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Quando il ghiaccio si scioglie - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 4

Parte Terza

19

I giorni passarono, divennero settimane, ma lo scandalo che avevo contribuito a scatenare sulla scena politica danese ancora non accennava a sgonfiarsi.

Quasi come ladri Gloria, Oscar e io partimmo nella notte a bordo dell’automobile noleggiata, imbarcandoci sul traghetto per Puttgarten. Ci lasciammo alle spalle una vera tempesta mediatica. Tra una protesta e l’altra, vecchi militanti della sinistra si facevano avanti pretendendo di sapere se fossero stati schedati: l’essere stati oggetto di intercettazioni telefoniche e pedinamenti era diventato addirittura un segno di distinzione. Fortunatamente riuscii a restare fuori dalla bagarre incaricando la mia segretaria di respingere le insistenti avances della stampa danese. Negli articoli che l’agenzia specializzata in rassegne stampa mi inviava regolarmente, Peter Lime veniva descritto in termini contraddittori, esagerati e spesso assurdi: talpa degli ambienti di sinistra danesi all’inizio degli anni Settanta, paparazzo mondano votato alla venerazione dell’opulento jet-set internazionale, coriaceo fotoreporter già in prima linea nelle zone calde di tutto il mondo, danese di successo fuggito dal paese in cerca di un paradiso fiscale, agente dei servizi segreti danesi scivolato nell’alcolismo dopo l’assassinio della famiglia per mano dei terroristi baschi.

Un tabloid e due settimanali mandarono reporter e fotografi a Madrid. Rifiutai di vederli nonostante si appellassero alla solidarietà fra colleghi. Mi sorpresero all’uscita dell’ufficio e i flash delle loro macchine mi accompagnarono fino all’Hotel Inglés. Per la seconda volta da che Amelia e Maria Luisa erano morte, mi ritrovavo non già dietro la macchina fotografica, ma davanti, l’obbiettivo insistentemente puntato addosso. Dopo una settimana, per fortuna, i giornalisti ripartirono, e le cose tornarono suppergiù alla normalità.

Oscar e Gloria provarono a convincermi a riprendere a lavorare, ma sentivo di non averne davvero più voglia, tanto che alla fine cedettero e accettarono di rilevare la mia quota della agenzia. Insistettero perché mi trovassi un avvocato che curasse i miei interessi nella transazione, ma dissi loro che Gloria — il mio avvocato da sempre — avrebbe potuto benissimo occuparsi anche di quella faccenda. Se avessi avuto ragione di dubitare della lealtà dei miei amici, niente avrebbe più avuto senso comunque, tanto meno i soldi.

Attraverso qualche sua conoscenza, Gloria mi procurò un appartamentino ammobiliato nel mio vecchio quartiere. Lì mi rifugiai per starmene per lo più per conto mio; mi sentivo vuoto e scuro dentro come se qualcuno avesse spento la luce della mia anima.

Frequentavo la scuola di karate e andavo agli incontri degli Alcolisti Anonimi. Di solito riuscivo a evitare di bere, ma ogni tanto ci ricascavo, mi ubriacavo come un disperato, dormivo, e al risveglio non ricordavo le circostanze della sbornia. Ero nel mio letto e non avevo la più pallida idea di come ci fossi arrivato.

Pensavo spesso a Clara, e dopo il terzo drink o la quarta lattina di birra, mi ero trovato più di una volta con la cornetta del telefono in mano, travolto da un improvviso desiderio di chiamarla.

Ma me ne mancava il coraggio e, se insistevo con l’alcol, presto mi dimenticavo di lei e infine anche di me stesso.

Quell’anno l’autunno era arrivato presto. Un vento gelido proveniente dalle montagne spazzava la pianura castigliana inseguendo i passanti in ogni angolo della città. Un giorno arrivò perfino la neve e il traffico andò in tilt, poi il tempo cambiò facendosi nuovamente mite e piacevole, fino a quando sulla città non si abbatté una nuova ondata di freddo accompagnata da violenti acquazzoni. La pioggia scrosciava sui tavolini dei caffè deserti, e Felipe ciondolava sulla porta della Cervecería Alemana tormentando lo strofinaccio con le mani, le spalle rivolte al locale semideserto. I madrileni, fatto raro, si rifiutavano di uscire, preferendo starsene in casa incollati al televisore.

Ai primi di novembre, il giorno della nevicata, Don Alfonso morì. Ignoravo come avesse trascorso gli ultimi istanti della sua vita. Se fosse stato preda di un dolore lancinante o dell’angoscia, quando il suo cuore aveva cessato di battere nella serra, dove stava facendo i preparativi per l’inverno. Se avesse avuto tempo di prepararsi all’incontro con quel Dio, nel quale, malgrado tutto, continuava a credere. Un vicino lo trovò accanto alla panca con una piccola pala da giardinaggio in mano, nella serra linda e ordinata come al solito. La neve caduta sul tetto colorava la luce in morbidi toni azzurrati…

Lo seppellii accanto ad Amelia e Maria Luisa. Adesso mi recavo spesso in quel cimitero disseminato di croci bianche, colombe marmoree irrigidite e fredde lapidi. A volte mi portavo un libro e mi sedevo all’ombra a leggere. Altre volte prendevo con me una bottiglia. Intrattenevo lunghe conversazioni con Amelia, che insisteva nel dire che era ora che mi rifacessi una vita. Voleva essere una parte di me, le provviste per il viaggio, non la mia palla al piede.

