue parole — e il candore con cui le aveva pronunciate — tornavano a galla con tanta precisione dopo tutti quegli anni. Poco tempo dopo quell’episodio avevo lasciato per sempre la comune. In un’epoca in cui il mondo era in subbuglio e tutto sembrava possibile, appartenevo a una generazione di girovaghi.

Capelli lunghi e barbe, jeans scampanati, bagni di gruppo, seni scoperti al sole, bambini nudi, discussioni sulla società e sulla politica, camicie indianeggianti, e d’inverno gli Eskimo: contemplavo quel turbinio confuso di fotogrammi che era la mia memoria e cercavo invano di mettere a fuoco altre facce, altri episodi, altre parole.

Mi alzai e andai in studio a sviluppare e riprodurre le foto scattate in Costa Brava, in modo che Oscar potesse vederle il mattino seguente e congratularsi con me per il magnifico colpo.

3

Alle sette ero in piedi. Come la maggior parte dei madrileni, andavo a letto tardi, mi svegliavo presto, e quando potevo mi concedevo un sonnellino pomeridiano. Avevo preparato la colazione per Amelia e Maria Luisa: un grosso bicchiere di caffè forte con latte e un croissant per Amelia e me, del latte con una fetta di pane e formaggio dolce per mia figlia. Assistetti alla sua vestizione. In quel periodo aveva la mania dei fiocchi, e insisteva per indossarne uno fra i capelli ogni giorno, meglio se rosa. Di fronte a me Amelia beveva il suo caffè bollente a piccoli sorsi. Portava un paio di jeans e una camicetta, trucco leggero: la sua tenuta da lavoro. La mattina non parlavamo molto. Non ce n’era bisogno. Mangiavamo insieme in un piacevole silenzio assonnato, il notiziario della radio come sottofondo. Quando Amelia e Maria Luisa uscivano di casa, spesso mi coglieva un’irrazionale sensazione di solitudine e quel mattino non fece eccezione.

Oscar si stupiva della mia fedeltà e mi accusava di essere precocemente invecchiato, però credo provasse anche una punta di invidia. Al contrario di me temeva la noia e per combatterla ricorreva a stimolanti di diverso genere, compresi alcol e stupefacenti nei momenti di crisi più acuta. Ma il suo vizio irrinunciabile erano le emozioni. Aveva bisogno di mettersi continuamente alla prova, di testare i propri limiti.

Da sempre aveva fama di grande donnaiolo. Ma adesso che andava per i cinquanta, la sua costante smania di conquiste aveva un che di disperato. Ogni volta che incrociava una bella donna non poteva fare a meno di provarci. Era rimasto sconvolto quando si era reso conto del fatto che molte ragazze ormai lo consideravano vecchio. Anzi, un vecchio porco. Gloria lo aveva preso in giro con cattiveria per qualche settimana, poi avevano fatto pace come sempre.

Scesi al bar all’angolo e aprii «El Pais» davanti al secondo caffè della giornata. Il terrorismo basco imperversava. La sera precedente l’ETA aveva ucciso un poliziotto spagnolo a Bilbao. Una ragazza era stata assassinata con un colpo di pistola in bocca. Aveva fatto la spia: questo era il messaggio. Poche settimane prima avevano ammazzato un giovane consigliere comunale basco dell’ala nazionalista moderata, perché lo stato si rifiutava di rilasciare un gruppo di detenuti appartenenti all’ETA. La collera e il senso di impotenza avevano spinto oltre un milione di persone a manifestare per le strade di Bilbao. Qualche giorno dopo trentamila simpatizzanti dell’ETA avevano partecipato a una contromanifestazione a San Sebastián. Era una vera e propria guerra civile. Gli omicidi si succedevano a catena. A intervalli regolari nelle strade di Madrid esplodeva un’autobomba.

Al tempo della dittatura del generale Franco, avevo ritenuto quelli dell’ETA dei partigiani. Adesso li consideravo dei criminali accecati da un sogno anacronistico.

Presi con me il giornale e tornai a casa ad aspettare Oscar che sicuramente era impaziente di vedere le foto. Per quanto mi riguardava, mi procuravano un senso di disagio. Sarebbe stata l’agenzia a venderle e l’autore sarebbe rimasto anonimo come al solito. Ma le guardie del corpo del ministro avevano visto sia me sia la targa dell’auto che avevo noleggiato.

Il citofono suonò con caratteristica insistenza.

«Ciao Oscar» dissi aprendogli.

La nostra amicizia risaliva alla straordinaria primavera del 1977, una stagione di grandi cambiamenti per la Spagna. Ci eravamo conosciuti nel cuore della notte in un bar di Calle Echégaray, a pochi metri dalla pensioncina dove alloggiavo. Oscar torreggiava nel piccolo locale, uno dei bar più vecchi di Madrid.

Tre gitani andalusi assai malconci cantavano No te vayas todavía con voci arrochite dai sigari, scandendone il ritmo a forza di battiti di mani. Al primo corista mancavano due incisivi, gli altri denti erano d’oro. Appena entrato avevo notato Oscar, il grosso corpo precariamente appollaiato su una seggiola bassa quanto uno sgabello da mungitura, un boccale di birra nella destra. Come molti all’epoca, aveva i capelli lunghi e una folta barba. Io ero venuto con un collega della Reuter, che ci presentò.

Oscar era un giornalista free-lance della Germania dell’Ovest. Lavorava sodo, ma le piccole testate di sinistra per le quali scriveva pagavano malissimo. Io collaboravo con un giornalista svedese scattando immagini per i suoi articoli. Il leader comunista Santiago Carrillo, da poco rientrato in patria, si apprestava a tenere il primo raduno politico pubblico a Valladolid. Invitammo Oscar ad accompagnarci al comizio sull’auto presa a noleggio.

Al contrario di me, che mi ero semplicemente e allegramente fatto contagiare dallo spirito del tempo, Oscar e Gloria, da giovani, erano stati sinceri rivoluzionari. Ammiravano Mao e Ho-Chi-Minh. Con gli anni si erano progressivamente allontanati dalla politica, abbandonando le idee radicali della gioventù per concentrarsi sulla carriera e sulla vita privata. Poi avevamo cominciato a guadagnare, e, si sa, i soldi hanno il potere di cambiare le persone. Non parlavamo molto del passato. Sembrava che Marx, Engels, l’Unione Sovietica e la DDR non fossero altro che ambigui miraggi sfumati nel crepuscolo del ventesimo secolo.

Aprii la porta a Oscar e ci abbracciammo. Gli volevo un gran bene e lui ricambiava il mio sentimento. Era un omone massiccio, alto più di due metri. Da qualche anno aveva sviluppato un po’ di pancetta, giusto un accenno, ma le sue grandi spalle dominavano la lieve pesantezza del giro vita, annullandola. Il viso era largo, le guance rasate, gli occhi piccoli e castani. Vestiva in maniera elegante e disinvolta, con abiti su misura e camicie di seta, senza cravatta. Aveva la risata facile, squillante e contagiosa, e il passo sicuro di un uomo di successo. Accentrava l’attenzione e sapeva affascinare chiunque. Era un venditore nato e un grande manipolatore. La sua moralità, come quella di molti grandi seduttori, era un tantino dubbia. Da parte mia, ero contento che fosse mio amico e non mio nemico. Eravamo diversi, ma ci piacevano la stessa musica, gli stessi film e gli stessi libri. Entrambi credevamo che la vita fosse fatta per essere vissuta.

Andammo in studio e gli mostrai le foto. Lui schioccò la lingua in segno d’approvazione. Era un bel raccontino fotografico: il motoscafo si avvicina alla spiaggia, il ministro e la sua bella fanno il bagno nudi, amoreggiano in acqua, poi sulla spiaggia. Lui succhia le dita dei piedi alla ragazza. L’ultima foto era la meglio riuscita, ma i volti erano più chiaramente visibili e riconoscibili in quella sul motoscafo, in cui il ministro si sporgeva verso l’amante colta nell’atto di umettarsi le labbra con la lingua. Ero riuscito ad avvicinarmi abbastanza da poter fare a meno del teleobbiettivo. I dettagli erano puliti e nitidi, quasi che anch’io fossi stato tra i partecipanti a quella gita. Avevo selezionato le stampe in modo che le riviste scandalistiche e i quotidiani interessati potessero sceglierne una adatta ai gusti e alle aspettative del loro pubblico. Dal momento che il protagonista dello scoop era un uomo politico membro del neo-eletto governo, anche i quotidiani “seri” avrebbero pubblicato una delle mie foto e discusso le implicazioni politiche dello scandalo, grati dell’occasione di mostrare un seno scoperto. Per divertimento, avevo stampato un’unica immagine dell’amplesso sulla spiaggia. Come avevo previsto era troppo spinta per poter interessare anche il più disinvolto dei nostri clienti e Oscar le diede appena un’occhiata. Sapeva che non avrebbe fruttato un soldo.

