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Che il tempo guarisca ogni male è una grande fandonia. Il tempo non guarisce un bel niente, lenisce il dolore come una pasticca calma un brutto mal di testa. Il dolore acuto e insopportabile si trasforma in un tormento continuo, che ci assedia anche di notte, quando il sonno tarda ad arrivare.
Il periodo che seguì la morte di Amelia e Maria Luisa fu terribile, caotico e sconcertante. Persi il controllo degli eventi quasi fossi ridiventato un bambino costretto a dipendere dalle cure e dalle decisioni dei grandi. Persone benintenzionate si fecero carico della mia vita e mi guidarono attraverso l’oscurità del tunnel, fino al chiarore di un sole debole e malaticcio. Gloria e Oscar si occuparono con l’abituale efficienza delle cose di carattere pratico. Dell’assicurazione, della causa per danni contro lo stato spagnolo e della vendita delle foto del ministro, che fecero il giro del mondo e ci fruttarono una piccola fortuna. Il risarcimento dell’assicurazione fu ingente, ma il valore artistico e affettivo dei miei negativi bruciati non poteva essere ripagato. Gli armadietti in materiale “ignifugo” erano stati distrutti dalle fiamme e l’instancabile Gloria fece causa anche alla casa produttrice.
I media, intanto, imperversavano. Le foto piccanti del ministro e la dichiarazione ufficiale secondo la quale l’incendio era di origine dolosa scatenarono sul caso una violenta tempesta mediatica.
Secondo i risultati dell’autopsia, Amelia era morta strangolata prima che divampasse l’incendio. Maria Luisa era morta asfissiata dai gas di combustione. Il resto delle vittime aveva perso la vita nell’incendio. Nel nostro appartamento erano state rinvenute tracce di esplosivi.
Di fronte alle velate allusioni della stampa, il ministro negò recisamente qualunque responsabilità e coinvolgimento nella tragedia di Plaza Santa Ana. In ogni caso fu costretto a dare le dimissioni: le foto scabrose erano incompatibili con l’immagine pubblica del membro di una coalizione di governo che faceva dei valori tradizionali la propria bandiera.
Il commissario Rodriguez brancolava nel buio. Di quando in quando veniva a ragguagliarmi sulle scarse novità emerse dalle indagini. Un unico testimone aveva visto due uomini lasciare l’appartamento poco prima che l’esplosione facesse saltare i vetri del palazzo. Erano piuttosto muscolosi e avevano i capelli neri come milioni di spagnoli. Si erano allontanati in direzione di Puerta del Sol. Più o meno era tutto. Rodriguez credeva possibile che si trattasse di un attentato dell’ETA diretto contro il bersaglio sbagliato. Nel palazzo viveva infatti, sotto falsa identità, una donna affidata al programma protezione testimoni dei servizi segreti, Carmen Arrese. Era basca e dieci anni prima aveva testimoniato contro l’ETA. A motivare il suo gesto era stata una delusione amorosa: uno dei capi l’aveva lasciata.
«Alla fine i suoi vecchi compagni l’hanno scovata, Señor Lime» disse Rodriguez. «Non si scappa dal passato.»
Eravamo alla Cervecería Alemana, seduti al tavolo di Hemingway davanti a un paio di caffè. Felipe, il vecchio cameriere, vigilava su di me quasi fossi una porcellana fragile. Continuavo a frequentare l’Alemana, nonostante fosse proprio di fronte a quello che un tempo era stato il mio palazzo: adesso era uno squarcio nell’architettura della piazza, per il resto uguale a sempre nella luce del tardo pomeriggio. I vecchi sulle panchine chiacchieravano e leggevano il giornale, presto i bambini sarebbero tornati da scuola e avrebbero cominciato a giocare. La birreria Alemana era stata il mio primo rifugio a Madrid. Anche se guardare al di là della piazza mi faceva l’effetto di un pugno allo stomaco, quel posto rappresentava per me un cordone ombelicale con un passato al quale pensavo sempre più spesso. Non volevo dimenticare Amelia e Maria Luisa. Il loro ricordo era fatto di gioia, nostalgia e un dolore lancinante, ma era l’unica cosa che mi restava.
«Crede davvero a questa storia dell’ETA?» chiesi.
«Tutte le altre piste non hanno portato a nulla. I terroristi sono molto attivi. Non dimenticano mai una spia, e i colleghi dei servizi segreti hanno saputo da certi informatori che la sua vicina era stata rintracciata e che intendevano eliminarla. L’esplosivo è un vecchio prodotto cecoslovacco, il semtex. Ce n’è ancora una gran quantità in circolazione. Potrebbero averlo avuto tramite l’IRA, o dai vecchi amici della DDR.»
Allargò le braccia.
«Come avrebbero potuto commettere un errore così clamoroso?» domandai.
«Carmen Arrese somigliava vagamente a sua moglie, Señor Lime.»
Carmen aveva circa trentacinque anni e abitava con il marito, suo coetaneo, nell’appartamento sotto il nostro. Lui era avvocato. Erano morti entrambi, insieme alla figlia, che aveva la stessa età di Maria Luisa.
«Carmen aveva un accento andaluso» dissi. «Neanche l’ombra di un’inflessione basca.»
«I suoi genitori stavano a Siviglia, ma lei era nata a Pamplona. Per prepararla alla sua nuova vita le avevamo insegnato la lingua della sua infanzia. Neanche il marito era al corrente della verità.»
«Era di dieci anni più giovane di mia moglie.»
«Señor Lime. Sua moglie, che Dio la benedica, era una bella donna. Avrebbe potuto benissimo passare per una trentacinquenne. Carmen invece in realtà era più vecchia. Siamo stati noi a ringiovanirla nel fornirle una nuova identità. Forse i terroristi hanno preso un abbaglio. Sono entrati nell’appartamento sbagliato e hanno strangolato la donna sbagliata prima di collocare la carica esplosiva.»
«Ma perché far saltare in aria tutto il palazzo?»
«Un altro errore: hanno usato una carica troppo potente. Siamo convinti che fossero inesperti. O forse c’è stata anche una fuga di gas. Non avevano intenzione di colpire sua moglie, ma l’inquilina del piano di sotto. Mi dispiace.»
«Quindi il caso sarà archiviato» dissi.
Lui raddrizzò la schiena.
«Al contrario. Se ne occuperanno gli organi competenti. Lei sa quanti mezzi lo stato impieghi nella lotta contro i terroristi. Lo sforzo sarà intensificato, glielo posso assicurare. Io indago su omicidi il cui movente è il sesso, l’avidità, la gelosia, l’alcolismo… Salvaguardare la sicurezza dello stato spetta ad altri.»
Mi guardò con espressione contrita. Lo stato aveva preso una pentita dell’ETA, una vera bomba a orologeria, e l’aveva piazzata nell’appartamento sotto quello mio e di Amelia. Senza sognarsi di avvertirci del rischio a cui quella mossa ci esponeva.
Rodriguez si alzò, mi strinse la mano e ringraziandomi per la collaborazione mi rinnovò le condoglianze. Io decisi di trattenermi ancora un po’ e presi un altro caffè mentre guardavo la luce sopra la piazza tingersi di blu. La birreria andò progressivamente riempiendosi di studenti provenienti dai vari istituti del circondario, avevano i libri sotto il braccio e lo sguardo pieno di fede nelle infinite possibilità del futuro. Io sedevo da solo davanti alla finestra, da lontano Felipe continuava a vigilare su di me.
Per la settimana successiva alla tragedia avevo approfittato dell’ospitalità di Oscar e Gloria. Non appena le salme ci erano state riconsegnate, mio suocero e io avevamo organizzato i funerali. Fino a quel momento, il rapporto fra me e Don Alfonso era stato piuttosto freddo, soprattutto a causa delle nostre divergenze politiche, ma il lutto ci avvicinò senza che fossero necessari gesti o parole. Alfonso era un ometto ricurvo il cui aspetto ricordava quello di Franco da vecchio. Aveva servito il Caudillo per venticinque anni, in qualità di ufficiale della guardia civile e capo di una branca dei suoi ramificatissimi servizi segreti. Come tanti altri, dopo la fine della dittatura era passato alle dipendenze del governo di transizione e poi della democrazia. Se le sue mani erano sporche del sangue delle vittime delle torture, era riuscito a tenerlo nascosto, un fatto tutt’altro che raro nella Spagna della riconciliazione.
Al funerale eravamo presenti solo Don Alfonso, Oscar, Gloria e io, ma fuori dal cimitero, sotto la fitta pioggia madrilena, gli obbiettivi dei fotografi ci aspettavano come tante bocche affamate. Le nuvole nere all’orizzonte erano lo sfondo perfetto per l’ultimo atto di una tragedia, il bagliore intermittente dei flash annegava in quello dei lampi. Facevo il paparazzo da sempre; adesso, ovunque andassi, ero a mia volta inseguito dai paparazzi. Il giorno successivo al mio rilascio, il mio viso bagnato di lacrime era apparso sulle prime pagine di tutti i tabloid e nelle sezioni di cronaca dei quotidiani più seri. Per una settimana avevo avuto l’impressione di avere una macchina fotografica sempre puntata addosso. Nonostante la sgradevolezza di quella sensazione, non provavo senso di colpa a causa della mia professione. Ero troppo impegnato a gestire la rabbia e il dolore della mia perdita, riuscivo a pensare solo a me stesso. Avevo sperato che, trascorso quel primo periodo, l’interesse dei miei colleghi sarebbe evaporato. Invece il branco dei fotoreporter mi aveva seguito anche al cimitero vicino a casa di mio suocero: chiamava il mio nome, faceva appello alla mia comprensione, mi implorava di collaborare, mi prometteva grosse cifre in cambio di un’intervista esclusiva. Le richieste che tante volte in passato avevo rivolto alle mie vittime risuonavano come un’eco nella cacofonia di voci che mi ronzava perpetuamente intorno.
Non so cosa disse il prete. Ricordo solo il tamburellare della pioggia sulla bara bianca nella quale Amelia e Maria Luisa giacevano vicine. Vi gettai sopra un fiore prima di allontanarmi sottobraccio a Don Alfonso, che, come me, sembrava aver esaurito le lacrime.
Ormai era luglio e quasi due mesi erano trascorsi da quel giorno nero e terribile. Nel frattempo mi ero trasferito nella villa che mio suocero possedeva in un paesino non lontano da Madrid. Là, ai piedi delle montagne, Don Alfonso trascorreva la sua vita di pensionato leggendo saggi sulla storia della guerra civile spagnola e coltivando pomodori e orchidee. Passavo ore nella mia stanza, seduto davanti alla finestra a contemplare le montagne, pensando a tutto e a niente. Alfonso mi faceva trovare qualcosa da mangiare, per il resto mi lasciava in pace. Il suo riserbo era un sollievo dopo le premure eccessive di Gloria. A volte lo accompagnavo nelle sue spedizioni nei dintorni, per esplorare le vecchie trincee risalenti all’assedio di Madrid del 1937-38, quando lui era giovanissimo. I soldati bambini non sono un’invenzione africana: all’epoca della guerra civile, molti ragazzi dell’età di Alfonso erano stati arruolati su entrambi i fronti.
Parlavamo poco, e comunque mai del nostro lutto. Non c’era niente da dire: era semplicemente intollerabile. Intorno a mezzogiorno ci fermavamo a mangiare pane e formaggio sull’erba. Avevo l’impressione che gradisse la mia compagnia. Di tanto in tanto mi offriva pezzi di ricordi. Indicava un nido di cicogne e diceva: «C’era anche al tempo della guerra. Io stavo laggiù e sparavo in direzione della città. Gli anarchici portavano al collo fazzoletti rossi. Era una cosa sciocca, perché li trasformava in facili bersagli, ma per loro era una sorta di divisa. Anche se erano contrari alle uniformi e alle mostrine. Per questo i comunisti li odiavano a morte. Si sbranavano a vicenda.»
Tutto ciò che facevamo e dicevamo aveva l’unico scopo di aiutarci ad ammazzare il tempo. Di fare in modo che il lento ticchettio dei secondi trascorresse, senza che i nostri tetri e ossessivi pensieri ci facessero perdere il lume della ragione. Non scattavo quasi più foto, non di esseri umani, almeno.
Per potermi spostare tra la casa di Don Alfonso e Madrid mi ero comprato una Honda 750. Al termine dei miei pomeriggi in città, pagavo il mio caffè alla Alemana e partivo insieme a migliaia di pendolari. Guidavo con incoscienza, saettando tra le macchine incolonnate. Oscar mi accusava di coltivare un desiderio di morte e io non mi curavo di smentirlo. Ma mi piaceva il vento che mi strapazzava i capelli, quando, uscito dai sobborghi, lanciavo la moto a tutto gas sulle stradine secondarie che portavano a casa di mio suocero.
Il giorno del mio incontro con Rodriguez, appena rientrato da Madrid, presi una Coca dal frigo, versai un bicchiere di rosé ben freddo per Alfonso e andai a sedermi sul terrazzo. Il silenzio era quasi assoluto. L’aria tremula e calda del giorno svaporava gradualmente nella limpida, luminosa volta celeste. Piccole luci spuntavano nel crepuscolo sopra la linea irregolare dell’orizzonte.
Don Alfonso si sedette con un «buenas tardes», si tolse il cappello e si asciugò la fronte abbronzata. Dopo qualche minuto ruppi il silenzio per raccontargli della conversazione con Rodriguez. Mi ascoltò senza interrompermi. Era difficile per me collegare l’immagine di quel vecchio dai modi pacati e taciturni a un passato di agente segreto al servizio del regime franchista.
Al termine del mio racconto, Alfonso cominciò a parlare con l’abituale lentezza.
«Bene, Pedro. Quella di Rodriguez è una storia verosimile. Tutti noi siamo ansiosi di trovare spiegazioni. Ma ogni indagine è come un iceberg. La punta è niente in confronto alla parte che resta nascosta alla vista.»
«Allora non ci credi? Non credi che sia stata l’ETA?»
«È una tesi rispettabilissima. Capita a tutti di sbagliare, perché non all’ETA? La spietatezza dell’attentato è coerente con l’idea che abbiamo del terrorismo. E poi individuare una logica, per quanto perversa, nell’accaduto aiuterebbe sia te che me a riconciliarci, per quanto possibile, con la tragedia. Oppure no…»
«Credo che andrò a San Sebastián» dissi.
«Ti capisco. Forse fai bene. Ma ricordati che lo stato è disposto a tutto nella lotta contro il terrorismo. Non guarda in faccia nessuno.»
«Ho delle vecchie conoscenze che potrebbero…»
«So chi sono i tuoi amici, Pedro. Anche la polizia li conosce bene.»
«Non sono più dei fuorilegge.»
Nel 1977, alla vigilia delle prime elezioni libere dopo quarant’anni, lo stato spagnolo aveva concesso un’amnistia a tutti i membri dell’ETA che avessero rinnegato la violenza. I detenuti politici erano stati liberati ed era stata fatta tabula rasa. Molti vecchi membri dell’ETA avevano appeso le armi al chiodo e adesso conducevano una vita normale nelle Province Basche che avevano ottenuto l’autonomia sotto il nome di Euskadi. Ma una nuova generazione di baschi aveva abbracciato la lotta armata contro lo stato spagnolo, e la sua spietatezza superava quella dei vecchi partigiani.
Continuai:
«Ma restano baschi. Il fatto che da anni abbiano deposto le armi non significa che siano disposti a lasciare che la polizia spagnola faccia di loro dei delatori. Io non sono la polizia. Forse riuscirò a scoprire qualcosa.»
«E a tenere la mente occupata. Ti capisco, Pedro.»
«Sei disposto ad aiutarmi?»
«Io…»
«Potresti sfruttare i tuoi vecchi contatti per informarti, sondare fonti per me inaccessibili.»
Prese un piccolo sorso del rosé. Mi alzai e rientrai in casa. Volevo dargli il tempo di riflettere in pace, così decisi di dedicarmi alla cena.
Il primo piano della villa consisteva in un unico spazio fresco e accogliente in gran parte riservato alla cucina. Il pavimento era di mattonelle, bianche come le pareti. Al piano superiore c’erano quattro stanze da letto, una delle quali era la mia. Nel soggiorno, sotto un’immagine della Vergine con Gesù Bambino in braccio, Don Alfonso aveva sistemato una foto di Amelia e Maria Luisa. L’avevo scattata un giorno d’estate di due anni prima, in giardino. In piedi davanti alle piante di pomodori di cui mio suocero andava così orgoglioso, Amelia e Maria Luisa ridevano. La luce disegnava un’aureola intorno ai loro leggeri abiti estivi. Era un’immagine bella e traboccante di vita, e soffrivo ogni volta che la vedevo, ma Don Alfonso si rifiutava di metterla via. Accanto alla foto incorniciata c’erano due candele, e sapevo che lui le accendeva quando non ero in casa.
Il menù prevedeva insalata di pomodori e cotolette d’agnello, che preparai in padella con olio, aglio e del basilico raccolto in giardino. Doña Carmen, la governante, aveva comprato del pane fresco. Disposi stoviglie e pietanze su un vassoio, versai un bicchiere di vino rosso per Alfonso, presi un’altra lattina di Coca dal frigorifero e portai tutto in terrazzo. Consumammo la cena in silenzio.
Poi mi alzai, lavai i piatti, preparai il caffè e glielo portai fuori, insieme al suo brandy serale. Ormai era calata la notte. Una splendida notte spagnola, vellutata, che ci avvolgeva attutendo i rumori della campagna intorno a noi.
«Una volta credevo nella vita» disse. «Ero convinto che fosse importante. La fede mi abbandonò nelle trincee davanti a Madrid. Quando mia moglie morì di parto, mi disperai. Ma la vista di Amelia mi riconciliò con Dio, accettai quel dono imputando la perdita di mia moglie al destino. Non si può vivere con il vuoto nell’anima e chi non sa pregare è un infelice.»
Fece una pausa e riprese:
«Questo secolo è stato una lunga serie ininterrotta di crimini. Ma adesso, con il nuovo millennio alle porte, abbiamo ragione di essere moderatamente ottimisti. A volte ripenso al passato e mi sento orgoglioso di appartenere alla mia generazione. Abbiamo sconfitto il nazismo, abbiamo sconfitto il comunismo. E in Europa abbiamo vinto la povertà della specie peggiore, quella che uccide. Forse non mi crederai, ma durante gli anni del regime franchista pensavo che i mezzi non sempre nobili a cui ricorrevamo sarebbero serviti a fare della Spagna una nazione civile. Il paese in cui sono nato più di settant’anni fa era povero, arretrato e isolato, pieno di miseria e di analfabeti, odio e crudeltà. Un milione di persone perse la vita nella guerra civile. Quarant’anni di ferite e cicatrici misero a dura prova la Spagna. Ma oggi siamo un popolo civile e democratico. E questo mi fa piacere. Mi fa piacere che ci sia di nuovo un re, che le nuove generazioni diano tutto questo per scontato. In fondo era il nostro grande scopo: che vivere in pace diventasse un fatto scontato».
Ci fu una nuova pausa, poi riprese più sommessamente:
«Quando ci hanno portato via Amelia e Maria Luisa, Dio è morto per la seconda volta nella mia vita. Non penso che risorgerà. Però a volte lo spero, e siccome spesso lo maledico, vuol pur dire che non ho smesso di credere nella sua esistenza, o no? Vado a messa, ascolto quelle parole familiari, chiudo gli occhi, giungo le mani, e… non riesco a pregare. Le mie parole inaridiscono come questo giardino in agosto. Non riesco neanche a confessarmi. Vorrei tanto tornare a credere alla resurrezione e alla vita eterna, ma non ci riesco».
I suoi occhi erano lucidi nella luce che dal soggiorno si riversava morbida in terrazzo. Prima d’allora non lo avevo mai visto piangere, né tradire altra emozione che la gioia di contemplare la sua nipotina.
Posai una mano sulla sua, fresca e asciutta. Non ci toccavamo mai e per un momento credetti che si sarebbe sottratto a quel contatto, invece l’altra sua mano andò a posarsi sulla mia.
«Ti aiuterò, Pedro. Non desidero vendicarmi, e ho smesso di credere anche nella giustizia. Ma ti aiuterò ugualmente, per due ragioni. Perché servirà a distrarti da quel dolore che cerchi di nascondere a me e a te stesso. In secondo luogo, lo farò perché te lo devo: hai dato a mia figlia i suoi anni più felici, e a me una splendida nipotina.»
L’indomani andai in ufficio. Madrid boccheggiava assediata da un’impossibile calura e dal solito, caotico esercito di auto strombazzanti. L’asfalto cuoceva e le foglie penzolavano tristemente, secche e impolverate, dai rami degli alberi.
L’agenzia era su Paseo de la Castellana, una strada pedonale sempre molto frequentata. Oscar e Gloria, proprietari di tutto il palazzo, abitavano nell’attico; la Ospe News era al piano di sotto, sulla sinistra uscendo dall’ascensore. A destra invece c’era lo studio legale di Gloria, dove giovani avvocati rampanti rimanevano incollati a computer e telefoni fino a tarda sera. Possedevo quote importanti di entrambe le società, due realtà strettamente interdipendenti, che tenevamo distinte soltanto per ragioni fiscali.
Da giovane avvocatessa neo laureata, negli anni del tramonto della dittatura, Gloria si era fatta le ossa e un nome difendendo socialisti e comunisti, liberali e sindacalisti, attivisti dei gruppi studenteschi e terroristi dell’ETA o della GRAPO con la furia di una leonessa, in aula e sui media. La stampa impazziva per quella giovane, avvenente avvocatessa politicamente impegnata, non si stancava di decantare il fulgore dei suoi occhi neri e il fascino selvatico della sua chioma scarmigliata.
A distanza di tanti anni Gloria accettava ancora qualche rara causa penale a titolo gratuito o in cambio della misera parcella che le autorità riconoscevano al difensore incaricato d’ufficio. Preferiva le cause in cui l’imputato era povero e donna, meglio se maltrattata dal marito. La sua percentuale di successi era invidiabile: nella maggior parte dei casi otteneva l’assoluzione o una pena minima per l’imputata. Le sue cause attiravano sempre l’attenzione dei media, e lei le accettava sia perché amava cimentarsi contro uomini che raramente si dimostravano alla sua altezza, sia perché in quel modo appariva in televisione. E la televisione attirava clienti come un biscotto le formiche.
A Madrid l’Ospe News aveva quattro dipendenti fissi incaricati di sbrigare il lavoro pratico, mentre una rete di free-lance sparsi in tutto il mondo ci procurava le foto e controllava che i nostri diritti ci fossero riconosciuti. Negli ultimi anni avevamo lanciato con successo uno studio per la produzione di video e spot televisivi, in più affittavamo attrezzature ai reporter che venivano da fuori.
Il mio ufficio e quello di Oscar erano separati dal locale riservato alle segretarie. Nel mio c’erano una vecchia scrivania, un computer nuovo, un telefono, un logoro divano, un televisore di venti pollici di produzione spagnola. A differenza di Oscar, non avevo un tavolo per riunioni da dodici, né arte spagnola contemporanea alle pareti, né una sedia girevole high-tech dietro la scrivania sterminata, né un impianto multimediale danese di marca Bang e Olufsen.
In piedi davanti alla finestra dell’ufficio di Oscar, io stavo bevendo una Coca, Oscar e Gloria dell’acqua. L’aria lì dentro era fresca, in forte contrasto con la cappa calda e fuligginosa che avvolgeva la città. Anche prima della tragedia, mi recavo in Paseo de la Castellana solo di tanto in tanto, preferendo lavorare da casa. Negli ultimi due mesi non ci avevo praticamente messo piede.
I miei soci avevano festeggiato la mia inaspettata apparizione incaricando le segretarie di rimandare gli appuntamenti del mattino, ma non gli impegni per pranzo: sapevano che non mi sarei fermato tanto a lungo. Come al solito si profusero in mille attenzioni, gentilezze e manifestazioni d’affetto. Anche se avrei preferito un atteggiamento diverso, apprezzavo la loro buona fede. Oscar e Gloria, pensai, erano la mia famiglia, l’unica che mi rimanesse.
Quando li informai che avevo intenzione di andare nelle Province Basche, Gloria scosse il capo. Era un’idea stupida e pericolosa, non era davvero il caso di mettersi a giocare all’investigatore privato. Oscar era d’accordo con lei.
«Non si tratta di un gioco» spiegai. «Ho bisogno di andare via per un po’. Farò quattro chiacchiere con Tómas e gli altri ragazzi, mi fermerò a casa per qualche giorno. Avrò la sensazione di stare facendo qualcosa.»
Da quando Amelia e Maria Luisa erano morte, non ero ancora tornato nella nostra casa di San Sebastián. Avevo paura di rivederla. L’incendio aveva cancellato con efficienza tutti i ricordi fisici della mia famiglia presenti nell’appartamento di Madrid, ma in quella casa avrei trovato vestiti, foto, giocattoli, libri, quaderni, profumi.
«Hai bisogno di tenere la mente occupata? Ho un’idea migliore» disse Oscar. «Perché non parti per una delle tue missioni? Ho avuto una buona dritta sui reali inglesi e tu sei il migliore, Peter. Devi riprendere a fotografare. A vivere…»
Il mio sguardo dovette convincerlo che non valeva la pena di insistere, perché a un tratto ammutolì. Gloria mi osservò in silenzio per qualche istante.
«E va bene, Peter. Vai a San Sebastián se è quello che vuoi» disse. «Prenderai l’aereo?»
«No, ci vado in moto» risposi.
«Ultimamente guidi come un pazzo. E non ti sogni di mettere il casco.»
«Sei troppo vecchio per fare il verso a Easy rider» disse Oscar.
«La citazione è calzante. Uno zaino, una macchina fotografica, i miei ricordi: non possiedo nient’altro.»
Oscar rise:
«Dimentichi le carte di credito. Ah, eccoti trasformato in un vecchio hippy di lusso! E pensare che quando ci siamo conosciuti, in tasca avevamo solo spiccioli, non sapevamo quando avremmo mangiato e non ce ne importava assolutamente niente!».
Quello era l’Oscar dei vecchi tempi. Risi insieme a lui, mentre Gloria tradiva un’espressione infastidita.
«E Don Alfonso?» domandò Gloria.
«Mi darà una mano.»
«Fareste meglio a lasciar fare al governo. Stanno passando la città al setaccio. Non mollano» disse Gloria.
Era vero. La polizia si dava un gran da fare, e nel cuore dei madrileni la paura aveva lasciato il posto all’irritazione: erano stufi di tutte quelle transenne, controlli, indagini, falsi allarmi. Ma l’interesse della stampa per la mia vicenda era ancora vivo. Che rapporto avevo con Dio? Ero favorevole all’introduzione della pena di morte per i terroristi? Che libro avevo sul comodino al momento? I giornalisti mi bombardavano delle loro sciocche domande; fioccavano gli inviti ai talk show, ma io respingevo ogni assalto per tramite della mia inflessibile, intrepida segretaria.
«È molto strano che l’ETA non abbia ancora rivendicato la paternità dell’attentato» dissi.
«Hanno commesso uno sbaglio clamoroso, terribile» ribatté Gloria.
«Voglio sentire cosa ne pensa Tómas. Anche se probabilmente finiremo col parlare solo dei vecchi tempi».
«Almeno portati dietro questo» disse Oscar porgendomi il mio cellulare. Non lo avevo più acceso da quando la polizia lo aveva sequestrato, ed esitai prima di prenderlo.
«Desideriamo poterci mettere in contatto con te» disse Gloria. «Ti vogliamo bene, Peter.» Annuii.
Digitai il mio codice pin e il telefonino si animò con una serie di frenetici bip. Mi sedetti e chiamai la segreteria. Diversi contatti di lavoro e alcuni amici mi facevano le condoglianze. L’ultimo messaggio era di Clara Hoffmann, in danese. Il rumore di sottofondo mi spinse a immaginarmela in piedi sul balcone dell’Hotel Victoria, intenta a osservare il via vai di Plaza Santa Ana.
«Peter Lime. La notizia della tragedia mi addolora in modo indicibile. Ti sono vicina e ti porgo le mie più sentite condoglianze. Oggi riparto per la Danimarca. So che il momento è dei meno opportuni, ma è mio dovere ricordarti che qualunque informazione riguardante la donna e l’uomo della foto ci sarebbe preziosa. Quando te la sentirai chiamami a Copenaghen. Altrimenti forse mi rifarò viva io. Credimi, sono addolorata, più di quanto riesca a esprimere a parole.»
Prima di cancellare anche il suo messaggio, annotai i due recapiti telefonici che mi lasciava su un foglietto che infilai in tasca.
«Chi era?» chiese Gloria. La mia espressione assorta doveva averla incuriosita.
«Una faccenda di cui mi ero dimenticato. Un agente dei servizi segreti danesi si è messa in contatto con me subito prima della tragedia. Cercava informazioni su una vecchia foto.»
«Ah, quella» disse Oscar.
«Di cosa state parlando?» domandò Gloria.
«Niente di importante» risposi alzando le spalle.
«La foto avrà fatto la stessa fine delle altre» disse Oscar.
«Sicuramente è nella valigia» dissi.
«Quale valigia?» insisté Gloria.
«Niente» risposi. «Lascia perdere.»
Gloria si fece seria e assunse la sua voce da avvocato, quel tono stridulo e affilato che in tribunale faceva venire i sudori freddi ai suoi avversari.
«Sei in possesso di foto e di negativi che non sono andati distrutti nell’esplosione? In caso affermativo, io, in qualità di tuo avvocato, ho bisogno di saperlo. Abbiamo preparato una bozza di richiesta di risarcimento per la compagnia di assicurazioni. Chiediamo un mucchio di soldi, sulla base del fatto che hai perso il frutto di tutta una carriera. Peter, non ho intenzione di sostenere la tua causa in tribunale se esiste il rischio che la controparte all’improvviso tiri fuori dal cilindro una foto di grande valore. Vuoi spiegarmi cos’è questa storia della valigia?»
La segretaria di Oscar fece capolino alla porta.