Don Alfonso mi aveva nominato suo erede universale. Possedeva una piccola fortuna in titoli, ma il suo regalo più bello fu la casa. Incaricai Gloria di vendere San Sebastián e mi trasferii nella mia nuova casa. Con l’arrivo della primavera, avrei fatto costruire un piccolo studio con annessa camera oscura, per riprendere la mia attività di ritrattista. Ma mi piaceva anche immaginarmi armato di treppiede in mezzo alla solitaria campagna spagnola, in attesa di un toro che sarebbe apparso alla sommità della collina per dirigersi pigramente verso di me. Non sarebbe stato aggressivo, perché presto dietro di lui sarebbe apparso il resto del gregge, e, si sa, in gruppo i tori diventano tranquilli e quasi docili. Avrebbe alzato la testa, e la luce sarebbe piovuta con un effetto particolarissimo sulle sue corna, filtrata dalle fronde di un ulivo. Sarei rimasto lì per sempre, in attesa di scattare una impossibile foto perfetta.

Ma a metà novembre telefonò Clara Hoffmann. Era sera, e la pioggia, che aveva cominciato a cadere nel primo pomeriggio, scrosciava ancora contro il tetto e le finestre. Ero sobrio, stavo leggendo uno dei libri di Don Alfonso sulla guerra civile. Avevo acceso il fuoco nel camino e mi sentivo equilibrato e quasi in pace.

Nel sentire la sua bella voce rimasi un attimo come confuso, poi il cuore prese a martellarmi furiosamente in petto.

«Sono Clara. Clara Hoffmann, da Copenaghen» disse.

«Sì.»

«Peter, sei tu?»

«Sì. Scusami. Ero immerso in un libro.»

«Scusami tu, se ti disturbo. Ho avuto il tuo numero dall’ufficio. Qualche giorno fa, veramente. Non ti dispiacerà, spero.»

«No. No. Come stai?»

«Bene, grazie. E tu?»

«Abbastanza. Sì, insomma, non c’è male.»

Ci fu una pausa, poi lei disse:

«Ho pensato spesso di telefonarti».

«Anch’io. A te, cioè. E perché non lo hai fatto?» le domandai.

«Non lo so. Avevo paura di sentirmi respinta. E tu, perché non lo hai fatto?»

La sua voce mi giungeva chiara nonostante il lieve sibilo che disturbava la linea, evocando l’immagine del suo sorriso e del suo corpo nudo sulla spiaggia della baia di Sejrø. Le emozioni contrastanti di quel giorno cominciarono a mulinarmi nel cervello.

«Avevo paura anch’io. E mi vergognavo» aggiunsi sorpreso dal mio stesso candore.

Lei rise dolcemente.

«Proprio tu!»

«Non sono il vecchio cinico che a volte mi piace interpretare.»

«Lo so. Sei molto umano, invece. È questo che mi piace di te» disse.

«Ancora adesso? Sì, insomma, dopo quello che è successo.»

«Mi sei mancato.»

«Anche tu a me» ammisi, per la prima volta anche a me stesso.

«E pensare che siamo due persone adulte» disse.

«Appunto» dissi io.

Ci fu una pausa.

«Come sei riuscita a trovare il coraggio?» le chiesi infine.

«Ho saputo una cosa che penso ti interesserà, così ho colto l’occasione…»

Spiegò di aver ricevuto una lettera dalle autorità tedesche: la informavano che ero autorizzato a presentarmi a Normannenstrasse per prendere visione del mio dossier STASI. Ci sarei andato? Volevo ancora vedere il mio dossier?

Da diverse settimane consideravo chiusa quella faccenda. Provavo ancora dolore per la mia perdita, naturalmente, ma il bisogno di vendetta nei confronti dei responsabili dell’esplosione mi aveva abbandonato. Ormai davo ragione a Oscar e Gloria: rivangare il passato avrebbe causato solo altra sofferenza. Lo dissi a Clara al telefono. Replicò con un debole «okay», ma sentivo che era delusa.

Allora mi sentii di dire:

«Sono disposto ad andare a Berlino, a patto che tu mi raggiunga lì. Altrimenti non parto».

«Quando?»

«Che ne dici di domani?»

La sua risata mi riempì di gioia e di sollievo.

«Dopodomani?» rilanciò.

«Dopodomani va benissimo.»

«Siamo d’accordo. Telefonami quando hai tutti i dati del volo. Probabilmente io verrò in macchina.»

«Senz’altro. E, Clara…»

«Sì, Peter?»

«Non vedo l’ora di rivederti.»