«Bel lavoro, Peter» si complimentò mentre con lentezza passava ancora una volta in rassegna la serie. Eravamo proprietari dell’agenzia fotografica insieme a Gloria. Ospe News, avevamo battezzato la nostra società per azioni. Il mio nome non era mai stato associato ad alcuna delle foto scandalose che avevo scattato nel corso degli anni. Peter Lime non era nessuno per il grande pubblico, ma non passava giorno senza che almeno una foto contrassegnata dal copyright dell’Ospe News apparisse su una rivista o un quotidiano in qualche parte della terra. E i nostri conti in banca crescevano di conseguenza. Perfino la mia storica foto di Jacqueline Kennedy seminuda vendeva ancora. Avevamo aperto filiali a Londra e a Parigi e non ci occupavamo solo di foto di gente famosa, ma anche di reportage e tutto il resto. La nostra scuderia annoverava diversi fotografi sportivi molto quotati, ma le somme importanti entravano con le foto dei vip colti in situazioni private.

Oscar prese le foto e si sedette al tavolo bianco che occupava il centro della stanza. Qui offrivo il caffè ai miei contatti di lavoro, o ai clienti che posavano per me quando mi dedicavo all’altra faccia del mio mestiere, i ritratti. Ritraevo, sia celebrità disposte a pagarmi un capitale, sia persone qualunque i cui volti mi affascinavano per strada, in un caffè o in una sala d’aspetto.

Oscar mi guardò:

«Valgono di più di quanto immagini» mi disse.

«È ministro da troppo poco tempo per essere noto al di fuori dei confini spagnoli» replicai scettico.

Oscar sfoderò il suo sorriso da lupo.

«Peter, non mi dire che non l’hai riconosciuta!»

Rimasi in attesa. Oscar leggeva riviste illustrate in diciassette lingue, faceva parte del suo lavoro. Studiava il jetset del globo con la stessa serietà e precisione con cui un bravo speculatore di borsa studia le quotazioni. Per giocare d’anticipo sul mercato, il dio indiscusso dei nostri tempi. Per sapere chi “tirava” e quanto valeva.

«Un indizio: è italiana.»

Raccolsi una delle foto. Il bel viso dai lineamenti regolari aveva qualcosa di familiare, e allo stesso tempo assomigliava a mille altri giovani volti di donna, la bocca piccola e carnosa e i grandi occhi leggermente a mandorla. Provai a immaginarmela truccata, ma prima che mi avventurassi a sparare un nome, Oscar annunciò:

«È Arianna Facetti».

Tornai a osservare la foto. Aveva ragione. Era proprio la giovane promessa del cinema italiano. Per un soffio non aveva ricevuto un premio all’ultimo Festival di Cannes. Per il momento non era ancora una star del cinema internazionale, ma il suo passato di scollacciata animatrice di un popolare quiz televisivo la rendeva una preda decisamente appetibile per noi paparazzi.

«Hai ragione» dissi. «Dove si saranno conosciuti?»

«Il vecchio ha interessi in un canale televisivo. E poi i soldi gli escono dalle mutande. Avrà notato la sua foto in qualche rotocalco e avrà spedito il suo aereo personale a prelevarla. Gran bella ragazza. Adesso diventerà ancora più famosa. Lui ci rimetterà la carriera, mentre le quotazioni di lei saliranno non appena le tue foto appariranno sulla stampa italiana e spagnola. Pensi che dovremmo concederle in esclusiva?»

«Vuoi una birra? Un caffè?» gli chiesi.

«Coca Cola.»

Presi due lattine di Coca dal frigo e le appoggiai sul tavolo. Oscar mi guardò.

«Che c’è, Peter, qualcosa non va?»

«Forse faremmo meglio a lasciar perdere.»

«Queste foto ci frutteranno un mucchio di soldi. Che ti prende?»

Gli raccontai l’incidente del cellulare, la mia frettolosa ritirata dalla postazione sopra la caletta e infine l’incontro non proprio amichevole con le guardie del corpo del ministro.

«Dobbiamo parlare anche con Gloria di questa faccenda» disse quando terminai di parlare. «Ma non dovrebbero esserci ulteriori problemi. Non hai commesso nessun crimine perseguibile. Si trovavano su suolo pubblico. Il tuo nome non verrà fuori. Anche se i ben informati sanno perfettamente che quando l’Ospe vende foto scottanti il più delle volte sono firmate Lime.»

Annuii.

«Le mie esitazioni sono basate… più che altro su una sensazione» ammisi.

«Capisco. Chiederemo a Gloria di fiutare un po’ in giro.»

«Okay» dissi, solo parzialmente rassicurato. Avevo piena fiducia nelle capacità di valutazione di Gloria e di Oscar. Eppure non ero del tutto tranquillo.

«Aspettiamo un paio di giorni prima di muoverci» suggerì ancora Oscar, alzandosi per telefonare.

Chiamò Gloria per riferirle quanto gli avevo appena raccontato. Era in piedi accanto alla mia scrivania, e il suo sguardo si posò sulla foto di Lola recentemente riaffiorata dal passato. La prese in mano e la osservò mentre improvvisamente distratto rispondeva a Gloria nel suo spagnolo lento e dal forte accento tedesco.

«Alle quattro?» disse infine rivolto sia a me che al ricevitore.

Scossi la testa. Alle quattro avevo un appuntamento con i miei amici giapponesi della scuola di karate. Ne avevo bisogno: la bocca secca, il formicolio alle dita, i brividi lungo la schiena, il senso di vuoto allo stomaco. Tutti segnali di un’inquietudine che solo un’intensa sessione in palestra avrebbe potuto scacciare.

«Peter non può» disse Oscar. «Perché non adesso?» propose allora. Reggeva la foto di Lola con entrambe le mani, il ricevitore premuto sotto il mento.

Scossi di nuovo la testa. Di lì a mezz’ora avrei incontrato una diva cinquantaseienne del teatro reale spagnolo che aveva deciso di regalare al suo nuovo amante un proprio ritratto.

«Alle sei?» rilanciò Oscar. Finalmente annuii, e lui schioccò un bacio nella cornetta prima di riagganciare.

Dopo un ultimo sguardo al bel volto di Lola posò la foto. Oscar si girò e, sedendosi sul bordo del tavolo, si accese una sigaretta.

«Chi è la donna misteriosa?» chiese indicando la fotografia.

Il fatto che Oscar mi avesse rivolto quella domanda non mi stupì. Era curioso come una scimmia, anche per questo era così bravo nel suo lavoro.

«Non saprei» mentii. Non avevo voglia di raccontare.

«È una vecchia foto. Da dove salta fuori?» insistette lui.

Di mala voglia gli parlai di Clara Hoffmann.

«E allora, ce li hai i negativi oppure no?» chiese.

«Come mai t’interessa tanto? La conosci?»

«No. Però è molto bella. Misteriosamente, inafferrabilmente bella. È come se dicesse: io ho tanti segreti. Solo un uomo speciale può sperare di trovarne la chiave. Scoprirmi non è facile, ma il premio per chi ci riesce sarà grande.»

Risi. Oscar non si smentiva mai. Conquistava le donne spinto dal desiderio di conoscerle anima e corpo, e quando sentiva di aver raggiunto lo scopo invariabilmente subentrava la noia. Solo l’intelligenza, l’imprevedibilità e il sex appeal di Gloria erano riusciti a trattenere il suo interesse abbastanza a lungo da rendere una separazione troppo problematica.

«Allora? Hai ancora i negativi?» insistette.

Indicai gli armadi di acciaio allineati lungo una parete della stanza.

«Lo sai che non butto mai un negativo. Quella foto non mi dice niente, ma credo di averla da qualche parte. Magari su in soffitta.»

«Hai intenzione di cercarla?»

Gli rivolsi un’alzata di spalle.

«Ho cose più urgenti a cui pensare» risposi.

«Si vede subito che la foto è tua» disse. «C’è tutto. Stile, tensione, mistero, inquietudine. Già da giovane eri molto bravo.»

Ripose le foto del ministro e dell’attrice italiana in una busta, mi diede un buffetto sulla guancia e si avviò alla porta.

«A dopo» lo salutai.