«È Londra» disse semplicemente e Oscar uscì dalla stanza.
«Allora, Lime?» insisté Gloria.
«Nell’arco degli anni di tanto in tanto ho selezionato alcuni negativi e li ho nascosti.»
«E perché?»
«Non lo so. C’è chi tiene un diario, io ho le foto. C’è chi fa collezione di francobolli. Io faccio collezione di istantanee.»
«Di che genere di fotografie si tratta?»
«Professionali, private, importanti, insignificanti, brutte, belle. Le mie foto.»
«Il negativo di Jacqueline Kennedy?» disse.
«Per esempio.»
«Quella da sola vale almeno un milione di corone. Dove è questa valigia? Voglio farle stimare, tutte quante.»
«Non se ne parla.»
«Peter!»
«Scordatelo.»
«Dove è la valigia?»
«Dimenticatene. Non ha importanza.»
«Con la tua ostinazione comprometterai la causa, Peter.»
«Allora lascia perdere tutto.»
«Neanche per sogno. Abbiamo le carte in regola per costringere quegli stronzi a sborsare un bel mucchio di soldi, sempre che tu la smetta di mettermi i bastoni tra le ruote.»
A motivare l’accanimento di Gloria non erano i soldi, ma la prospettiva dello scontro. Non replicai, e tra noi calò un silenzio imbarazzato. Entrambi ci accendemmo una sigaretta. Quando Oscar rientrò in ufficio avvertì la tensione nell’aria e inarcò le sopracciglia perplesso.
«Cosa è successo? Avete fatto fuori qualcuno?»
Gloria lo ignorò. «Vai a fare la tua gita, Peter. Ci sentiamo al tuo ritorno. Tanto, prima di ottobre non succederà niente.»
Mi parve che Oscar volesse aggiungere qualcosa, ma Gloria lo fulminò con lo sguardo.
Gloria e Oscar mi accompagnarono alla porta chiacchierando disinvoltamente di progetti per le vacanze. L’orribile agosto madrileno era alle porte, Gloria sarebbe andata a Londra, che amava moltissimo. Oscar avrebbe trascorso un paio di settimane in Irlanda e poi avrebbe raggiunto Gloria in Inghilterra. Mi strapparono una mezza promessa di unirmi a loro. Avrebbero voluto che tornassi a essere il vecchio Peter Lime, ma non si poteva riavvolgere la pellicola della vita.
Dall’ufficio mi recai all’ambasciata danese per ritirare il mio passaporto nuovo, poi tornai a casa per fare i bagagli e salutare Don Alfonso.
Mio suocero non era in casa. Aveva lasciato un biglietto sul tavolo della cucina: era andato in città per un paio di giorni per occuparsi della “nostra faccenda” e mi augurava buon viaggio.
Preparai lo zaino e lo assicurai al portapacchi della motocicletta. Le cavallette cantavano e dalle aiuole di Don Alfonso si levava una fragranza di polvere e fiori di pomodori. Chiusi la casa, inforcai l’Honda e mi avviai lentamente verso il cimitero. Accanto al biglietto, Don Alfonso aveva lasciato una splendida orchidea che avevo appoggiato di traverso sul serbatoio.
Le croci bianche e le lapidi di marmo cominciavano a tingersi di rosso nell’incipiente tramonto. Avevamo scelto una pietra semplice con i nomi di Amelia e Maria Luisa e le date di nascita e morte. Vi deposi l’orchidea e rimasi in attesa. Di una voce, di Dio, di una qualche rivelazione o anche solo di un momento di pace interiore. Ma non accadde nulla, così dopo poco montai in sella e ripartii.
Dai sobborghi di Madrid mi immisi sulla vecchia statale che portava verso nord. La conoscevo come le mie tasche, l’avevo percorsa centinaia di volte. Il sole tramontava alla mia sinistra in uno spumeggiare rosso che si allungò sulle montagne per poi scivolare come una lenta marea vermiglia sopra la pianura. Il traffico si fece più rado, fatto solo di piccole automobili e vecchi camion i cui conducenti non volevano pagare il pedaggio dell’autostrada. L’incendio rosso dell’orizzonte dava l’impressione di guidare verso un mare di sangue.
Guidai, nella tiepida oscurità notturna, per ore, fermandomi solo a fare benzina. Andare in moto di notte è viaggiare in silenzio, con il rombo del motore nelle orecchie e la solitudine addosso.
La Honda ronzò e fremette tra le mie gambe, finché le mie natiche si fecero insensibili, poi doloranti. Quando il cielo stellato finì di risucchiare il calore del giorno, mi misi il casco.
Ero esausto, ma mi dispiacque quando, una ventina di chilometri dopo San Sebastián, svoltai per la strada che si arrampicava su per le colline fino al rifugio mio e di Amelia. Il viaggio, l’andare, rappresentavano la mia condizione ideale. In lontananza le montagne s’incurvavano massicce come dorsi d’elefante nella tenue alba.
La casa era una vecchia costruzione di granito grande abbastanza per ospitare venti persone. L’avevo comprata all’inizio degli anni Ottanta; Amelia se n’era innamorata a prima vista, quando ancora non avevo l’assoluta certezza che amasse anche me. Insieme l’avevamo ristrutturata. C’erano due piani e una grande cantina per i vini e i formaggi, ma di solito trascorrevamo gran parte del tempo in cucina, dove la grossa stufa spandeva un bel tepore nel freddo inverno basco e nelle sere nebbiose d’estate.
La casa più vicina era quella di Arregui, un paio di chilometri più in su. Arregui allevava pecore da quando aveva dieci anni. In quell’epoca uno dei suoi zii era rimasto ucciso in uno scontro con la guardia civile: per lui pecore e nazionalismo andavano a braccetto, erano tutta la sua vita. Ogni mese gli mandavo una busta con un po’ di soldi perché tenesse d’occhio la casa, la rifornisse di legna asciutta e tenesse lontano i banditi. Lui lo avrebbe fatto gratis, ma ero riuscito a convincerlo ad accettare quel compenso spiegandogli che avrei potuto detrarre l’importo dalle tasse, e quindi versare qualche soldo in meno al potere centrale. A dispetto dell’età decisamente avanzata, Arregui sollevava macigni, spaccava tronchi e giocava alla pelota a mani nude negli annuali tornei estivi. Il suo primogenito era rimasto vittima del regime franchista nel 1972; il secondo figlio, Tómas, di cui ero diventato amico, aveva passato tre anni nel braccio della morte, fino all’amnistia del 1977. La sua unica figlia stava scontando l’ergastolo in un carcere a sud di Siviglia, condannata per l’omicidio di un capitano della Guardia Civil avvenuto cinque anni addietro. Nonostante tutto, Arregui si dichiarava orgoglioso di aver allevato dei buoni figli baschi che gli avevano fatto onore.
Parcheggiai la moto e smontai. La chiave era al suo posto, sotto il vaso accanto alla porta sul retro. L’interno della casa era immerso in un silenzio, pregno dell’odore di Amelia e Maria Luisa. Vidi i loro impermeabili, gli ombrelli e il calendario perpetuo su cui Amelia aveva annotato i compleanni di amici e parenti. Allo sportello del frigo erano attaccate cartoline, promemoria, un disegno di Maria Luisa e una foto della sua migliore amica.
Uscii a recuperare lo zaino, presi il sacco a pelo e lo srotolai sulla veranda di legno che avevano fatto costruire tutt’intorno alla casa. Mi addormentai immediatamente con in testa l’immagine della strada nera e un senso di vuoto nel cuore.
Mi svegliai nel bel mezzo di un incubo. Arregui era accovacciato di fronte a me. Aveva il viso largo, squadrato, la pelle color cuoio e i capelli bianchi, folti e spessi. Gli occhi erano neri, i denti macchiati dal tabacco delle sigarette che rollava a mano e fumava una dietro l’altra.
«Hola! Pedro» disse con la sua voce profonda.
«Buenos días, Arregui» risposi.
«Perché ti sei messo qua fuori? Hai forse paura dei fantasmi?»
«Può darsi.»
«Facciamoci un caffè» propose entrando in casa ad accendere la stufa. Uno dei cani di Arregui mi si avvicinò e io lo grattai distrattamente dietro le orecchie mentre guardavo il sole spuntare sopra le montagne più alte. Dovevo aver dormito non più di un paio d’ore. La rugiada brillava sulle cromature della Honda e copriva gli steli d’erba come tante piccole perle.
Arregui portò il caffè con zucchero e latte caldo in due grosse tazze, insieme a un po’ di pane e al suo formaggio di pecora. Dopo le chiacchiere sul gregge e sul tempo, gli chiesi notizie di Tómas e della figlia in prigione. Mi rispose che vivevano la vita che Dio aveva scelto per loro. Sua figlia era l’ennesima martire della lotta per la libertà, Tómas, invece, aveva rinunciato a combattere. Finito di mangiare mi salutò. Portava il gregge in montagna, dove spesso gli piaceva fermarsi a dormire all’aperto. Fischiò per richiamare i cani e si mise in cammino. Rimasi seduto a guardare lui e le pecore che si allontanavano finché divennero tanti puntini contro il fianco verde della montagna.
Poi setacciai la casa a caccia di tracce fisiche della vita di Amelia e Maria Luisa. Vestiti, foto, lettere, giocattoli: bruciai ogni cosa. Aveva ragione Arregui, avevo paura dei fantasmi che quegli oggetti avrebbero evocato. A tormentarmi bastavano le mie memorie, gli odori, tutto ciò che di intangibile avrebbe gravato per sempre sul mio cuore.
Era l’una passata quando presi la moto per andare a San Sebastián a cercare Tómas. Era una giornata calda, e il lungomare e la spiaggia erano pieni di gente. San Sebastián era una città tutta bianca, bellissima. Il terrorismo penalizzava l’economia delle Province Basche, ma a San Sebastián la crisi non si notava. La gente era ben vestita, i bar e i ristoranti del centro pullulavano di vita.
Mi fermai al bar preferito di Tómas per una Coca e uno spuntino. C’erano bocconcini di polipo, gamberetti con uova, sardine e pezzetti di prosciutto disposti su piccole fette di pane fresco. Ero in piedi al bancone e tenevo d’occhio la porta, così quando arrivò Tómas lo scorsi prima che lui vedesse me. Era poco più giovane di me, ma gli anni lo avevano trattato bene. Diceva sempre che il carcere era un’ottima ricetta per tenersi in forma: si faceva molto moto, il vitto era povero di grassi e gli alcolici non erano ammessi. Aveva il viso largo del padre, ma il suo corpo era snello, le mani affusolate. I capelli spruzzati di grigio e gli occhiali gli davano un’aria molto rispettabile. Si guadagnava da vivere sviluppando software per finanziarie e grandi aziende. Avevo conosciuto Tómas nel 1972, due anni prima che finisse in carcere e fosse condannato a morte dalla dittatura franchista per terrorismo. Qualcuno ci aveva presentato una sera a San Sebastián e avevamo incominciato a chiacchierare, trovandoci subito molto simpatici. Ero al corrente delle sue inclinazioni politiche, ma prima di leggere del suo arresto non avevo mai sospettato che fosse un membro dell’ETA. Ero andato a trovarlo in carcere, e quando era stato amnistiato insieme agli altri detenuti politici gli avevo dato una mano a ricominciare.
Il suo viso si illuminò in un sorriso quando mi vide, ci abbracciammo forte prima di passare nella stanza sul retro per pranzare insieme.
Chiesi una Coca, lui del vino. Chiacchierammo del più e del meno, evitando l’argomento del mio lutto: ne avevamo parlato più volte per telefono e sapevo che, benché fosse scapolo e senza figli, capiva perfettamente il mio dolore. Aveva perso molti amici durante gli anni di militanza nell’ETA. Considerava chiusa quell’esperienza e disprezzava la nuova generazione di attivisti, ma era pur sempre un basco e non sarebbe mai riuscito a denunciarli. Sapevo di potermi fidare di lui. A suo tempo aveva agito da mediatore segreto tra il governo socialista e l’ETA nel tentativo di trovare un compromesso. Ma il nuovo governo conservatore si rifiutava nel modo più assoluto di trattare con i terroristi e ultimamente gli episodi di violenza si moltiplicavano.
Dopo il caffè gli rivolsi la domanda che più mi stava a cuore:
«Tómas, sono stati loro a uccidere Amelia e Maria Luisa? È stato tutto un terribile errore?».
Mi accesi una sigaretta mentre lui, che aveva smesso di fumare, con le mani tormentava il tovagliolo.
«No, Peter» disse. «Non sono stati loro. Non sapevano che quella donna abitasse nel palazzo.»
«E allora chi è stato?»
«Non lo so. Non riesco a immaginare chi…»
«Se davvero non hanno colpa, perché non hanno negato la paternità dell’attentato?»
Abbassò lo sguardo e avvicinò la tazzina alle labbra, anche se del caffè non era rimasto che il fondo. Poi disse, sottovoce ma con rabbia, una rabbia rivolta contro se stesso:
«Lo scopo di ogni organizzazione terroristica è destabilizzare la società in cui opera alimentando uno stato di angoscia collettiva. La bomba di Plaza Santa Ana ha alzato il livello di tensione nel paese, un fatto assolutamente coerente con i loro obbiettivi. Perché avrebbero dovuto dissociarsene? Tutti credono che abbiano voluto colpire una spia, di conseguenza altri esiteranno prima di collaborare, perché l’ETA ha dimostrato che il braccio della vendetta è lungo».
Diceva cose sensate. L’ETA si era votata alla lotta armata a partire dal 1968, quando Tómas era poco più che adolescente. All’epoca, dopo un’azione, i militanti trovavano rifugio in Francia che, al pari di altri paesi europei, li considerava partigiani in lotta per una causa giusta: il capovolgimento della dittatura di Franco.
«Ho bisogno di sapere chi è stato e perché» dissi. «Altrimenti non riuscirò mai a farmene una ragione.»
«E se l’obbiettivo fosse stata la distruzione delle foto piccanti di quel politico? O forse al signor ministro non piace essere spiato e ha sentito il bisogno di vendicarsi…»
Scossi il capo. «Vorrei sentirmelo dire dai diretti interessati» dissi «che qui l’ETA non c’entra.»
«È una cosa molto rischiosa, Peter. Rischiosa per me, per te, per loro. L’ETA è divisa, i suoi capi sono impauriti, nervosi, aggressivi.»
«Aiutami, Tómas.»
Esitò in silenzio per qualche minuto, lo sguardo fisso sulla tazzina vuota. Infine sembrò decidersi, mi guardò un istante, si alzò e uscì dal ristorante. Io rimasi dov’ero, ordinai un altro caffè e pagai il conto. Tómas tornò dopo venti minuti. Non sapevo cosa avesse fatto, a chi avesse telefonato e non mi sarei mai sognato di domandarglielo.
Si sedette. Sudava come se avesse camminato troppo in fretta nella calura pomeridiana, ma il motivo poteva anche essere l’agitazione. Era un cittadino libero e rispettoso della legge, ma sapeva perfettamente che sia i servizi segreti spagnoli, sia i vecchi compagni lo avrebbero tenuto d’occhio fino alla fine dei suoi giorni. In fondo, la sua era la vita tormentata, inquieta e stressante di chi si trova tra due fuochi.
«Sulla panchina. Davanti all’ingresso pedonale del parcheggio sotterraneo vicino al Londres, alle venti. Avrai in mano una copia di “Diario Vasco”, edizione della sera» la sua voce era venata di nervosismo.
«Grazie, Tómas» dissi semplicemente. «Sono in debito con te.»
«Nessun debito» rispose. Ma dall’espressione del suo viso compresi che avevo appena testato i limiti della nostra amicizia. Forse aveva accettato di aiutarmi per Maria Luisa, per Amelia. Per gratitudine nei miei confronti, per sostenermi nel percorso travagliato del lutto. Oppure Tómas mi aveva mentito e chiedergli di mettermi in contatto con quei terroristi si sarebbe rivelato uno sbaglio fatale. Uscimmo in silenzio dal locale e ci salutammo con una stretta di mano, senza il calore del nostro incontro di poco prima. Svoltò l’angolo, lasciandomi solo nella strada svuotata dalla siesta.
Girovagai a lungo per la città. Camminare mi aiutò a scaricare la tensione. Passate le cinque, le viuzze diritte e strette del centro tornarono gradualmente a popolarsi, mentre le serrande dei negozi si alzavano schioccando come tanti petardi. Mi fermai a un’edicola per comprare una copia di «Diario Vasco». Alle otto meno un quarto ero seduto sulla panchina indicata. Alla mia destra c’era il municipio e alla mia sinistra l’Hotel Londres, dove avevo alloggiato diverse volte da giovane. In cima al Monte Egueldo troneggiava la statua del Cristo. Giù, oltre il lungomare, la marea si era ritirata scoprendo un vasto tratto di sabbia grigio-gialla. La gente faceva il bagno. Alcuni ragazzi giocavano a pallone, i loro strilli echeggiarono finché il sole non tramontò in un’orgia di rosso e il buio li costrinse a interrompere la partita. La striscia di spiaggia ormai quasi deserta lentamente si andava assottigliando con il risalire della marea.
Una giovane mamma con passeggino si sedette accanto a me. La donna si sporse verso il figlioletto offrendogli un gelato che quello prese a leccare estasiato. Agitando le mani per l’eccitazione, il piccolo fece cadere il cappellino che era appoggiato sulla sua pancia. Mi chinai a raccoglierlo e lo porsi alla donna. Mi sorrise solo con la bocca, un’espressione vagamente spaurita negli occhi castani.
«Grazie. Vada giù al porto dopo che me ne sarò andata» disse in spagnolo.
Il cuore mi batteva forte. La donna rimase seduta accanto a me in attesa che suo figlio finisse il gelato, ma quando si sporse a pulirgli la bocca con un tovagliolo notai che le mani le tremavano leggermente. Poi si alzò, girò il passeggino e si allontanò in direzione dell’incrocio. Trascorsi cinque minuti mi avviai a passo lento verso il porticciolo.
C’era parecchia gente che passeggiava. Mi fermai accanto al pontile a guardare i pescherecci azzurri. Un giovane in blue jeans e camicia a maniche corte mi si accostò, mi guardò. Quando si mosse lo seguii a distanza di qualche passo. Vagammo a lungo per il centro, apparentemente senza meta come turisti, per dare modo ai suoi compagni di controllare che nessuno mi stesse seguendo. Alla fine ci ritrovammo nuovamente al porto, dove il giovane entrò in una taverna da cui proveniva un gran clamore di musica rock. Feci per seguirlo, ma un secondo ragazzo, vestito nella stessa maniera del primo, mi si avvicinò, mi afferrò per il braccio e indicò una BMW bianca che aspettava accanto al marciapiede con il motore acceso. Non appena fui seduto sul sedile posteriore, l’auto partì.
Accanto al guidatore era seduto un secondo uomo. Entrambi indossavano occhiali da sole scuri e berretti da baseball. Facemmo qualche giro a casaccio prima di dirigerci verso la periferia operaia di Renteria. Lì finiva la San Sebastián dei turisti e dei locali impegnati nel paseo serale. Oltre il finestrino intravedevo muri scrostati, sagome di macchine semidistrutte abbandonate sul marciapiedi, prostitute in attesa di clienti. Da quelle parti i terroristi erano al sicuro, perché gli abitanti del quartiere, pur non essendo simpatizzanti dell’ETA, condividevano con l’organizzazione l’odio inveterato per la polizia e le autorità.
La BMW entrò in un cantiere. La luce dei fari illuminò i ruderi di uno dei dormitori destinati agli operai che sotto Franco si erano trasferiti qui dall’Andalusia per partecipare al miracolo economico spagnolo. Due grossi ratti schizzarono in un buco spaventati.
«Fuori, Lime!» disse l’autista.
Smontai e la BMW si allontanò. Il cuore mi martellava in petto. Sentivo il rombo delle automobili che correvano sul vicino svincolo autostradale. Era molto buio, ma avevo la sensazione che dentro il rudere ci fosse qualcuno. Istintivamente mi misi in posizione di combattimento.
Ma dall’interno nessun rumore. Invece arrivò un’altra macchina, una Seat nera, e si fermò a pochi metri da me, a motore acceso. Due uomini scesero dal sedile posteriore, mentre l’autista rimase dietro il volante. Non si allontanarono dall’auto in modo da potervi rimontare in fretta. Erano robusti, in jeans e giacche a vento scure, un berretto calato sulla fronte. Le loro sagome erano tutto ciò che riuscivo a vedere nella luce abbagliante dei fari.
«Abbiamo pochissimo tempo, Lime» disse uno dei due.
«Perché avete assassinato la mia famiglia?» domandai con voce rauca avanzando di un passo. La testa mi girava e avevo la bocca e la gola secche.
«Resta dove sei» disse lo stesso uomo che aveva parlato un attimo prima.
«Perché?» domandai.
«L’attentato non è opera nostra. Sulla terra di Euskadi e sul sangue dei suoi martiri giuro che non c’entriamo. Non siamo stati noi.»
Mi chiesi se potesse trattarsi di una montatura, ma sapevo per certo che quegli uomini non stavano recitando: erano terroristi, odoravano di pericolo e disperazione. Forse erano in debito con Tómas, non riuscivo a immaginare nessun’altra ragione per cui avrebbero dovuto accettare di incontrarmi.
«Grazie per l’informazione» dissi con voce atona.
Uno dei due risalì in macchina, mentre l’altro rimase dov’era.
«Se scopri chi sono i mandanti,» disse «potremmo aiutarti a vendicarti.»
«E perché dovreste aiutarmi?»
«Perché una volta tu hai aiutato uno dei nostri.»
«Sono passati tanti anni.»
«Noi non dimentichiamo mai nulla, Peter Lime. Nulla.»
Rimontò in macchina e l’autista partì prima ancora che il suo passeggero potesse richiudere lo sportello. Tornò il buio. In preda a un panico improvviso mi precipitai fuori dal cantiere. Continuai a correre per diversi minuti, fino a quando raggiunsi una strada ben illuminata. Le luci dorate di San Sebastián si stendevano davanti a me, trassi un profondo respiro e mi sforzai di ritrovare la calma. Nessuno mi stava inseguendo. Camminando verso la città, mi voltavo ogni tanto nella speranza di veder arrivare un taxi, ma finii per raggiungere a piedi la mia motocicletta, parcheggiata vicino all’Hotel Londres. Montai in sella e lentamente mi diressi verso casa. Ero stanco morto, la testa piena di pensieri e sentimenti contraddittori.
La casa era avvolta nell’oscurità e nel silenzio. L’odore di fumo del falò del pomeriggio era ancora percettibile nell’aria fresca della notte. Estrassi la chiave e aprii la porta. L’uomo doveva essersi appostato nella nicchia in ingresso non appena aveva sentito la motocicletta, perché in un lampo mi fu addosso e mi colpì alla nuca con un manganello. Il mondo esplose in una cascata di luce bianca.
Quando rinvenni, ero seduto su una sedia addossata al muretto che delimitava la cucina, le mani legate dietro la schiena. Mi faceva male il collo, ma per il resto ero tutto intero. Il mio aggressore aveva calibrato la potenza del colpo in modo da mettermi fuori combattimento senza procurarmi un trauma cranico. Era un professionista, e non era solo. Con lui c’erano altri due uomini. Tutti e tre erano vicini ai quaranta e a viso scoperto, in jeans e camicia. Quello del manganello era il più grosso e sembrava il capo. Aveva un viso stretto e furbo sotto una fronte alta segnata dall’acne. Rimasi sorpreso quando mi si rivolse in un inglese dal marcato accento irlandese:
«Bentornato fra i vivi» disse. «Adesso faremo una bella chiacchierata. Scusa se non ci siamo presentati poco fa, ma a noi il karate non piace e abbiamo preferito non darti occasione di lanciarti in una delle tue piccole dimostrazioni. Sarà per la prossima volta. Per il momento stattene lì, è meglio starsene seduti comodi comodi quando si fa una chiacchieratina amichevole, non credi?»
«Fottiti» sibilai.
Mister Manganello non reagì ma gli altri due non persero tempo. Quello con i baffi si portò alle mie spalle, agguantò il mio codino e tirando con violenza mi rovesciò la testa all’indietro mentre il suo socio Testa Rasata mi assestava due pugni all’altezza del fegato. Il mio corpo fu invaso dal dolore e tutto si oscurò per un attimo.
«Bene bene, Signor Lime», disse quello grosso «Hai ancora voglia di fare lo spiritoso?»
«Che ci fa l’IRA in Euskadi?» domandai non appena ritrovai il fiato. Cercavo di sembrare calmo, in realtà ero terrorizzato.
«Abbiamo molte cose in comune con i nostri compagni baschi» spiegò quello del manganello. «Sono nazionalisti. Come noi sono oppressi da uno stato e da una monarchia che non riconoscono. Come noi sono marxisti. Come noi lottano per una causa giusta in un mondo ingiusto.»
Ero al corrente del fatto che IRA ed ETA fossero in contatto e spesso collaborassero. In particolare, l’ETA acquistava armi dall’IRA, che se le procurava attraverso gruppi di simpatizzanti americani. Ma questo non spiegava cosa quei tre figuri potessero volere da me. A meno che il responsabile non fosse Tómas. Cercai di scacciare quel pensiero. Qualunque cosa volessero, ero sicuro che alla fine mi avrebbero piazzato una bella pallottola in bocca e mi avrebbero gettato in qualche discarica. Altrimenti non si sarebbero sognati di presentarsi a viso scoperto.
«Fottiti» ripetei irrigidendomi in vista del colpo che Testa Rasata puntualmente mi sferrò sulla mascella. Sentii il sapore del sangue e un secondo pugno mi colpì il fianco.
«Mister Lime» disse di nuovo quello con il manganello. «Non ti conviene. Continua a fare il duro e ti riduciamo da far schifo.»
«Non mi avete ancora detto che cosa volete» dissi con voce rauca.
«Oh, scusaci tanto, Lime. Vogliamo sapere dove hai nascosto una valigia contenente una foto o due che ci piacerebbe includere nel nostro album.»
«Non so di che cosa parli» ribattei. Il pelato mi si avventò contro con il pugno levato.
Quando rinvenni il sangue mi colava lungo una guancia e sul mento. Dal dolore che sentivo al torace sospettavo che mi avessero incrinato una costola. Avevo un orecchio gonfio, le labbra e un sopracciglio spaccati. Puntini luminosi danzavano davanti ai miei occhi e la mia maglietta era fradicia dell’acqua che mi avevano buttato in faccia per farmi rinvenire.
Avevano avvicinato la mia sedia al tavolo dove sedeva quello del manganello, percepivo la presenza degli altri due in piedi alle mie spalle. Mi avevano sciolto le mani, che erano quasi del tutto insensibili, ma adesso erano le mie caviglie a essere legate. Non riuscivo a staccare lo sguardo dalla bottiglia di whiskey da cui Manganello aveva appena versato due bicchieri, uno dei quali era colmo fino all’orlo. Il profumo di malto mi invase con un miscuglio di piacevoli ricordi e incubi orribili.
«Restiamo amici, Mister Lime. Facciamoci un bicchiere insieme» disse Manganello. Sorrise, ma i suoi strani occhi incolori erano freddi nel viso butterato.
«No» risposi.
«Invece sì, Lime. Un bicchierino amichevole.»
«Io non bevo» insistei.
«Da noi in Irlanda è una grossa scortesia, sì, quasi un’offesa, rifiutare il cicchetto offerto da un amico. Solo le donne e i froci qualche volta sono astemi. Avanti, Lime, non vorrai fare le figura della femminuccia!»
«Non bevo» ripetei, e con gesto brusco spazzai il bicchiere stracolmo oltre il bordo del tavolo. Il liquido si sparse sul legno marrone mentre il bicchiere andava in mille pezzi. Rimasi in attesa della solita reazione, ma lui scosse la strana testa troppo stretta per quel corpo massiccio, si alzò e andò alla credenza a prendere un altro bicchiere. Tornato al tavolo lo riempì a metà. Il rapato mi afferrò le braccia torcendole dietro lo schienale della sedia, mentre il suo compare con una mano mi rovesciava la testa all’indietro e con l’altra mi turava il naso.
Manganello si alzò e si avvicinò finché il bicchiere, con il suo contenuto dorato e irresistibile dominò il mio campo visivo. Mi versò un sorso in gola. Sapeva di fuoco e mi venne da vomitare, ma lui aspettò che riprendessi fiato, poi forzò di nuovo l’orlo bollente del bicchiere tra le mie labbra contuse. Non potevo fare a meno di inghiottire nonostante gli attacchi di tosse che mi scuotevano. Era come se ogni cellula del mio corpo si ribellasse ed esultasse allo stesso tempo, schiudendosi come un fiore per succhiare la rugiada. Nel mio cervello spuntò una bellissima luce bianca, i dolori del mio corpo si placarono come se mi avessero fatto un’iniezione di morfina.
Non toccavo alcolici da quasi otto anni. Prima di allora ero stato un forte bevitore per vent’anni. Generalmente ero riuscito a tenere la cosa sotto controllo, ma molti momenti della mia vita erano buchi nella memoria: giorni, settimane intere inghiottite da una sbornia. All’inizio Amelia lo aveva tollerato, anche se si era spaventata a morte la prima volta che mi aveva visto in quello stato. Ma alla nascita di Maria Luisa mi aveva messo di fronte a un ultimatum: dovevo scegliere, o la bottiglia, o loro due. Mi amava, ma ne lei né la bambina meritavano di assistere al lento processo della mia autodistruzione.
Andare al primo incontro degli Alcolisti Anonimi fu una delle decisioni più difficili della mia vita. Mi aggrappai al karate come a un’ancora di salvezza, perché spremendomi fisicamente riuscivo a tenere a bada il demone della bottiglia. Ma non potevo passare davanti a un bar senza sudare freddo. Poi pensavo ad Amelia e alla piccola e tiravo dritto. Dopo la loro morte, tante volte mi ero sentito sul punto di ricascarci, ma la promessa fatta ad Amelia fino a quel momento si era dimostrata più forte di qualunque tentazione.