«Anch’io, Peter Lime. Anch’io.»

«Mi dispiace di averti messo nei pasticci raccontando la storia della relazione riservata al telegiornale.»

«È acqua passata. Sono una ragazza forte.»

«Lo so. Ma il mio senso di colpa rimane.»

«Ti racconterò tutto a Berlino» disse e riagganciò.

A Berlino la pioggia, più fredda che a Madrid, a tratti si trasformava in nevischio. Ero stato a Berlino solo un paio di volte dopo il crollo del Muro, e avevo l’impressione che da allora la sua marcia verso una nuova grandezza procedesse inarrestabile. Sui giornali avevo letto della crisi economica del paese e del muro invisibile che ancora divideva Est e Ovest. Se quel muro esisteva davvero, la città e i suoi abitanti non sembravano darsene pensiero. Immense gru lavoravano fra i palazzi del centro, nuovissime costruzioni di vetro e cemento armato parevano essere spuntate un po’ ovunque. Le strade traboccavano di automobili che lentamente procedevano nella pioggia catturata dai fasci di luce dei fari. Di tanto in tanto, fra le grosse Mercedes e BMW, spuntava una piccola Trabant, unica testimonianza tangibile del recente passato, quando la città era ancora divisa in due. Nonostante il freddo e la pioggia, i marciapiedi e le piazze erano gremiti di persone, che con i baveri alzati e gli ombrelli di sghembo avanzavano imperterrite nella precoce oscurità del pomeriggio.

La mia agenzia viaggi mi aveva trovato un piccolo ma lussuoso albergo vicino al Kurfürstendamm, prenotando una camera per Clara accanto alla mia. Il giorno prima l’avevo chiamata in ufficio per darle un appuntamento, ma al suo vecchio numero aveva risposto un’altra persona: mi aveva detto che Clara Hoffmann non lavorava più lì. Dopo qualche altra telefonata avevo scoperto che era passata alla Squadra antitruffa della polizia di Copenaghen, ed ero riuscito a lasciare un messaggio per lei a una segretaria.

La prospettiva del nostro incontro mi spaventava. Per allontanare i miei timori e ammazzare il tempo feci cinquanta flessioni, poi una doccia. Quindi scesi al bar e, già tormentato dal senso di colpa, scolai due whisky. Tornai in camera. Era una bella matrimoniale spaziosa con un grosso letto sormontato da uno specchio dalla cornice dorata. Il rumore frusciante delle auto sull’asfalto bagnato era l’unico suono che dalla strada filtrasse nella camera ben riscaldata. Una porta divideva la mia stanza da quella destinata a Clara. Era chiusa a chiave. Provai ad accendere la televisione, ma non riuscivo a concentrarmi, allora scesi di nuovo al bar, dove ordinai una Coca e raccolsi una copia dell’«Herald Tribune». Tornato in camera mi tuffai nella lettura. Ero arrivato all’ultima pagina quando sentii dei rumori nella stanza accanto. Una porta sbatté, e immaginai Clara che si scrollava la pioggia dal cappotto e dai capelli. Mi alzai per uscire in corridoio a bussare alla sua porta, ma poi ci ripensai e mi rimisi seduto con il giornale sulle ginocchia. Le lettere danzavano prive di senso davanti ai miei occhi. Non ero a Berlino solo per vedere il dossier della STASI. Ero lì anche, o soprattutto, per verificare la mia capacità di amare qualcuno che non fosse Amelia. Ma ignoravo quali fossero i pensieri e le aspettative di Clara Hoffmann, e questo fatto mi comunicava un’ansia intollerabile.

Sentii l’acqua della doccia che scorreva nella stanza di Clara. Avevo fatto bene a non bussare. Evidentemente aveva deciso di darsi una rinfrescata dopo il viaggio. Venti minuti dopo udii il rumore della chiave che girava nella toppa della porta che separava le stanze. Clara rimase nel vano a guardarmi per qualche secondo. Indossava l’accappatoio bianco dell’albergo. Senza dire una parola entrò nella stanza sorridendo, si chiuse la porta alle spalle e si voltò. Mi alzai.

Avanzò di un passo, e io mi mossi per andarle incontro.

«Clara…»

In tre rapidi passi mi raggiunse e mi zittì appoggiandomi il palmo della mano sulla bocca come fossi un bambino. Ci abbracciammo. Aprii l’accappatoio per stringere il suo corpo nudo al mio. I capezzoli eretti sfregavano contro la mia T-shirt mentre la accarezzavo avidamente, dappertutto, senza fiato per l’eccitazione. I suoi occhi erano aperti e lucidi, come se avesse paura o fosse sul punto di piangere.

«Clara» provai a dire. Ma lei scosse il capo.

«Non parlare, Peter.»

20

Dopo aver fatto l’amore con Clara scoppiai a piangere. Non mi ero mai considerato un tipo fragile, emotivo, e negli anni Settanta avevo provato grande irritazione per la moda dell’autocoscienza, specialmente quando a praticarla erano gli uomini. Non sopportavo le confessioni, le ipocrisie, le cazzate e le lacrime che la gente tirava fuori in quelle grottesche riunioni.