Rimasto solo accesi il cellulare per controllare la segreteria. C’era un messaggio della Hoffmann che mi pregava di richiamarla. L’avrei fatto senz’altro, più tardi. Mi avvicinai agli armadi di acciaio. Là dentro, chiusi a chiave, riposavano innumerevoli pezzi della mia vita trascorsa. Aprii il primo armadio. I negativi erano sistemati in ordine cronologico, anno per anno. Per ogni serie di immagini avevo indicato la data e il soggetto. Ce n’erano a migliaia. I miei frequenti viaggi non mi avevano impedito di tenere un archivio accurato delle foto. Perfino nei periodi più caotici della mia esistenza, quando avevo avuto l’impressione di camminare sull’orlo di un abisso, conservare e ordinare il frutto del mio lavoro era rimasta una priorità. E adesso quei frammenti di tempo fissati in millesimi di secondo erano sistemati in bell’ordine negli armadi d’acciaio.

Non tutti, però.

La foto di Lola poteva far parte del mio archivio segreto, di cui perfino Oscar ignorava l’esistenza. Più ci pensavo più mi sembrava probabile che le cose stessero proprio così. Non solo ero sempre stato geloso dei miei negativi, ma consideravo le foto migliori e quelle più scottanti un’assicurazione sulla vita, l’equivalente di una pensione, oltre che una parte di me. Da giovane avevo preso l’abitudine di spedire alcuni, selezionati negativi ai miei genitori. Infilavo il negativo in una busta indirizzata a me stesso, e questa a sua volta in un’altra che spedivo ai miei genitori. I quali avevano istruzioni di conservare la lettera fino alla mia prossima visita in Danimarca, quando l’avrei aperta per riporne il contenuto in una valigia. Negli anni, diverse volte avevo sostituito la valigia con una sempre più capiente, fino ad arrivare all’attuale grossa Samsonite bianca con la serratura a combinazione. Vi custodivo il negativo della famosa foto di Jacqueline Kennedy, e di altre che mi avevano reso una fortuna. Ma anche quelli di paesaggi che mi avevano emozionato particolarmente, e le foto scattate con la mia prima Leica. Un’immagine turistica piuttosto banale della Piazza Rossa di Mosca nel 1980 era custodita insieme al ritratto di un’antica fidanzata. C’erano negativi di foto scattate in Iran, India, Danimarca, tracce del mio progetto di immortalare tutti i locali frequentati da Hemingway. Le prime foto di Amelia e Maria Luisa subito dopo il parto. Ma c’erano anche le lettere d’amore di una vita, un paio di pagelle, qualche tema e i miei goffi tentativi di comporre poesie, schizzi, annotazioni e pensieri buttati giù in fretta. Quella valigia, insomma, era una sorta di diario e aveva sempre rappresentato un punto fermo nella mia esistenza. Alla morte dei miei genitori, l’avevo affidata a un avvocato incaricato di ricevere e conservare la mia posta. Poi, cinque anni prima, avevo consegnato la valigia al padre di Amelia, un ex agente segreto che aveva fatto della riservatezza una regola di vita.

Io e Don Alfonso nutrivamo opinioni discordanti su molte cose, ma potevamo contare sulla fiducia e il rispetto reciproco.

Perciò presi uno dei negativi più espliciti del ministro e la sua pupa, lo contrassegnai con data e luogo dello scatto e lo misi in una busta che indirizzai a me stesso. Infilai la busta in una più grande insieme a due righe di saluto per Don Alfonso.

Controllai la mia casella e-mail e risposi a diversi messaggi di collaboratori che mi informavano su possibili “colpi”. Notizie e voci sui luoghi in cui i vip della terra si preparavano a trascorrere le vacanze. Per il momento non avevo intenzione di lanciarmi in una nuova impresa, ma ringraziai ugualmente le mie fonti e trasferii mille dollari sul conto di un informatore particolarmente abile e zelante.

La diva del teatro arrivò in ritardo, insieme alla sua sarta di scena. Mentre scattavo, inanellò tenera e allegra storie di amori vecchi e nuovi, pettegolezzi dell’ambiente e aneddoti piccanti. Era ancora molto attraente, e un talento palpabile nell’abilità di controllare i più piccoli muscoli del viso. Voleva apparire ringiovanita di vent’anni, bella di una bellezza misteriosa simile a quella della Gioconda. Se la foto le fosse piaciuta, avrebbe preteso che il teatro la utilizzasse per la promozione. Ormai la foto a fini promozionali era un fatto cruciale non solo per la gente di spettacolo ma anche per gli scrittori, categoria che infatti mi capitava di ritrarre sempre più spesso. Il successo di un romanzo sembrava dipendere più dall’avvenenza dell’autore che dal suo talento, l’immagine era tutto, il contenuto un optional.

Al termine dello shooting trascorsi qualche ora in camera oscura a lavorare sul ritratto dell’attrice. Non ero del tutto soddisfatto del risultato, e decisi che le avrei chiesto di tornare a posare un’altra volta.

A prescindere dalla qualità delle foto, la camera oscura per me era un rifugio, un luogo di felicità. Il mondo circostante spariva. C’ero solo io, io e le mie immagini che affioravano nella luce rossa per effetto di processi chimici da me sapientemente e creativamente controllati. Uscito dalla camera oscura mangiai un panino veloce e mi apprestai a uscire. Era ora di andare in palestra. Erano vent’anni che facevo karate e i proprietari giapponesi della scuola erano miei vecchi amici. Il karate mi aiutava a scaricare le tensioni e a tenermi in forma. Ma soprattutto apprezzavo le conversazioni con Suzuki, il vecchio maestro, la sua capacità di guardare il mondo dall’alto e mettere tutto in prospettiva.

Oscar non condivideva il mio amore per le arti marziali. In compenso aveva recentemente scoperto il golf e vi si era buttato con tutto l’entusiasmo un po’ ossessivo dei cinquantenni inquieti, sempre a caccia di nuove, totalizzanti passioni. Era troppo alto per sperare di poter eccellere in quello sport, ma ci dava dentro quasi fosse una questione di vita o di morte. Mi aveva convinto a cimentarmi diverse volte, ma l’esperienza mi aveva lasciato freddino.

Uscii dal portone. L’aria calda dell’estate madrilena mi colpì come uno schiaffo mentre gli odori e i suoni della città mi avvolgevano. Passai davanti al caffè Viva Madrid e percorsi i pochi metri fino a Calle Echégaray. Lasciai cadere la busta con il negativo in una buca delle lettere e proseguii soddisfatto. Bettole e pensioncine punteggiavano la calle. Il marciapiede era talmente stretto da costringere i passanti ad addossarsi ai muri delle case al passaggio delle automobili. Da giovane avevo abitato per un periodo alla pensione Las Once, di fronte all’Hotel Inglés e alla scuola di karate. Quest’ultima aveva aperto lo stesso anno in cui mi ero trasferito nella piccola stanza della pensione gestita dal Señor Alberto e dalla sua Señora. Rosa, la cameriera trentenne e probabilmente vergine, era analfabeta e incredibilmente arcigna. Aveva lineamenti forti, un po’ rozzi, il corpo corto e pienotto perennemente fasciato da un grembiule rosa. Faceva le pulizie e preparava da mangiare insieme alla Señora. Rosa era nata in un piccolo villaggio della Galizia, da una famiglia numerosa di contadini. Tutte le mattine il padre e gli altri uomini della casa andavano in piazza nella speranza che il fattore del proprietario terriero offrisse loro una giornata di lavoro. La miseria allora era diffusa e il divario fra le classi sociali spaventoso. Sapevo che Rosa era stata mandata a servizio a sette anni, anche se non ero riuscito a scoprire come fosse approdata alla Pension Las Once di Madrid. Ogni sera la Señora prendeva il giornale «ABC» e cercava di insegnarle a leggere. La sera in cui Rosa era riuscita a leggere da sola i titoli, il vecchio Señor Alberto era andato a prendere una bottiglia di sherry che conservava da più di venticinque anni e avevamo festeggiato.

Camminavo assorto nei miei pensieri, circondato dalla vita e dai rumori rassicuranti della città, quando all’improvviso due uomini mi sbarrarono il passo. Erano entrambi alti, sui trentacinque anni e indossavano abiti di buon taglio.

«Señor Lime?» domandò uno.

Rimasi in silenzio qualche istante.

«È in arresto» mi informò l’altro, mentre il primo si portò alle mie spalle, mi afferrò le braccia e con gesto fulmineo fece scattare le manette attorno ai miei polsi. Protestai e ripetei che esigevo spiegazioni ma quelli rimasero in silenzio.

4

Diversi isolati ci separavano dal vecchio, massiccio edificio rosso che ospitava la sede centrale dei servizi segreti e della polizia di Puerta del Sol. I due agenti sequestrarono il cellulare e la piccola Leica che portavo sempre con me e mi fecero salire sul sedile posteriore di una grossa Seat bianca, stretto tra altri due agenti in borghese. L’autista mise in moto senza una parola. Come gli altri due portava i capelli tagliati cortissimi, alla maniera dei soldati. “Maledetto ministro” pensai.