L’uomo tornò a riempire il bicchiere e lo posò sul tavolo davanti a me. Fece un cenno col capo e gli altri mi liberarono le braccia e il naso. Prima che potesse parlare il mio braccio scattò e di nuovo il bicchiere volò per terra. Si ruppe con uno schianto, mentre il meraviglioso profumo del whiskey si spandeva in tutta la stanza.
Ma così non facevo altro che rimandare la sofferenza. Manganello andò a prendere un altro bicchiere, lo riempì, e la scena si ripeté. Il mio corpo cominciò a rilassarsi. Al terzo giro mi accorsi che inghiottivo avidamente il liquido brunodorato che poco prima avevo rifiutato. Avevo la testa sempre più leggera…
Manganello insistette finché al piacere e alla sonnolenza si mescolarono nausea e vertigini. Dopo un periodo di astinenza tanto lungo ero come un quindicenne alla prima birra.
Avevo di nuovo le braccia libere e, quando l’uomo tornò a posare il bicchiere pieno sul tavolo, allungai la destra per capovolgerlo. Ma era come se il mio arto avesse acquistato una volontà propria: osservai impotente la mia mano disubbidiente afferrare il bicchiere e avvicinarlo alle labbra con gesto lento e quasi voluttuoso. Il primo sorso mi avvolse la lingua come una morbida membrana e scivolò giù per l’esofago in una lunga carezza che dallo stomaco sgorgò nel sangue.
Mi vennero le lacrime agli occhi, lacrime di rabbia e di disprezzo per me stesso. Dovevo essere uno spettacolo ripugnante, sporco com’ero di sangue, lacrime e whiskey. Vuotai il bicchiere d’un colpo e lo posai bruscamente sul tavolo.
«Stronzi» dissi. «Fottuti bastardi!»
«Salute, Lime» ghignò Manganello prima di ingoiare il contenuto del proprio bicchiere. Poi riempì il mio per l’ennesima volta, sul volto un’espressione sprezzante e vittoriosa. Invece di scagliarglielo addosso presi il whiskey e me lo rovesciai in gola.
«Perché vi interessa quella valigia?» biascicai dal fondo di un crepuscolo alcolico in cui sogno e realtà incominciavano a confondersi.
«Le domande le facciamo noi. Tu sei quello che risponde» disse lui.
«Non sono altro che ricordi, bastardo! Dentro ci sono soltanto i miei miseri, insignificanti, fottuti ricordi!» gridai. «La mia fottutissima vita…»
Ormai ero completamente andato, ma ricordo confusamente di aver blaterato a ruota libera della mia valigia, di Amelia, Maria Luisa e Don Alfonso. Di Oscar, Gloria e Jacqueline Kennedy Onassis su un’isoletta greca. Era insieme a un’amica e le avevo seguite fino a una caletta appartata. Jackie aveva steso l’asciugamano, poi si era tolta i calzoncini e la blusa. Non portava il bikini e aveva cominciato a spalmarsi il corpo nudo di olio solare; io mi ero steso al riparo di una grossa roccia e avevo scattato la serie di foto che aveva reso Oscar e me milionari e l’Ospe News un’agenzia fotografica di fama mondiale.
Al termine della mia storia sull’incontro con Jackie e la svolta che aveva rappresentato per la mia carriera, Manganello mi afferrò un braccio e ringhiò:
«Non ci interessano le tette e i culi, Lime. Ci interessa la valigia. Vogliamo poter scegliere da soli le nostre foto preferite. Allora, dove diavolo è?»
Non ricordo di aver risposto alla sua domanda, eppure dovetti farlo, a giudicare da ciò che accadde in seguito.
Stavo ancora parlando e bevendo quando si udì un terribile rumore di vetri infranti e una grossa pietra precipitò nella stanza attraverso la porta a vetri che dava sul giardino. Un attimo dopo la porta d’ingresso si spalancò e due ombre grigio-brune e ringhianti balzarono all’interno avventandosi sugli irlandesi. La mia sedia si rovesciò, e caddi in mezzo ai vetri sul pavimento appiccicoso di whiskey. Da quella posizione vidi Arregui entrare dietro ai suoi cani brandendo un pesante bastone.
Il pelato fece per estrarre una pistola da sotto la giacca, ma il vecchio pastore fu più veloce e gli assestò un violento colpo alla nuca.
Mi risvegliai sul divano. Dovevo essere svenuto un’altra volta. Ero tutto pesto e ancora ubriaco, il mio corpo dolorante mi faceva l’effetto di qualcosa di remoto e irreale. Provai ad alzarmi a sedere, ma la stanza prese a girare vorticosamente. Faticai a mettere a fuoco la faccia che mi si parò davanti. Era Tómas, che mi porgeva un bicchiere d’acqua. Avevo una sete tremenda e lo vuotai in un sorso solo.
«Rimettiti giù tranquillo, Peter» disse Tómas.
«Dove sono andati?»
«Due sono scappati. E papà ha trascinato fuori il terzo. È morto.»
D’un tratto ricordai.
«Stronzo!» gli dissi. «Maledetto stronzo che non sei altro!»
Lui indietreggiò di un passo. Avevo la mente lucida ed ero pieno di aggressività indotta dal whiskey.
«Non è come credi» disse lui.
«Mi hai dato in pasto ai tuoi amici terroristi dell’IRA, pezzo di merda» dissi.
«Non è come credi» ripeté lui.
Di nuovo provai a mettermi a sedere, ma fui assalito da un violento capogiro che mi costrinse a desistere.
«Devo telefonare» dissi.
«C’è tempo. Per ora rimani disteso. Ti hanno conciato per le feste.»
«Voglio un telefono!»
Con un sospiro lui mi porse il cellulare, ma non riuscivo a centrare i tasti, allora glielo restituii e gli dettai il numero di Don Alfonso a Madrid.
«Non risponde nessuno» disse Tómas.
«Che cos’è questa storia della valigia?» chiesi. «Perché volete sapere della valigia?»
«Quale valigia?»
«Da quanto tempo sono disteso qui?»
«Da un paio d’ore.»
«Merda!» dissi.
«Se sei vivo devi ringraziare mio padre. È sceso a valle prima del previsto, ha visto le macchine parcheggiate vicino alla curva. I cani erano agitati, allora è venuto a vedere come stavi.»
«Gli sarebbe bastato chiederlo a te. Avresti potuto spiegargli meglio di me quel che stava succedendo qui» dissi.
«Ti sbagli» si difese ancora lui.
«Rifai quel numero» ordinai.
Don Alfonso non rispondeva. Con l’aiuto di Tómas riuscii ad alzarmi e a raggiungere il tavolo della cucina. La stanza puzzava ancora di whiskey. Uno dei cani era seduto nel vano della porta, con gli occhi gialli seguiva ogni mio movimento. A un certo punto udii un fischio e il cane sfrecciò via.
«Dov’è Arregui?» domandai.
«Si sta occupando del cadavere» rispose lui con freddezza.
Mi fece sedere e mi mise davanti una grossa tazza di caffè nero.
«Preferirei un drink» mi sentii dire.
«Dopo. Su, bevi. Ne hai bisogno.»
«Tómas, perché volete la mia valigia? Perché non mi hai interrogato direttamente invece di aizzarmi contro quei ceffi dell’IRA? Credevo che fossimo amici.»
Ecco, pensai, mio malgrado ero scivolato nel tono di autocommiserazione tipico di chi beve. Per scrollarmelo di dosso presi un sorso del caldo, dolce espresso triplo di Tómas.
«Non erano dell’IRA» disse qualcuno alle mie spalle. Un ragazzo stava scendendo le scale dal piano superiore. Lo riconobbi dalla voce: era quello che nel cantiere di Renteria mi aveva assicurato che l’ETA non c’entrava con la morte della mia famiglia. Non poteva avere più di venticinque anni, il viso era pallido e affilato sotto i capelli a spazzola. Indossava un giubbotto di pelle nera sopra una T-shirt grigia.
«E così sei qui anche tu» dissi.
«È stato Tómas a chiamarci. Arregui e gli altri si stanno sbarazzando di quello stronzo. Gli altri due non usciranno da Euskadi. Devi pensare a cosa dirai alla polizia, tenendo conto di Arregui.»
«Non ho alcuna intenzione di parlare con la polizia. Chi era quello che Arregui ha ammazzato?» domandai.
«Non abbiamo trovato documenti. Aveva la testa rasata. Ti dispiace?»
Scossi la testa.
«Anche se speravo che fosse un altro» dissi pensando a Mister Manganello.
Il ragazzo venne a sedersi di fronte a me e accettò il caffè che Tómas gli tese. Si sporse sopra il tavolo e con tono serio dichiarò:
«Peter Lime, te lo voglio ripetere: non abbiamo avuto alcun ruolo nell’assassinio della tua famiglia. Né c’entriamo qualcosa con i tre fottuti irlandesi. Sappi che non sono membri dell’IRA, ma dei killer professionisti, dei free-lance le cui pistole e i cui pugni sono in vendita al miglior offerente. Non è la prima volta che si fanno vedere qui in Euskadi e si spacciano per quello che non sono. Non mi chiedere la fonte di queste informazioni perché non la rivelerò». Fece una pausa.
«A quale valigia alludevano? Io non lo so. Ma tu dovresti chiederti chi sia al corrente dell’esistenza di quella valigia e, soprattutto, cosa ci sia dentro di così importante da convincere qualcuno a sguinzagliarti dietro dei tipi del genere. Noi siamo estranei a tutta la faccenda. Tómas è tuo amico: si è precipitato qui non appena Arregui ha telefonato.»
Gli credevo. Mi guardò in silenzio per qualche secondo poi riprese.
«Se fossi in te, d’ora in avanti starei in guardia. Almeno fino a quando non avremo preso gli altri due. Ci penseremo noi a proteggere Arregui, anche se deve ancora nascere l’uomo che gli metterà paura.»
Quando si alzò feci per imitarlo, ma dovetti rinunciarvi perché mi girava la testa. Presi la mano che mi tendeva e la strinsi.
«Se verremo a sapere qualcosa, ci metteremo in contatto con Tómas. Ci interessa mantenere l’ordine nella terra d’Euskadi, e non dimentichiamo mai i nostri amici, né gli amici degli amici» disse.
Scivolò fuori nell’alba incipiente, come un’ombra che vivesse solo di notte.
Provai di nuovo ad alzarmi. Tómas si mise il mio braccio intorno alla spalla e mi sostenne mentre salivo le scale fino al piano di sopra. Poi mi aiutò a sfilarmi i vestiti sporchi e a entrare nella doccia. Il mio fianco sinistro era tutto un livido, e il viso, che avevo visto di sfuggita nello specchio, una maschera tumefatta.
Quando fui avvolto nell’accappatoio, la ferita sotto l’occhio destro disinfettata, chiesi a Tómas di riprovare a chiamare mio suocero. Don Alfonso non rispondeva. Indossai un paio di boxer e mi sdraiai sul letto matrimoniale, Tómas si sedette sulla sponda.
«Tómas…,» esitai «dimentica le mie accuse di poco fa, ti prego. Ero spaventato, sconvolto. So quanto hai rischiato accettando di contattare l’organizzazione e te ne sono grato. Ho un debito nei tuoi confronti e non voglio che…»
Tómas sorrise, ma lo sguardo era stanco.
«Peter, te l’ho già detto un’altra volta. Gli amici non tengono la contabilità.»
Gli parlai del contenuto della valigia: era il mio album privato, un collage della mia storia. A chi mai poteva interessare?
«La risposta a questa domanda non può che essere dentro la valigia stessa» disse.
«Per questo devo andare a Madrid. Devo parlare con Don Alfonso. Ma non ce la faccio a guidare. Credi di potermi accompagnare all’aeroporto?»
«Certo. Adesso mettiti tranquillo e fatti passare i postumi della sbornia.»
Non credevo di avere sonno, ma non appena lasciò la stanza mi addormentai. Sognai di Amelia. Il suo corpo senza vita giaceva su un letto al centro del nostro appartamento ricostruito fin nei minimi dettagli. Più che una casa, adesso sembrava un museo. Infatti pullulava di visitatori che toccavano i vestiti di mia moglie, ammiravano i suoi gioielli e le foto di Maria Luisa con cui avevamo tappezzato un’intera parete. La coda di persone in attesa di entrare si snodava dal nostro pianerottolo giù per le scale, fino in strada, zigzagando per Plaza Santa Ana.
Fui svegliato dalla sensazione di due ombre accanto al mio letto. Una era Tómas, l’altra un uomo un po’ curvo con un paio di baffetti grigi sotto il naso affilato e capelli radi e arruffati.
Avevo dormito troppo; era pomeriggio inoltrato. Il sole basso illuminava di sbieco la finestra e di lì a poco sarebbe sparito dietro il crinale di ponente. Ero tutto indolenzito e la testa mi pulsava. Il mio stomaco in fiamme stava ancora lottando contro il veleno che i tre bastardi mi avevano fatto trangugiare.
Provai a mettermi seduto.
«Resta giù, Peter» disse Tómas. «Hai un aspetto terribile.»
«Grazie» la mia voce era roca e stridula. «Chi è lui?»
«È il dottor Martinez, un amico» disse Tómas.
«Mi permetta di darle un’occhiata, Señor Lime» disse Martinez. Annuii e lui cominciò a esaminarmi con mani dal tocco leggero, femmineo. A parte un lievissimo trauma cranico, la ferita sotto l’occhio e una costola incrinata, non parevo aver riportato altri danni. Avrebbe voluto portarmi all’ospedale per un controllo, ma rifiutai. Lui sospirò rassegnato. Sicuramente aveva visitato feriti ben più gravi il cui nome non sarebbe mai comparso nel registro di un ospedale.
«La ferita in faccia ha bisogno di qualche punto. Dovrò pensarci io» disse.
Riempì una siringa e mi addormentò la guancia, quindi aspettammo che l’anestesia facesse effetto.
«E Don Alfonso?» domandai.
«Non risponde.»
«Prova ancora.»
«Da stamattina non faccio altro» disse Tómas estraendo il telefonino dalla tasca per digitare nuovamente il numero.
«Devo andare a Madrid.»
«Non oggi» disse il medico mettendosi al lavoro sulla mia guancia indolenzita. Quando ebbe finito applicò un cerotto sui cinque piccoli punti, mi porse un paio di analgesici e una pillola per dormire.
«Lei sembra il tipo che recupera in fretta. Ma ricordi che in questi casi nulla giova quanto il riposo.» Strinse la mano di Tómas, mi rivolse un breve cenno del capo e se ne andò.
La consapevolezza che fosse meglio dar retta al dottore e rimandare la partenza all’indomani mi avviliva. Con un sospiro presi il bicchier d’acqua che Tómas mi porgeva, lo ringraziai, inghiottii le pillole di Martinez e scivolai in un sonno senza sogni.
Al mio risveglio la stanza era avvolta dalla penombra e il mal di testa era sparito. Mi chiesi se fosse il crepuscolo, oppure l’alba del giorno successivo.
Al piano di sotto Tómas dormiva sul divano, completamente vestito. Nel sonno l’espressione indifesa lo faceva sembrare un ragazzo. La cucina era stata pulita, il pannello della porta a vetri sostituito, ogni traccia della visita dei tre ceffi cancellata. Udii i campanacci delle pecore di Arregui e guardai fuori dalla finestra. La luce stava nascendo a est.
Andai al telefono e composi il numero di Don Alfonso. Era libero. Lasciai che squillasse a lungo prima di riattaccare.
Tómas si svegliò nel momento in cui posavo il ricevitore.
«Buon giorno» dissi.
«Ciao, Peter» disse, rizzandosi a sedere. Sorrise e si spettinò i capelli. «Vedo che stai meglio.»
«Cosa vuoi per colazione?»
«Una doccia.»
Non appena fu al piano di sopra cominciai a guardarmi intorno alla ricerca del whiskey. Rovistai in tutti gli armadietti, ma se ne era rimasto dalla notte della rissa Tómas doveva averlo buttato. Mi tremavano leggermente le mani e mi sentivo la gola secca, di una secchezza che l’acqua non sarebbe riuscita a placare. Trovai quattro uova e del prosciutto probabilmente portati da Arregui e mi misi a preparare due omelette. Con un brivido pensai alla forza e alla ferocia di cui il vecchio pastore era capace. Alzai lo sguardo e lo scorsi che risaliva il pendio di fronte a casa insieme alle pecore e ai cani, l’incedere lento e cadenzato come sempre.
Mentre preparavo il caffè, ripensai alle esperienze degli ultimi giorni. Era tardi per tirarsi indietro. Dovevo arrivare in fondo a quella storia e ottenere delle risposte, scoprire perché Amelia e Maria Luisa erano morte.
Adesso che avevo escluso la pista dell’ETA, la valigia era l’unico punto di partenza possibile. Dovevo aprirla — per la prima volta in tanti anni — ed esaminare il suo contenuto, a costo di dissipare l’alone di romanticismo che circondava quei ricordi messi da parte e mai più contemplati.
Finita la doccia, Tómas scese in cucina e insieme facemmo colazione. Gli chiesi notizie dei due irlandesi superstiti, mi disse che apparentemente erano scomparsi da Euskadi senza lasciare traccia. Dopo mangiato fu il mio turno di salire in bagno per una doccia. Quando alzai le braccia per lavarmi i capelli, provai una fitta al torace; poi, davanti allo specchio, fui costretto a radermi con grande cautela, evitando le zone più doloranti del mio viso ancora decisamente malconcio. Ma poco dopo, con il codino a posto e indosso una T-shirt pulita, i jeans e il giubbotto di pelle, ero pronto per andare all’aeroporto e salire sul primo aereo per Madrid. Se mi avesse visto in quello stato, Gloria avrebbe certamente commentato che i lividi e le ferite mi donavano, avvicinandomi all’immagine che avevo sempre sognato di proiettare: quella di un duro, un Indiana Jones reduce di mille avventure. Scoprii di essere sovreccitato e di umore stranamente leggero, quasi che la sbornia, le botte e la lunga dormita mi avessero temporaneamente scrollato di dosso la paura e la malinconia.
Fui fortunato e trovai posto su un volo in partenza poco dopo il nostro arrivo al piccolo aeroporto di San Sebastián.
«Hai un aspetto terribile, ma l’umore è buono. O sbaglio?» chiese Tómas al momento di separarci.
«Non c’è male» ammisi, tendendogli le chiavi della motocicletta. «Fatti un giro. Un po’ d’aria fresca ti farà bene. Verrò a prenderla più avanti.»
«Arregui terrà d’occhio la casa, come sempre.»
«Ringrazialo da parte mia.»
Annuì.
«E grazie anche a te. Grazie… di tutto» dissi incapace di aggiungere altro.
«Farò prendere aria alla tua moto, sta’ tranquillo. Caricherò una ragazza sul sedile posteriore e farò avanti e indietro per le strade di San Sebastián, come quando eravamo giovani.»
Lo abbracciai. La pacca sulla schiena con cui mi salutò mi fece male, e insieme mi fece bene, come la doppia vodka che ordinai non appena l’aereo prese quota e con una lenta virata puntò il muso verso sud, in direzione di Madrid. Il verde delle colline basche, le montagne alte e grigie e le acque verde-azzurre crestate di bianco del Golfo di Biscaglia sparirono sotto le ali dell’apparecchio mentre con mano ferma prendevo il bicchiere che la hostess mi tendeva sorridendo.
A Madrid telefonai a mio suocero, ma la linea era occupata. Maledicendo l’afa e il sudore che già mi incollava la maglietta alla pelle, cercai un taxi e riprovai a chiamare: ancora occupato. Davanti a casa di Don Alfonso era parcheggiata una volante della Policia National. Per un attimo temetti il peggio, ma poi mio suocero apparve sulla porta della veranda insieme a un agente. Se, come credevo, tra i fumi dell’alcol avevo rivelato agli irlandesi che il custode della valigia era lui e qualcuno era venuto fin qui a cercarla, quel qualcuno aveva deciso di risparmiargli la vita. Trassi un sospiro di sollievo.
Pagai il tassista, scesi dall’auto e gli andai incontro. Don Alfonso mi guardò in silenzio qualche secondo prima di tendermi la mano:
«Ti hanno devastato, come hanno fatto con la mia casa» disse facendosi da parte perché entrassi.
Dentro regnava il caos più assoluto. Mobili capovolti, cassetti rovesciati, ante di armadi scardinate, materassi buttati giù dai letti, vestiti, CD, libri, gingilli e foto disseminati sul pavimento.
Un agente della Policia National si aggirava prendendo appunti su un taccuino. Per la polizia era un banale caso di furto, uno delle migliaia che ogni giorno si verificavano a Madrid e dintorni. Sembrava che un uragano avesse spazzato la casa: i “ladri” avevano frugato in ogni angolo con furia distruttiva ed efficienza.
Don Alfonso pareva calmo, ma il pallore della sua sottile pelle di vecchio tradiva una grande stanchezza.
Per fortuna poteva contare su Doña Carmen, che già armata di spazzolone, secchio e straccio stava aspettando che i poliziotti se ne andassero per mettersi all’opera. Data la gravità della situazione, Carmen aveva arruolato due robuste ragazzotte dei dintorni come rinforzi, e adesso quelle, strette nei grembiulini rosa, attendevano impalate un cenno della domestica.
L’agente del taccuino mi si avvicinò e scrutò attentamente il mio viso contuso. È probabile che mi riconoscesse, visto il numero di foto apparse sulla stampa spagnola in seguito al mio arresto e all’esplosione, comunque non osò far domande. Salutò e si avviò alla macchina.
Quando i poliziotti se ne furono andati, Don Alfonso andò a prendere una birra e una Coca dal frigo e si diresse verso la terrazza.
«Preferirei una birra» dissi.
Mi lanciò un’occhiata indecifrabile, ma tornò in cucina e riapparve con una seconda lattina di birra.
Ci sedemmo sotto l’ombrellone. Il caldo era opprimente, ma al contrario di me Don Alfonso non sembrava soffrirne, provato ma come sempre impeccabile in una polo bianca e pantaloni chiari. Erano otto anni che non bevevo birra, e il suo sapore amarognolo fu una sorpresa più che un piacere. Dopo il quarto sorso cominciai ad avvertirne l’effetto: quello sì mi piaceva, anche se mi disprezzavo per la mia debolezza. Senza tralasciare alcun dettaglio raccontai a Don Alfonso gli eventi degli ultimi giorni. Ammisi che per quanto mi sforzassi non riuscivo a ricordare ciò che avevo spifferato ai tre bulli; del resto lo stato della sua casa parlava chiaro: dovevo aver fatto il suo nome in relazione alla valigia.
«La vera questione è: come sapevano della sua esistenza?» domandai più a me stesso che a lui.
Don Alfonso si alzò e tornò con altre due birre.
«Con chi hai parlato della valigia?» chiese porgendomene una prima di risedersi.
«Con te, recentemente ho accennato qualcosa a Oscar, Gloria… Nessun altro.»
Don Alfonso parlò a voce bassa.
«Ti inganni, Pedro. Io so della sua esistenza da parecchi anni. Da prima che tu mi chiedessi di custodirla…»
«Impossibile.»
Mi fissò dritto negli occhi:
«Gli ubriaconi hanno pochi segreti» disse.
Sentii che ero sul punto di arrossire come un adolescente colto a sbirciare sotto la gonna dell’insegnante. Aveva ragione. Potevo avergliene parlato da sbronzo. Di una sola cosa potevo esser certo: a nessuno avevo mai rivelato il significato della valigia, la sua funzione di diario intimo, di sacro altare della memoria. Di talismano, quasi, equivalente della zampa di coniglio che si portano in tasca i superstiziosi.
Rammentai l’espressione di Gloria nell’apprendere della mia collezione segreta di negativi, le sue proteste. La sua sorpresa mi era sembrata sincera. E Oscar? Oscar e io passavamo talmente tanto tempo insieme, era improbabile che non gliene avessi parlato almeno una volta nel corso di tutti quegli anni… Eppure no, ne ero sicuro. Chissà in quante occasioni, nel corso di qualche sconnessa chiacchierata notturna innaffiata di whiskey o di vodka, mi ero vantato di possedere una valigia segreta, la mia super-polizza sulla vita. Ma sempre con estranei, conoscenze superficiali, magari donne su cui volevo fare colpo. Mai con Oscar e Gloria. Ci conoscevamo troppo bene perché tra noi fossero ammesse allusioni, reticenze, mezzi segreti. Per questo, fino a quel mattino in ufficio, avevo avuto cura di non parlargliene mai.
E Don Alfonso, davvero lo aveva saputo da me?
«È possibile che in passato, quando facevo politica, qualcuno si sia preso la briga di tenermi d’occhio…» insinuai.
Mi guardò con i suoi occhi intelligenti e tristi ed esitò. Odiava rivelare un segreto.
«Sorvegliavamo chiunque ritenessimo potenzialmente pericoloso.»
«E io ero considerato potenzialmente pericoloso?»
«Come hai detto, facevi politica. Eri di sinistra e frequentavi elementi di sinistra.»
Di colpo capii:
«Fosti tu a farmi seguire! Decidesti di raccogliere informazioni su di me quando la storia con Amelia divenne seria. È così?».
«Feci ciò che un padre responsabile aveva il dovere di fare per il bene della sua unica figlia…»
«E cioè?»
«Avevo il diritto di farmi un’idea del mio futuro genero.»
«Dio mio. Sarai rimasto inorridito. La politica, la mia professione, l’amore per la bottiglia… Non ero certo un modello di virtù, specie dal tuo punto di vista.»
Sorridendo posò la sua bella mano asciutta sulla mia.
«Invece ti dimostrasti un’ottima scelta.»
«Scopristi che ero un ubriacone. Ma non mangiavo i bambini, ero un fotografo di successo, il mio conto in banca era in ottima salute e possedevo una certa valigia…»
«Tutto sommato, trovai che tu fossi all’altezza di Amelia.»
«E se non mi avessi ritenuto degno di entrare a far parte della famiglia?»
Rise.
«In quel caso la mia bambina ti avrebbe sposato lo stesso, forse ancora più volentieri. I vecchi tempi erano finiti da un pezzo.»
«Già» dissi io.
Restammo seduti in silenzio, ciascuno perso nei suoi ricordi.
«L’hanno trovata?» domandai a un tratto, riscuotendomi.
«La valigia? No. Non l’hanno trovata.»
«Dov’è? Dove sono le mie foto?»
«Più tardi» fu la sua risposta.
Dentro casa Doña Carmen aveva acceso l’aspirapolvere e impartiva ordini alle due ragazze.
«Non sono stati i baschi. Di questo sono sicuro. Allora chi è stato? Il ministro? Prima mi fa arrestare, poi spedisce qualcuno a uccidere mia moglie e mia figlia? Non ha senso, eppure…»
Mi interruppi. Alla menzione di Amelia e Maria Luisa, la solita fitta di dolore mi aveva trafitto il cuore. Un’ombra era scivolata sul volto del vecchio.
«È possibile che abbia voluto vendicarsi.»
«Don Alfonso, la Spagna è una nazione moderna. I vecchi tempi sono finiti, lo hai detto tu stesso.»
«Tu sei un fotografo straniero che ha offeso l’onore di un Señor, ha distrutto la sua vita familiare, danneggiato il governo conservatore e umiliato la Spagna.»
«Credi davvero che sia stata una vendetta del ministro? Hai scoperto qualcosa in questi giorni di indagini?»
«All’inizio credevo all’ipotesi di una vendetta ai tuoi danni, ma alla base di quella convinzione c’era solo il bisogno di trovare una spiegazione per la tragedia, non importava quale. Ci ho pensato e ho fatto qualche domanda in giro e adesso so che non è andata così. Le foto del ministro non sono la chiave. Deve esserci dell’altro.»
«Che cosa?»
Mi guardò.
«Sono d’accordo con il tuo amico ex terrorista: la risposta alle nostre domande si trova in una delle tue foto. Abbiamo dato per scontato che la causa di quanto è successo fosse da ricercarsi nel presente, o nel passato recente. Credo che sia stato un errore.»
«Non so che dire.»
«In qualsiasi indagine all’inizio si procede per eliminazione. Tu hai eliminato i terroristi baschi dalla lista dei possibili colpevoli. Io ho eliminato il governo, lo stato.»
«Allora siamo punto e a capo?» domandai scoraggiato.
«Tutt’altro. Siamo arrivati molto lontano in poco tempo.»
Non lo seguivo più e mi limitai a scrollare il capo.
Si alzò, entrò in casa e tornò con una Coca per me, un bicchiere d’acqua per sé e un biglietto azzurro della corrida di Las Ventas. Avrei preferito una birra, ma non osai dire nulla, perché nell’attimo in cui mi porse la bibita vidi riflessi nei suoi occhi quelli di Amelia. Dopo poco mi allungò il biglietto. Era per la domenica successiva, i nomi dei cuadrilla non mi dicevano niente. Da giovane, sull’onda della mia forte passione per Hemingway e per la Spagna, ero stato un frequentatore assiduo della corrida, ma da tanti anni, ormai, quella gara di morte consumata sotto il sole del pomeriggio aveva cessato di esercitare il suo fascino su di me. Amelia aveva sempre sostenuto che fosse un’usanza barbarica e ormai svuotata di qualunque significato.
Don Alfonso disse:
«Al terzo toro il posto accanto al tuo verrà occupato da un signore della tua età. Avrà il supplemento domenicale di “El Pais” in mano. Ascolta quello che ti dirà».
«Chi è?»
«Diciamo che lavora per lo stato, e che un tempo è stato un mio allievo. È in possesso di informazioni che vuole riferire solo a te, informazioni che potranno condurci un passo avanti nelle indagini.»
«Perché tanti misteri?»
«Ha accettato di infrangere le regole per ripagarmi di un vecchio favore. Ha accesso agli archivi dei servizi segreti franchisti. La democrazia decretò che fossero distrutti, ma non fu così, semplicemente divennero inaccessibili a tutti tranne che a una cerchia molto ristretta di persone. Sono l’equivalente collettivo della tua valigia, piena di storie e foto del passato. Molti preferirebbero che nessuno ci ficcasse il naso, temono ciò che potrebbe saltar fuori.»