Ma in quel letto d’albergo di Berlino, non riuscii a trattenere un singhiozzo, seguito da un altro e poi da tante, troppe lacrime, finché Clara accostò la mia testa al suo seno e prese ad accarezzarmi i capelli, piano. Piansi per le ingiustizie della vita, per le occasioni sprecate, per il fatto che non avrei mai superato lo spaventoso dolore per la perdita della mia famiglia. Ma anche perché l’abbraccio di Clara era stato intenso e liberatorio. Lei abbassò il viso sul mio e cominciò a baciarmi. Con la lingua cancellò le tracce del mio pianto dalle palpebre, dalle guance, dal collo e dal petto.

Non ci eravamo scambiati nemmeno una parola. Parlammo solo dopo esserci accarezzati, baciati e amati ancora. E anche allora non parlammo di noi, ma del passato. Le raccontai di Amelia e Maria Luisa, della mia infanzia, del lavoro, confessai perfino il mio problema con l’alcol.

Lei ascoltò e fece domande, ma di sé non volle dire molto. A parte il trauma dell’abbandono di Niels, la sua era stata una vita serena e quindi, sosteneva, poco interessante.

Saremmo andati avanti a chiacchierare ancora a lungo, se non ci fosse venuta fame.

Una fame rabbiosa di carne e montagne di patate. Era mezzanotte passata, e l’addetto al servizio in camera disse che potevano servire solamente zuppa di verdure, panini e omelette. Ordinai tutto quanto insieme a una bottiglia di vino e dell’acqua minerale.

Clara, nuda, si alzò, andò nella sua stanza e riapparve con dei vestiti sul braccio e una piccola valigia.

«Possiamo disdire l’altra stanza» propose. «Se sei d’accordo.»

«Perché lo hai fatto? Venire a Berlino, intendo.»

«Ho avuto voglia di te da subito, dal primo giorno in cui ti ho visto. Ma allora era diverso, tu eri sposato… scusami. Non dovrei parlarne.»

«Non ti preoccupare, Clara.»

«Non ci sono stati molti uomini nella mia vita, Peter. Ogni tanto mi veniva voglia di qualcuno, ma dopo il divorzio non mi sembrava che il gioco valesse la candela.»

«Sono contento che tu abbia preso l’iniziativa. Non so se io avrei trovato il coraggio.»

«Io penso di sì. Comunque ricordavo il tuo sguardo, l’estate scorsa. Era chiaro che mi desideravi. E quando mi sono ritrovata nella camera accanto alla tua ho pensato “sono entrata nella seconda metà della mia vita, ho già visto morire degli amici. Non c’è motivo di sprecare tempo”. È stato facile…»

Mi alzai, la raggiunsi e la baciai dolcemente.

«Sono contento» ripetei.

Lei si liberò dal mio abbraccio e indicò la porta del bagno:

«Non pensi che dovremmo renderci un po’ più presentabili prima che arrivi il cameriere con la nostra cena?».

Mangiammo come se non avessimo toccato cibo da giorni.

«Non mi hai ancora detto perché hai cambiato lavoro» le chiesi più tardi, accendendomi una sigaretta.

«Quando in Danimarca esplode uno scandalo, qualcuno deve restare con la patata bollente in mano. Altrimenti le acque non si calmano più. Questa volta la patata bollente è toccata a me.»

«Per causa mia?»

«Temo di sì.»

«Mi dispiace terribilmente.»

«Ah, non pensarci. Dammi una sigaretta, anche se ho smesso di fumare» continuò. «Avevo bisogno di allontanarmi dai servizi segreti. Invece di mettermi alla porta, mi sottrassero responsabilità finché non mi decisi a fare il salto.»

Fumava nervosamente.

«Ero disperato, Clara» cercai di giustificarmi. «Arrabbiato, avvilito, offeso e ubriaco. Perdonami.»

«Ti ho già detto che è stato meglio così. Mi sono ritrovata con la patata bollente in mano, ma probabilmente mi avrebbero fatto fuori lo stesso. Lime o non Lime.»

«Che vuoi dire?»

«Dalla fine della guerra fredda, il personale dei servizi segreti in Danimarca non è diminuito, anzi è andato aumentando. Con le recenti rivelazioni tutti, politici, stampa, gente comune hanno cominciato a chiedersi che senso abbia. C’è odore di tagli nell’aria…»

«Sembri amareggiata.»

«Perché lo sono, Peter. Per più di una ragione. Il mio attuale lavoro non mi piace, e non vedo prospettive di miglioramento all’orizzonte. Il mio matrimonio è finito, non ho figli e vivo sola. Ho un grande appartamento ben arredato e a volte parlo alle mie piante. Forse dovrei procurarmi un gatto. Sono sola, e questo mi fa paura.»

La baciai e le strinsi teneramente la testa fra le mani.

«Fai l’amore con me» disse.