La stessa situazione qualche decennio prima, quando i poliziotti spagnoli erano notoriamente inclini a estorcere confessioni a suon di botte, mi avrebbe gettato nel panico. Ma quei tempi bui erano ormai lontani, anche se i baschi sostenevano che la polizia spagnola non avesse perso le sue cattive abitudini. Domandai quale fosse la causa del mio arresto, ma di nuovo non ottenni risposta. Le manette mi stringevano i polsi e avevo il respiro accelerato. Oltre il finestrino la ricca, anarchica vita madrilena scorreva indisturbata, aumentando il mio senso di impotenza e di oppressione.

Il traffico era sempre più difficoltoso e procedevamo a sirene spente, così finimmo per rimanere imbottigliati. Ma se anche ci fosse stato lì attorno qualcuno che conoscevo, i finestrini fumé gli avrebbero impedito di vedermi. Dissi che volevo telefonare al mio avvocato. Nessuno replicò. Sapevo dell’esistenza di un articolo della legge antiterrorismo che avrebbe consentito loro di trattenermi per quarantotto, forse addirittura settantadue ore anche in assenza di qualunque specifico capo d’imputazione a mio carico. Di nuovo maledissi tra me il ministro e quelle fottutissime foto. Evidentemente quel porco era disposto a darsi un bel da fare per impedire che la sua felicità familiare e la sua carriera venissero distrutte da un qualsiasi Peter Lime. A Puerta del Sol la Seat girò a sinistra costeggiando la centrale di polizia, superò due guardie armate di mitragliatrice ingoffite dai giubbotti antiproiettile ed entrò nel cortile. Mi fecero scendere e attraversai il cortile fino a una bassa porta secondaria. Percorremmo un corridoio scuro, scendemmo una rampa di scale, poi un altro lungo corridoio fino a una stanza piuttosto grande al cui centro campeggiava una vecchia scrivania. Vi era seduta una guardia in uniforme grigia. Sul ripiano scheggiato e coperto di macchie era aperto un giornale sportivo con accanto una tazzina da caffè vuota. Al nostro ingresso la guardia si alzò per precederci lungo un ennesimo corridoio illuminato da potenti lampadine protette da gabbiette metalliche. Su entrambi i lati, a distanze regolari, si aprivano le porte dipinte di azzurro delle celle. La guardia si fermò davanti alla quarta porta e l’aprì. Con un gesto brusco, uno dei due agenti alle mie spalle mi tolse le manette. Stavo per protestare, quando lo stesso agente mi afferrò per il codino e tirò con forza, quindi mi scaraventò dentro la cella con una potente spinta tra le scapole.

Caddi bocconi sul pavimento della cella mentre la porta cigolante veniva chiusa a doppia mandata.

Il sangue formicolava nelle mie mani intorpidite. Tutto intorno a me era silenzio, quasi che la stanza fosse insonorizzata. Mi colse il sospetto di trovarmi in una delle vecchie celle di tortura usate sotto il franchismo. Se avevano intenzione di spaventarmi ci stavano riuscendo benissimo. Per fortuna potevo contare su Oscar e Gloria. I miei due amici nutrivano un’antipatia inveterata per lo stato, la polizia e i loro metodi fascisti: avrebbero fatto fuoco e fiamme per tirarmi fuori di lì. Inizialmente si sarebbero serviti delle vie e dei diritti previsti dalla legge, ma se si fosse reso necessario non avrebbero esitato a usare le foto pornografiche del ministro e della sua amante come strumento di pressione.

Quel pensiero mi rincuorò vagamente, mentre a fatica mi rimettevo in piedi e raggiungevo il tavolaccio accostato a una delle pareti. Ero vittima di un tentativo di intimidazione. Che prove potevano avere contro di me? Non avevano nemmeno seguito la procedura che prevedeva che fossi fotografato e si rilevassero le mie impronte digitali.

Dal soffitto pendeva una lampadina anch’essa chiusa in una gabbia metallica. Le pareti, nude e color giallo sporco non riportavano scritte né incisioni. Un buco in un angolo fungeva da gabinetto. C’erano un lavandino sporco di ruggine e un tavolino fissato al muro con dei bulloni. Ai piedi del tavolaccio su cui sedevo giaceva una coperta lisa ripiegata. Non mi avevano tolto né la cintura, né il pettine, né i lacci delle scarpe. Forse non gli sarebbe importato se mi fossi suicidato. Probabilmente sarebbero stati addirittura contenti. Mi stesi supino, raccolsi le ginocchia contro il petto e provai a volgere lo sguardo all’interno. Gradualmente, il mio cervello si svuotò, il respiro si fece regolare, il dolore ai polsi e alle ginocchia si placò e percepii soltanto il puntino luminoso in mezzo ai miei occhi. Raggiunsi quel nada, o wa, che Suzuki mi aveva insegnato a trovare.

Quando verso sera vennero a prendermi, ero affamato e assetato, ma il mio spirito era tranquillo e battagliero. Erano gli stessi due agenti del pomeriggio, più un secondino grasso. Senza rimettermi le manette, gli agenti si limitarono ad afferrarmi saldamente per i gomiti. Dissi loro che dovevo chiamare un avvocato oppure casa, ma non risposero. Mi condussero in una stanza al piano superiore e mi sistemarono contro una parete bianca.

Era arrivato il momento delle foto e delle impronte. Tutto si svolse in silenzio eccetto che per le istruzioni seccamente impartite da uno degli agenti. Poi mi portarono in una minuscola aula, di fronte al giudice incaricato di stabilire se fosse stato commesso un crimine, se ci fossero le basi per aprire un’indagine sul mio conto o se invece dovessi essere rilasciato.

Il giudice istruttore era un uomo di mezza età. Mi guardava al di sopra di un paio di occhiali da lettura che teneva appollaiati sul naso, che era grosso e sovrastato da due spesse sopracciglia grigie e irsute. Era corpulento e cercava di nascondere i chili di troppo con un abito scuro di buon taglio.

La stenografa evitò di incrociare il mio sguardo.

Gli agenti mi indicarono una sedia e quando fui seduto rimasero in piedi alle mie spalle. Di fronte a me il giudice si avvalse del suo diritto di guardarmi dall’alto in basso, scartabellò tra i documenti che aveva davanti e mi chiese se mi chiamassi Peter Lime, se fossi in possesso del permesso di soggiorno numero tot, e se ero residente in Plaza Santa Ana a Madrid. E se comprendessi la lingua spagnola. Risposi di sì a tutte le domande sforzandomi di mantenere la calma. Una volta confermata la mia identità, dissi:

«Non mi è stato concesso di parlare con un avvocato. Da quando sono stato arrestato ingiustamente non mi hanno dato né pane né acqua. La mia famiglia sarà certamente in preda all’angoscia, si starà chiedendo che fine ho fatto».

Il giudice impassibile replicò:

«Si limiti a rispondere alle domande».

Abbassò brevemente gli occhi sui documenti.

«Si trovava a Llanca, Catalogna, il 3 di giugno.» Poiché la frase era risuonata come un’affermazione piuttosto che una domanda, rimasi in silenzio.

«Ripeto, era a Llanca, in Catalogna, il 3 giugno corrente mese?» Ero nei guai. Il ministro, mi dissi, aveva tentacoli lunghissimi. E mi aveva consegnato nelle mani di un giudice ostile. La sensazione di non avere controllo sulla mia vita mi dava la nausea, mi faceva girare la testa.

«Sì, mi trovavo a Llanca» risposi.

«Conferma l’accusa di aggressione ai danni di un funzionario del Ministero di giustizia e di minaccia nei confronti di un secondo funzionario?»

«Questa non è un’interpretazione corretta dei fatti» obiettai.

«E quella giusta sarebbe?»

«Mi sono difeso da due sconosciuti che hanno cercato di rubarmi le macchine fotografiche e quindi di compromettere il frutto del mio lavoro» risposi.

«Che lavoro fa?»

«Il fotografo.»

«Che cosa ha fotografato quel giorno a Llanca?»

«Non sono tenuto a rivelarlo. Chiedo di poter parlare con un avvocato» mi sforzai di reprimere un improvviso attacco di rabbia.

«Ci sono dei testimoni» disse il giudice istruttore. Il suo viso era completamente inespressivo e gli occhi freddi come pesci morti.

«Chiedo di essere messo a confronto con loro» dissi.

«Sono stranieri. Ci vorrà tempo perché siano rintracciati.»

«E il mio avvocato?»

«Quando sarà il momento.»

«Allora risponderò volentieri a qualunque domanda.»

Lui tornò ad abbassare gli occhi sui documenti:

«Qui risulta che lei pratica da molti anni il karate. Si può dunque affermare che il suo corpo sia un’arma, un’arma letale».

Non avendo colto alcuna sfumatura interrogativa nel tono della sua voce rimasi zitto.