«Perché?»
«Perché quando il passato non troppo lontano torna a galla, spesso sembra incomprensibile e insensato, visto con gli occhi del presente. Oggi i tempi non sono ancora maturi, ma lascia passare ancora qualche decennio e quegli archivi serviranno a far luce su uno dei periodi più intricati e travagliati della storia della Spagna. Sui dettagli degli accordi segreti che Franco e gli USA siglarono in nome del comune credo anticomunista, sulle ombre della guerra combattuta contro coloro che volevano rovesciare lo stato, sul ruolo del re nel tentato colpo di Stato del 1981, eccetera.»
Per Don Alfonso le informazioni erano un tesoro da spendere con parsimonia: non dovevano diventare patrimonio di tutti, ma circolare solo tra chi frequentava la stanza dei bottoni.
«Dov’è la mia valigia?» gli chiesi.
«Vieni, andiamo in giardino» disse lui, e si alzò.
All’interno della serra l’aria era calda e satura di umidità, il profumo dolce dei fiori si mescolava all’odore della terra. Don Alfonso mi indicò una grossa cassa su cui erano allineati i suoi attrezzi da giardinaggio. Liberato il coperchio dagli attrezzi, Don Alfonso lo sollevò e si fece da parte. La mia valigia era lì, accanto a un paio di secchi vuoti e a una pala rotta.
Mi chinai per estrarla dalla cassa e la portai in veranda: era più pesante di quanto ricordassi. Don Alfonso mi chiese se volessi mangiare qualcosa, ma declinai l’invito.
«La porto in banca. Lasciarla qui sarebbe troppo rischioso» dissi.
«Come vuoi.»
«Potrebbero tornare» aggiunsi.
«Sta a te decidere» ma il tono della voce tradiva una punta di delusione.
Chiamai un taxi. Quando arrivò ringraziai Don Alfonso, buttai la valigia sul sedile posteriore insieme alla borsa con i vestiti di ricambio e montai in macchina. Conoscevo il tassista, un catalano tarchiato con la sigaretta perennemente fra le labbra e il vizio di giocare con la radio saltando da un canale sportivo all’altro. Gli chiesi di fermarsi davanti al piccolo supermecado dove spesso avevo fatto la spesa. Comprai una bottiglia di vodka e sei lattine di Coca e rimontai sul taxi. Aprii una Coca, ne bevvi metà e poi riempii la lattina di vodka. L’autista seguì l’operazione nello specchietto, ma non fece commenti. Del resto che avrebbe potuto dire? Sapeva che lo avrei pagato e che gli avrei lasciato una mancia generosa. Se avevo voglia di mischiare Coca e vodka nel suo taxi, erano affari miei. Presi il cellulare, chiamai l’ufficio e chiesi di Oscar, ma la segretaria mi disse che era andato a giocare a golf. Decisi di raggiungerlo al Golf Club e diedi l’indirizzo all’autista, che annuì con un’occhiata compiaciuta al tassametro ticchettante. Cominciavo a sentire l’effetto della vodka, la cosa mi suscitava rabbia e insieme mi lasciava indifferente.
Negli ultimi dieci anni, in Spagna il golf era diventato sempre più di moda, e nuovi campi erano spuntati un po’ ovunque. Oscar si era iscritto a uno dei club più prestigiosi, sorto nell’area di un ex tenuta vinicola.
Il maniero della tenuta adesso ospitava il bar ristorante del club. Le tegole giallo-brune del tetto splendevano nel sole del tardo pomeriggio. La terrazza era gremita di persone, sedute nelle poltroncine di vimini sotto ombrelloni variopinti. Prendevano l’aperitivo dopo aver giocato, eleganti nelle polo chiare, i berretti e i pantaloni a scacchi.
Chiesi al tassista di aspettare. Con lui la valigia e la borsa sarebbero state al sicuro. Aveva il giornale della sera, le sigarette e la radio a cui dedicarsi, e mi promise che non sarebbe sceso dalla macchina. Andai in terrazza a cercare Oscar, ma non lo vidi. Il suo cellulare era spento, rispondeva la segreteria. Mi aveva spiegato che tenere il telefonino acceso durante una partita era contrario all’etichetta, perciò conclusi che stesse ancora giocando. Chiesi a un cameriere dove fossero le ultime buche, quello mi squadrò, disapprovando la mia faccia malconcia e la tenuta inadatta, e indicò una bandierina a qualche decina di metri di distanza. Vuotai la lattina di Coca, la gettai in un cestino e mi incamminai. Il campo si stendeva ondulato e artificiale nel suo verde troppo verde, un grande parco giochi per adulti-bambini viziati.
Mi fermai tra i cipressi poco lontano dalla bandierina che segnalava la diciottesima buca. Oscar apparve dopo qualche minuto insieme a due uomini, ognuno armato di carrello e sacca portabastoni. Si fermarono. Scorsi la palla di Oscar, bianchissima sul folto tappeto erboso. Prese un ferro dalla sacca, si avvicinò alla palla e fece un paio di rotazioni. Durante i nostri viaggi, mi ero spesso divertito a fargli da caddie quando lui si concedeva un po’ di tempo per giocare. Camminare al suo fianco nel paesaggio vagamente irreale del campo da golf mi rilassava, anche se Oscar era un giocatore irascibile, che aggrediva la palla quasi fosse un serpente pericoloso. Anche quella volta la colpì troppo forte, e la palla volò oltre la bandierina per rotolare fin quasi ai miei piedi. Raccolsi la palla e lo osservai inoltrarsi tra i cipressi scrutando per terra: non mi aveva visto.
«Stai forse cercando questa, Oscar?» domandai tendendogli la pallina.
«Fanculo, Lime!» fece lui. «Lo sai che non devi toccare la palla.»
La feci cadere ai suoi piedi.
«Prendila da lì» gridò uno dei suoi compagni.
Oscar mi scrutò.
«Sei conciato da far schifo» disse.
«Ho avuto qualche problemuccio.»
«Hai ricominciato a bere Coca Cola corretta, eh, Peter?» Mi conosceva bene.
«C’è qualcosa che devo chiederti» dissi.
«Gloria ti ammazzerà quando lo saprà.»
«Non ti ruberò molto tempo» aggiunsi.
«Non hai bisogno di prendere appuntamenti con me, lo sai» ribatté. «Ci faremo un drink come ai vecchi tempi.»
«Perfetto» sorrisi.
«Anche se poi Gloria ci farà pentire di aver ceduto alla tentazione.» Si voltò, si mise in posizione e senza rotazioni di prova colpì la palla con insolita disinvoltura. Quella descrisse un arco elegante e andò a fermarsi ad appena un metro dalla buca. Mi guardò con aria soddisfatta e s’incamminò verso i suoi compagni.
Dopo aver contato e controllato i punteggi e firmato il segnapunti, Oscar si accomiatò dai due amici. Andammo a sederci a un tavolo in fondo alla terrazza, da dove si godeva un’ampia vista del campo che il sole tingeva già di rosso. Arrivò il cameriere, e Oscar mi guardò con aria interrogativa:
«Due gin and tonic» ordinai.
«Allora fai sul serio» disse lui.
«Sono fatti miei» risposi.
«Okay, Peter. Sei grande e vaccinato. Piuttosto, chi ti ha ridotto così?»
Gli raccontai per sommi capi ciò che mi era successo. Intanto assaporavo il mio drink fresco e frizzante e la familiare sensazione di calma che, con ogni sorso, avvolgeva un altro pezzetto della mia mente. Smettere di bere era difficile, ricominciare terribilmente facile. Oscar ascoltò interrompendomi soltanto per manifestare il suo apprezzamento per il coraggio dimostrato dal nostro comune amico Tómas.
A racconto finito mi ammonì:
«Te l’ho già detto, devi smetterla di giocare al detective dilettante. Rimettiti a lavorare. Ascolta la tua voce interiore. Fai ciò che Amelia avrebbe desiderato che facessi, trova la forza di ricominciare, di vivere la tua vita e di fare quello che sai fare: scattare fotografie».
Sicuramente aveva ragione, ma questo non rendeva le cose più facili.
«Mi mancano da morire, Oscar» dissi.
«Mancano anche a noi. E ci manchi tu, Peter. Amelia e Maria Luisa non torneranno. Il lavoro ti aiuterà a superare questo momento. Vieni in ufficio, ricomincia a viaggiare.»
«Prima devo sistemare una faccenda. Tornerò alla fine dell’estate.»
«Okay. Manca meno di un mese ormai, ancora qualche giorno e chiuderemo l’agenzia. Fa troppo caldo e sono partiti tutti. Ma dopo le vacanze voglio vederti in pista.»
Rimanemmo seduti in silenzio per un po’. Il frinire delle cicale si mescolava all’animato chiacchierio degli altri avventori.
«Ti ho mai parlato della mia valigia, una valigia segreta piena di foto?» gli chiesi infine.
«Hai accennato qualcosa l’altro giorno. Gloria mi ha spiegato che ci hai nascosto alcune stampe e tutti i tuoi negativi migliori. Ha detto che è un bene, perché così facendo hai impedito che immagini molto belle andassero perse per sempre, ma che dal punto di vista della causa di risarcimento è una complicazione. Ha intenzione di spremere la compagnia d’assicurazioni fino all’ultima peseta, sai come è fatta Gloria.»
«Io te ne avevo mai parlato?»
«Mi stai chiedendo se te lo sei lasciato sfuggire, magari sotto l’effetto di una bella sbronza? È questo che vuoi sapere?» domandò.
«Esattamente.»
Si sporse verso di me.
«No, ne ho sentito parlare per la prima volta l’altro giorno. In qualche occasione menzionasti una cassa di vecchie foto che tenevi in soffitta, ma pensai che fossero foto di famiglia. Del resto non mi stupisce che tu abbia pensato alla valigia, sei sempre stato maledettamente attento, puntiglioso e ordinato quando si tratta di lavoro. Anche quando la tua vita era un caos totale, selezionavi, ordinavi e catalogavi sempre le foto nel tuo bell’archivio. Perché me lo domandi?»
«Credo che la ragione della morte di Amelia e Maria Luisa sia nascosta nella valigia.»
«Perché vuoi continuare a tormentarti? Lascia perdere. Hai ancora molti anni davanti a te, Gloria e io non sopportiamo di vederti così infelice.»
«Sei un buon amico, Oscar.»
«E allora dammi retta, accidenti!»
«Ti darò retta dopo l’estate.»
Dalla sua espressione sembrava sul punto di aggiungere qualcosa, ma poi ci ripensò e si abbandonò contro lo schienale della sedia.
«Conosci la ragazza della foto, vero?, quella con la chitarra?» Fui il primo a stupirmi della mia domanda, poiché non sapevo da quale associazione fosse scaturita: forse era l’alcol a rendere più fluidi pensieri e intuizioni.
Oscar mi parve sorpreso poi fissò su di me uno sguardo contrariato.
«Quale ragazza?»
«E piantala, Oscar.»
«Ho l’impressione d’averla vista prima, ma non riesco a fare mente locale. Sono passati trent’anni.»
«Perché non mi hai detto subito che la conoscevi?»
«Non ne ero sicuro.»
«Però la conoscevi.»
«Credo di sì. Oppure mi ricorda qualcuno. A quel tempo le donne erano tutte uguali, niente trucco e ascelle pelose.»
«Che caso! Prima di incontrarci entrambi abbiamo conosciuto quella donna, non ti pare strano?»
«No. Noi rivoluzionari credevamo di essere la maggioranza, invece eravamo una minoranza, le stesse facce spuntavano a tutte le manifestazioni, le assemblee e compagnia bella. Il nostro incontro non fu frutto solo del caso, lavoravamo tutti e due per la stampa, frequentavamo gli stessi ambienti. Sarebbe stato più strano se non ci fossimo conosciuti.»
C’era del vero in quello che aveva detto. A Madrid negli anni Settanta era facile imbattersi in giovani volti già incrociati in giro per l’Europa. Studenti italiani e francesi, rivoluzionari della Germania dell’Ovest, danesi avventurosi come me, disertori americani del Vietnam: appartenevamo tutti alla stessa tribù, mobile ma in fondo ristretta.
«Conoscevi anche l’uomo della foto?» gli domandai.
Lui scosse la testa e vuotò il bicchiere.
«Non l’ho mai visto» disse, e gli credetti.
Oscar guardò l’orologio e mi offrì un passaggio in centro, dove avremmo potuto andare a cena fuori insieme a Gloria. Gli risposi che preferivo rimanere un altro po’. Si allontanò salutando gente a destra e a manca mentre ordinavo un altro gin tonic. Finito il drink, tornai al taxi e mi feci portare all’Hotel Inglés in Calle Echégaray, all’angolo di Plaza Santa Ana. Scegliere un albergo a pochi passi dal luogo dell’esplosione costituiva certamente una decisione masochistica. Ma dell’Inglés apprezzavo la conduzione familiare, la discrezione, le grandi stanze. La camera era una doppia, ma me la diedero al prezzo di una singola, perché in passato avevo spesso indirizzato qui chi voleva trascorrere un paio di giorni piacevoli a Madrid a un prezzo abbordabile. Carlos, della reception, mi conosceva, e non volle vedere i documenti. Oltre al letto matrimoniale, nella stanza c’erano un tavolo, una sedia dallo schienale alto, un mini-bar, un telefono e un televisore. Le pareti, coperte di carta da parati sbiadita, erano decorate con riproduzioni di incisioni di Goya e Picasso, raffiguranti la sabbia insanguinata dell’arena. Il bagno era pulito e grande come quelli di una volta, con una vasca rosa.
Sistemai la valigia dietro la porta e buttai la borsa sul letto. Pensai con soddisfazione che nessuno sapeva dove fossi. Scesi in strada e mi diressi verso l’istituto di karate, pochi metri più in là, in fondo alla Calle. Mi rendevo conto di rinviare l’esame delle mie foto, ma sentivo di avere bisogno della compagnia del vecchio Suzuki, del tocco consolatorio delle sue mani.
Nello spogliatoio della palestra mi chinai a togliermi le scarpe e rialzandomi mi trovai di fronte il figlio più piccolo di Suzuki.
«Mio padre ti ha aspettato, Lime-san» disse nel suo ineccepibile spagnolo.
Lo salutai e proseguii il processo di svestizione, fermandomi ad ammirare le sfumature gialle e violacee dei lividi che avevo sul petto e sul fianco.
Feci una doccia, mi avvolsi in un asciugamano e mi distesi sul lettino nella stanzetta più interna dell’edificio. Nella sala grande alcuni allievi si stavano allenando, si udivano tonfi, grida in giapponese e il sibilare dei piedi nudi nell’attacco.
Suzuki entrò avvolto nel suo kimono bianco. Fece un inchino e io mi alzai per ricambiare rispettosamente il saluto. Era piccolo e muscoloso, vicino ai settanta, molto ben portati. I capelli, cortissimi, erano ancora di un nero scintillante.
«Benvenuto, Lime-san» disse. «Distenditi e trova pace nella tua anima. Ho saputo della tua disgrazia e leggo il dolore nei tuoi occhi.»
Mi distesi a pancia in giù, e sentii le sue dita allo stesso tempo forti e delicate iniziare il loro magico viaggio lungo il mio corpo. Stringeva, premeva, massaggiava e accarezzava, dai piedi su fino al collo. Sapeva come snidare il dolore fisico e psichico, che pian piano si concentrava in un unico nodo all’altezza della nuca. Poi, magicamente, sciolse quel nodo lavorandomi il collo con entrambe le mani.
«Hai di nuovo riempito il tuo corpo di veleni, Lime-san» disse. «Hai riempito la tua anima di pensieri negativi. Devi smettere di maltrattarti. Devi ritrovare l’essenza più riposta della tua anima, trovare un nuovo centro.»
Le sue parole erano benefiche quanto i suoi massaggi. Aveva una voce profonda e dal forte accento, rilassante. Quando ero triste, stanco o nervoso Suzuki riusciva infallibilmente a farmi scivolare in un’oscurità piacevole, dove non esistevano dolore né gioia, solo il vuoto. Era meglio delle pillole. E per molti anni era stato meglio dell’alcol. Suzuki mi lasciò dormire per un’ora, poi mi svegliò e mi offrì una tazza di tè forte e molto zuccherato. Domandai come andassero la vita e gli affari. Suzuki era soddisfatto: l’istituto prosperava e da poco gli era nata una splendida nipotina. Mi rivestii e fui accompagnato alla porta, dove ci scambiammo altri inchini. Uscii sentendomi tonificato, temporaneamente riconciliato con la vita. Sapevo che l’effetto non sarebbe durato, ma almeno mi avrebbe aiutato ad affrontare la valigia e i ricordi dolorosi che conteneva.
Trascorsi due giorni e due notti chiuso nella camera d’albergo, con il cellulare spento, a pensare alla mia vita sforzandomi di metterne a fuoco i momenti cruciali. La serenità dell’infanzia al riparo di una famiglia amorevole, la giovinezza inquieta e turbolenta, la maturità. La tragedia.
Ero solo. Potevo ridere, piangere, passeggiare nudo per la stanza, mangiare e bere quando ne avevo voglia. Potevo decidere di non lavarmi. Non era necessario che mi facessi la barba. I rumori della Calle entravano dalla finestra aperta, ma io rovistavo nella valigia e ascoltavo solo me stesso. Tra gli appunti, i vecchi taccuini, i mezzi diari e le foto accumulate in quarant’anni passati con la macchina fotografica in mano, cercavo parole e immagini capaci di evocare piccole, vibranti eco del passato.
Con qualche eccezione, le foto e gli appunti erano sistemati in ordine cronologico. I miei genitori da giovani davanti alla loro prima Volkswagen; mia madre che stendeva il bucato in una limpida giornata invernale; i pescatori a carnevale, truccati da pagliacci, che cercavano di baciare le ragazze. La dodicenne Malene in costume da bagno sulla spiaggia, e, qualche anno più tardi, nuda sulla stessa spiaggia in un giorno pieno di sole. Una foto di Oscar e Gloria, vestiti di bianco e allacciati l’uno all’altra a Pamplona, alla Feria di San Fermín; Gloria con capelli simili a una spuma selvaggia, Oscar con il viso seminascosto da una folta barba da vichingo. Un’immagine del 1971: io in mezzo a uno sguaiato gruppo di colleghi davanti a un ristorante di Kensington. Tutti ridevano e scherzavano atteggiando il viso in buffe smorfie. I capelli erano lunghi o tagliati a caschetto, indossavamo giubbotti di pelle e molti avevano una cicca fra le labbra. Le macchine fotografiche pendevano sui nostri petti come talismani di una tribù esotica. Stavamo aspettando che John Lennon e Yoko Ono uscissero dal ristorante alla moda in cui stavano pranzando.
Poi c’era Amelia davanti alla fontana di Plaza Cibeles a Madrid; il suo bel viso contratto dal dolore durante il parto, la testina nera di Maria Luisa che affiorava tra le sue gambe sudate. Amelia e Maria Luisa nude su una caletta nei pressi di San Sebastián. E la loro ultima foto, quella in cui sedevano su una panchina a spezzettare pane secco per i piccioni.
Tutto questo apparteneva al passato. A un tratto mi sentivo vecchio.
La presenza di Amelia e Maria Luisa, il loro amore, erano stati il mio antidoto contro ogni paura. Ma adesso, con le mie foto in mano, contemplavo i mutamenti, poi il progressivo declino del mio corpo e mi pareva di udire i battiti affaticati del mio cuore. Provai a calcolare quante volte quel muscolo si fosse contratto nel corso dei miei cinquant’anni e fui colto da un senso di vertigine. Per la prima volta in tanti anni la prospettiva della morte mi atterriva.
Misi da parte le foto personali e mi ritrovai in mano l’immagine di Lola, la ragazza con i capelli alla Marianne Faithful, e dell’uomo alle sue spalle.
Clara Hoffmann dei servizi segreti me l’aveva mostrata al tavolino della Cervecería Alemana e da allora la mia vita non era più stata la stessa. Posai la foto sul pavimento, di fronte a me, e continuai a scartabellare. C’era un’altra foto, questa volta a colori, risalente allo stesso periodo. Lola Nielsen nel soggiorno della comune di Bogense, insieme a tre ragazzi barbuti più una donna di cui non ricordavo il nome. Erano seduti attorno a un basso tavolino su cui stavano due grandi posacenere di ceramica e una pipetta da hashish. Sulla parete campeggiava un poster del Che. Poltrone e divano sembravano di quarta mano. Lola aveva la chitarra in braccio, gli uomini la guardavano. I capelli biondi le ricadevano sul viso.
Uno degli uomini era Ernst Strauss, di Berlino Est, arrivato alla comune all’inizio dell’estate insieme a due amici tedeschi. Erano rimasti un paio di mesi.
Rammentavo i loro discorsi sull’impossibilità di un rovesciamento incruento della società capitalista e sulla rivoluzione imminente.
Ernst, ricordai, era nato a Halle. Una volta gli avevo domandato se avesse scavalcato il Muro, ma la sua risposta era stata evasiva.
Molti membri delle comuni danesi condividevano la visione radicale di Ernst e compagni, altri rifiutavano l’uso della violenza. Nell’ambiente le discussioni spesso si facevano accese. Ma sia io che Lola preferivamo restare ai margini del dibattito. A lei interessavano soprattutto le sue conquiste e la carriera di cantautrice, io pensavo alle mie foto, alla donna di turno e a farmi le canne. Conoscevo tutti gli slogan rivoluzionari allora tanto di moda, senza crederci fino in fondo.
Le foto stimolavano il flusso dei ricordi. Ripensai alla raccolta delle fragole, cui tutti partecipavamo per guadagnare qualche soldo. Ci alzavamo verso le quattro di mattina e in bicicletta raggiungevamo il luogo dove un trattore ci aspettava per portarci fino al campo di turno. Mi sembrava di sentire l’odore di terra bagnata, il sapore dolce dei frutti maturi, la brezza salata che si levava dal mare non lontano.
Di colpo mi venne in mente un episodio a cui non avevo più ripensato.
Una mattina mi ero svegliato prima dell’alba per andare nei campi di fragole. Avevo trascorso la notte con Lola, che come al solito aveva preferito restare a dormire. Benché si atteggiasse da femminista, Lola si aspettava che fossero i suoi uomini a badare a lei economicamente e rifuggiva da ogni forma di fatica. Ero appena uscito dalla stanza che occupava all’ultimo piano della comune, quando nella penombra mi parve di vedere qualcuno che si affrettasse giù per le scale. La gente andava e veniva abbastanza liberamente nei locali di quella grande ex fattoria, e spesso capitava di imbattersi in sconosciuti in corridoio o in uno degli spazi comuni.
Ero sceso in cucina per fare colazione insieme agli altri raccoglitori, ma scoprii di essermi alzato troppo tardi: erano già andati via. Ernst e una donna erano in piedi accanto al lavandino. Lei reggeva una tazza di tè e parlava in tedesco, sottovoce ma con fervore. Ernst ascoltava concentrato e teso. Al mio «buon giorno» la donna ebbe un sussulto e si voltò dall’altra parte, Ernst mi fulminò con lo sguardo, ordinandomi di sparire. Sorpreso e irritato dalla durezza di quel comando, decisi di fare finta di nulla. Mi versai una tazza di caffè e mi preparai una fetta di pane con burro e formaggio: la cucina era anche mia. La donna continuava a darmi le spalle. La maglietta indossata sui jeans slavati rivelava una bella schiena, un po’ esile. I capelli corti erano tagliati pari. Nell’attimo in cui voltò la testa, il suo viso mi parve pallido e teso, senza trucco, gli occhi stranamente ardenti e intensi. Quando uscii sull’aia a fare colazione e a fumare una cicca nella prima luce dell’alba, i due rimasero dov’erano.
Quella sera avevo visto Ernst sul prato dietro la fattoria, in adorante contemplazione di Lola che camminava nel crepuscolo tenendo per mano una bimba di tre anni. Sapevo che Lola ed Ernst erano stati a letto insieme in più di un’occasione, ma non m’importava. Lola era bella, mi piacevano il suo corpo, i suoi gesti lenti e sensuali nel fare l’amore, ma non l’amavo. Comunque non abbastanza da essere geloso. Per Ernst le cose stavano diversamente.
Mi ero avvicinato e gli avevo chiesto chi fosse la ragazza di quella mattina.
Mi aveva rivolto un’occhiata colma d’irritazione: lo spettacolo di Lola nella splendida sera danese non ammetteva interferenze.
Scherzando avevo commentato che in ogni caso la sua donna misteriosa non poteva essere bella quanto Lola. Lui si era voltato di scatto, sibilando che non erano affari miei, che avrei fatto meglio a dimenticare quella donna. Si era allontanato in fretta, e non lo avevo mai più rivisto. Era sparito. Non potevo escludere che lui o la donna della cucina fossero tornati alla comune quell’estate o in seguito, perché una settimana dopo la scena sul prato avevo preparato lo zaino ed ero partito in autostop per Copenaghen.
Solo un paio d’anni più tardi, in Germania, avevo potuto associare un nome all’amica di Ernst, il cui volto appariva accanto a quello di Ulrike Meinhof su un manifesto che spiegava che erano terroriste ricercate per omicidio, sequestro di persona e rapina. L’esperienza della comune nei pressi di Bogense aveva sparso anche semi nefasti. La maggior parte, per fortuna, non aveva attecchito, ma alcuni avevano messo radici e fatto germinare frutti fatali.
Tornai a osservare la foto scattata nel soggiorno della comune, e a un tratto riconobbi il ragazzo nell’angolo a sinistra: era Karsten Svogerslev, attuale deputato al parlamento danese. Faceva parte di un raggruppamento che raccoglieva i rappresentanti della sinistra radicale: vecchi comunisti, anarchici, e trotzkisti. Svogerslev era dunque uno dei pochi a non aver rinnegato il passato alla fine degli anni Settanta.
Riandai con la mente alla notte precedente la mia partenza dalla comune. La stanza di Lola aveva il soffitto spiovente e spazio sufficiente solo per un letto matrimoniale e delle vecchie casse da birra dipinte che le facevano da armadio. Le pareti erano bianche, con l’unica decorazione della sua chitarra appesa a un chiodo. Faceva caldo. Eravamo nudi, avevamo fumato dell’erba e fatto l’amore. Lei, distesa su un fianco, con un dito tracciava figure astratte sul mio petto. Il pensiero della partenza evocava in me un misto di eccitazione e malinconia. Ma dovevo partire; ero giovane, pieno di appetiti e volevo una vita da nomade. Ero un promettente fotografo, e le fotografie si potevano fare e vendere ovunque.
Prima della comune avevo lavorato per sei mesi da un carrozziere, poi, dopo l’anno di militare, come sterratore e betoniere. Così avevo messo da parte un gruzzoletto che mi avrebbe consentito di viaggiare.
Quell’ultima notte, anzi, quel mattino, quando la luce cominciava ormai a spuntare all’orizzonte, avevo fotografato Lola. Ricordavo un’immagine di lei seduta sul letto, nuda, con le braccia alzate nell’atto di raccogliersi i capelli sulla nuca. Ma evidentemente non l’avevo conservata, perché nella valigia non c’era.
«Da dove vieni, Lola?» le avevo chiesto.
«Da nessun posto.»
«Tutti veniamo da qualche posto, e siamo tutti diretti da qualche parte».
«Sono cresciuta a Vordingborg, in casa di un ufficiale dell’esercito, ma sono di origini inglesi. Sono stata adottata. La mia famiglia era nobile e rimase coinvolta in un grosso scandalo…»
Si divertiva a creare per sé ruoli, volti e identità sempre nuove, senza curarsi delle contraddizioni in cui continuamente cadeva. Sembrava credere davvero a ciò che inventava, ma solo fino alla storia successiva. Qualcuno mi aveva raccontato di aver saputo che era figlia di una ragazza madre di Copenaghen che si era rovinata con l’alcol, ma a Ernst aveva detto di essere la maggiore di sei figli cresciuti in una piccola fattoria sulla costa occidentale dello Jutland.
Non l’avevo contraddetta. Lei mi aveva baciato sul petto e accarezzato con la lingua, poi più in basso, con le dita, finché di nuovo avevo sentito il desiderio crescere tra le sue mani.
Poi aveva detto:
«Tu sei bravo in tante cose. Sei un amante favoloso, sei un fotografo favoloso, sei un seduttore. E un bugiardo. Sei proprio sicuro di voler partire oggi?».
Con dolcezza ero entrato dentro di lei.
«Peter. Sedurre è l’unica cosa che so fare, il mio unico talento. Di solito riesco a ottenere che gli uomini facciano quello che voglio. Perché con te non funziona?»
Potevo udire la sua voce pronunciare quella frase, quasi che Lola fosse distesa sul letto dell’Hotel Inglés. La concretezza di quel ricordo mi turbò. Come in trance, sentivo che la linea fra il passato e il presente andava sfumando.
Vidi me stesso lasciare la fattoria con lo zaino in spalla per incamminarmi lungo il viottolo di campagna che portava alla statale. Avevo addosso l’odore di Lola. Era una splendida mattina d’estate.
La marijuana e la sensazione di completa libertà mi davano alla testa. Il futuro era uno scrigno di possibilità, il mio giovane corpo uno strumento magnifico e invulnerabile.
Non credo di essere mai stato, né prima né dopo, felice quanto in quei momenti.