La mattina successiva mi svegliai presto, dal rumore del traffico capii che doveva aver smesso di piovere. Restai a lungo a contemplare Clara che dormiva accanto a me, con un misto di incredulità, tristezza e gioia. Quando uscii dal bagno la trovai seduta nel letto.

«Sei mattiniero» disse guardandomi dritto negli occhi, senza timidezza.

«Torna pure a dormire» le dissi.

«No. No» rispose. «Tu scendi a fare colazione. Hai un appuntamento con il tuo passato, ricordi? Alle dieci nel vecchio complesso in Normannenstrasse.»

Dopo colazione prendemmo un taxi per varcare l’ormai invisibile frontiera ed entrare nella vecchia Berlino Est. Ripensai a quando avevo appreso del crollo del Muro, a New York, da un notiziario della CNN, ed ero salito sul primo volo disponibile per l’Europa. Volevo essere presente a quell’evento epocale. Arrivato a Berlino ero stato travolto dall’euforia. Avevo scattato diverse serie di foto, ma non le avevo vendute. Erano belle, ma tutte uguali, e non si distinguevano da quelle dei miei concorrenti. Ero rientrato a Madrid carico di adrenalina, convinto che il mondo sarebbe cambiato in maniera radicale. Anche Gloria era esaltata e incredula: camminava avanti e indietro per l’ufficio, rideva, alzava il volume del televisore. Oscar, invece, era ubriaco, cupo e scontroso; ripeteva che presto la festa sarebbe finita e che i tedeschi orientali si sarebbero pentiti di essersi buttati così allegramente fra le braccia del capitale e della Germania Occidentale. Anche l’anno successivo, in occasione dell’annuncio dell’unificazione delle due Germanie, Oscar si era ubriacato. Aveva accusato Gloria, che voleva festeggiare, di aver tradito gli ideali della loro giovinezza, lei aveva ribattuto che Oscar si aggrappava a un sogno spezzato per sempre. Avevano litigato così violentemente che ero stato costretto a trascinare Oscar a letto.

«Sai qual è l’aspetto strano dei sistemi totalitari?» disse Clara interrompendo i miei pensieri. «Sia che si trattasse di nazisti che di comunisti, erano talmente convinti di essere infallibili e di avere la storia dalla propria parte, che documentavano tutto, mettevano tutto per iscritto. Anche perché erano paranoici. Soffrivano di uno strano miscuglio di mania di grandezza e complesso d’inferiorità. E poi, dal momento che i criteri della purga successiva erano imprevedibili, dal loro punto di vista era meglio mettere le mani avanti e scrivere tutto. I regimi più spietati della storia hanno avuto gli impiegati e i burocrati più coscienziosi.»

Si girò a guardarmi, e la baciai sulle labbra morbide, pensando che ero felice.

Il tassista si fermò in Rischerstrasse, ai margini del grande complesso e aspettò mentre Clara mi dava istruzioni. In realtà quella sembrava una strada qualsiasi di un qualsiasi quartiere di Berlino Est: grandi cartelli pubblicitari della Sony e di Ritter Sport, un supermercato, e pedoni che passavano di fretta senza curarsi più di tanto di quegli edifici lugubri.

«Devi parlare con un certo Herr Weber» disse Clara.

«Tu non vieni?»

«No. Farò una passeggiata. Oppure tornerò in albergo a leggere un po’. Com’è il tuo tedesco?»

«Me la cavo» risposi. «Dai, accompagnami.»

Mi mise una mano sul collo e mi diede un bacio frettoloso:

«Sei tu che hai l’autorizzazione. Il dossier è tuo. Prenditi tutto il tempo che ti occorre. E adesso, fuori!».

Scesi e seguii con lo sguardo il taxi che si allontanava. Senza voltarsi, Clara si limitò ad alzare la mano a mo’ di saluto.

Entrai nella Haus numero 7, e a una piccola reception chiesi di Herr Weber. Il pavimento e l’illuminazione sembravano rifatti, ma c’era ancora l’odore del vecchio regime.

L’ex sede della STASI adesso ospitava diversi uffici dell’amministrazione occidentale. Ma sapevo che un settore del grande complesso era stato trasformato in un museo. Lì, tra bandiere rosse, busti di Lenin e medaglie, si poteva visitare l’ufficio di Mielke, con i numerosi telefoni — tratto distintivo dei regimi comunisti — schierati sulla scrivania scintillante. C’erano telefoni per colloqui riservati, telefoni per colloqui segreti, telefoni per colloqui di massima segretezza. Linee dirette con l’esercito, il Politbjuro, e il KGB. Mentre aspettavo immaginai i lunghi corridoi, le stanze silenziose e polverose, le montagne di documenti: centottanta chilometri di scaffali straripanti di foto, rapporti, trascrizioni di intercettazioni. Nella DDR un cittadino su tre era schedato. Uno su tre era un informatore. I delatori si denunciavano a vicenda, all’infinito. Coniugi, amici, fratelli, sorelle, genitori, colleghi di lavoro: chiunque poteva tradire chiunque altro. Gli archivi della STASI erano un impressionante monumento alla follia dell’uomo; miliardi di parole che potevano significare il carcere o la libertà, parole catturate e trascritte da persone e perciò inaffidabili e soggettive, ma decisive per le vite di altri.