«È vero che lei è cintura nera di karate?»

«Sì, è vero.»

Sul suo volto si disegnò un’espressione di compiacimento. Consultò altri documenti. Avevo l’impressione che faticasse a trovare le domande. Il caso non stava in piedi. Il mio arresto non era che un favore accordato a un amico, un favore cui andava applicata una sottile mano di vernice giuridica.

«Qui risulta che nell’arco degli anni lei abbia avuto ripetuti contatti con membri del gruppo terroristico dell’ETA.»

L’affermazione mi colpì come uno schiaffo.

«Cosa significa?»

«Risponda, è esatto?»

«No!» risposi con foga.

«Ho qui i documenti relativi a diverse intercettazioni, timbrati con la dicitura “segreto”. I contatti ci sono stati.»

«In che anno?»

«Non ha importanza…»

«Invece sì. Gli ex membri dell’ETA con cui sono entrato in contatto esclusivamente per motivi di lavoro, sono stati tutti amnistiati nel 1977» precisai.

Capii che la mia replica aveva colto nel segno. Era tutta una messa in scena, una manovra intimidatoria improvvisata. Erano andati a pescare il mio esile dossier dai loro straripanti archivi segreti, e avevano montato in fretta e furia una farsa che avrebbero faticato a tenere in piedi per più di due giorni.

Il giudice concluse:

«È necessario far luce su questi fatti. Lei verrà trattenuto in isolamento per le settantadue ore previste dalla legge, mentre le indagini proseguiranno. Dopodiché dovrà comparire di nuovo. Questa volta insieme al suo avvocato.»

Incommunicado fu la parola spagnola che usò per «isolamento». Si trattava di una pratica molto diffusa nel sistema giudiziario spagnolo. Dava alla polizia settantadue ore di tempo per produrre il materiale necessario al prolungamento della custodia cautelare, la quale poteva protrarsi per mesi prima di sfociare in un processo o un rilascio definitivo. Cominciavo a innervosirmi sul serio. Nella Spagna democratica esisteva un intricato sistema sommerso di clientelismi che coinvolgeva i personaggi di potere a tutti i livelli, e io avevo gettato lo scompiglio in ambienti molto potenti.

«Esigo che mi si permetta di telefonare a mia moglie e al mio avvocato.» Avevo la bocca secca e le palme delle mani madide di sudore.

Il giudice istruttore si voltò verso la stenografa, che aveva l’aria di trovare la seduta di una noia mortale.

«Si metta a verbale. Ai sensi dell’articolo 189, comma 4 del codice penale, l’indagato viene trattenuto in isolamento per tre giorni a partire da questo momento. La polizia giudiziaria provvederà a informare della detenzione la coniuge dell’indagato. L’indagato potrà conferire con il suo avvocato per due ore prima della prossima udienza, fissata di qui a tre giorni, alle ore cinque pomeridiane. Fino all’incontro con l’avvocato, l’indagato non può ricevere visite; ha diritto a mezz’ora quotidiana di moto all’aria aperta.» L’interrogatorio era terminato e fui ricondotto in cella. Ero sconvolto, pieno di rabbia. Eppure mi ero trattenuto a stento dal ringraziare il giudice per aver disposto che la polizia avvisasse mia moglie. Amelia avrebbe senz’altro avvertito Oscar e Gloria.

Era trascorsa una mezz’ora dal mio rientro in cella, quando il secondino grasso arrivò con una ciotola di zuppa di verdure calda, due fette di pane fresco, un pezzo di pollo con patate arrosto e acqua minerale. Da parte sua, aveva l’aria di preferire cibi ben più ricchi e pesanti. Gli occhi parevano piccolissimi persi in quel faccione cui la carne in eccesso conferiva l’espressione di un bambino che avesse subito un torto.

In realtà non avevo fame. Al cibo avrei preferito un bagno, però mangiai lo stesso. Avevo voglia di una sigaretta, ma mi avevano preso anche quelle, insieme all’accendino, alle chiavi e al portafoglio. Il secondino tornò a ritirare i piatti di plastica grigia e a consegnarmi una saponetta, uno spazzolino da denti, un tubetto di dentifricio, un piccolo asciugamano e una Bibbia. Gettò una ruvida coperta supplementare sul tavolaccio. Tutto faceva pensare che fosse ora di andare a letto per il detenuto speciale Lime. Gli chiesi del tabacco, ma quello non si scomodò a rispondermi.

«Buona notte» dissi alla sua schiena, e di nuovo non ci fu risposta. La cella era quasi completamente insonorizzata. Non potevo udire il suono dei passi del ciccione che si allontanava lungo il corridoio, nessun rumore dalle celle attigue o dalla strada. Quel silenzio era un fatto unico per Madrid, sempre chiassosa e mai del tutto addormentata. Percepivo solo il ritmico pulsare del sangue nella mia testa e il ronzio di un tubo nel muro. Mi servii del fetido buco nell’angolo, mi lavai il viso e i denti e mi distesi sul tavolaccio. Dormii poco e malissimo, la luce era accesa e tutta quella quiete amplificava la mia inquietudine. Erano trascorse poche ore dal mio arresto e già la lontananza della mia famiglia e del resto dell’umanità mi dava i crampi allo stomaco. Gli uomini del ministro sapevano il fatto loro. Tre giorni lì dentro e sarei stato disposto a confessare qualunque cosa. O quasi. Disteso sulla schiena mi sforzai di tener viva la fiammella della rabbia. Volevo coltivare l’aggressività e il rancore che mi avrebbero spinto a lottare. Rimasi sveglio per un tempo che mi parve lunghissimo nell’immobilità insopportabile del tempo, dove i pensieri si rincorrevano sconnessi e ogni battito irregolare del cuore mi faceva sussultare.

Infine dovetti assopirmi, perché mi svegliai di soprassalto quando la porta della cella si aprì. Erano i due tipi di Llanca, il piccoletto fifone e il gorilla palestrato. Quello grosso mi lanciò un’occhiata feroce, segno forse che il braccio e la spalla gli facevano ancora male. Il piccoletto ebbe un mezzo sorriso. Erano entrambi in giacca e cravatta nonostante fossero quasi le quattro del mattino. Se si erano presentati a quell’ora con l’idea di cogliermi in un momento di confusione e vulnerabilità avevano fatto male i loro calcoli: avevano l’aria di essere ben più stravolti di quanto non mi sentissi io.

Il grosso si appoggiò alla porta in modo da coprire lo spioncino. Come durante il nostro primo incontro, il suo atteggiamento minaccioso era contraddetto dal nervosismo che gli serpeggiava in volto. Notai un buffo tic che cercava di dissimulare toccandosi prima il mento poi la narice destra. Il piccoletto era in piedi contro il muro.

Mi rizzai a sedere e mi preparai a incassare le botte che credevo fossero venuti a darmi.

Invece, il piccoletto mi lanciò un pacchetto di Chesterfield e un accendino. Accesi una sigaretta e aspirai forte mentre registravo un breve, piacevole senso di vertigine.

«Calvo Carrillo» si presentò quello della sigaretta. «Il mio collega si chiama Santiago Sotello. Stia tranquillo, non c’è motivo di spaventarsi.» La mia aria assorta doveva essergli parsa, forse non a torto, un tentativo di dissimulare paura anche a me stesso.

«Che ne dice di parlare un po’ d’affari, Pedro? Potremmo riuscire a risolvere questa faccenda in modo civile. In fondo siamo uomini adulti. Siamo abituati a muoverci nel mondo e non abbiamo tempo da perdere.»

Continuai a fumare senza aprir bocca, limitandomi a contemplare i suoi strani occhi smorti, simili a quelli di un bambolotto.

Calvo Carrillo continuò:

«Questa storia può diventare seria…»

«Non avete elementi per accusarmi» ribattei.

«Ma potremmo causarle parecchi fastidi. Forse fra un paio di giorni uscirà. Ma potrebbe finire dentro di nuovo. Ogni volta che ci sarà un omicidio di matrice terroristica, tornerà qui per un bell’interrogatorio. Ci aveva pensato?»

Annuii. Sapevo benissimo che diceva la verità. Erano nella posizione di rendermi la vita molto difficile. Quasi mi leggesse nel pensiero, riprese a elencare le possibili vessazioni che uno stato forte e moderno poteva legittimamente infliggere ai suoi cittadini, o, meglio ancora, ai suoi non-cittadini, come nel mio caso.

Fece un passo avanti.

«Lei è uno straniero nel nostro paese, ma ha imparato la nostra lingua, conosce e apprezza la nostra cultura. La Spagna le piace, non è vero? E se improvvisamente non le riuscisse di ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno? Saremmo costretti a ritirarle anche il permesso di lavoro. Poi c’è il fisco. Anche quello può essere fonte di parecchie grane: ispezioni, revisioni, perquisizioni, controlli incrociati. Capisce ciò che sto cercando di dirle?»