Quella domenica scesi dal taxi davanti a Las Ventas un po’ prima delle cinque. La mattina avevo dormito fino a tardi tra le lenzuola sudate e attorcigliate, protetto dal cartello Do Not Disturb appeso alla maniglia esterna della porta della mia camera. Mi ero svegliato, lucido sebbene un po’ dolorante. Avevo messo in ordine, chiuso la valigia, mi ero fatto la doccia ed ero sceso al ristorante per consumare il primo abbondante pasto in diversi giorni. Poi ero andato da Suzuki per uno dei suoi miracolosi massaggi. Il vecchio aveva detto che respiravo meglio; riusciva a percepire i contorni del mio wa, l’equilibrio di corpo e psiche. In effetti mi sentivo rinfrancato, quasi che le ore trascorse con la valigia dei ricordi avessero avuto un effetto catartico. Il bisogno di bere non era svanito, ma almeno per il momento stava rintanato in un angolo remoto del mio cervello. Sul taxi diretto all’arena avevo acceso il cellulare. La segreteria traboccava di messaggi di Oscar e di Gloria, preoccupati perché non riuscivano a mettersi in contatto con me. L’ultimo messaggio lo avevano lasciato insieme. Erano in partenza, Gloria per Londra, Oscar per l’Irlanda; avrebbero portato con sé i rispettivi cellulari e si aspettavano che mi facessi vivo.
Davanti all’ingresso di Las Ventas c’era la solita ressa, un caos di auto strombazzanti, turisti, bagarini, bancarelle e aficionados scalpitanti invano contrastati da vigili armati di fischietto. I miei sensi erano desti come se mi fossi svegliato da un lungo letargo; per la prima volta dalla morte di Amelia e Maria Luisa riuscivo a sentire la vita che pulsava tutt’intorno a me.
La folla cominciava a entrare. Dalla conversazione di due appassionati appresi che uno dei toreri era un giovane e promettente andaluso. I tori, particolarmente grossi e forti venivano dall’allevamento di Miura, vicino a Siviglia.
Raggiunsi il mio posto e sistemai sul cemento il cuscinetto marrone che avevo preso in affitto all’entrata. L’arena si stendeva rossa e cocente sotto il sole del pomeriggio.
Il biglietto di Don Alfonso era di quelli più costosi, avevo un posto in quarta fila nella parte in ombra, proprio sotto il presidente, incaricato di arbitrare la corrida del giorno. Le tribune si riempirono a poco a poco, ma i posti accanto al mio — due sul lato destro e uno a sinistra — erano ancora liberi. Il fumo delle sigarette e il brusio delle voci si levavano verso il cielo azzurro di Madrid, dall’arena saliva l’odore degli animali misto a quello della sabbia e del legno.
Davanti a me quattro uomini discutevano animatamente dei tori; erano degli intenditori, e non avrebbero prestato attenzione a nulla che non riguardasse la corrida. Alle mie spalle sedevano quattro turiste americane, indignate per l’assenza di una sezione non-fumatori nonostante fossimo all’aperto. Tutte e quattro concordavano sul fatto che l’Europa puzzasse terribilmente.
Comprai una Coca e un sacchetto di noccioline da un venditore e mi preparai a godermi lo spettacolo.
Uno squillo di tromba diede il via alla corrida. I tre toreri con le loro cuadrilla sfilarono nell’arena per andare a salutare il presidente. Si fecero il segno della croce, l’orchestra attaccò il paso doble, e quelli si avviarono sulla sabbia per dare inizio all’antichissima partita con la morte.
Il primo toro si precipitò fuori del suo recinto a testa alta. Esitò, momentaneamente sopraffatto dalla folla, dagli odori e dal chiasso. Poi scorse il banderillero, che era uscito da dietro la barriera con la grossa cappa rosso-arancio per permettere al torero di osservare l’avversario e individuare i suoi punti deboli e di forza. Il toro scalpitò, scosse la testa e muggì, e il pubblico si mise a fischiare. Il fatto che il toro marcasse il proprio territorio invece di lanciarsi all’assalto senza indugi era un chiaro segno di vigliaccheria.
Agitando la cappa, l’aiutante fece partire l’animale, allora il matador si fece avanti per dare inizio all’agone. Scosse un paio di volte la cappa, e il grosso animale nero caricò con decisione e prontezza, ma il torero lo fece girare intorno a sé in un paio di bellissime veroniche. Al terzo tentativo il toro cadde sulle zampe anteriori, e un sibilo di delusione serpeggiò fra gli spettatori. Zampe fiacche: il punto debole di molti tori da combattimento spagnoli di oggi. A un segnale dell’orchestra i cavalli entrarono veloci. Sembravano strani animali preistorici con la pancia e i fianchi così coperti da una spessa protezione e il paraocchi. Il picador si sporse verso il toro non appena il torero con un abile movimento del polso ebbe indotto l’animale ad allontanarsi dalla cappa e a pararsi di fronte al cavallo. Il toro caricò immediatamente, la picca gli penetrò nel dorso e il sangue prese a colare copioso. L’animale reagì, spingendo il massiccio cavallo contro la barriera di legno. Fu colpito ancora una volta dalla picca, poi il presidente cedette agli assordanti fischi del pubblico impaziente. Immobile al centro dell’arena, il toro sanguinava e ansimava.
Gli spettatori applaudirono quando il torero salutò personalmente il pubblico con le banderille, le piccole e tozze lance multicolori. Voleva piantarle di persona anziché, come avveniva talvolta, lasciare quel compito a uno degli aiutanti. Corse in linea diagonale verso il toro, che, scorgendolo, a sua volta si mise a correre; per un istante fu come se uomo e animale si fondessero, poi il torero spiccò un balzo e con una breve giravolta conficcò le banderille nel dorso della bestia. Il toro tentò di scrollarsele di dosso, tra gli applausi del pubblico.
Il successivo paio di banderille fu conficcato con la stessa impeccabile eleganza, mentre il terzo cadde quando il toro si abbassò sulle zampe ormai malferme.
Solo e sanguinante in mezzo all’arena, il toro aspettava il suo destino. Il torero bevve un goccio d’acqua, si fece il segno della croce e prese la cappa rossa — la muleta — infilando il suo leggero spadino nel drappo in modo da tenderlo. Sotto la carnagione olivastra, il viso del torero era pallido e i suoi occhi scuri erano pieni di paura, ma salutò con fierezza quando si tolse il copricapo e lo lanciò a una donna un paio di file più in là, dedicandole così il toro. Scattai qualche foto veloce con la Leica. Ero dispiaciuto di non avere un teleobbiettivo. La cosa che più mi sarebbe piaciuto catturare era la nuda paura del suo volto, la qualità del suo sguardo. Erano le prime foto che scattavo dopo la morte di Amelia e Maria Luisa, e avevo alzato la macchina fotografica, messo a fuoco e valutato la luce e la distanza con la mia abituale sicurezza, quasi automaticamente. Era una bella sensazione, accorgermi che tornavo ad agire e reagire al mondo circostante, che ricominciavo a fare ciò che da sempre sapevo e volevo fare: fissare l’istante.
Il torero era meno giovane di quanto mi fosse apparso in un primo momento. Aveva un corpo esile da ragazzo nell’aderente costume rosso-arancio, ma il suo viso era segnato.
Avanzò sulla sabbia per affrontare da solo il toro, la cui furia e scaltrezza, lo sapeva, toccavano il culmine proprio in quel momento. Aveva piantato le banderille da sé per vincere la paura, ma adesso quella stessa paura lo aspettava, centuplicata, al centro dell’arena: adesso veniva il bello. Attirò il toro verso la barriera in modo da trovarsi vicino agli aiutanti in caso qualcosa fosse andato storto. Il toro alzava a scatti il corno sinistro, abbassandosi sulle zampe quando l’uomo cercava di farlo girare dietro alla cappa. Dopo diversi inutili tentativi di indurre l’animale a caricare, il torero impugnò la spada, si mise in posizione e lo uccise. Salutò il pubblico deluso, fece un inchino alla sua donna e al presidente e uscì. Scene da una domenica pomeriggio spagnola come tante. Una volta superata la fascinazione per la morte in sé, i colori dei costumi, la mistica della rappresentazione con il suo elaborato rituale estetico raramente riservavano grandi emozioni.
Dal venditore comprai prima un cognac e poi una birra, che bevvi mentre il secondo toro veniva ucciso senza troppe variazioni. L’animale era più in forma del primo, in compenso il torero si meritò diverse ondate di fischi lasciando che il suo picador rovinasse la bestia costringendola a inginocchiarsi nella faena finale. Presi un altro cognac. Quando risuonò lo squillo di tromba che annunciava il terzo toro, un uomo venne a sedersi nel posto alla mia sinistra. Aveva sottobraccio il supplemento domenicale di «El Pais».
«Buenas tardes, Señor Lime» disse.
«Buenas tardes» risposi.
Era piuttosto basso, portava i capelli neri pettinati all’indietro a scoprire una fronte sfuggente, e un paio di esili baffetti sopra la piccola bocca. Indossava un completo chiaro e una cravatta annodata con cura. Accese un grosso sigaro cubano.
«Si sta godendo la nostra fiesta brava?» domandò. Aveva una voce aspra e parlava senza quasi muovere labbra, come se temesse che qualcuno potesse leggergliele.
«Non in modo particolare. I tori cascano a pezzi, per dirla senza mezzi termini, e i toreri sembrano più interessati al loro conto in banca che alla loro arte.»
«La stessa severità di giudizio si potrebbe applicare a molti altri aspetti dell’epoca in cui viviamo. La gente ha in mente solo il profitto e nessuno pensa più all’arte o alle tradizioni che sono la vera grandezza della Spagna. Ma questo lei lo sa benissimo. Don Alfonso mi ha detto che lei conosce, comprende e ama il nostro paese.»
«È vero» dissi.
«Però non è sempre stato così» ribatté lui.
«Che cosa intende dire?»
«Un tempo lei faceva parte di un gruppo il cui obbiettivo era il rovesciamento dell’ordine civile.»
«Se allude al fatto che sono stato fra gli oppositori della dittatura di Franco, allora ha ragione.»
«El Caudillo conosceva la Spagna e il suo popolo come nessun altro. Conosceva il nostro sangue bollente, la nostra brutalità, la nostra attrazione per la morte di cui la corrida è solo un esempio, la nostra scarsa propensione alla tolleranza, il nostro machismo e il nostro orgoglio inflessibile. Si propose di sanare le ferite della guerra fratricida e di fare della Spagna una moderna nazione europea. E ci riuscì.»
«Sono sicuro che le vittime delle torture e i giustiziati apprezzarono la nobiltà delle sue intenzioni. No. La Spagna era il bubbone purulento d’Europa. Un orrendo relitto fascista.»
L’uomo continuò con lo stesso tono pacato.
«L’alternativa era il caos. Poteri molto forti congiuravano per la rovina della Spagna. Dentro il paese e fuori del paese. Senza il Generalissimo la Spagna non sarebbe riuscita a seguire la strada che l’ha condotta sana e salva fuori dal passato.»
Nelle sue parole sentivo l’eco dei discorsi dei servitori di altre dittature. Avevano parlato così gli informatori della STASI nella defunta DDR e i boia fascisti di tanti paesi latino-americani. Agivano per una causa. Eseguivano semplicemente degli ordini. Rifiutavano ogni responsabilità, ma difendevano le loro azioni fino alla morte, perché altrimenti la loro vita non avrebbe avuto senso.
«Lei è uno storico?» chiesi.
Scoppiò a ridere.
«Una specie. Ma non siamo qui per discutere di politica o di storia. Io sono qui per saldare il debito che da anni mi lega a un uomo che stimo.»
Volevo aggiungere qualcosa su Franco, ma in quel momento i fischi e le urla del pubblico si fecero assordanti. Il terzo toro zoppicava vistosamente. Il torero alzò lo sguardo sul presidente, e poco dopo fu fatto entrare nell’arena un branco di buoi. Insieme a essi, il toro avrebbe lasciato l’arena mansueto come un agnellino, per essere ucciso tramite scarica elettrica da un efficiente macellaio in attesa nei corridoi sotto Las Ventas.
«Tutte le strade conducono alla morte» commentò l’uomo seduto accanto a me.
«Lei sa come mi chiamo, ma io non so come si chiama lei» dissi.
«Può chiamarmi Don Felipe.»
«Don Felipe. Se lei non è uno storico, allora chi?»
Come Don Alfonso, preferiva parlare per enigmi e in maniera indiretta, anche se rispetto a mio suocero era loquace. Probabilmente era stato un agente segreto sotto Franco. Dall’accento si sarebbe detto originario del sud.
«Non mi fraintenda,» disse sporgendosi verso di me «non sono un nostalgico della dittatura. Infatti il nostro lavoro aveva l’unico scopo di combattere il comunismo e l’anarchia, in modo che la Spagna potesse diventare matura per la democrazia. Avevamo molti nemici: bolscevichi, terroristi, separatisti. La mia specialità erano i servizi segreti sovietici, il KGB.»
«Lo stesso valeva per Don Alfonso?»
«Don Alfonso aveva le sue mansioni, io le mie.»
«Ossia?»
«Difendere lo Stato e le sue istituzioni. Fare in modo che i buoni cittadini potessero dormire tranquilli la notte.»
«Credevo che questo fosse anche il compito di mio suocero» dissi.
«Don Alfonso si concentrava sui nemici interni. Io lavoravo sugli agenti stranieri, gli infiltrati.»
«I russi?»
«Appunto. Ma il potere sovietico si serviva volentieri dei cubani. Si adattavano meglio, come dire, all’ambiente.»
Così quell’uomo si era occupato di controspionaggio.
«Okay» dissi vuotando il bicchiere. Volevo prenderne un altro, ma avevano fatto entrare il toro di riserva, e la vendita era stata temporaneamente sospesa.
Don Felipe riprese a parlare.
«Il suo nome comparve in alcuni rapporti…»
«Quali rapporti?»
«Frutto di intercettazioni, pedinamenti, perquisizioni segrete, informatori. Allora erano cose normali, di routine.»
Il pubblicò a un tratto s’infiammò, e io mi concentrai su quanto avveniva nell’arena.
L’orchestra attaccò il paso doble. Il giovane andaluso di cui avevo sentito parlare all’entrata stava attirando a sé il toro descrivendo con la cappa rossa cerchi dal diametro sempre più ridotto.
Il toro gli era così vicino da imbrattargli di sangue il vestito, un po’ più rosso ad ogni passaggio. Il torero voleva prolungare il più possibile quello stupendo, macabro balletto, incitato dalla musica e dai fragorosi «olé» degli spettatori. Ma sapeva che con ogni passo l’animale si avvicinava alla verità: presto avrebbe capito che la cappa rossa nascondeva una persona. Il giovane eseguì una piccola coreografia a beneficio del pubblico in tripudio e andò a prendere la spada.
«Speriamo che l’uccisione sia all’altezza di quanto abbiamo appena visto» disse Don Felipe in tono deferente.
Il giovane torero si mise in posizione, poi si alzò sulle punte e, nel prendere la mira, inchiodò gli occhi del toro alla cappa rossa costringendolo a offrirgli la porzione di dorso in cui la lama sarebbe affondata fino agli organi interni. Nell’arena avvolta dal silenzio, agitò leggermente il polso in un istante che parve lunghissimo, sospeso. Poi uomo e animale si lanciarono all’attacco, il torero colpì e la bestia cadde in avanti. Rimase in quella posizione per qualche secondo, rigurgitando sangue, prima di stramazzare sul fianco. L’aiutante si fece avanti per infliggergli il colpo di grazia con il suo coltello a lama corta. Ci alzammo per partecipare all’applauso scrosciante che il pubblico tributava al ragazzo, fermo accanto alla sua preda abbattuta. Con il permesso del presidente, le due orecchie e la coda furono mozzate e consegnate al torero come trofeo, poi l’animale fu trascinato in giro per l’arena dai muli per ricevere il tributo che spettava al coraggio da lui dimostrato.
Avevo dimenticato come quello spettacolo barbaro potesse all’improvviso trasformarsi in arte sublime, cancellando la compassione che poco prima avevo provato per la sorte dell’animale.
«Ringraziamo Dio per averci fatto assistere a questo indimenticabile spettacolo, a uno di quei rarissimi momenti in cui l’arte nasce e muore» disse Don Felipe.
«E anche Don Alfonso per i biglietti!» scherzai.
Rise.
«Già. Adesso ci conviene andare. Per oggi non accadrà nulla di altrettanto speciale.»
«Credevo che avesse qualcosa da dirmi.»
«Infatti. Ma è inutile che restiamo seduti qui. Come le ho detto, lo spettacolo adesso non può riservarci che delusioni, e io ho avuto modo di accertarmi che nessuno ci sta spiando.»
«Come fa a esserne sicuro?»
«Deve fidarsi di me, Señor Lime. Visto che io mi fido di lei. Venga!»
Si alzò, risalimmo le gradinate e raggiungemmo uno dei bar situati all’interno dell’edificio di Las Ventes. Ordinò due cognac, poi andammo a sederci sotto un arco da dove, attraverso la finestra senza vetri, potevamo vedere lo spiazzo antistante l’arena ancora piena di gente vociante.
Don Felipe mi porse il supplemento patinato di «El Pais».
«Ci troverà un rapporto d’intercettazione. Proviene da un archivio che ufficialmente non esiste più da anni. Ho cancellato i numeri di riferimento che potrebbero identificarne la provenienza se dovesse finire nelle mani sbagliate, ma ha la mia parola che è autentico. Con questo infrango la legge, infrango il segreto d’ufficio e il giuramento fatto al Generalissimo di non rivelare mai i segreti inerenti il mio lavoro, ma saldo il mio debito nei confronti di un uomo il cui lutto mi addolora profondamente.»
«Che cosa c’è scritto?»
«Lo legga. È una conversazione fra due uomini. Uno si chiama Victor Ljubimov. Per molti anni è stato il responsabile dell’ufficio culturale dell’Ambasciata Sovietica di Parigi, ma i suoi veri datori di lavoro erano i vecchi servizi segreti sovietici. Per conto del KGB aiutava il PCE, il partito comunista spagnolo. Come lei sa, prima della transición il partito era illegale.»
Annuii. Con la parola transición gli spagnoli si riferivano ai due anni intercorsi fra la morte del generale Franco, avvenuta nel 1975, e le prime libere elezioni politiche del giugno 1977. Poco prima di morire Franco aveva fatto giustiziare cinque persone. Non esisteva alcuna garanzia del fatto che il re o i politici del vecchio regime avrebbero scelto la via della democrazia. Toccò al settore più aperto dell’unico partito legale sotto Franco intraprendere il dissolvimento del vecchio sistema di potere e traghettare il Paese verso la democrazia, sventando il pericolo di un colpo di stato militare alla sudamericana.
Don Felipe continuò:
«Tenere d’occhio chiunque avesse rapporti con il PCE per noi era una priorità, ma furono gli americani a individuare Victor Ljubimov. Parlava correntemente lo spagnolo e l’inglese. Era il principale agente di collegamento fra il KGB e il PCE».
«E l’altro chi è?»
«Abbia un po’ di pazienza. Molti dei leader del Partido Comunista de España erano espatriati in Francia o a Mosca, ma negli anni Settanta il PCE cominciò a riorganizzarsi in patria. Tanto nelle università quanto nel movimento sindacale, il PCE era forte. Noi avevamo molto da fare. Schiere di agenti stranieri operavano in terra spagnola e i rivoluzionari di casa nostra alzarono la cresta. Anche se ampi settori della sinistra erano contrari a che il comunismo sovietico rimpiazzasse il governo di Franco.»
«La seguo» dissi sforzandomi di inghiottire l’impazienza.
Prese un sorso di cognac e io lo imitai.
«In collaborazione con gli americani cominciammo a sorvegliare Victor, a farlo pedinare. Era naturale che collaborassimo, condividevamo la causa anticomunista e ospitavamo le loro basi. E comunque, quando si trattava di lottare contro i bolscevichi, gli americani erano disposti ad allearsi con il demonio in persona. Nonostante le intercettazioni e i pedinamenti a tutt’oggi non sappiamo chi fosse l’interlocutore di Victor nella conversazione in questione. Ci risulta che venisse dalla DDR, e che fosse un collaboratore della STASI. Il suo compito era infiltrarsi nel PCE, ma ignoriamo quale fosse la sua funzione, né sappiamo se abbia reclutato lei.»
Lo fissai sbalordito.
«Io non sono mai stato iscritto a nessun partito. Nessuno mi reclutò» dissi.
«Ormai fa lo stesso. Ma secondo Don Alfonso la questione è rilevante.»
«Ho lavorato nella DDR come fotografo, ma qui a Madrid non frequento né ho mai conosciuto nessuno originario della DDR.»
Oscar era originario di Amburgo, e a quanto mi risultava non era mai stato in Germania Orientale se non da giovanissimo, e solo con il visto per ventiquattr’ore, spinto dalla curiosità di vedere come si vivesse dall’altra parte. Non pensavo neppure a lui come a un tedesco: non amava la Germania, e da parecchi anni diceva di voler prendere la cittadinanza spagnola.
Lui riprese:
«Ho amicizie risalenti a quell’epoca. Contatti. Alcuni sono ancora attivi, altri, come me, si godono la pensione. Da loro so che l’agente sovietico è ancora in vita, ma si dimise quando l’Unione Sovietica crollò e adesso fa, per così dire, l’uomo d’affari a Mosca».
«Mafia?»
«Consulente per la sicurezza, si definisce lui.»
Dal brusio che si levava dall’ingresso di Las Ventas, dalla musica e dagli olé, capii che con tutta probabilità la folla stava per riversarsi fuori dal portone principale con il giovane matador andaluso in spalla, un onore raro. Quando gli applausi crebbero d’intensità Don Felipe, o comunque si chiamasse, si alzò lasciandomi «El Pais».
«Addio, Señor Lime» disse vuotando il bicchiere. «È stato un piacere.»
E si allontanò. Poco dopo la folla festante lo inghiottì e lo persi di vista. Un gruppo di uomini uscì portando il giovane andaluso in trionfo. Il ragazzo aveva un’espressione esaltata e spaventata al tempo stesso, quasi che la folla costituisse un pericolo ancora più grande dei due tori che aveva ucciso con onore e coraggio quel pomeriggio. Gettò le orecchie e le code dei due tori ai suoi ammiratori estasiati. La vita doveva sembrargli facile, la sua giovinezza, bellezza e fortuna eterne.
Alzai il bicchiere e bevvi il resto del cognac augurandogli buona fortuna, poi sfogliai l’inserto di «El Pais». Infilati tra le pagine centrali c’erano alcuni fogli di carta ripiegati con cura. Ardevo dalla voglia di leggerli, ma li rimisi al loro posto, e solo quando la folla cominciò a diradarsi andai a cercare un posto dove potermi tuffare in un’altra stagione del mio passato.
Mi rifugiai nella quiete domenicale del nostro ufficio in Paseo de la Castellana. Normalmente c’era molto lavoro anche di domenica, ma non in agosto, quando l’ufficio madrileno chiudeva e il compito di occuparsi dei suoi affari durante i week-end toccava alla sede di Londra.
Il breve tragitto in taxi da Las Ventas all’ufficio mi aveva lasciato con la maglietta incollata alla pelle per il sudore. Aprii la porta benedicendo il sommesso ronzio dell’aria condizionata che qualcuno aveva lasciato in funzione. Andai nel cucinotto a prendere una Coca fredda. A parte il rumore dei condizionatori, l’ufficio era completamente silenzioso. Mi aggirai per le stanze deserte e nello studio di Oscar. La sua scrivania, di solito coperta di foto, riviste, tazze da caffè vuote, lunghe stampate e portacenere pieni, era perfettamente sgombra. Il telefono e il computer per una volta erano muti, anche se la luce della segreteria lampeggiava.
Andai nel mio ufficio. Lasciai la porta aperta, in modo da poter vedere l’ampio locale dove lavoravano segretarie e assistenti, fino all’ufficio di Oscar. Mi sentivo al contempo a mio agio e un po’ ospite. Quelle stanze erano ancora parte della mia vita, erano mie per un terzo, eppure non mi appartenevano più. Sistemai i fogli davanti a me, accesi una sigaretta e cominciai a leggere.
Rapporto di intercettazione PCE/13
5 marzo 1976. Ore 14.45.
Stilato da (cancellato).
Tradotto dall’inglese da (cancellato).
Soggetti impegnati nella conversazione:
1) Victor Ljubimov, circa quarant’anni, responsabile culturale presso l’Ambasciata Sovietica di Parigi, entrato nel Paese con passaporto cubano dalla frontiera portoghese il 23 febbraio 1976, alloggiato presso l’Hotel Victoria.
2) Sconosciuto sui venticinque anni, alto, barba e capelli lunghi, stile hippy.
Lingua in cui si è svolta la conversazione: inglese. Leggera interferenza, per il resto ottima apparecchiatura, funzionante dal punto di vista tecnico. Secondo la squadra d’intercettazione PCE/13, le battute iniziali e finali della conversazione hanno avuto luogo nell’ingresso, fuori della portata del microfono numero 3. Esse risultano pertanto escluse dall’intercettazione. Il perito linguistico A/24 specifica che l’inglese dei soggetti, pur corretto dal punto di vista grammaticale, non è la loro lingua madre. Lo sconosciuto parla inglese con accento tedesco, talvolta facendo ricorso a espressioni gergali americane. Einglese di Ljubimov è fluente e britannico nella pronuncia.
Victor Ljubimov giunge alle 15.43 nell’appartamento di Calle Princesa n. 12. Ai sensi della disposizione numero 11, previa autorizzazione del tribunale segreto, sezione 6, e di concerto con il proprietario dell’appartamento attiguo, un buon patriota iscritto da molti anni al Movimento ha provveduto all’installazione dell’apparecchiatura per l’intercettazione.
L’appartamento risulta essere di proprietà di (nome cancellato), il cui legame con il movimento sindacale comunista illegale Comisiones Obreras è ben documentato. Al fine di non interferire con lo svolgimento di indagini tuttora in corso, si raccomanda di evitare di procedere all’arresto e all’interrogatorio di (nome cancellato).
Alle ore 15.58 l’interlocutore (identità ancora ignota) qui denominato «Hippy» a causa della capigliatura disordinata, giunge in Calle Princesa n. 12. La squadra d’intercettazione C/3 descrive il soggetto come «alto e dal fisico massiccio». La stessa squadra d’intercettazione non riesce — né al momento dell’arrivo né in seguito — a scattare una foto di Hippy che lascerà l’appartamento da un’uscita secondaria.
Alzai lo sguardo ad abbracciare la vista dei tetti di Madrid mentre pensavo al numero incredibile di rapporti simili a quello stilato negli anni della guerra fredda. Chissà quanti di essi erano inaffidabili, manipolati in modo da trasformare un incontro innocente e banale nell’ingranaggio di un minaccioso disegno sovversivo, all’unico fine di garantire continuità di finanziamenti ai servizi segreti.
Mi accesi una sigaretta e continuai a leggere. La conversazione era riportata come le battute di un copione. Mancavano solo le didascalie:
Victor: …secondo te le Comisiones Obreras porteranno i lavoratori in piazza il primo maggio?
Hippy: I compagni del sindacato stanno facendo un grosso lavoro, e a quanto pare seguono la strategia indicata dal Comitato Centrale di Mosca. Bisogna mobilitare le forze e spingere il PSOE sulla difensiva.
Victor: E gli scioperi del prossimo mese?
Hippy: Tutto fa pensare che si estenderanno all’intero territorio nazionale. Sarà quasi uno sciopero generale.
Victor: Hanno i mezzi per organizzarlo?
Hippy: Sono a corto di soldi. Su questo non c’è dubbio.
Victor: lo posso procurarne altri. Mi ci vorrà qualche giorno. Li faremo accreditare via Parigi tramite i soliti canali.
Hippy: C’è anche il movimento degli studenti. I gruppi anarchici sono forti e spingono il Partito in secondo piano. Abbiamo bisogno di mezzi anche per quel fronte.
Victor: Mosca è ricca, ma non una miniera d’oro.
Hippy: È il momento di intensificare gli sforzi. Ormai è solo una questione di tempo e il PCE verrà legalizzato, allora ci troveremo in una posizione di forza. Il popolo sceglierà noi, non i socialisti. Qui in Spagna si respira un clima rivoluzionario.
Victor: Mosca dà importanza tanto allo sciopero quanto al primo maggio. Allora sarà il momento di sfondare a calci la porta di questo sistema marcio.
Hippy: Gli studenti e i lavoratori scenderanno in piazza insieme il primo maggio. Credimi, so quello che dico.
Victor: D’accordo. La Spagna va conquistata.
Hippy: Poi ci sono i baschi…
Victor: Già.
Hippy: I miei contatti sostengono che tutto è pronto per un’offensiva militare che scatterà in contemporanea con le manifestazioni e gli scioperi.
Victor: Sì.
Hippy: Caos.
Victor: Già.
Hippy: I fascisti serreranno i ranghi. In un primo momento la repressione sarà violenta, ma non farà che accelerare i tempi della rivoluzione…
Victor: Mosca ha deciso per l’intervento finalizzato alla legalizzazione del PCE…
Hippy: Sì.
Victor: Dapprima faremo entrare illegalmente Carrillo, poi, quando i tempi saranno maturi, sarà la volta della Pasionaria, questa volta legalmente.
Hippy: Non lo permetteranno mai.
Victor: Noi pensiamo di sì. Non riteniamo che il terrorismo sia la strada giusta nell’attuale situazione spagnola. Al fascismo succederà una democrazia conservatrice. Per questo è importante che il PCE esca dall’illegalità conquistando il sostegno della classe operaia e della popolazione in genere.
Hippy: A quanto ho capito, nella situazione attuale, Berlino non considera la lotta dei baschi terrorismo, ma, appunto, lotta armata per una causa legittima.
Victor: Noi vediamo le cose da un’altra prospettiva. Ti ripeto, in questo momento riteniamo che la via più utile sia quella della legalità. Ci saranno le elezioni e il PCE dovrà imporsi. Se così non sarà valuteremo la situazione.
Hippy: Secondo Misha devo portare avanti la collaborazione con l’ETA.
Victor: Su questo siamo d’accordo.
Hippy: Continuiamo ad addestrarli, e ci siamo accordati con i compagni cecoslovacchi per una nuova spedizione, ma perché vada in porto dobbiamo attivare la cellula di Pamplona.