Herr Weber era un uomo piccolo e tarchiato. Sorrise cordialmente quando dissi il mio nome, e vidi che i suoi occhi grigi erano simpatici e pieni di vita.

«Ah, lei è Herr Leica» mi salutò.

«Leica?» dissi io.

«Sì, Signor Lime. Questo è il suo nome in codice negli archivi della STASI. Qui dentro lei si chiama Herr Leica, e sotto questo nome ho esaminato il suo caso. Le dirò che mi sembra quasi di conoscerla, dopo aver letto tutte quelle meticolose relazioni sul suo conto.»

«Lei ha studiato personalmente il mio caso?»

«Si sieda un momento, le comunicherò le regole e le disposizioni vigenti prima di accompagnarla nella sala di lettura.»

Prendemmo posto su due scomode poltrone accanto a un tavolino. Sul tavolo c’era un posacenere: potevo fumare. Mi disse ciò che sicuramente aveva ripetuto centinaia se non migliaia di volte in vita sua, ma il tono della spiegazione era vivace, come se il compito di gestire e trasmettere le annotazioni segrete di una nazione morta fosse troppo importante per rischiare di venirgli a noia.

Herr Weber disse nel suo tedesco lento e chiaro:

«Herr Lime. Noi operiamo ai sensi di una legge che impone certe direttive. Una legge speciale che fu approvata dagli organi competenti della Germania riunita nel 1991. Questa legge regolamenta l’accesso agli archivi. La sua domanda di visionare gli atti è stata evasa e approvata. I suoi documenti sono stati prodotti. Ho letto la sua pratica e, come da regolamento, ho cancellato quei nomi che non la riguardano specificamente. Per evitare di offendere vittime innocenti della STASI. Questi archivi racchiudono grandi tragedie. Ho visto con i miei stessi occhi uomini e donne crollare di fronte al genere di rivelazioni che forse la aspettano. Non è facile scoprire a distanza di anni che colei che credevamo una moglie leale poteva andare a passeggio con la famiglia la domenica e il lunedì fare rapporto al suo ufficiale superiore. Naturalmente potrà vedere tutto ciò che riguarda il suo caso. Può richiedere le fotocopie, ma gli originali restano qui. Mi sono spiegato?».

«Perfettamente» risposi. In realtà tutta quella storia mi sembrava sempre più assurda, e, in un certo senso, molto tedesca. Prima la STASI aveva meticolosamente raccolto e catalogato le informazioni più intime e personali riguardanti milioni di persone, e adesso altri burocrati si davano da fare per catalogare daccapo quella montagna di materiale, attribuendo nuovi numeri di riferimento, cancellando nomi e facendo sbocciare nuovi misteri per ogni segreto che credevano di svelare.

«Bene» riprese Herr Weber. «La sua pratica non è voluminosa, Herr Leica. Si tratta di poche pagine in un unico raccoglitore. Nulla in confronto alle quarantamila pagine che abbiamo sul cantante Wolf Biermann, o agli oltre trecento raccoglitori che lo scrittore Jürgen Fuchs può esaminare. Lei non ha lavorato molto nella defunta DDR. Non si è lasciato assoldare, non ha fatto nomi, e perciò il materiale è piuttosto scarso. Mi dispiace.»

«Le dispiace? Come se avere una pratica voluminosa fosse auspicabile?» ribattei.

Herr Weber fece una risatina.

«Caro signore, l’uomo è una strana creatura. Alcuni si disperano nel leggere ciò che è stato scritto su di loro. Altri, invece, si disperano quando scoprono di essere stati giudicati così scarsamente interessanti da venir liquidati in tre paginette. Nella Germania di oggi c’è chi soffre di una sindrome che io chiamo “invidia d’archivio”. È una malattia della riunificazione.»

Weber studiò la mia espressione perplessa e continuò:

«Per esempio, forse lei spera che nel suo caso siamo in possesso di campioni olfattivi. Purtroppo devo darle una delusione».

«Campioni olfattivi?» Dapprima pensai di aver capito male, ma poi dedussi che facesse tutto parte dell’esibizione che Herr Weber doveva riservare perlomeno agli stranieri. Dalla ventiquattrore estrasse un vasetto di vetro e lo sistemò sul tavolino in mezzo a noi. Era contrassegnato con un numero e sigillato. Sul fondo del vasetto c’era un pezzo di ovatta giallognola. Nient’altro. Presi il contenitore e lo guardai, quindi lo posai fissando con occhi interrogativi Herr Weber.

«Il manuale operativo della STASI parla diffusamente di conserve olfattive. Esistono migliaia di questi vasetti. Sono campioni degli odori delle persone. Ognuno di noi ha un odore diverso, caro signore. E conservando un campione dell’odore di una persona è possibile mettere un cane sulle sue tracce in maniera rapida ed efficiente, nel caso si renda necessario hmm… contattarla…»

Scoppiai a ridere.