«Chissà, la Chiesa potrebbe decidere di scomunicarmi…»

Carrillo sorrise. Il gorilla sembrava indignato dalla mia tracotanza. Aveva in mano un tubo di gomma sicuramente imbottito di ferro, e prese a batterselo ritmicamente contro la coscia: era pronto a usarlo, se non mi fossi mostrato ragionevole. Evidentemente i miei due amici avevano fretta.

«No. Non credo che la Chiesa possa fare granché, ma le indagini potrebbero estendersi anche a familiari e amici» disse senza ironia.

«Lasciate mia moglie fuori da questa storia.»

«Una volta messa in moto, la macchina cammina.»

«Però la si può fermare, no?»

«Sì, certo.»

«E chi mi garantisce che dopo non torni a mettersi in moto?» domandai.

Mi guardò con espressione sollevata. Avevamo aperto una trattativa. Da buon tirapiedi di un esperto uomo politico, preferiva compromessi e ricatti alla violenza esplicita.

«Vogliamo i negativi e le foto. Anche se non avremo mai la garanzia che lei non ne abbia nascosto qualcuno.»

«Infatti.»

«Ma non importa. Capisco che in una società moderna è importante avere una polizza d’assicurazione che copra gli imprevisti.»

«Lei è una persona intelligente» dissi.

Non afferrò la nota di sarcasmo nella mia voce, oppure preferì far finta di nulla. Sapevo già che avrei accettato la proposta. In fondo che significava tutta quella storia per me? Significava che avrei dovuto ingoiare un po’ d’orgoglio, tutto qui. Le foto che mi avevano cacciato in quel pasticcio non erano opere d’arte, ma immagini nate per stuzzicare la curiosità e la fame di pettegolezzi della gente.

«Quando posso uscire?» domandai.

Lui esitò.

«Tra ventiquattro ore. Forse un po’ prima.»

«E perché non subito?»

«Dovremo far in modo che le formalità vengano rispettate e quindi farla rilasciare dal giudice. Per dirla chiaramente, abbiamo fatto qualche pressione su di lui perché la mettesse in prigione. Non credo sia il caso di sottoporlo a ulteriori pressioni.»

«Vuol forse dire che quell’uomo prende la sua carica sul serio?» chiesi.

«Forse.»

«Questa faccenda mi puzza.»

Il piccoletto mosse qualche passo su e giù per la cella. Guardandolo camminare vidi chiaramente quanto poco spazio avessi a disposizione. Sapevo che sarei impazzito se fossi rimasto da solo per mesi in una cella tanto angusta.

«Come faccio a farvi avere le foto? Sono in isolamento.»

«A questo si può rimediare. Domani mattina le metteranno a disposizione un telefono. Le daranno giornali, una radio, un televisore, tutto il cibo e le ore d’aria che vorrà. Ma il procedimento avviato nei suoi confronti potrà essere sospeso solo dalle autorità competenti.»

Allargò le braccia. Come a dire: questi sono i patti, non ho altro da aggiungere, non posso spingermi oltre.

«Okay» dissi.

«Accetta l’accordo?»

Adesso sembrava sorpreso, ma che si aspettava? Che mi mettessi a urlare? Che pretendessi di essere rilasciato immediatamente? Conoscevo il suo mondo abbastanza bene da sapere che era venuto con una proposta che era tale solo di nome, prendere o lasciare.

«Sì.»

«È un piacere trattare con lei» disse tendendo la mano. La strinsi. Mi lasciò le sigarette e l’accendino. I due se ne andarono augurandomi la buona notte e informandomi che ci saremmo rivisti l’indomani. Fumai un’altra sigaretta prima di distendermi supino sul tavolaccio e addormentarmi. Non ero del tutto soddisfatto di me stesso, sebbene probabilmente quella fosse la soluzione migliore. Oscar ci sarebbe rimasto un po’ male per i soldi, ma sicuramente avrebbe capito che le foto di un caprone e una bella attricetta italiana non valevano tutti i fastidi che ci saremmo procurati se le avessimo rese possibili. Avevamo perduto una battaglia. Ne avremmo vinte altre. O forse quella faccenda mi avrebbe fornito l’occasione di abbandonare per sempre l’aspetto meno nobile della mia professione. Di abbandonare la carriera di paparazzo.

In realtà ci pensavo da parecchio, almeno da quando mia figlia aveva cominciato a parlare. Perché in fondo mi ripugnava l’idea di campare della vulnerabilità della gente. Avrei potuto concentrarmi sui ritratti e fare un reportage giornalistico di quando in quando. Certo, si trattava di attività meno redditizie, ma la mia famiglia aveva abbastanza denaro. Vendendo la mia quota dell’agenzia, avrei potuto permettermi di non muovere un dito per il resto dei miei giorni, se avessi trovato un consulente finanziario in gamba. Provavo un senso di sollievo. Forse non avevo preso una decisione definitiva, ma avevo fatto un passo nella direzione giusta. Non sospettavo che il destino si sarebbe incaricato di rimescolare le carte.

L’indomani mattina c’era una nuova guardia carceraria, più giovane di quella del giorno precedente. Mi portò caffelatte, pane, burro, i giornali del mattino, una radio. E un telefono portatile: evidentemente le celle non erano completamente isolate come avevo ipotizzato. O forse erano dotate di un sistema di insonorizzazione che era stato disattivato.

Infatti, percepivo adesso qualche suono proveniente dall’esterno: dei colpi, un fruscio, un tintinnio, una voce. Oppure quello era un telefono speciale. Quasi certamente si poteva usare solo per chiamare, e da qualche parte due orecchie governative erano in attesa di ascoltare la mia conversazione. La nuova guardia carceraria specificò che il telefono costituiva una grave violazione del regolamento, ma aveva ricevuto l’ordine di lasciarmelo per un quarto d’ora, poi sarebbe tornato a riprenderlo.

Telefonai immediatamente ad Amelia. Rispose al primo squillo e quando sentì la mia voce scoppiò a piangere. Non doveva aver chiuso occhio, ma era una donna forte e coraggiosa e si sforzò di controllarsi in modo che potessimo parlare. Le dissi che stavo bene e sarei tornato entro ventiquattr’ore. Le spiegai in breve la situazione e l’accordo che avevamo raggiunto.

«La danese ha chiesto di te» disse.

«Chi?»

«Non mi ricordo come si chiama.»

«Ah, quella» dissi.

«Ha chiesto di… be’, lo sai.»

«Ho altro cui pensare adesso» dissi irritato.

«Posso fare qualcosa?» domandò.

«Avverti tuo padre. Io sto bene. Ci vediamo presto. Bacia la piccola.»

«L’ho mandata a scuola. Ho pensato fosse meglio così. Le ho detto che eri partito per uno dei tuoi soliti viaggi.»

«Avresti potuto dirle la verità. Non ho niente di cui vergognarmi.»

Ci fu una breve pausa.

«Pedro» disse lei.

«Sì, amore mio.»

«Ti amo.»

«Anch’io ti amo.»

«Torna a casa, presto.»

«Sì, certo. Non ti preoccupare. Bacia Maria Luisa per me!»

«Certo.»

«Adios» dissi interrompendo la comunicazione.

I quindici minuti erano quasi scaduti quando feci il numero diretto di Gloria. Oscar si sarebbe lasciato andare alla rabbia, mentre Gloria avrebbe saputo esattamente cosa dire e cosa fare. Ma Oscar era nell’ufficio di Gloria. Lo sentii imprecare e agitarsi in sottofondo mentre raccontavo tutto a sua moglie.

«Abbiamo già messo tre, anzi quattro avvocati al lavoro per tirarti fuori» disse con la sua bella voce familiare. «Ma quelli sfruttano la legge antiterrorismo, pensano di non essere tenuti a dare alcuna spiegazione.»

«E Oscar, che dice?»

«Oscar fa avanti e indietro per la stanza, maledice i fascisti e non è di alcun aiuto.»

«Ciao, old boy. Tieni duro!» Lo sentii gridare. Spiegai i dettagli del patto stretto con gli uomini del ministro e sottolineai il fatto che la stampa dovesse assolutamente restarne fuori.

«Hai fatto bene ad accettare, Peter. Esporsi alle loro ritorsioni sarebbe stato dannoso anche per gli affari e noi dobbiamo farti uscire adesso. Non sopporto il pensiero di te chiuso in cella. Mi fa andare in bestia. E sta’ zitto, Oscar! Che devo fare, Peter?»

Le dettai il numero di telefono che il piccoletto mi aveva dato al termine del nostro incontro di quel mattino e la pregai di consegnargli le foto e i negativi.

«E l’assicurazione?» domandò Gloria.