Victor: Va bene. Però vorrei che raccogliessi informazioni più approfondite sull’ambiente studentesco, e mi servono i nomi dei rappresentanti della stampa sui quali potremo contare quando la situazione si farà più calda. Sono queste le tue priorità, adesso.
Hippy: D’accordo.
Victor: Bene.
Mi alzai e andai in cucina a prendere una lattina di birra, poi tornai alla mia scrivania e mi rimisi seduto a riflettere su quanto avevo letto alla luce del corso successivo degli eventi.
I sindacati comunisti illegali, Comisiones Obreras, avevano indetto uno sciopero generale e grandi manifestazioni per il 1° maggio dell’anno zero dalla morte del generale Franco.
Nell’aprile del 1976 la Spagna era stata scossa dalla più grande ondata di scioperi in quarant’anni, e quelle agitazioni avevano contribuito a rovesciare la vecchia guardia fascista e a fare strada a una corrente più riformista capeggiata da Adolfo Suárez.
Più tardi, quello stesso anno, il vecchio leader comunista Santiago Carrillo aveva fatto ritorno a Madrid. Nel 1977 il partito comunista spagnolo era stato legalizzato e la leggendaria Pasionaria della guerra civile, Dolores Ibárruri, era rientrata in patria. Il centro conservatore aveva vinto le elezioni del giugno 1977, ma i risultati elettorali del PCE erano stati buoni, sebbene inferiori a quelli del PSOE. La strategia di Mosca era fallita. La Spagna non era diventata un regime comunista, bensì una democrazia liberale.
Quanto alla storia dell’ETA e dei compagni cecoslovacchi, sapevo quale fosse stato il ruolo di questi ultimi: fornire l’esplosivo semtex che i baschi usavano nella fabbricazione delle bombe. La DDR aveva formato ed equipaggiato terroristi in tutto il mondo. I palestinesi, le Brigate Rosse in Italia, la Rote Armee Fraktion nella Germania Occidentale e l’ETA in Spagna.
Quel pensiero mi dava i brividi. Misha, naturalmente, era Markus Wolf, capo del controspionaggio della DDR fino a quando, poco prima del crollo del Muro, dando prova di grande tempismo aveva lasciato i servizi segreti per aderire al movimento democratico in Germania Orientale. Avevo letto che aveva pubblicato le sue memorie e che continuava a rifiutarsi di rivelare i nomi dei propri agenti.
Accesi il computer, mi collegai a Internet e impostai una ricerca sulla parola “Karlhorst”. L’elenco di siti e documenti era lungo: Karlhorst era il vecchio quartier generale del KGB nella DDR, da cui in definitiva dipendeva anche la STASI.
Sorseggiando la mia birra, ripresi la lettura dei documenti. Ormai fuori era completamente buio. “Hippy” elencava una serie di nomi spagnoli. Io ne conoscevo soltanto uno, quello di un famoso presentatore di quiz televisivi su uno dei canali privati. Gli altri non mi dicevano niente. Poi il rapporto continuava:
Hippy: Ho sentito parlare di un fotoreporter danese con buoni contatti nell’ambiente clandestino basco.
Victor: Sì…
Hippy: Ha viaggiato molto. È un po’ un vagabondo, ma in gamba, dicono. Libano, DDR, Mosca. Va ovunque ci siano foto interessanti da scattare.
Victor: È conservatore?
Hippy: Progressista, liberale. È un ammiratore del pensiero anarchico di Durruti…
Victor: E lo chiami progressista?
Hippy: Non è un reazionario, è… plasmabile.
Victor: Firmerebbe un contratto?
Hippy: Forse. Ma lo vedo meglio come informatore e collaboratore a sua insaputa. Ha molte conoscenze nonostante la giovane età. È sempre in bolletta, beve troppo e gli piacciono le ragazze. Di conseguenza i soldi potrebbero fargli gola, in prospettiva.
Victor: La faccenda mi sembra promettente. Come si chiama?
Hippy: Lime. Peter Lime.
Victor: Okay. Continua a lavorarci. Hai già ottenuto buoni risultati con un danese in passato. È un popolo di ingenui, e spesso condividono i nostri principi anche se non hanno la vocazione all’impegno militante. Ma non dimenticarti degli spagnoli. Quelli hanno la priorità assoluta.
Hippy: Okay.
Victor: I soldi sono nel solito posto. Distribuiscili in giro.
Hippy: Okay.
Victor: E abbi cura di te. Questa è una fase delicata, cruciale.
Hippy: Non è sempre così?
I soggetti escono dal soggiorno e concludono la conversazione nell’ingresso.
La squadra d’intercettazione ritiene che le indagini debbano continuare. Suggerisce di procedere al pedinamento del citato Peter Lime, di intensificare gli sforzi per stabilire l’identità di Hippy, nonché di allertare la sezione in Navarra e rafforzare la sorveglianza al confine.
Rilessi le righe che parlavano di me da giovane. Il pensiero di essere stato argomento della conversazione dei due agenti mi metteva a disagio. Mi avevano fatto pedinare, e ciò costituiva una pesante intrusione nella mia vita privata, una violenza bella e buona. Mi accorsi che le mani mi tremavano leggermente. Mi chiesi chi potesse essere Hippy. Era un agente della DDR oppure lavorava per il KGB? Era possibile che fosse servo di due padroni, una specie di doppiogiochista? Rividi Oscar in una versione giovanile, ma subito l’ipotesi che potesse trattarsi di lui mi parve assurda: lo avevo conosciuto soltanto all’inizio della primavera del 1977, e per caso. L’immagine che conservavo dell’Oscar di allora — un giovane uomo ciarliero, affascinante e spiritoso — non combaciava con il profilo dell’agente dal sangue freddo che parlava di esplosivi e attentati come fossero banane.
Sentivo un fastidioso formicolio alle gambe, così mi alzai per cercare qualcosa di forte, ma da parecchi anni Oscar e Gloria non tenevano più superalcolici in ufficio. Presi un’altra birra e telefonai a Don Alfonso. Rispose subito, quasi stesse aspettando la mia telefonata.
«Sono io»
«Dimmi, Pedro.»
«Ho bisogno di parlare con il tuo Don Felipe.»
«Non è possibile. Cosa c’è?»
«La storia del pedinamento, io… mi sento sporco, ecco» dissi. «Lo so, è completamente irrazionale, ma…»
«È una reazione molto umana, Pedro.»
«L’identità di Hippy è mai stata scoperta?»
«No.»
«Perché?»
«I francesi si stancarono degli intrighi di Victor Ljubimov a Parigi, lo smascherarono e lo espulsero. A quel punto non era più utilizzabile in alcun paese occidentale. Hippy fu assegnato a un nuovo agente, ma non siamo riusciti a scoprire dove s’incontrassero. Tu hai idea di chi sia?»
«Può darsi» esitai. «Cosa sapete sul conto di Oscar?»
Mi accorsi di avere le palme delle mani sudate, nonostante l’aria condizionata.
«Mi aspettavo che avresti fatto questa domanda. Quello che sai anche tu. Nato ad Amburgo. Ex giornalista di sinistra, molto radicale in gioventù. Oggi è un ricco, rispettabile residente che paga regolarmente le tasse. Non c’è altro.»
Mi sentivo sollevato.
«E su di me? Che informazioni avete raccolto su di me?»
«Su di te non c’è nulla.»
«Come è possibile? Mi avete fatto seguire, lo dice il rapporto di intercettazione!»
«Ti ripeto che sul tuo conto non abbiamo niente. Questo non significa che tu non sia stato spiato. I servizi segreti sono burocrazie, e le burocrazie fanno un mucchio di errori. I rapporti non vengono archiviati correttamente, addirittura distrutti, i numeri di riferimento spariscono, i nomi di copertura vengono cambiati e i rimandi non vengono registrati. I nostri agenti e i nostri ufficiali sono esseri umani, con tutta la sete di potere, le debolezze, la stupidità che questo comporta. Abbiamo i tuoi dati, la conferma che sei benaccetto in Spagna, sappiamo che non evadi le tasse, tutto qui.»
«E la morte di Amelia e Maria Luisa? Perché?»
Tacque per qualche secondo poi disse:
«Fossi in te telefonerei alla donna di Copenaghen».
«Cosa può fare per me?»
«La chiave di tutto potrebbe trovarsi a Berlino. La Hoffmann può accedere ai loro archivi più facilmente di me. Fammi sapere, Pedro.»
Riagganciò. Evidentemente parlare di quelle cose al telefono lo metteva a disagio.
Accesi una sigaretta e recuperai l’appunto con i numeri di Clara Hoffmann. Era domenica sera, così la chiamai a casa.
«Sono Peter Lime. Telefono da Madrid.»
«Buona sera, Peter. Non speravo più che ti saresti fatto vivo.» Allora ci davamo del tu.
«Ho qualcosa sulla fotografia che mi hai mostrato» dissi.
«Di cosa si tratta?»
«Ho trovato un’altra foto, e ho trovato un nome.»
«Molto interessante.»
«Non mi sembra il caso di parlarne al telefono. Vorrei discuterne a quattr’occhi. C’è anche un’altra faccenda, credo che tu possa aiutarmi a chiarire alcuni aspetti.»
«Certamente.»
Sentivo una musica sommessa all’altro capo del filo, e immaginai di averla interrotta mentre si rilassava in poltrona, con un libro e il suo disco preferito in sottofondo. Un’atmosfera accogliente, come quella che regnava nelle case danesi della mia infanzia. A Madrid avevo notato che non portava la fede. Forse viveva sola. Come me. Anch’io ero solo, e solo sarei rimasto, per tutta la vita. Mi venne in mente il verso di una canzone di Janis Joplin: Freedom’s just another word for nothing left to loose, libertà vuol dire solo non aver più nulla da perdere. «Peter, ci sei?»
«Sì, scusa. Mi sono distratto. Hai detto qualcosa?» «Ti ho chiesto se devo venire a Madrid.» «No. Vengo io a Copenaghen domani, se riesco a trovare un biglietto. Altrimenti dopodomani. Ti chiamo.»
«Bene. Sono ansiosa di vedere l’altra foto.» «A presto, allora» e riagganciai.
Dopo la telefonata a Clara, mi fermai ancora mezz’ora in ufficio a bere birra. Poi tornai in albergo dove chiesi a Carlos di procurami una bottiglia di vodka che mi scolai quasi per intero. Trascorsi una notte d’inferno, nelle spire di una sbornia e una disperazione colossali. Vivere non m’interessava più. Rimpiansi di non avere una pistola, disprezzandomi perché sapevo che comunque non avrei trovato il coraggio di usarla. Parlai con Amelia e Maria Luisa, avevo l’impressione che fossero nella stanza, e che mi rispondessero.
L’indomani mi svegliai con le mani tremanti, lo stomaco in fiamme e un mal di testa martellante. La stanza puzzava di fumo e di alcol. Il clamore di Calle Echégaray mi rimbombava nel cervello. Bevvi un paio di bottigliette di acqua minerale e mandai giù due analgesici, mi liberai dei vestiti con cui avevo dormito e feci una doccia. Poi scesi in strada e mi infilai nel primo bar per un caffelatte e dell’altra acqua. Telefonai alla SAS: il volo per Copenaghen partiva alle 15.15, l’arrivo era previsto per le 18.25. C’erano ancora parecchi posti liberi, e ne prenotai uno. Quindi riservai una stanza all’Hotel Royal.
Cominciavo a sentirmi meglio. La strada, immersa nella splendente luce mattutina, brulicava della normalità del lunedì, e il paesaggio metropolitano profumava di fresco e di nuovo. Nulla faceva presagire la cappa umida e afosa che di lì a qualche ora avrebbe stretto d’assedio Madrid.
Tornai in albergo per raccogliere le mie cose e affidare la valigia con le foto a Carlos.
Rispose che l’avrebbe sistemata in cantina. Potevo lasciarcela per tutto il tempo che volevo, sarebbe stata al sicuro, almeno finché l’Hotel Inglés non fosse crollato.
Mi restò giusto il tempo per comprare qualche vestito e pranzare con una zuppa di verdure e una trota al forno prima di salire su un taxi diretto in aeroporto.
Una volta a bordo dell’aereo, cedetti alla tentazione di un Bloody Mary, che subito ebbe l’effetto di placare le mie formicolanti terminazioni nervose. Dopo un quarto di vino mi addormentai, forse per sfuggire alla coscienza che mi rimordeva. Mi svegliai quando ormai eravamo in fase di atterraggio. Sotto di noi l’0resund si stendeva azzurro e scintillante, punteggiato da una miriade di vele bianche, il ponte simile a un paio di braccia protese.
Copenaghen era la stessa di sempre, splendida nel sole del tardo pomeriggio. Il brulicare di biciclette colorate, il traffico scorrevole e tranquillo, l’aria fresca spruzzata del lieve profumo salmastro dell’0resund.
Andai in albergo. Per il momento non avrei telefonato a nessuno. Sforzandomi di rimanere alla larga dal minibar, accesi la TV e mi dedicai allo zapping. Stavo pensando a Bruce Springsteen e alla sua canzone Fiftyseven channels and nothing on quando un servizio del telegiornale catturò la mia attenzione: l’argomento era Lola. Il giornalista era un tipo che conoscevo, si chiamava Klaus Pedersen, e l’avevo visto l’ultima volta dieci anni prima, quando ancora lavorava al quotidiano «Jyllands Posten». Anche lui, come me, appariva invecchiato. Klaus mi aveva ingaggiato in un paio di occasioni per dei servizi a Madrid, e una volta eravamo partiti per il Sahara occidentale per un reportage sui guerriglieri del Fronte Polisario. Il servizio parlava della scomparsa di Laila Petrova, ma l’avevo riconosciuta subito. Si sospettava che Lola fosse scappata con parte dei fondi destinati al museo di cui era direttrice. Adesso il ministro della cultura aveva perso la poltrona a causa di quella storia, cui Clara aveva accennato nella nostra conversazione alla Cervecería. Sul video scorrevano le immagini del nuovo museo internazionale d’arte moderna, a sud di Copenaghen: un edificio bianco-grigio la cui mole faceva pensare a una grande nave arenata. La voce di Klaus Pedersen riassumeva efficacemente il caso. La direttrice, Laila Petrova, in possesso di ottime referenze da Londra e del Museo d’arte Manége di Mosca, era sparita. Dalle indagini, condotte fra l’altro da un giornalista del «Jyllands-Posten», era emerso che non possedeva i titoli accademici dichiarati. Apparve il ministro della cultura, circondata da una foresta di microfoni e mini registratori. Doveva essere più o meno mia coetanea, aveva il viso segnato e l’aria provata. Dichiarò che il compito di controllare le referenze di Laila Petrova spettava ai suoi funzionari, non aveva altro da aggiungere.
Sullo schermo apparve il viso ingrassato di Klaus:
«Laila Petrova fu assunta dietro viva raccomandazione del ministro della cultura, anche se nessun membro di spicco del mondo artistico danese la conosceva. A chi sollevava obiezioni e caldeggiava altre, più ovvie candidature, il primo ministro rispose che la Petrova rappresentava una scommessa intelligente e coraggiosa. Oggi la responsabilità di quella scelta ricade unicamente sull’ex ministro della cultura. Ma le vere vittime di questa scandalosa e mortificante vicenda sono i contribuenti danesi».
Il servizio si chiudeva con una serie di foto probabilmente risalenti alla cerimonia d’inaugurazione del museo. Mostravano Lola in uno spumeggiante vestito cremisi. Era accanto alla regina che, in confronto a lei, appariva insignificante, dimessa.
«Ben fatto, Lola!» dissi ad alta voce e chiamai la reception per farmi dare il numero di telefono del telegiornale.
Quando chiesi di Klaus, la centralinista mi mise in attesa, poi tornò in linea annunciando che me l’avrebbe passato.
«Ciao, Klaus. Sono Peter Lime.»
«Peter, accidenti! Quanto tempo è passato. Come stai?»
Sullo schermo del televisore scorrevano adesso le previsioni del tempo.
«Non c’è male, e tu?»
«Abbastanza bene. Chiami da Madrid?»
«No. Sono a Copenaghen. Ho appena visto il tuo servizio su Lola.»
«Laila.»
«Il suo vero nome è Lola. È una vicenda molto interessante. Ricorda un po’ la storia del re nudo: si presenta un’affascinante signora con un pizzico di savoir faire e tutti cascano ai suoi piedi, senza preoccuparsi di verificare che sia ciò che dice di essere.»
«Proprio così. Le è bastato sbattere le ciglia e tutti i piccoli socialdemocratici che ci tenevano tanto a passare da esperti le hanno fatto ponti d’oro. La conosci, Peter?»
«Sì.»
«Senti senti!» esclamò con l’eccitazione del cacciatore di notizie che fiuta uno scoop.
«Sono al Royal. Se vuoi, ti offro un drink e ti racconto di lei.»
«Accidenti, non posso. Ho promesso di tornare a casa» rispose dopo un secondo di esitazione.
«Cosa hai combinato?»
Quella non era una risposta da Klaus Pedersen. Ai vecchi tempi se ne infischiava della famiglia. Viveva solo per i reportage dall’estero e approfittava di qualsiasi occasione per fare un viaggio a spese del giornale.
«Qualche anno fa ho divorziato da mia moglie e mi sono risposato. Sì, con una fotomodella più giovane di me. Così adesso ho una seconda nidiata di figli, il piccolino soffre di coliche che lo fanno urlare come un ossesso. Se non vado a casa a darle il cambio, mia moglie non mi rivolgerà la parola per le prossime due settimane.»
«Capisco.»
«Sai com’è. Io, con l’età che ho, non desideravo altri figli, però uno non può mica permettersi di dire di no, quando la moglie più giovane vuole metter su famiglia, o sbaglio?»
«Giusto.»
«Ho mollato gli esteri per lo stesso motivo. Tutti quei viaggi mi sono costati il primo matrimonio. Allora ho fatto domanda per un posto alla redazione interna del telegiornale. Turni fissi e a casa tutte le sere. Non posso proprio permettermi un secondo divorzio.»
«Come non detto, Klaus.»
«Tu hai figli?»
«No» risposi con un nodo alla gola. «Niente figlio.»
«Sei rimasto il lupo solitario di sempre. Comunque ci tengo a incontrarti. Perché non vieni qui da me domani?»
«Ottima idea» risposi.
«Facciamo verso le undici? Chiedi alla receptionist. Ah, no, scusa: quella l’hanno mandata a casa per risparmiare. Chiamami prima di lasciare il Royal, così scendo e ti vengo incontro.»
«Perfetto. E salutami la nuova signora Pedersen.»
«A domani. Mi ha fatto piacere risentirti.»
Per scacciare la tentazione di aprire il minibar, feci qualche flessione. Poi lessi l’«Herald Tribune», dall’attualità agli editoriali fino alle cronache sportive più le strisce di Calvin and Hobbes. Mi addormentai davanti al film trasmesso da un canale via satellite.
L’indomani mi svegliai molto presto. Rimasi per qualche tempo a letto a guardare gli insulsi programmi televisivi del mattino: un talk show ambientato nel finto soggiorno di una casa, lezioni di cucina, l’intervista a una giovane cantante discinta recentemente proclamata uno dei migliori talenti della musica pop.
Mi sintonizzai sulla CNN, poi mi alzai per fare la doccia.
Attesi che fosse un’ora decente per telefonare a Clara Hoffmann. A giudicare dalla voce pimpante doveva essere sveglia da un pezzo. Il suo appartamento si trovava a pochi minuti di cammino dall’albergo, disse, quindi poteva passare prima di andare in ufficio, di lì a mezz’ora.
Scesi nel bar accanto alla lobby per aspettarla. Mi sedetti in un punto dal quale potevo tener d’occhio la porta e ordinai un bricco di caffè con due tazze. Un gruppo di turisti giapponesi ascoltava attento le istruzioni della guida, un manager in abito scuro armato di ventiquattrore e computer portatile saldava il conto tra continue occhiate all’orologio e al cellulare. Il mio lo avevo lasciato all’Hotel Inglés di Madrid. Essere irreperibile e godere del privilegio dell’anonimato in una città familiare come Copenaghen era un’esperienza bellissima.
Da uno degli ascensori emerse un tipo alto e dinoccolato con indosso una vecchia giacca e jeans sbiaditi, i capelli raccolti in un codino. Aveva con sé un’ingombrante borsa da fotografo.
Fui tentato di fingere di non averlo visto, ma mi venne in mente la volta in cui avevamo aspettato per ore fianco a fianco davanti alla palestra di Lady D, e cambiai idea. Si chiamava Derek Watson, era australiano, e come me dava la caccia al jet set da vent’anni. Una delle sue foto più fortunate ritraeva proprio Diana, insieme ai figli, il lungo abito nero sollevato a mostrare le gambe, causa un’improvvisa folata di vento. Sia la Ospe che Derek avevano guadagnato soldi a palate grazie a quell’immagine.
Era alla reception con in mano la carta di credito quando lo raggiunsi e gli diedi un colpetto sulla spalla.
«Ehi, Derek. Come va?»
«Lime! Che piacere vederti.»
«Prendi un caffè?» gli domandai.
Guardò l’orologio.
«Lo farei con piacere, ma devo prendere un volo.»
Esitò. «Ho saputo la notizia… ho incontrato Gloria a Londra. Dio, mi dispiace, Peter.»
Annuii.
Il receptionist gli allungò la ricevuta e lui firmò.
«Ho saputo che sei uscito dalla mischia» disse lui.
«Per il momento, almeno.»
«Ci ho pensato anch’io. Ormai tutti quelli che hanno una macchina fotografica in mano passano per pedofili, o per assassini, come dopo la morte di Diana e Dodi. Il giorno successivo all’incidente l’edicolante del mio quartiere si rifiutò addirittura di vendermi i giornali, mi considerava colpevole in prima persona. E pensare che si guadagna da vivere grazie alle foto che scattiamo noi…»
Allargò le braccia. «Ti ricordi che incubo? La folla. I media. Pace, amore, fiori, ipocrisia e merda su tutta la linea. E gli orsacchiotti!»
«Bisogna morire giovani, così si diventa martiri e santi» dissi io.
«Tu non eri a Londra, vero?» continuò lui.
Ripeteva parole già pronunciate centinaia di volte, per il gusto di quattro chiacchere fra colleghi.
«No. Non c’ero, ma anche a Madrid tutti persero la testa.»
Gli dissi che non volevo trattenerlo e gli raccomandai di salutare per me Gloria e Oscar se li avesse incrociati.
«Per quanto tempo hai intenzione di fermarti qui in Danimarca?»
«Non ne ho idea. Forse una settimana. Forse solo fino a domani.»
«Uscito dalla mischia, eh, Lime? Vorrei essere al tuo posto. Be’, ciao. See you around.»
Fece il gesto di avvicinare la destra a un berretto immaginario e uscì dall’albergo. Mi chiesi cosa lo avesse portato a Copenaghen. Un tipo come Derek non avrebbe mai potuto rinunciare alla professione. Al brivido della caccia. Se anche fosse riuscito a sorprendere Clinton senza pantaloni con una ragazza inginocchiata fra le gambe, non si sarebbe accontentato della valanga di denaro che quel genere di colpo gli avrebbe fruttato: avrebbe continuato a viaggiare per il globo sulle tracce del vip di turno, contento di aspettare intere giornate, con la pioggia e con il sole, pur di strappare uno scatto buono.
Il suo mondo mi parve al contempo attraente e terrificante. Sapevo di dover scegliere: potevo tornare all’agenzia e all’attività a cui da sempre mi dedicavo con successo, oppure rimanere in quel vuoto sospeso tra l’oblio e la memoria.
In piedi nella lobby seguii con lo sguardo Derek, che, oltre la porta a vetri dell’hotel, buttava la valigia sul sedile posteriore di un taxi, prendeva posto accanto all’autista e si accendeva una sigaretta ripetendo l’ordine di portarlo all’aeroporto. Sapevo cosa avesse in testa: nuovi incarichi, nuove amanti, il gusto e la paura dell’assenza di radici che era la cifra della sua vita. La consapevolezza di stare invecchiando e l’ansia di morire da solo. Tutti sentimenti che conoscevo e che adesso contemplavo con un senso di nostalgia e di sollievo.
Chiesi i giornali danesi del mattino all’impiegato della reception e tornai a sedermi davanti al bricco di caffè. Nel paese non accadeva nulla di straordinario, a parte lo scandalo di Lola e l’inasprirsi di un’ondata di xenofobia il cui resoconto mi sorprese e mi rattristò.
Trascorsi alcuni minuti alzai lo sguardo e vidi Clara Hoffmann entrare dalla porta girevole.
Sembrava più giovane rispetto a quando l’avevo conosciuta a Madrid. Indossava un paio di jeans e una blusa beige sotto cui si intravedeva il reggiseno. A tracolla portava una borsa capiente. Il suo corpo era senza età, asciutto come quello di Amelia. Notai che aveva cambiato pettinatura: adesso i capelli erano corti e ricci. Forse era quel nuovo taglio a farla apparire più giovane. Sotto un trucco leggero lo sguardo era vigile, le labbra brillavano leggermente. Strizzò gli occhi grigio-azzurri e si guardò intorno. Era bella, sexy, specie quando avanzò nella lobby con passo energico e sensuale. Un paio di uomini in attesa alla reception si voltarono a guardarla.
Stavo per farle cenno, invece d’impulso tirai fuori la Leica e le scattai quattro foto.
Posai la Leica sul tavolo e la chiamai. Il suo viso si aprì in un sorriso e mi venne incontro.
Mi resi conto che, dalla morte di Amelia, non avevo più pensato al sesso. Fino a quando Clara non era apparsa nella lobby dell’Hotel Royal.
Improvvisamente mi sentivo eccitato, quasi felice.
«Peter. Mi fa piacere rivederti.»
«Ciao Clara, lo stesso vale per me» risposi.
Mi tese una mano fresca e ferma e accettò il caffè sedendosi di fronte a me. Scambiammo quattro chiacchere sul tempo, Madrid e Copenaghen, i titoli dei quotidiani nella stagione morta e il perché i giapponesi viaggiano sempre in gruppo.
Poi fra noi calò un silenzio imbarazzato. Le versai dell’altro caffè e avvicinai la fiamma dell’accendino alla sigaretta che teneva fra le labbra.
Clara si sporse verso di me e disse:
«Cosa posso fare per te?».
Quella domanda mi sorprese. Mi ero aspettato che prima di offrirmi il suo aiuto chiedesse di vedere cosa le avevo portato. Misi le mani avanti.
«Ci vorrà un po’ di tempo.»
«Nessun problema.»
Le raccontai di San Sebastián, di Don Alfonso, dei sospetti della polizia di Madrid, del referto dell’autopsia e infine del rapporto d’intercettazione, che le mostrai riassumendolo per sommi capi. Lei ascoltò senza fare commenti. Le ero grato per il fatto che non sentisse il bisogno di rinnovare le sue condoglianze. Nell’udire dei tre irlandesi e dell’interrogatorio, tese la mano e mi toccò la ferita quasi rimarginata sotto l’occhio.
«Sembri più vecchio. E segnato. Ti si legge la sofferenza negli occhi» commentò.
«È strano che tu lo dica,» ribattei, «quando ci conosciamo appena.»
«Vero, ma io ho la sensazione di conoscerti bene» disse lei.
«Non capisco.»
«Neanch’io» ammise con un sorriso.
Ci fissammo per un attimo, ma il suo sguardo rimase indecifrabile, perciò passai a raccontarle di Las Ventas.
Infine tirai fuori le due foto. Quella che lei mi aveva mostrato a Madrid, e quella in cui Lola sedeva in soggiorno insieme alla donna e ai tre giovani barbuti. Le guardò attentamente.
«Sai chi è questo?» mi domandò infine.
«Sì. È deputato al parlamento.»
«Proprio così. E gli altri, li conosci?»
«Sì e no» risposi.
«È fantastica!»
«Non direi. È sottoesposta, e la composizione non è granché.»
Rise.
«Non mi riferivo alle qualità artistiche della foto, Peter. Ma al soggetto. Ci sarà molto utile.» Rise ancora scuotendo il bel capo riccio al pensiero della mia ingenuità e, forse, della mia vanità.
In quel momento non mi chiesi a chi e a che cosa sarebbe servita la mia foto. Mi beavo della sua risata e della sua espressione. Poi, senza rifletterci, proposi:
«Visto che ti ho reso un bel servizio, ti toccherà accettare un mio invito a pranzo o a cena».
Mi guardò. Aveva delle piccole, graziose rughe vicino agli occhi e una fossetta quasi impercettibile sopra il labbro superiore. Desiderai averla tutta per me in studio a Madrid, per farla sedere davanti al mio obbiettivo nella luce morbida del pomeriggio.
«Accetto volentieri. Foto o non foto sono contenta che tu me l’abbia chiesto» disse dopo qualche istante. «Ma prima dobbiamo parlare un po’ più a fondo della comune in cui abitavi, poi torneremo sulla faccenda che ti sta più a cuore.»
«Vuoi ancora caffè?» domandai.
«Non restiamo qui. Preferirei che venissi con me giù a Borups Allé. Voglio sentire di nuovo tutta la storia, in modo particolareggiato e in circostanze più ufficiali.»
«E perché?»
«Borups Allé, Peter.»
«Devo vedere un vecchio amico verso le undici.»
«Posso prendere le foto?» mi chiese.
«Certo.»
«Grazie» disse lei alzandosi.
«Allora, quando ci vediamo?» domandai sentendomi un adolescente al primo appuntamento.
«Oggi pomeriggio, se puoi.»
«E la cena?» rilanciai.
«Ne riparliamo in ufficio.»
«Borups Allé. Devo dire così al tassista?» domandai.
Lei rise di nuovo.
«Peter. E la centrale di polizia di Bellahøj. È lì che hanno sede i servizi segreti. Non siamo mica in Spagna o in Russia: in Danimarca i servizi segreti sono sull’elenco del telefono. Chiedi di me all’ingresso.»
«Sull’elenco del telefono? Che paese meraviglioso!» dissi facendola ridere ancora.