«Forse bisogna riderne. Forse, se non fosse stata una tragedia, sarebbe stata una commedia» disse in tono grave.

«Herr Weber, posso prendermi la libertà di chiederle che cosa facesse nella vita prima del crollo del Muro di Berlino?»

Sorrise ironico:

«Certamente. Per diversi anni ho accudito le scimmie al Giardino Zoologico. Prima di allora ero docente di letteratura tedesca, ma dopo una lezione su Goethe e alcune mie dichiarazioni risultate sgradite al Partito, perdetti il lavoro e divenni uno di quegli… esseri, che da questa parte della cortina di ferro chiamavamo “non persone”. Un morto vivente. Anche se le scimmie erano una piacevolissima compagnia».

«E chi fu a tradirla? Uno studente?»

«No, Herr Lime. La mia signora.»

Rimasi senza parole.

«Mi dispiace» dissi dopo un momento.

Lui annuì:

«Vogliamo entrare?».

«Sì, grazie.»

«Non deve ringraziarmi, Herr Lime. O Leica. Pochi tra quelli che varcano questa porta escono soddisfatti. Anzi, è vero il contrario.»

21

Seguii Herr Weber in un locale dal soffitto alto, con le pareti giallo-pallido e un logoro pavimento di linoleum. File di tavoli quadrati, molti dei quali occupati, percorrevano la lunghezza della stanza. Weber mi indicò un tavolo libero e vi posò una cartellina di cartoncino rosa. La scena ricordava l’esame di maturità: le schiere di schiene curve su pile di fotocopie, l’atmosfera di assoluto silenzio e concentrazione, i banchi sistemati in modo da garantire che nessuno potesse spiare il compagno. La pallida luce novembrina entrava dalle finestre, mescolandosi a quella dei tubi al neon. Dalle gocce che solcavano le finestre capii che aveva ricominciato a piovere.

Sulla cartellina c’era scritto: OPK-Akte. MfS. XX, 1347/76-81. HVA/1249. Subito sotto, qualcuno, a mano, aveva aggiunto il nome «Leica». Cercai di decifrare quel codice: MfS stava per Ministero per la sicurezza dello stato, la STASI. HVA, Hauptverwaltung Aufklärung, letteralmente significava Ufficio Centrale Informazioni. Ma informazioni su cosa e da parte di chi? Sapevo che Markus Wolf ne era stato direttore, e che l’HVA era circondato da un alone meno sinistro della STASI, benché facesse parte a pieno titolo dell’apparato della polizia segreta. Dedussi che i numeri 76-81 indicassero gli anni durante i quali erano state raccolte le informazioni che stavo per leggere, le altre cifre dovevano semplicemente essere parte della chiave numerica del sistema di catalogazione.

Aprii la cartellina e vidi una mia foto di quando ero giovane. Ero a un raduno politico, in Spagna. Dopo un esame più attento dello sfondo, giudicai che l’immagine dovesse essere stata scattata a Valladolid, davanti alla vecchia arena. Era la foto di un non professionista, scattata con una macchina da pochi soldi. Davanti all’ingresso dell’arena sventolavano le bandiere rosse. Avevo circa vent’anni, una gran zazzera mi incorniciava la faccia come una cascata, la Nikon e la fida Leica a tracolla. L’espressione era un po’ arrogante.

Posai la foto. Improvvisamente era tutto chiaro. Ma mi costrinsi a volgere la mia attenzione alle fotocopie che Herr Weber aveva fatto dei rapporti originali, vecchi e sicuramente ingialliti. Erano indirizzati a un certo tenente colonnello Schadenfelt, capo del II/9, che evidentemente aveva l’incarico di contrastare i servizi segreti occidentali mediante l’infiltrazione e il reclutamento di agenti. C’era una mia descrizione preliminare, che indicava quando ero nato, il mio background familiare, la mia professione. Veniva sottolineata la mia vocazione a una vita nomade, il mio orientamento politico progressista, e si specificava che non ero iscritto ad alcun partito.

Mi veniva riconosciuto il potenziale di diventare un informatore, forse addirittura un agente in piena regola. Naturalmente previa l’acquisizione di una maggiore consapevolezza dell’importanza della lotta all’imperialismo e al militarismo di marca americana. Erano citate le parole di condanna che avevo espresso nei riguardi della guerra del Vietnam. E l’occasione in cui, trovandomi per lavoro sul luogo di un’euforica manifestazione del partito comunista spagnolo, avevo dichiarato che se fossi stato spagnolo, sarei senz’altro diventato comunista. Erano riportati anche dettagli apparentemente superflui: come mi vestivo di preferenza, gli autori che leggevo — Hemingway e il danese Rifbjerg — i nomi e le professioni delle donne che frequentavo, i miei incarichi di lavoro. Venivano segnalati i cambi di indirizzo e i frequenti viaggi. Ogni pagina era contrassegnata da numeri, cifre, nomi in codice e rimandi. Erano riportati incontri e conversazioni, viaggi e articoli, atteggiamenti e opinioni. Il mio relatore riferiva che da colleghi eravamo diventati amici. Parlava del mio alcolismo e delle mie difficoltà nell’instaurare rapporti stabili con l’altro sesso.