«Non ci pensare» le risposi.

«D’accordo. C’è altro?»

«Come sta Amelia?»

«Bene. La conosci meglio di me, non è il tipo da abbattersi facilmente. Ma ovviamente non è facile. Quella donna è unica, Peter. Ma questo già lo sai.»

«Grazie.»

«Abbi cura di te, cariño. Non ho rinunciato all’idea di farti uscire entro oggi.»

«Sarebbe bello.»

La comunicazione fu interrotta. Mi avevano dato un telefono senza fili che potevano “riagganciare” a loro piacimento. Poco dopo arrivò la guardia giovane per ritirare l’apparecchio.

Le ventiquattr’ore che seguirono furono noiose, ma tutto sommato serene e paradossalmente quasi rilassanti. Forse perché sapevo che di lì a poco sarei stato rilasciato.

Lessi i giornali, fumai, mangiai, uscii in cortile e sonnecchiai. Chiesi un caffè e fui accontentato, bevvi acqua, rilessi i giornali, ascoltai la radio — il televisore non me lo avevano portato — e pensai alla mia famiglia. Poi mi sdraiai a guardare il soffitto e ad aspettare il sonno, che come sempre stentava ad arrivare.

Alla fine riuscii ad addormentarmi fiducioso.

Non sapevo che, in quelle stesse ore, il mio mondo crollava rovinosamente. Che il mio viaggio all’inferno era cominciato.

5

Poco prima che venissero a svegliarmi feci un brutto sogno. Ero circondato da un paesaggio surreale fatto di montagne finte coperte di finta neve. La luce era di un blu oltremare, come in una scenografia di Hollywood o in una foto rielaborata al computer. A un tratto l’orizzonte si oscurò come prima di un temporale. In una grotta dalle pareti viscide e grigie, rimestavo un pentolone in ebollizione su una stufa a gas. C’erano anche Oscar e Gloria, mi davano le spalle, ma potevo vedere ogni loro mossa. Oscar era fasciato in uno dei suoi impeccabili completi, era più alto che nella realtà e teneva in mano un libro dalla copertina nera. I capelli di Gloria erano rossi. Indossava una tunica ampia e lunga fino alle caviglie, ma poco dopo improvvisamente era nuda, con il sesso coperto da un quadratino rosso come in una foto censurata. Oscar le porse il libro e lei fece per prenderlo, aveva mani vecchie e nodose e unghie lunghissime. Oscar disse: «Prendi il libro mastro. Tutto è stato contabilizzato e controllato». Gloria ci ripensò, non voleva più prendere il pesante libro nero. Protestò: «Ti ho chiesto la resa dei conti, non il libro dei conti». Volevo dire loro che Oscar aveva preso il libro giusto, ma ero impegnato a rimestare il contenuto ribollente della pentola e non osavo girare la testa in direzione dei miei amici.

Mi svegliai di soprassalto.

La guardia grassa era sulla porta. Aveva la faccia stravolta. Ero fradicio di sudore, il cuore mi martellava in petto e mi sentivo la testa come attraversata da una corrente elettrica mentre lottavo per mettere in fuga l’inconscio. Mi rizzai a sedere e appoggiai i piedi sul pavimento.

«Mi scusi, Señor Lime, se l’ho spaventata» disse l’agente. Era la prima volta che udivo la sua voce e ne fui sorpreso. Mi ero aspettato un basso profondo, le consonanti dure dei madrileni, invece aveva una vocetta fina e acuta, dall’accento si sarebbe detto originario dell’Estremadura.

«Non fa niente» dissi raccogliendo i capelli nel codino.

«La prego di seguirmi» disse.

Quell’improvvisa gentilezza mi insospettì.

«Che ore sono?»

«Le sette e qualche minuto.»

«E così mi lasciate andare. Il giudice s’è alzato presto!»

«Mi segua, Señor Lime» disse lui.

«Per fare che? Dove?»

«Due amici sono qui per vederla. Venga, adesso.»

Il suo faccione esprimeva sincero turbamento.

«Mi dia un minuto da solo.»

Uscì dalla cella lasciando la porta socchiusa. Mi liberai nel solito buco, mi gettai un po’ d’acqua in viso e abbottonai i jeans prima di infilarmi la camicia sopra la maglietta.

Seguii la guardia lungo il corridoio silenzioso. Salite le scale mi giunsero alle orecchie le prime note della sinfonia mattutina di Madrid e sorrisi fra me al pensiero che presto avrei rivisto mia moglie e mia figlia. Percorremmo un corridoio più ampio ed entrammo in un grande ufficio, dove il giudice attendeva dietro una scrivania. Di fronte a lui erano seduti Gloria e Oscar. Avevano l’aria di aver visto la morte in faccia. Gloria aveva gli occhi arrossati dal pianto, e, senza trucco, sembrava più vecchia di dieci anni. Oscar era come impietrito. Sulla scrivania del giudice notai un sacchetto di plastica trasparente contenente le mie cose: il portafogli, le chiavi, la Leica, il telefonino, l’accendino, le sigarette.

«Era ora!» esclamai. «Incominciavo a temere che aveste intenzione di lasciarmi marcire qui dentro.»

«Siediti, Peter» replicò mestamente Oscar.

La paura mi serrò la gola.

«È successo qualcosa ad Amelia?»

«Siediti» ripeté Oscar.

Allora Gloria si avvicinò a me e prendendomi per mano mi fece sedere su un divano di cuoio appoggiato contro la parete.

«Cosa c’è? Che è successo ad Amelia e Maria Luisa?» Gloria pronunciò con voce rotta le peggiori parole che abbia mai udito:

«Sono morte, Peter. In un incendio questa notte. È terribile…» Scoppiò a piangere, abbracciandomi e stringendomi con foga disperata.

Ricordo che vomitai. Poi solo buio e silenzio per un tempo che mi parve infinito.

Quando tornai alla realtà, ero ancora seduto sul divano con un bicchiere d’acqua in mano. Lo vuotai d’un sorso. Oscar, Gloria e il giudice mi fissavano pallidi e immobili come statue di cera. Assurdamente pensai che Gloria, nuda sotto la giacca chiusa da tre bottoni, aveva l’aspetto di un’adultera colta sul fatto dal marito geloso. Vomitando le avevo macchiato la camicetta, perciò se l’era sfilata.

Mi ritrovai in mano un altro bicchiere colmo d’acqua e Oscar ruppe il silenzio:

«Come stai?».

«Per l’amor del cielo, Oscar! Come vuoi che stia?» esclamò Gloria.

«Voglio sapere cosa è accaduto», pronunciai in tono innaturalmente calmo.

Il giudice si schiarì la gola.

«Señor Lime» disse porgendomi un foglio. «Le mie condoglianze. Qui ci sono i documenti per il suo rilascio. Il caso si chiude qui. Ha il diritto di intentare una causa per danni allo stato spagnolo per arresto e detenzione illegittimi. Le metto a disposizione il mio ufficio per conferire in pace con i suoi amici. Di nuovo, le più sentite condoglianze. Per favore, prima di andare, firmi qui.»

E con questo lasciò la stanza.

«Cosa è successo?» chiesi di nuovo. Ascoltai in silenzio e a occhi asciutti il resoconto di Gloria. Intorno all’una e mezzo del mattino nel nostro appartamento si era verificata una violenta esplosione. L’incendio che era seguito si era rapidamente propagato al resto del palazzo. Il tetto era crollato, tutti gli appartamenti devastati. Finora erano stati recuperati tredici corpi. Le due famiglie del piano di sotto erano riuscite a scappare insieme a quelle del terzo piano. I cadaveri erano stati portati all’istituto centrale di medicina legale e la polizia aveva avviato le indagini. Per il momento l’ipotesi era che si fosse trattato di un’esplosione di gas provocata da un vecchio tubo difettoso.

«Siete assolutamente certi che fossero in casa?» domandai.

«Purtroppo sì, Peter» rispose Gloria.

«Voglio vederle» sussurrai.

«Possiamo andarci subito» disse Oscar cupo. «Ma sarà straziante e…» non seppe continuare.

Accese una sigaretta e me la infilò in bocca. Mi circondò le spalle con un braccio e restammo seduti così, senza parlare, per qualche minuto. Fumavo meccanicamente e cercavo di convincermi del fatto che Amelia e Maria Luisa mi fossero state portate via. Davvero e per sempre. Non erano morte, no. La parola “morte” era troppo neutrale, descriveva un fatto naturale, inevitabile. Prima o poi la morte arriva per tutti. Mia moglie e mia figlia mi erano state rubate, rapite, ingiustamente, inspiegabilmente.

Il vuoto, il dolore e la rabbia montavano dentro di me togliendomi il fiato.