La sede del telegiornale era un basso edificio di cemento all’ombra di un cartello con la scritta: Città della TV. Klaus mi aspettava dietro la doppia porta a vetri. Più che una redazione sembrava il quartier generale dei servizi segreti. La reception era stata smantellata, e lo spettacolo della scrivania deserta faceva pensare che i visitatori non fossero graditi. Ci salutammo con una stretta di mano.
«E questa sarebbe la sede di un telegiornale?» scherzai.
«Scrivi una lettera di protesta al direttore» ribatté Klaus con una risatina. «Non saresti il primo. Dai, vieni di sopra.»
Gli uffici erano tante piccole gabbie di vetro allineate. A quell’ora la redazione era tranquilla, i giornalisti al telefono oppure in giro a far riprese. Sulla scrivania di Klaus campeggiava un computer circondato dal disordine organizzato tipico dei giornalisti: quotidiani, ritagli, riviste e videocassette. Le immagini della CNN scorrevano mute su un televisore fissato al soffitto. Spostò una pila di giornali liberando una bassa poltroncina e mi pregò di sedermi. Uscì dallo stanzino e poco dopo riapparve con in mano un bicchiere di plastica colmo di caffè, si sedette sulla sedia girevole e mi sorrise. Dapprima chiacchierammo del più e del meno. Colleghi e amici comuni, lavoro. Poi gli raccontai di Lola e di dove l’avevo conosciuta. Prese appunti e mi chiese se sarei stato disposto a farmi intervistare se avessero deciso di approfondire il caso. Accettai, un po’ perplesso sull’interesse che quei dettagli avrebbero potuto rivestire per il pubblico. Riconobbe che l’attenzione per quella vicenda era destinata a calare, a meno che, naturalmente, Laila o Lola non venisse acciuffata. Chiesi di sapere come avessero scoperto che le sue referenze e i titoli di studio erano inventati. Frugò nel caos della sua scrivania e mi porse una cartellina di plastica piena di ritagli di giornali.
«È tutto qui dentro, Peter» disse. «È stato un giornalista del “Jyllands-Posten”, tale Jørgensen, con qualche banale telefonata. Ha intervistato Laila, o come cavolo si chiama, ma quando le ha fatto qualche domanda puntuale sul suo soggiorno a Mosca, la stronza gli è parsa evasiva. Alla fine si è addirittura incazzata. Jørgensen conosce il russo e ama tutte quelle cazzate sullo spirito russo eccetera, eccetera, allora, s’è impuntato, poi si è insospettito. C’erano cose che lei avrebbe dovuto sapere, persone che avrebbe dovuto conoscere i cui nomi evidentemente non le dicevano niente. In seguito, quando il mio collega le ha letto l’intervista, Laila ha diffidato “Jyllands-Posten” dal pubblicarla. Perché l’autore lasciava intendere che la sua conoscenza dell’arte contemporanea russa fosse piuttosto carente. In questi casi, sai come funziona, il sospetto che l’intervistato abbia qualcosa da nascondere diventa certezza, e scattano le indagini vere e proprie.»
A quel punto Klaus si alzò per andare a una riunione, mentre io rimasi a leggere gli articoli su Lola. I ritagli erano raccolti in ordine cronologico. Lola era stata assunta poco prima che la sede del nuovo museo venisse ultimata. La notizia aveva destato grande meraviglia negli ambienti artistici danesi. Ma il ministro della cultura era entusiasta del fatto che la prescelta fosse un outsider, e donna, per di più.
Del resto Lola vantava un curriculum di tutto rispetto: studi alla Sorbona, all’Accademia di Belle Arti di Mosca e a quella di Londra. Era stata contitolare di una prestigiosa galleria di New York, e aveva conoscenze influenti nell’ambiente artistico internazionale. Notai che aveva mentito sull’età, togliendosi un paio di anni. Sosteneva di essere figlia di una danese e di un lord inglese. Non aveva avuto figli dall’ex marito, l’artista russo Petrov. Questi era morto prematuramente a San Pietroburgo, in circostanze che Lola aveva declinato di specificare. Si era limitata a commentare che il materialismo della nuova Russia aveva messo a dura prova il suo sensibile animo d’artista. C’era di che farsi venire i lucciconi agli occhi. I due avevano divorziato nel 1987.
Nelle foto Lola appariva attraente, di un’eleganza fra il classico e il démodé che ricordava lo stile di Grace Kelly. Il suo danese era, stando ai giornalisti che l’avevano intervistata, raffinato, punteggiato di termini desueti. In un paio di immagini la si vedeva accanto a qualche uomo politico un po’ attempato e stretto in una giacca troppo piccola, intento a fissarla ammirato. Inizialmente la stampa locale era stata generosa con Lola. Ma dopo la mostra inaugurale erano arrivate le prime note negative. Una conferenza all’Accademia di Belle Arti si era trasformata in una farsa perché, secondo gli organizzatori, la Petrova non conosceva la propria materia. Il fondo cassa viaggi era in rosso. Erano stati richiesti stanziamenti straordinari. Alcuni dipendenti si erano licenziati.
Lola si era difesa, dichiarando di essere vittima dell’invidia e dello snobismo tipico dei danesi, sempre pronti a censurare le persone intraprendenti a colpi di «chi ti credi di essere?».
Infine era arrivato il momento della verità. Un pezzo in prima pagina del «Jyllands-Posten» raccontava che Laila Petrova aveva mentito. Le sue referenze, che nessuno si era preso la briga di verificare, erano false. L’articolo, molto efficace e ben scritto, raccontava come il responsabile delle pagine culturali di «Le Monde» avesse negato di aver mai annoverato una Laila Petrova fra i suoi collaboratori. La stessa risposta era emersa da altre telefonate a Londra, New York e Mosca. Laila Petrova pareva essersi effettivamente mossa in ambienti attigui al mondo dell’arte, alcuni personaggi avevano addirittura speso parole d’elogio sul suo conto, ma nessuno era in grado di confermare e documentare le tappe del suo iter accademico e professionale. Aveva menato per il naso un sacco di gente, forse contando sul fatto che anche chi non sa nulla di arte contemporanea (la stragrande maggioranza delle persone, in ogni tipo d’ambiente) di solito finge volentieri di intendersi dell’argomento. Lola era stata spudorata, aveva scommesso e aveva vinto. Non riuscii a trattenere una risata. In un contesto nel quale il confine fra ciò che è sublime e ciò che non merita la definizione di “arte” è effimero e inafferrabile come un fiocco di neve, il talento istrionico di Lola aveva dato frutti straordinari.
Dopo la denuncia da parte del «Jyllands-Posten», lo scandalo era montato rapidamente e ben presto Lola era sparita, insieme, si sospettava, a una quantità molto ingente di denaro pubblico.
Solo adesso, con il sacrificio del ministro della cultura, la crisi sembrava finalmente avviata a sgonfiarsi.
Fine della storia.
Stavo rimettendo a posto i ritagli quando Klaus comparve sulla porta dell’ufficio.
«Mi dispiace, ma devo andare a fare delle riprese» annunciò.
«Vado via anch’io. Grazie per avermi lasciato dare un’occhiata. Che ne è stato dei soldi? Le indagini della polizia a che punto sono?» gli domandai alzandomi.
«Ristagnano. La Petrova ha truffato l’establishment culturale, le istituzioni, e adesso il sistema è deciso a proteggersi insabbiando il caso. Il siluramento di ieri è il sacrificio rituale. L’offerta purificatrice. Adesso tutti desiderano che il museo sia lasciato in pace. È la solita retorica di comodo: Bisogna guardare avanti e non indietro! Eccetera, eccetera. Bla, bla, bla.»
«Vuoi dire che Lola rischia di passarla liscia?» conclusi.
«Vieni, ti accompagno all’uscita» disse avviandosi. «Finché si terrà alla larga dalla Danimarca, non le succederà niente.»
«Dove si sospetta che sia andata?»
«C’è chi dice a Londra. Chi a Tokyo. Altri ancora a Mosca. Nessuno lo sa. Io credo che la spunterà. E potrà scrivere nel suo curriculum di aver personalmente contribuito alla fondazione di un prestigioso museo danese. La gente desidera essere ingannata. Non aspetta altro» concluse quando fummo davanti al portone.
Concordammo che se avesse voluto chiedermi dell’altro mi avrebbe lasciato un messaggio al Royal. Mi avrebbe fatto piacere incontrarlo per un drink e due chiacchiere, ma percepivo che nella sua nuova vita non c’era posto per quel genere di incontri nostalgici. Preferiva godersi quella felicità domestica che io, inutile nasconderselo, gli invidiavo.
Passeggiai nel sole di Copenaghen, fermandomi a un chioschetto a mangiare un wurstel.
D’estate la città sorrideva; i suoi ritmi più umani e le strade silenziose, almeno in confronto a Madrid, erano un balsamo per la mia anima. Per la prima volta in molte settimane mi sentivo davvero bene, fiducioso che presto o tardi sarei tornato a vivere. E impaziente di rivedere Clara Hoffmann.
Clara mi indicò una sedia nella saletta riunioni della sede dei servizi segreti, all’ultimo piano di un brutto palazzo di cemento armato. Era una stanza piuttosto spoglia, non c’erano documenti sul tavolo, solo le mie due foto, un taccuino e un registratore. A un’estremità del tavolo era seduto un giovanotto che Clara presentò come il sottufficiale Karl Jakobsen. Clara prese posto accanto a lui. Il suo atteggiamento nei miei confronti era professionale, decisamente più distaccato di quello di qualche ora prima.
Il tassista che mi aveva portato all’appuntamento era un curdo iracheno dal danese un po’ stentato.
«Va a trovare le spie?» aveva domandato quando gli avevo comunicato la mia destinazione.
«Diciamo di sì» gli avevo risposto.
«Grande casino.»
«Casino?»
«Tu danese, vero?»
«Sì, ma non abito in Danimarca» avevo spiegato.
«Ah. Allora tu non sai. Servizi segreti hanno spiato partiti di sinistra legali, e ora grande casino.»
«Questo lo hanno sempre fatto, credo. Hanno sempre tenuto d’occhio comunisti, destrorsi, russi, nazionalisti, rappresentanti di estremismi di ogni colore. Sono pagati per questo, immagino.»
«Sì, ma adesso stati beccati. Un agente ha parlato in televisione.»
«Ah. Sono stati presi in castagna.»
«No, niente castagne. Hanno spiato ai danni di partito legale danese! Hanno scritto partito legale danese nei registri. Spiato curdi in Danimarca. Curdi legali in Danimarca, no? Grande casino.»
«Okay, ho capito» avevo mentito.
Adesso avrei voluto chiedere delucidazioni a Clara, ma l’atmosfera di ufficialità mi indusse a rimandare. Karl Jakobsen si alzò per stringermi la mano, quindi si rimise seduto e mi piantò addosso due penetranti occhietti castani. Gli ci sarebbe voluta una bella spuntata alle sopracciglia.
Clara accese il registratore.
«Peter Lime» esordì. «Cominciamo col…»
Allungai la mano, presi il registratore e lo spensi.
«Clara Hoffmann. Prima di registrare o fare qualsiasi altra cosa, devo sapere perché sono qui. Di cosa si tratta esattamente.»
«Qualche domanda» disse Karl Jakobsen già irritato. «Tutto qui. Qualche chiarimento…»
Lo ignorai. «Signorina Hoffmann…?»
«D’accordo» disse lei. «Che cosa vuole sapere, Lime?»
Jakobsen doveva essere un suo sottoposto. Comunque mi stava decisamente antipatico.
«A cosa vi serve la registrazione?»
«Deve solo raccontarmi ciò che già so. Che le foto le ha scattate lei. Deve dirmi in che occasione le ha scattate, e se è in grado di identificare le persone ritratte.»
«Non ha risposto alla mia domanda» insistetti.
Clara trasse un profondo respiro e lanciò un’occhiata a Jakobsen, impegnato a grattarsi la guancia mal rasata.
«Già. Stiamo preparando un rapporto ufficiale riguardante l’operato dei servizi segreti negli ultimi vent’anni. Una versione di tale rapporto sarà a disposizione dell’opinione pubblica, una seconda versione più approfondita andrà alla Commissione di vigilanza del Parlamento e una terza versione ancora più dettagliata sarà inviata al ministro della giustizia. Le informazioni che ci fornirà compariranno in quest’ultimo documento.»
«Perché vi interessa questa storia?»
Clara lanciò un’altra occhiata a Jakobsen. In quel momento compresi di essermi fatto ingannare: l’uomo era il superiore di Clara, ma aveva preferito giocare a carte coperte.
«Signor Lime. Evidentemente non legge regolarmente i giornali danesi. Altrimenti saprebbe che recentemente un nostro ex informatore ha dichiarato pubblicamente che i servizi segreti hanno spiato partiti politici legali in questo paese. Noi intendiamo dimostrare ai nostri interlocutori istituzionali che avevamo buoni motivi per farlo. Ma certi aspetti, certi particolari non riguardano l’opinione pubblica. Non ci stiamo preparando a un referendum.»
«Insomma volete poter dire “Guardate qui, una foto di tal Peter Lime dimostra che un nostro attuale deputato, eletto nelle file della sinistra, da giovane prendeva il caffè con i terroristi tedeschi!”. Così tutti concluderanno che avete fatto bene a tenere gli occhi aperti, anche se era illegale e se non è saltato fuori niente. È questo il ragionamento?»
«Le domande le facciamo noi, Lime» intervenne Karl Jakobsen spazientito.
«È questo il ragionamento, signorina Hoffmann?»
«Più o meno» rispose.
«Okay. Ho un’ultima domanda. Figuro nei vostri archivi?» domandai.
Clara guardò Jakobsen, quindi rispose:
«No. Non abbiamo niente sul suo conto».
«Accenda pure il registratore» dissi.
«Grazie, Signor Lime.»
Non fu una cosa lunga. Clara mi invitò a dire come mi chiamavo, dove vivevo, la mia professione. Poi, come preannunciato, mi chiese quando avessi scattato le due foto e se conoscessi l’identità delle persone ritratte. Naturalmente le interessava soprattutto il futuro deputato. Jakobsen intanto prendeva appunti senza staccare lo sguardo da me. Sicuramente non gli piaceva il mio codino, né la mia faccia, né la mia storia, né l’ostinazione con cui avevo preteso che rispondessero alle mie domande.
Quando ebbi risposto a tutte le domande, Jakobsen si alzò e se ne andò salutandomi con un frettoloso cenno del capo. Portò con sé il registratore.
«Che simpaticone!» dissi.
«Puoi passare domani a firmare la trascrizione?» chiese Clara. Notai con sollievo che eravamo tornati a darci del tu.
«Forse» risposi.
«Che vuoi dire?» fece un’espressione preoccupata. «Abbiamo poco tempo.»
«In cambio devi fare una cosa per me» dissi.
«Vengo volentieri a cena con te, te l’ho già detto. Indipendentemente da questa faccenda.» Posò la sua mano sulla mia e mi guardò negli occhi. Ero confuso e a disagio come un adolescente.
«Questo non c’entra» riuscii a dire dopo un istante.
«Allora di che si tratta?»
Confessai che m’interessava verificare se a Berlino esistesse un dossier su di me. Se c’era dovevo vederlo, ma non sapevo come muovermi e speravo che lei mi avrebbe aiutato.
«Non posso fare granché» disse.
«Potresti telefonare ai tuoi colleghi in Germania e procurarmi il permesso.»
«No. Lo farei, se fosse possibile, ma non posso. Dovrai fare domanda personalmente. I vecchi archivi della STASI sono pubblici, anche se la lista di richiedenti in attesa di poterli consultare è lunghissima. Esistono chilometri e chilometri di scaffali zeppi di archiviatori. La STASI aveva duecentottantamila dipendenti e un’infinità di informatori. L’intera DDR era un nido di spie. Tutti facevano rapporto su tutti. Molte persone oggi chiedono di sapere cosa è stato scritto su di loro.»
Clara staccò la mano dalla mia.
«Posso aiutarti a scrivere la lettera. Posso telefonare a un paio di conoscenze e sperare così di accelerare un po’ i tempi. Nient’altro. Ma tu, perché vuoi vedere il tuo dossier?»
«Potrebbe contenere la risposta a un interrogativo che mi tormenta. Forse scoprirò che non è così. Ma se non faccio questo tentativo, non riuscirò più a togliermi questo dubbio dalla testa» dissi.
Lei strappò un foglio dal suo taccuino e mi sorrise.
«Sai il tedesco?»
«Me la cavo.»
«Okay. Il posto si chiama: Bundesbeauftragter für die Unterlagen des Staatssicherheitsdienstes der ehemaligen Deutschen Demokratischen Republik» intanto scriveva. «Ha sede nel vecchio quartier generale della STASI, in Normannenstrasse. La STASI disponeva di un enorme complesso di uffici che occupava diversi isolati. Al crollo del Muro, quelli della STASI provarono a distruggere e a bruciare quanto più materiale possibile. Ciò nonostante, ci sono milioni di documenti accessibili al pubblico. Ma è questo il punto: sono a disposizione di chicchessia, e le persone schedate hanno la precedenza. Capisci? Non posso fare in modo che tu passi davanti a tutti, anche se faccio parte dei servizi segreti di un paese amico. Questo è l’aspetto democratico e disperante della faccenda.»
Annuii.
«Correntemente l’ufficio in questione è noto come: autorità-Gauck. L’idea dell’accesso libero, infatti, fu sostenuta da Joachim Gauck, un sacerdote della DDR. Devi scrivere a loro. Nella lettera dirai che ritieni di essere stato schedato. L’ufficio controllerà, e in caso affermativo, riceverai una lettera con indicata la data in cui potrai prendere visione del tuo dossier. Prima di mostrartelo, naturalmente, lo ripuliranno, per tutelare la privacy di eventuali terzi innocenti che vi compaiano.
È un’opportunità che non ha precedenti nella storia. Né i paesi democratici né quelli socialisti hanno mai accordato così ampio accesso ai loro archivi. Per un verso mi fa piacere. Per un altro mi spaventa.»
«Hai scritto l’indirizzo e l’intestazione esatti?»
«Posso scrivertele io le lettere, Peter. Tu ti limiterai a firmarle. Se vuoi.»
«Perché no?» Accettai.
«Non sempre la gente esce serena e soddisfatta dall’esperienza che tu chiedi di fare.»
«Cosa intendi?»
«La verità non è sempre indispensabile. Mentire è sbagliato. Ma la verità, tutta la verità può fare molto male. È un po’ come per le cartelle cliniche. È sempre preferibile sapere tutto? Io credo di no.»
Un’ombra le attraversò il viso. Era una donna strana. Avevo l’impressione che dietro la facciata disinvolta ed energica nascondesse un dolore, una delusione o una perdita di qualche tipo.
«Ma nel mio caso, credi anche tu che cercare delle risposte sia una buona idea, non è vero?» le chiesi.
«Sta a te decidere. Ma potrebbe essere interessante.»
«E se dovessi trovare qualcosa di utile per la tua relazione, vorresti essere informata?»
«La nostra relazione deve essere consegnata fra un paio di giorni, mentre l’attesa di una risposta da parte dell’autorità-Gauck può essere di diversi mesi.»
«Però…»
«Va bene, lo ammetto» disse.
«Ma adesso pensiamo alla cena. A che ora e dove, Peter?» domandò dopo un momento.
Uscii a comprare un abito estivo, una camicia nuova, una cravatta e un paio di scarpe. Tornai in albergo, mi preparai, poi chiesi alla reception di procurarmi una macchina con cui andai a prendere Clara al suo indirizzo di Vesterbrogade. Indossava un vestito estivo chiaro e si era truccata gli occhi e la bocca, annuì divertita quando cerimoniosamente la aiutai a salire in macchina e chiusi la sua portiera prima di tornare al volante e avviare il motore. Al collo portava una semplice catenina con un monile d’oro a forma di serpente.
«Sei elegantissimo» disse.
«E tu sei uno schianto.»
Non conoscevo ristoranti speciali a Copenaghen e all’inizio avevo pensato al Tivoli, ma poi, su suggerimento dell’albergo, avevo optato per Regattapavillonen. La scelta si rivelò ottima. L’albergo aveva prenotato per noi un tavolo d’angolo con vista sul lago. Prima di sederci, su proposta del cameriere, prendemmo un aperitivo sul terrazzo. Il vento era calato e il Lago di Bagsværd si stendeva scintillante come un antico vassoio d’argento. Lungo le sue sponde la gente passeggiava, a coppie o in compagnia dei cani, oppure faceva picnic.
Probabilmente il Royal aveva indirizzato lì anche altri ospiti, perché tra gli avventori del ristorante molti erano rispettabili signori in abito scuro intenti a parlare d’affari in inglese. Clara e io raggiungemmo il nostro tavolo appartato e continuammo la conversazione iniziata sul terrazzo. Era decollata a stento e in maniera un po’ goffa, come se di colpo non avessimo nulla da dirci. Ma poi la prospettiva del silenzio aveva cessato di sembrarmi una minaccia e mi ero rilassato. Alla nostra età, sforzarci di dissimulare l’imbarazzo blaterando a ruota libera sarebbe stato sciocco.
Nel fare le ordinazioni chiacchierammo di vini, poi inventammo una storia sugli uomini d’affari vestiti di scuro.
«Forse quello alto è una delle spie a cui davi la caccia un tempo, all’epoca della guerra fredda» dissi.
«Un tempo?» ribatté lei. «Credi forse che dal crollo del Muro sia rimasta a girarmi i pollici? Al contrario! Russi, curdi del PKK… in questo paese non mancano certo le possibili fonti di pericolo per la sicurezza dello stato.»
«Non l’ho detto per farti parlare del tuo lavoro. Non mi interessano particolarmente gli uomini con la barba e gli occhiali dalle lenti riflettenti.»
«Hai ragione, neppure per me è sempre facile trovarli interessanti.»
«Come sei finita nei servizi segreti?»
«Dopo la scuola di polizia prestai servizio a Esbjerg, ma poi ebbi la fortuna di essere assunta presso la polizia di Copenaghen. All’epoca non c’erano molte donne in polizia, e questo forse rappresentò un vantaggio per la mia carriera. Presto saltò fuori l’opportunità di una promozione nella polizia investigativa, e io la colsi al volo. Il lavoro era interessante, imparai il russo.»
«Giusto in tempo per assaggiare il clima della guerra fredda, l’età dell’oro di tutte le spie» la stuzzicai.
«Solo l’ultimo scorcio. Ma quelli del KGB rimasero attivi fino alla fine. Quando compresero cosa stesse per succedere era tardi, cercarono di rovesciare Gorbaciov, ma fallirono.»
«Per fortuna.»
«Già. Per fortuna» disse lei, mi parve senza eccessiva convinzione.
La conversazione languì per qualche minuto, ma con l’arrivo dell’antipasto e poi della portata principale ricominciammo a parlare di paesi lontani e di viaggi. Finita la prima bottiglia ne ordinammo un’altra. Continuai a bere nonostante i campanelli d’allarme del mio cervello stessero suonando da un pezzo. Il suo lavoro non l’aveva mai portata in Oriente, in compenso era stata numerose volte negli Stati Uniti e in Nuova Zelanda, che le piaceva molto. Quello era uno dei pochi paesi che non avevo visitato. Clara mi fece parecchie domande sul mio lavoro, che, pensai, probabilmente disprezzava un po’.
«Soddisfo una domanda, un bisogno che la gente manifesta da che mondo è mondo» mi giustificai.
«Lo stesso vale per una prostituta» ribatté lei.
Scoppiai in una risata.
«Okay. In tal caso la stampa è il protettore, il magnaccia, perché senza di lei — e i suoi clienti, naturalmente — sarei disoccupato.»
«Dal tuo punto di vista è un lavoro come un altro?» mi chiese.
«Veramente non lo so. La questione è più complicata di quanto non sembri. La caccia mi è sempre piaciuta. I preparativi, le ricognizioni, la pianificazione, la cura dei particolari… I risultati, le foto, mi interessano assai meno.»
«Vale anche per me» ammise.
«Già. La caccia ti entra nel sangue. Esiste un legame ambiguo fra i paparazzi e le loro prede. In certi momenti sono loro a usarci. In occasione di un divorzio, una lite per motivi economici. Per attirare l’attenzione, soprattutto se sentono di essere sul punto di essere dimenticate. Ma ecco che a un tratto ci trattano da torturatori, si sentono perseguitate e vorrebbero solo che le lasciassimo in pace. Vorrebbero essere loro a decidere se e quando stare al gioco.»
«Ma voi non lo permettete.»
«Proprio così.»
«Comunque, non voglio dare l’impressione di giudicarti.»
«Sta’ tranquilla» dissi. «Anch’io ci penso parecchio. Mi chiedo se non sia giunto il momento di smettere. Quel che mi indigna di più è l’ipocrisia di fondo. E il cinismo.»
«Quando Diana morì, il redattore di un settimanale danese giurò che non avrebbe mai più pubblicato le foto dei — come li hai chiamati? — ah, sì, paparazzi.»
«Scommetto che non mantenne fede al giuramento.»
«Certo che no.»
«Ecco, visto? Il mondo è pieno di ipocriti» dissi. «C’è troppo denaro in ballo.»
«Il dio degli anni Novanta.»
«Comunque, leggo riviste scandalistiche solo dal parrucchiere» disse lei con aria ironicamente sdegnosa.
«Dicono tutte così!» ribattei levando il bicchiere, e brindammo.
Le domandai ancora della Nuova Zelanda, e quando prese a raccontare di una casetta che aveva preso in affitto sulla costa, di colpo cominciò a dire «noi» e «nostra». Dovette rendersene conto dalla mia espressione.
«Dico “noi”, ma naturalmente non siamo più in due» si corresse, e prese un altro sorso di vino.
«Non vedo la fede» dissi.
«Mentre tu porti ancora la tua.»
Per un momento tutto si oscurò. A un tratto sentivo freddo. Lei si accorse del mio turbamento e posò una mano sulla mia.
«Peter, perdonami.»
«Non hai detto niente di male.»
«La mia la gettai nel water la sera in cui Niels rientrò per dirmi che avrebbe fatto le valigie, ma non voglio annoiarti con questa storia.»
«Se hai voglia di parlarne, mi lascio tormentare volentieri» dissi io.
«È una storia assolutamente banale, ordinaria. Come ce ne sono a migliaia.»
«Quasi tutte le storie della vita sono già accadute a qualcun altro, ma non per questo sono meno originalmente dolorose per chi le vive» dissi.
Clara mi chiese una sigaretta e prese a raccontare in tono obbiettivo, nonostante il dolore evidente di dover tornare su quei fatti.
Si era messa con Niels che era ancora a scuola. Si erano sposati quando lei aveva compiuto ventuno anni ed era in procinto di entrare nella scuola di polizia. All’epoca lui ne aveva venticinque e dopo un paio di infruttuosi anni a Giurisprudenza si era iscritto a Scienze Politiche.
I soldi non erano un problema, il suo stipendio da recluta della polizia non era male. Erano stati felici, disse. Credevano di essere fatti l’uno per l’altra. Il loro rapporto, come tutti, aveva avuto alti e bassi, ma era sopravvissuto al suo trasferimento a Esbjerg, quando lui era rimasto a Copenaghen a causa di un impiego promettente al Ministero delle finanze. Poi lei era tornata in città, si erano trasferiti da un appartamento piccolo a uno più grande, infine in uno decisamente elegante, nel quartiere di 0sterbro, ottenuto a un prezzo vantaggioso grazie alle conoscenze politiche di lui. Frequentavano molto la famiglia di Niels. Clara era figlia unica, i suoi l’avevano avuta in età matura ed erano morti a poca distanza l’uno dall’altra quando lei aveva trentuno anni. Suo padre aveva lavorato tutta la vita per le ferrovie dello stato, la madre in un asilo. I genitori di Niels erano insegnanti di liceo, e anche se lui non lo aveva mai detto apertamente, Clara aveva l’impressione che suo marito trovasse i suoceri un po’ noiosi, forse troppo “semplici”.
All’inizio avevano frequentato amici comuni, poi pian piano aveva prevalso il giro di Niels, fatto soprattutto di colleghi del ministero. A Niels il lavoro di lei interessava poco, si capiva che non teneva la categoria dei poliziotti in grande considerazione, e le rare volte in cui lei invitava a casa dei colleghi, lui li trattava con una certa condiscendenza.
Con il progredire della sua carriera, Niels aveva cominciato a viaggiare molto, soprattutto a Bruxelles, a causa dell’Unione Europea. Lei era passata al controspionaggio, ed entrambi erano molto presi dalle rispettive professioni. C’erano aspetti del lavoro di Clara di cui lei non poteva parlare neanche con il marito; d’altro canto al ministero avevano luogo discussioni politiche riservate il cui contenuto Niels era implicitamente tenuto a non rivelare.
Ma condividevano molte altre cose, e per anni Clara aveva continuato a considerarsi felice.
Vuotò il bicchiere, e io le versai dell’altro vino. Il suo racconto era stato lungo, e fuori era quasi completamente buio. Il cameriere ci domandò se gradissimo un dessert; quando lei scosse la testa ordinai due caffè.
«Però Niels e Clara non vissero per sempre felici e contenti…» dissi.
«Come sei arguto» ribatté amaramente.
«Perdonami.»
«Non ti preoccupare. Ovviamente hai ragione. Una coppia non dura in eterno, non vive felice e contenta “finché morte non la separi”. Si è tentati di crederci per un attimo, magari davanti all’altare, ma la ragione presto capisce che si tratta di un progetto impossibile.»
«Spero proprio che ti sbagli» dissi.
«Sotto quella scorza dura mi sa che sei un gran romantico, eh Lime?»
«Lo ero.»
«Certe volte mi dimentico del lutto che hai subito. Scusami.»
Non sapevo cosa dire.
Il cameriere portò il caffè.
«Poi che accadde?» domandai.