La grossa Mercedes 600 di Oscar era parcheggiata nel cortile della centrale. Mi sedetti accanto a Gloria sul sedile posteriore e Oscar mise in moto. Il poliziotto di guardia azionò la sbarra e uscimmo in strada. Era la libertà, ma libertà di cosa? Di tornare alla bottiglia? Di essere infelice per il resto dei miei giorni?

Davanti all’ingresso dell’edificio un drappello di fotografi e cronisti ci stava aspettando.

«Cosa significa?» domandai scioccamente mentre Oscar frenava bruscamente per non investire la folla.

«Quando abbiamo cominciato a telefonare in giro non ci è stato possibile evitare che la notizia del tuo arresto si spargesse. Circolano voci sulle foto del ministro…»

Le telecamere e gli obiettivi quasi toccavano i finestrini, come volessero accarezzarli. I giornalisti gridavano le loro domande: come stavo? Avevo commenti da fare? Pregavano che dicessi qualcosa, qualunque cosa! Centinaia di volte avevo visto una delle mie prede, innocente di qualunque crimine, cercare di sottrarsi alla curiosità della gente, coprirsi il viso con le mani. Quasi che l’assalto all’intimità generasse in chi lo subiva un senso di colpa spontaneo quanto immotivato. Ma io ero troppo infelice per avere reazioni di sorta. Mi sentivo semplicemente finito.

«Oscar, portami a Santa Ana» dissi.

«Là ci sarà ancora più gente.»

«Non discutere, Oscar. Fai quello che dice» intervenne Gloria.

«Okay.»

Suonò il clacson e avanzò cauto tra la folla di giornalisti, che si aprì come il mare davanti alla prua di una nave. I più solerti rincorsero l’auto per un tratto. Appena ebbe via libera, Oscar accelerò e in pochi minuti arrivammo a Plaza Santa Ana.

La piazza era transennata. Gli agenti ci fermarono, ma quando Oscar spiegò loro chi fossi ci fecero subito passare. Parcheggiò sul marciapiede e scendemmo dall’auto. Quattro grossi mezzi antincendio erano fermi davanti al mio palazzo. I lampeggianti azzurri parevano guizzi di fuochi d’artificio nella luce bianco-grigia del mattino. L’aria era fresca e il cielo coperto. C’erano diverse auto della polizia, e il lastricato della piazza era striato di rivoli d’acqua nera. Simili a ombre dell’inferno, i pompieri s’aggiravano per quella che fino a poche ore prima era stata la mia casa.

L’aria era impregnata di fumo e di un insostenibile lezzo di morte. S’udivano sibili, radio gracchianti e il crescendo delle voci di quanti, sul luogo di una disgrazia, dapprima tacciono sconvolti, poi cominciano a mormorare fra loro sempre più fittamente, incapaci di nascondere il sollievo, l’eccitazione di esserci, di esistere ancora.

Mi diressi verso quel che restava del mio appartamento mentre cronisti e fotografi mi correvano incontro. Anche se raramente firmavo le mie foto, nell’ambiente il mio volto era conosciuto. Con gli obbiettivi delle macchine puntati addosso come tanti bazooka, raggiunsi una transenna da dove potevo guardare dentro il palazzo incenerito.

Il puzzo e il calore mi colpirono in viso facendomi avvampare. Seppi che i fotografi si erano assicurati un buono scatto quando le lacrime cominciarono a solcarmi le guance. Non riuscivo a riconoscere nulla. Era come se una bomba avesse mandato in frantumi le viscere della mia casa. Intorno a me continuava la pioggia di domande. A malapena le udivo.

A un tratto mi si parò di fronte Felipe Pujol, un catalano piccolo e tozzo che faceva la cronaca nera per «El Mundo».

«Pedro? Come stai? Perché ti hanno arrestato?» Non risposi.

«Levati dai coglioni, Felipe!» disse Oscar alle mie spalle.

Felipe non gli badò. Mi venne talmente vicino che per poco non mi pestò i piedi e inchiodò lo sguardo al mio. Potevo sentire il suo odore. Quella mattina, insieme al caffè si era concesso un brandy.

Disse:

«Ho saputo che stavi per sputtanare un ministro. È questa la ragione di tutto questo casino? Dai, Pedro, parla! Accidenti, sei del mestiere. Dammi la storia! Potrà essere utile anche a te. È vero che hai scattato una serie di foto piccanti? “El Mundo” vuole l’esclusiva».

Gli sferrai una ginocchiata nelle palle e lui si ripiegò su se stesso senza emettere il benché minimo suono, mentre sul suo volto si dipingeva un’espressione sofferente e sbigottita. Girai i tacchi e, servendomi di Oscar come frangiflutti, mi feci largo tra la folla di fotografi, giornalisti e telecamere. C’era anche la troupe della «TV del Mattino», un contenitore di tragedie, pettegolezzi, scandali, ricette di cucina e bollettini del traffico. Dovevano essere in diretta. Oscar, grosso com’era, faticò ad aprirsi un varco mentre io lo seguivo come in trance. Tutto mi sembrava un sogno, confuso e lattiginoso, da cui mi sarei svegliato di lì a un istante, quando avrei teso la mano e accarezzato la schiena di Amelia addormentata accanto a me, il suo morbido sedere a pochi centimetri dal mio ventre.

Alcuni poliziotti ci circondarono scortandoci verso la macchina dove Gloria aveva preso posto dietro il volante. Oscar si sedette accanto a me sul sedile posteriore.

«Maledetti sciacalli.»

«Sciacalli e colleghi» sottolineò Gloria con voce cupa.

«Voglio bere qualcosa» dissi.

«Okay» rispose Oscar.

«No!» disse Gloria.

Non ricordo nient’altro del tragitto verso Amelia e Maria Luisa.

So che più tardi mi ritrovai davanti a due corpi coperti da un lenzuolo dentro una stanza rivestita di sterili piastrelle. Il medico, o poliziotto, scostò il lenzuolo. Entrambe avevano i capelli coperti come da una cuffia da bagno. No, i capelli non c’erano più. Il viso bruciato di Amelia era praticamente irriconoscibile. Maria Luisa aveva pochi segni di ustione, ma era coperta di fuliggine e aveva una grossa vescica sulla guancia. Quando notai che non aveva più le ciglia, scoppiai in un pianto disperato.

«Sono sua moglie e sua figlia?» domandò l’uomo con il camice bianco.

«Sì.»

«Vorrei il suo consenso per effettuare l’autopsia.»

«Perché?»

A rispondere fu un uomo di mezza età che indossava un abito di buon taglio.

«Ne ho fatto richiesta, Señor Lime.»

Era in piedi in un angolo della stanza e fino a quel momento non lo avevo notato. Gloria e Oscar erano rimasti sulla porta, pallidi come spettri. Gloria si era infilata una felpa che doveva aver trovato in macchina e aveva i capelli scarmigliati come se fosse appena scesa dal letto.

«Rodriguez, squadra omicidi» disse l’uomo elegante mostrando il distintivo. Aveva mani esili e brune. Notai un piccolo anello con diamante e la fede. Gloria fece un passo avanti per proteggermi, ma io alzai la mano per indicare che il suo intervento non era necessario.

«Non sono in grado di prendere una decisione adesso» dissi.

«E quando? Presto dovrà fissare il funerale» insisté lui.

Era vero. In Spagna seppelliscono i morti molto in fretta, non aspettano anche una settimana, come accade in Danimarca. È un’usanza che risale ai vecchi tempi, quando i cadaveri non potevano rimanere esposti al caldo torrido. E poi, a differenza di noi danesi, i cattolici si preoccupano dell’anima più che della carne.

«Perché l’autopsia?» domandai ancora.

Lui fece un passo avanti e infilò un paio di guanti da chirurgo sulle mani affusolate. Con delicatezza girò la testa sfigurata di Amelia. Mi assalì un senso di nausea, ma non avevo più niente nello stomaco. Puntini luminosi danzavano davanti ai miei occhi.

«Guardi qui, Señor Lime» facendo scorrere l’indice guantato lungo il collo di Amelia, mi indicò due piccoli affossamenti.

Rodriguez continuò:

«Vede? Né io né il patologo riusciamo a spiegarci il perché di questi segni. Farebbero pensare a un tentativo di strangolamento. Oppure potrebbe essere rimasta impigliata in un cavo… Dobbiamo stabilire se risalgano a prima o dopo l’incendio, capisce? Era già morta quando è scoppiato l’inferno? Si è trattato di una tragica fatalità oppure stiamo parlando dell’omicidio di tredici persone? Ci dia l’autorizzazione a procedere con l’autopsia. Altrimenti saremo costretti ad andare per vie legali».

Il tempo si fermò. Mi voltai verso Gloria e Oscar:

«Vendete le maledette foto» dissi, poi tutto si fece nero.