«Un giorno rincasò e mi disse che avrebbe voluto divorziare. “Vorrei divorziare”, disse proprio così. Non è buffo? Quasi mi chiedesse un favore. Aveva trovato quel che si potrebbe definire “un modello più recente.” Lei era una funzionaria a Bruxelles. Avevano una relazione da più di un anno.»
«Se non altro, non era la sua segretaria» dissi.
«Che battuta stupida. Che differenza avrebbe fatto?»
«Hai detto che era una funzionaria. Sicuramente era una giurista o laureata in scienze politiche, o qualcosa del genere…»
«Giurista, francese, trentadue anni, bella, affascinante… molto femminile» disse Clara.
«Ecco, visto? C’è voluto parecchio per conquistarlo. Non ti saresti sentita peggio se avesse avuto venticinque anni e fosse stata la segretaria di tuo marito?»
Lei mi guardò.
«Peter. Certe volte mi sorprendi veramente. Sì, sarebbe stato diverso, credo. Ma non ci avevo mai pensato prima d’ora. Sarebbe stato troppo stupido, anche per Niels.»
«Che mi dici di te? Ti sarai trovata un amante» azzardai.
Lei mi lanciò un’occhiata che diceva che si era aspettata quella domanda, anche se non così presto.
«Non ho nessuna relazione, Peter, se è questo che vuoi sapere. C’è stato qualche incontro dopo Niels, ma niente di stabile.»
«E poi?» domandai.
«Lo cacciai di casa quella notte stessa e fui fredda come un ghiacciolo quando, tempo dopo, venne a dirmi che era stato tutto uno sbaglio. Era già risposato. Aveva avuto una gran fretta. E adesso “avrebbe voluto” divorziare per la seconda volta e tornare da me. Mi fece quasi pena. Aveva preso un abbaglio, insisteva. La riscoperta della propria virilità gli aveva dato alla testa. Ma una volta estinta la prima fiamma, non era andata come si aspettava.»
«Divorziò di nuovo?»
«No, no» rispose gongolante. «È ancora sposato con la francese, e lei lo tradisce in continuazione, a quanto ho sentito. Chi la fa l’aspetti.»
«E questo ti rende felice.»
«Felice è esagerato.»
«Provare un desiderio di vendetta e vederlo soddisfatto, probabilmente risparmierebbe alla gente un sacco di pillole o di bottiglie» dissi.
«Yes» confermò con un sorriso dietro cui si intravedeva il dolore. Non so se fosse il dolore della sconfitta, delle speranze infrante oppure quello di essere stata respinta, ma sicuramente non era uscita da quell’esperienza indenne come si era sforzata di farmi credere.
Pagai il conto e la accompagnai a casa. Scesi per scortarla fino al portone. Per un momento parve considerare l’idea di invitarmi a salire, ma poi disse:
«Se firmi dopodomani, riavrai le foto».
«Firmerò se accetti di pranzare con me.»
«Sono una donna che lavora.»
«Appunto. Domani a pranzo hai un appuntamento con un agente. Peter Lime.»
«D’accordo, Peter Lime. Però offro io» disse e mi baciò sulla bocca, in modo lieve e fugace ma eccitante, sfiorandomi con la punta della lingua. Tornai in albergo con il cervello e il cuore in fibrillazione.
Il mio buon umore resistette anche nei giorni seguenti, nonostante Clara dichiarasse di non potermi incontrare a causa di impegni di lavoro. Lo disse in modo convincente e io le credetti. Anche la firma della trascrizione fu rinviata, ma ero fiducioso, perché al telefono era carina come sempre e sapevo che presto ci saremmo rivisti.
Giocai a fare il turista, feci il giro dei canali in battello e pranzai a Grøften, al Tivoli, dove m’imbattei in un vecchio collega, con cui chiacchierai come ai vecchi tempi. Non sapevo esattamente cosa mi aspettassi da Clara, né che cosa lei volesse da me, ma per il momento non mi importava. Riuscivo a moderarmi nel bere, tanto che al mattino riuscivo a ricordare i miei sogni. Spesso erano sogni erotici, eccitanti e vagamente sinistri, nei quali andavo a letto con molte donne diverse, tutte senza volto.
Firmai la mia deposizione qualche giorno dopo al quartier generale dei servizi segreti di Borups Allé e mi restituirono le foto. Clara era presente, insieme a due colleghi che mi ringraziarono per la cortese collaborazione e si allontanarono con il documento.
Allora Clara mi consegnò la lettera per l’autorità-Gauck di Berlino. Di colpo quella questione mi pareva lontana. La verità era che quel soggiorno danese si era trasformato in una specie di vacanza. Nella lettera mancava il mio indirizzo di Madrid, aggiunsi a mano quello dell’ufficio e firmai.
Clara vi avrebbe allegato una nota ufficiale di sollecito con il timbro dei servizi segreti danesi e avrebbe inviato il tutto tramite, come disse, i soliti canali.
Tre giorni dopo mi invitò a pranzo in un ristorante che si chiamava KGB, nella stessa strada in cui, prima del crollo della cortina di ferro, aveva avuto sede il Partito Comunista Danese. Era un locale spoglio ma piacevole, che ben si intonava all’atmosfera della fresca estate danese. Non mancava qualche tocco d’ironia: alcune parti dell’impianto elettrico erano state lasciate a vista per richiamare l’inconfondibile “stile” delle opere pubbliche in un contesto di socialismo reale. In bagno un altoparlante diffondeva ossessivamente la registrazione di una lezione di russo.
Il menù era tutto russo, con bortsch, diverse marche di vodka, blinis e caviale. Prevedibilmente, la giovane cameriera indossava un paio di pantaloni militari e un vecchio berretto con un grande stemma del KGB. Insieme al cibo ordinammo due birre, cui io feci seguire una vodka.
«Mi hai portato in un posto proprio buffo» dissi abbracciando con lo sguardo il locale. «Ecco che una sistema politico tra i più brutali e agghiaccianti che la storia abbia mai partorito è stato trasformato in kitsch.»
«Quando ci penso mi sembra ancora strano» disse Clara.
«Che cosa?»
«Il Muro di Berlino sia sparito. Se vuoi vederne le tracce devi cercarle. Quasi come se non fosse mai esistito, se non fosse costato tante vite umane. L’Unione Sovietica non esiste più. Il mondo è cambiato in maniera radicale e nessuno sembra dare peso a questo fatto.»
«Molti sogni furono risucchiati da quell’incubo. Alcuni di quei sogni hanno ancora un valore, io credo» dissi.
«Il socialismo reale fu un’aberrazione. Non possiamo rischiare di dimenticarlo, perciò non bisognerebbe avere fretta di trasformarlo in una parodia kitsch. Chi frequenterebbe un ristorante intitolato alle SS o alla Gestapo?»
«Sei stata tu a scegliere questo posto, mi pare.» dissi.
«Volevo che lo vedessi.»
«Perfino il KGB è finito in barzelletta.»
Assunse un tono serio:
«È proprio questo il punto, Peter. Il KGB una barzelletta? Può darsi: una barzelletta che ha distrutto milioni di vite umane. Passa la voglia di ridere, non ti pare? Sembra che tutti abbiano già rimosso le memorie del Gulag, nessuno ricorda che molta gente, anche in questo paese, un tempo appoggiava quel sistema e ne auspicava l’avvento in tutta Europa. Non è strano?».
«Molti giovani credono che DDR sia il nome di una marca di deodorante. Ma poteva andare peggio. Il socialismo reale avrebbe potuto affondare nel sangue, invece si è sgonfiato in modo relativamente incruento, mentre tutto il mondo stava a guardare con un grosso sorriso stupito sulle labbra.»
«Può darsi» disse lei.
Dopo un momento le presi la mano.
«Perché non ti prendi il resto della giornata per stare con me? Potremmo giocare a fare i turisti. Vorrei invitarti al Tivoli. O a Dyrehaven, o a fare una passeggiata su Strøget. O a Malmø. O a Parigi.»
Lei mise una mano sulla mia e disse:
«Ho già chiesto e ottenuto un permesso per questo pomeriggio, Peter. Ultimamente mi sono ammazzata di straordinari, e ieri abbiamo consegnato il nostro rapporto. Abbiamo potuto chiuderlo anche grazie al tuo contributo. Perciò, sì, grazie. Volentieri.»
«Cosa vuoi fare?» domandai.
«Mi piacerebbe andare al mare. L’estate non durerà in eterno» disse.
«Ottima idea.»
«Prenderemo la mia macchina.»
«Non ho il costume da bagno.»
Mi lanciò un’occhiata maliziosa.
«Nessun problema. Il posto in cui andiamo non è molto frequentato, almeno in un giorno feriale. Rischiamo di ritrovarci soli io e te.»
Clara era una guidatrice veloce e sicura. La sua Ford Escort azzurra ci portò non a nord, come mi ero aspettato, ma a ovest, lungo l’autostrada per Holbæk, e di lì su, in direzione di Odsherred e Sjællands Odde. La nostra meta erano le spiagge dello Sjælland, dove lei andava in vacanza da bambina. I suoi erano stati proprietari di una casetta a Sjælands Odde, ma quando l’aveva ereditata Niels l’aveva convinta a venderla. Evidentemente quella zona non era abbastanza mondana per i suoi gusti.
La Danimarca era un posto strano. Vista dall’esterno offriva l’immagine di un piccolo paese socialmente omogeneo, diffusamente benestante, nel quale tutti abitavano in case simili, guidavano le stesse automobili di media cilindrata, e indossavano gli stessi vestiti informali. Ma, a grattare sotto la superficie, emergeva una realtà diversa, molto stratificata, fatta di tribù separate e reciprocamente impermeabili. Le discriminanti fra un gruppo e l’altro non erano di natura economica, come quando ero piccolo io, riguardavano piuttosto la sfera delle opinioni. Si socializzava con coloro che condividevano la tua visione del mondo, si traslocava nel loro quartiere, si leggevano gli stessi libri e si frequentavano gli stessi luoghi di villeggiatura. Non c’era da meravigliarsi del fatto che gli stranieri faticassero a inserirsi nel tessuto sociale del paese: gli stessi danesi avevano difficoltà ad accettarsi e a riconoscersi gli uni negli altri. A dispetto del comune culto della bandiera nazionale, dei reali e delle squadre di calcio, i danesi erano un popolo diviso da profondi pregiudizi.
Condivisi quei pensieri con Clara mentre viaggiavamo nella luce del pomeriggio. Il vento profumato di stoppie entrava nell’abitacolo attraverso i finestrini abbassati scompigliandole i corti capelli.
«Lavoro nella polizia. Conosco bene le tensioni e i contrasti che attraversano la società spaccandola in due, da un lato i due terzi privilegiati della popolazione, dall’altro gli emarginati. Noi “inseriti” non offriamo agli altri vere chance di riscatto. Però siamo saggi: li rabboniamo con i sussidi. La classe media accetta la forte pressione fiscale in nome della pace sociale.»
«Ohi ohi. La poliziotta parla da rivoluzionaria» la stuzzicai.
«Al contrario. A quelli come me questo sistema sta benissimo. Come diceva Niels, tutti i borghesi qui sono socialdemocratici per definizione, quindi tanto vale iscriversi al partito e ottenere i privilegi annessi.»
«Come un bell’appartamento in centro a un prezzo di favore?»
«Perché no?»
«Così ti sei iscritta anche tu?» domandai.
«No. Non sono iscritta a nessun partito.»
Sorpassò disinvoltamente una macchina salutando ironicamente il conducente e lampeggiando furiosamente mentre riportava la Escort nella corsia di destra.
«Nel traffico noi danesi siamo dei veri individualisti» si giustificò. «Ritroviamo il vichingo che è in ognuno di noi.»
Risi insieme a lei. A un tratto, come per magia, il golfo di Sejrø apparve azzurro e scintillante alla nostra sinistra, superammo un colle e ci ritrovammo con il Kattegat sulla destra e una riga di villette sulla sinistra. Clara svoltò a sinistra, imboccando una strada asfaltata che presto divenne un viottolo sterrato. Parcheggiò davanti a una distesa d’erica. Diritto davanti a me, tra gli alberi, riuscivo a scorgere il mare.
Prese una borsa di paglia dal bagagliaio. Gliela tolsi e vidi che conteneva due asciugamani, una coperta, un termos e un paio di tazze di plastica.
«C’è anche un costume per te.»
«Avevi programmato tutto» risi.
«Il mio non era un piano, ma una speranza» disse lei. «Se avessi detto di no sarei venuta qui da sola. Te l’ho detto, è uno degli ultimi giorni d’estate. Bisogna goderselo. Vieni!»
La seguii obbediente attraverso il campo profumatissimo. In lontananza, protette da boschetti di pini, sorgevano grandi ville bianche, ma sulla spiaggia non c’era nessuno. La baia si apriva placida e azzurra. Stendemmo la coperta in un avvallamento fra le dune erbose, dietro un grosso cespuglio di rose canine. Faceva caldo rispetto al mattino. Clara mi voltò le spalle e si sfilò la camicia, si slacciò il reggiseno e indossò il pezzo sopra di un bikini, quindi si tolse i jeans e gli slip e si infilò l’altro pezzo. Il suo corpo era abbronzato, di una snellezza morbida e seducente. Si girò indicandomi con un sorriso ironico un paio di boxer blu.
«Dai, forza!» disse in un tono che mi rammentò l’insegnante di ginnastica che avevo avuto alle elementari.
«Subito, signora professoressa.»
Clara raggiunse il bagnasciuga e avanzò con cautela sul fondo sassoso per un paio di metri, poi si tuffò in avanti e cominciò a nuotare verso il largo con lunghe e poderose bracciate. Mi infilai i boxer ed entrai in mare. Lei superò la prima secca, poi smise di nuotare e cominciò a sguazzare infantilmente agitando le gambe e sollevando spruzzi come un delfino. Mi inoltrai sui sassi. C’era un piacevole odore di alghe e salsedine. Era come il mare di San Sebastián, particolarmente salato e fresco: sentii uno stupendo formicolio in tutto il corpo quando mi tuffai in avanti e cominciai a nuotare a crawl verso Clara. L’acqua sapeva di pulito e quando mi immergevo vedevo chiaramente i pesci stagliarsi contro il fondale sabbioso. Ero felice, della stessa gioia che provavo da bambino, quando un giorno trascorso sulla spiaggia si confondeva impercettibilmente con il successivo, e la notte dormivo un sonno dolcissimo.
«Non è meraviglioso? Godersi un giorno così mentre tutti gli altri sono al lavoro!» disse Clara quando la raggiunsi. Si distese pigramente sulla schiena lasciandosi scivolare un po’ più al largo, poi si alzò in piedi in un punto in cui l’acqua le arrivava appena all’ombelico. I suoi capezzoli premevano contro la stoffa sottile del bikini, e la pelle d’oca faceva rilucere il suo corpo. Restammo in acqua per più di mezz’ora, a giocare con un abbandono che non sperimentavo da anni. Quando ci venne freddo, tornammo verso la riva deserta.
Lei si voltò di spalle e si asciugò, mentre io contemplavo la pelle liscia della sua schiena. Aveva una piccola voglia vicino alla scapola sinistra. D’impulso mi avvicinai, le presi l’asciugamano e cominciai a strofinarglielo addosso con delicatezza, prima sulla schiena, poi lungo le gambe. Ci guardammo negli occhi e la baciai, prima con dolcezza e quasi con cautela, poi con foga. Il desiderio mi colpì come una rivelazione, inequivocabile eppure sorprendentemente nuovo. Le tolsi il reggiseno del bikini e sentii le sue mani scivolare giù per la mia schiena e sotto i boxer. Restammo nudi sulla coperta calda di sole, al riparo del cespuglio di rose.
Il mio desiderio cresceva con le nostre carezze, ma quando entrai dentro di lei qualcosa si spezzò. Mi staccai dal suo corpo improvvisamente freddo con il cuore che mi martellava in petto impazzito, come se avessi appena avuto l’orgasmo più intenso del mondo. Invece mi sentivo svuotato, furioso e disperato, trafitto da un lancinante, irrazionale senso di colpa.
Mi trassi a sedere in modo da volgerle le spalle, sentii la sua mano che scivolava giù per la mia schiena, poi lungo la coscia.
«Non fa niente, Peter» sussurrò. Il ritmo del suo respiro era ancora accelerato. «Non ho fretta.»
Senza parlare mi alzai e mi rivestii in fretta. Avevo la bocca amara. Mi costrinsi a guardarla. Era sdraiata su un fianco. I seni e i peli scuri del sesso mi parvero improvvisamente osceni nel sole pomeridiano.
Mi voltai incamminandomi verso le ville.
«Peter, accidenti» disse. «Peter! Resta qui. Peter.»
Accelerai il passo, quindi mi misi a correre. Il sangue mi ronzava nelle orecchie, allontanando il suono della voce di Clara che mi chiamava. Nel punto in cui il sentiero curvava verso le ville, mi voltai. Lei mi guardava, la parte inferiore del corpo avvolta nell’asciugamano azzurro, ritta sullo sfondo di un mare lucido come ghiaccio.
Ripresi a correre, fermandomi solo quando sentii che i polmoni erano sul punto di esplodere. Affannato, mi sedetti su una zolla erbosa.
Non sapevo in che direzione avevo corso, ma la lingua di terra in quel punto era stretta, e girando la testa scorsi il Kattegat che spuntava tra un paio di alte betulle. Rimasi seduto per un po’ con la testa fra le mani. La mia T-shirt era fradicia di sudore. Quando ripresi il controllo della respirazione, mi accesi una sigaretta e mi avviai lentamente verso il Kattegat. Sulla via della spiaggia avevamo superato un droghiere. Lì avrei potuto chiamare un taxi e trovare qualcosa da bere.
Così feci. Comprai una bottiglia piccola di vodka e una Coca da mezzo litro, e mentre aspettavo il taxi di fronte al negozio, bevvi la vodka liscia sciacquandola con la Coca finché la bottiglia di plastica della bibita fu mezza vuota. Poi ci versai la vodka. Avevo voglia di piangere, invece continuai a bere.
Il tassista era un giovanotto con la barba bionda lunga di qualche giorno.
«Devo andare a Copenaghen» gli dissi prendendo posto sul sedile posteriore.
«È lontana» ribatté quello con uno sguardo perplesso ai miei capelli arruffati, i jeans e la T-shirt sudata.
«Non che non mi fidi, ma sei sicuro di avere abbastanza denaro?»
«Sto all’Hotel Royal di Copenaghen» dissi aprendo il portafogli per mostrargli le mie carte di credito.
«D’accordo, monta» rispose. «Hai perso il traghetto?» continuò nel tono spiccio e diretto con cui un certo tipo di danese si rivolge a chiunque incontri, siano essi amici o sconosciuti.
«Stanimi a sentire» dissi. «Ti prometto cento corone di mancia, ma a una condizione.»
Lui si voltò a guardarmi, un’espressione interrogativa negli occhi azzurro pallido.
«Che tu non dica una sola parola finché non saremo al Royal. Nemmeno una» dissi.
«Non so esattamente dove si trova il Royal. È l’albergo della SAS? Quello vicino alla Rådhusplads?»
«Sì, proprio quello. Staremo in silenzio finché arriveremo in città, poi ti darò le indicazioni. Una sola parola, e addio mancia.»
«Per me va bene» disse lui e avviò la grossa Mercedes.
Mantenne la promessa. Quando accostò davanti al Royal avevo finito la vodka. Gli diedi le cento corone in contanti oltre alla corsa che pagai con la carta di credito, e lui si apprestò a tornarsene tutto soddisfatto a Odsherred.
Entrai nella lobby e andai a ritirare la chiave. Quando mi voltai mi trovai di fronte Oscar.
«Ah, eccoti qui. Accidenti, è tutto il giorno che ti aspetto» disse avvolgendomi nelle sue lunghe braccia.
«Ciao, Oscar. Che ci fai qui? C’è anche Gloria con te?» chiesi stupito.
«È su in camera. Come stai?»
«Da schifo» risposi.
«Si vede. Ci dai dentro con l’alcol, eh, Lime? Ma sta’ tranquillo. Adesso è arrivato il settimo cavalleria. Ti salveremo dai pellerossa, vedrai.»
«Voglio un drink» dissi.
«Va’ al bar, intanto io chiamo Gloria.»
«Dille che non ho voglia di prediche, non oggi».
«Agli ordini, amico mio» disse Oscar.
Gloria ci raggiunse immediatamente. Mi baciò tre volte secondo l’uso spagnolo, mi abbracciò, poi si scostò tendendo le mani sulle mie spalle per esaminarmi meglio. Scosse la testa, ma saggiamente si astenne dal fare commenti. Con un’occhiata eloquente al mio whisky e a quello di Oscar, ordinò un bicchiere di vino bianco. Aveva un’aria rilassata e molto spagnola nel vaporoso e sgargiante vestito che contrastava con il nero dei capelli. La vacanza l’aveva ringiovanita. Anche Oscar aveva un’aria fresca e riposata. Evidentemente i due stavano attraversando uno dei loro periodi di rinnovata passione, perché non potevano fare a meno di toccarsi in continuazione. Oscar guardava la moglie con un’espressione che comunicava desiderio misto alla gioia del possesso, come a dire: guardate la mia donna, non è bellissima? Hei, ricordatevi sempre che è mia.
Mi faceva davvero piacere rivederli, e li misi a parte di quanto era accaduto dall’ultima volta che ci eravamo visti. Mi ascoltarono con attenzione e partecipazione, e quando giunsi alla catastrofica gita al mare, Gloria mi accarezzò la guancia.
«Povero Pedro» disse.
La sua non era commiserazione, ma empatia. Credevo di essere riuscito a incapsulare e superare il dolore per la morte di Amelia di Maria Luisa: mi ero sbagliato.
Gloria si accese una sigaretta, Oscar ordinò un altro giro. Accusavo l’effetto dell’alcol, ma ero lontano dall’essere ubriaco.
«So che non è nel tuo stile, Peter» disse Gloria. «Ma non pensi che forse dovresti farti aiutare da un professionista?»
Non sapevo cosa rispondere e Gloria continuò:
«A Madrid conosco un bravo psicologo in grado di aiutarti a sciogliere un po’ del tuo tormento. Di solito non parli volentieri di te stesso e dei tuoi sentimenti, ma forse proprio per questo un professionista è quello che ci vuole. Non voglio vederti andare a fondo. Non voglio vederti andare in pezzi».
«Si era detto niente prediche, Gloria» la ammonii.
«Non la farai franca» ribatté lei. «Siamo tuoi amici, e gli amici servono anche a dire quello che gli altri non osano.»
Oscar intervenne:
«Le conosci, le donne d’oggi, Peter. Credono nella potenza della comunicazione come le loro mamme credevano nella Madonna. Sono convinte che tutti i problemi del mondo si possano risolvere parlando, parlando sinceramente».
«E piantala, Oscar» disse Gloria. «Peter ha bisogno di parlare. Tu e io dimentichiamo quello che ha passato.»
«Credevo di provare qualcosa per Clara, che con il tempo avrei potuto… che ci sarei riuscito» dissi. «Era come se all’improvviso intravedessi una luce, non so se mi capite.»
«Sì. E non è detta l’ultima parola. Chissà che non vada tutto a finire bene, con questa Clara» disse Gloria sorridendo.
Oscar si fece serio.
«C’è un altro modo di vedere questa vicenda» disse. «Forse quella donna è parte di un piano.»
«Che vuoi dire? Non essere ridicolo.»
«Clara Hoffmann, bella agente dei servizi segreti danesi, viene a Madrid, ti cerca, ti mostra una foto, e da quel giorno la tua vita diventa un cumulo di macerie. Cosa vuole da te, esattamente? Davvero quella vecchia foto è tanto importante? Per chi? Perché? Dovresti domandarti che cosa stia succedendo in Danimarca, che cosa Lime e la sua foto possano significare con la polizia.»
Di colpo ebbi un’ispirazione.
Chiesi a Oscar di prestarmi il cellulare, mi allontanai e feci il numero di Klaus Pedersen al telegiornale. Dovetti insistere perché un assistente accettasse di passarmelo in sala di montaggio. Dal tono frettoloso sembrava stressato. Mi salutò, poi lo sentii dare istruzioni a un tecnico a proposito della sequenza di un servizio.
«Ho una fretta terribile, Peter. Non possiamo parlare in un altro momento?» disse.
«Cosa stai facendo?»
«Scadenze. Stress. Remember?»
«Il tuo servizio tanto urgente parla forse dei servizi segreti?» domandai.
«Come fai a saperlo?» si stupì.
«Di cosa si tratta?» domandai a mia volta.
«In poche parole, il governo ha chiesto ai Servizi di presentare una relazione pubblica che sveli quali partiti politici legali, sindacati eccetera, sono stati fatti oggetto di infiltrazioni, intercettazioni e pedinamenti negli ultimi trent’anni. Per la prima volta abbiamo la possibilità di scoprire il loro gioco, di farci un’idea di come lavorano, quante e quali risorse impiegano e come. La relazione, però, non dice praticamente niente di nuovo. La sinistra è inferocita e pretende un’inchiesta super partes. Sostiene che chiedere alla polizia di indagare su se stessa è un esempio clamoroso dell’ipocrisia delle istituzioni. I conservatori invece sono soddisfatti, e il ministro della giustizia ha opposto il proprio veto, dichiarando che l’inchiesta prospettata dalla sinistra comporterebbe troppi rischi in termini della sicurezza del paese. È una storia grossa. E tu, perché me lo chiedi?»
«Lascia perdere. E se invece ti dicessi che esiste un’altra versione della stessa relazione appositamente redatta per il ministro della giustizia, nella quale si legge che un attuale membro del Parlamento danese in gioventù abitò in una comune insieme a un gruppo di terroristi tedeschi? Per questo si dichiara soddisfatto di quanto compare nella versione pubblica, “annacquata” della relazione: da un lato si è convinto dell’opportunità del fatto che i servizi segreti vigilassero anche sulla sinistra parlamentare, dall’altro non vuole che la storia dei terroristi venga alla luce, perché l’attuale governo fa perno sul seggio del parlamentare in questione e sull’appoggio dei suoi compagni di schieramento. Anche se, naturalmente, quell’aspetto del passato del parlamentare potrebbe rivelarsi uno strumento ricattatorio molto vantaggioso nelle mani del signor ministro… Allora, che ne dici?»
«Dico: bel colpo! Ma tu come fai a saperlo?»
«Non ha importanza. E non è finita qui. Nella stessa comune abitava anche la donna che si fa chiamare Laila Petrova…»
«Accidenti.»
«Eh, già.»
«Lo puoi provare?» mi domandò.
«Ho delle foto che li ritraggono insieme: Laila, il deputato, i terroristi. Anche io ho abitato nella stessa comune. Le foto sono mie. Ho rilasciato una deposizione ufficiale sul caso ai servizi segreti. So per certo dell’esistenza di un’altra versione della relazione, e se il ministro della giustizia lo nega davanti a te o al Parlamento, allora mente. E mentire a quei livelli, immagino, è ancora considerato un fatto inammissibile, no?»
«I politici danesi possono mettere le corna alle mogli e nessuno fa una piega, ma non possono mentire. Altrimenti la pagano cara…»
«Allora il ministro sarà costretto ad ammettere che ha avuto accesso ad altre informazioni?»
«Forse non con me. Ma farò in modo che la domanda salti fuori durante una consultazione. E se mentirà in quella sede, allora è finito» disse Klaus, e dopo una breve pausa:
«Quello che mi hai raccontato fa di te un informatore, Peter Lime».
«Immagino di sì» dissi.
«Accidenti!»
«Già.»
Fece una altra pausa, e udii che si rivolgeva di nuovo al tecnico.
«Dove sei?» domandò infine.
«Al Royal.»
«Devo assolutamente ultimare il servizio per l’edizione delle diciotto e trenta, poi potrei venire di corsa con una troupe, un po’ prima delle sette. Prepariamo un sinc e qualche ripresa di contorno: tu che entri in albergo, roba del genere. Una cosa veloce. In questo modo avrei il pezzo pronto per le ventuno.»
«Per me va bene.»
«Posso avere le foto?»
«No, però puoi fare delle copie.»
«Okay. Di’, Peter. Perché lo fai?» domandò.
«Le mie motivazioni non hanno importanza. Ma è la solita vecchia storia: dove c’è un segreto c’è sempre qualcuno disposto a raccontarlo a qualcuno interessato a sapere.»
«Okay. A tra poco» disse. La sua voce fremeva di ansia ed eccitazione.
Restituii il cellulare a Oscar.
«Di che si trattava?» chiese.
«Perché non ordinate un po’ di caffè? Intanto io vado a fare una doccia e a cambiarmi.»
«Perché?» domandò Gloria.
«Devo apparire in televisione» risposi.
Oscar rise e mi diede una pacca sulla spalla.
«That’s my boy! Questo è il sistema di scrollarti la delusione di dosso. Ho idea che ciò che dirai non farà affatto piacere alla tua amica poliziotta.»
«È una cosa prudente, Peter?» domandò Gloria nel suo tono da avvocato, quando comprese le mie intenzioni.
«Non lo so, però la prospettiva mi fa star bene.»
«La vendetta fa questo effetto» commentò Oscar.
Forse era davvero la vendetta ciò che cercavo, un modo di cacciare Clara nei guai. Avrei fatto pagare a lei, la fonte e la testimone della mia umiliazione, la frustrazione, la furia che provavo contro me stesso. O magari da quell’iniziativa mi aspettavo anche dell’altro, un senso di compimento, un altro passo verso la catarsi. La verità era che non lo sapevo. Avevo agito d’istinto e senza riflettere quando avevo deciso di telefonare a Klaus.
«Pagate il conto e noleggiate un’auto, così più tardi potremo partire per la Germania e saltare su un volo per casa ad Amburgo o Francoforte. Non me la sento di parlare con tutti i giornalisti danesi domani. Quando stasera questa storia scoppierà, farà molto rumore, credetemi.»
«Questo significa che torni a Madrid con noi, Peter?» si informò Gloria ancora incredula.
«Sì, torno a casa con voi» risposi. «Ne ho abbastanza di impelagarmi in intrighi che non mi riguardano.»