Seguivano altre valutazioni circa le mie opinioni politiche, giudicate progressivamente sempre più deludenti. Non si riscontravano progressi nel mio processo di presa di coscienza della necessità della lotta di classe. Nel 1981 il mio relatore giungeva alla conclusione di aver sopravvalutato il mio potenziale rivoluzionario. Non solo mi dimostravo sensibile alla propaganda e alle seduzioni dello stile di vita borghese, ma guardavo con sospetto ai risultati raggiunti dai paesi socialisti sotto la guida dell’Unione Sovietica. Con il passare degli anni quel sospetto si era trasformato in un atteggiamento di aperta critica nei confronti del socialismo reale.

Sempre nell’81 la mia posizione in merito alla controrivoluzione polacca e la mia ammirazione per il movimento di Solidarnosc, finanziato dalla CIA, mi avevano definitivamente squalificato dalla lista delle potenziali reclute. Il relatore consigliava che, qualora avessi avanzato richiesta di un visto d’ingresso per la Polonia, il visto mi fosse negato.

Caso chiuso. Archiviato. Il mio era un dossier scarno, assolutamente inutile, che solo un sistema paranoico poteva decidere di conservare. Avrei potuto uscire di lì e scordarmene per sempre, se non fosse stato per un dettaglio.

Il mio relatore non poteva che essere Oscar. Naturalmente il nome con cui lo conoscevo io nei documenti non compariva. Quando Oscar scriveva al tenente colonnello Helmut Schadenfelt, si firmava Karl Heinrich Müller. Prima tenente, poi capitano, e infine maggiore dell’HVA, agli ordini diretti di Schadenfelt e Misha Wolf.

Guardando con attenzione la foto, l’avevo collegata al primo viaggio di lavoro intrapreso con Oscar: il raduno di massa dei comunisti nell’arena di Valladolid, dove doveva parlare Carrillo. In quell’occasione gli avevo fatto da interprete, e lì era nata quella che avevo sempre ritenuto essere una vera amicizia.

Da vent’anni lo consideravo il mio migliore amico, e per tutto quel tempo lui aveva giocato a carte coperte.

Oscar. Karl Heinrich Müller. Amelia. Maria Luisa. La foto di una giovane donna insieme a dei terroristi tedeschi nel soggiorno di una comune danese. I miei pensieri giravano in tondo, a un ritmo vorticoso, ossessivamente. A un tratto fui colto da una nausea terribile, mi alzai, trovai un bagno e vomitai tutto ciò che avevo in corpo. Mi buttai dell’acqua in faccia e mi sedetti su uno dei gabinetti a fumare una sigaretta. Poi tornai alla reception e chiesi di Herr Weber. Dopo un quarto d’ora arrivò con la borsa in una mano e diverse cartelline sotto l’altro braccio.

«Herr Lime. In cosa posso esserle utile?»

«Posso avere il dossier di Karl Heinrich Müller?»

Herr Weber mi guardò con i suoi occhi vivaci:

«Mi sembra un po’ pallido, Herr Lime. Ha bisogno di un medico?».

«No, di un drink. E del dossier di Karl Heinrich Müller.»

«Per il drink non posso aiutarla, adesso torni dentro, si sieda, intanto vedrò quel che posso fare a proposito di Karl Heinrich.»

Tornai al tavolo e aspettai, cercando invano di controllare il tremito delle mie mani. Una donna seduta poco lontano piangeva sommessamente.

Herr Weber riapparve dopo un quarto d’ora, posò un foglio di carta e una fotografia sul mio tavolo.

«Grazie. È stato veloce» dissi.

«Non c’è molto. Il suo dossier è andato quasi integralmente distrutto quando hanno cercato di far sparire le prove. Stiamo provando a restaurare una parte dei documenti, ma si tratta di un processo che richiederà anni. Forse l’eternità.»

«Capisco.»

Herr Weber esitò:

«Altri in situazioni simili alla sua hanno rintracciato un ufficiale superiore. Alcuni sono disposti a parlare, altri no».

«Grazie, Herr Weber.»

«Non c’è di che, Herr Lime. Non c’è di che.»

Aveva ragione: su Oscar c’era pochissimo materiale.

Karl Heinrich Müller era stato reclutato nel 1967, tramite le guardie di frontiera, nelle quali aveva prestato il servizio militare. Dall’età di quattordici anni era stato informatore occasionale della STASI. All’età di diciannove era stato introdotto clandestinamente in Germania Occidentale, con una nuova identità e un passato fittizio. Aveva collaborato con diversi periodici, in parte finanziati dalla DDR o da Mosca. La foto ritraeva Oscar da giovane con le guance rasate e indosso la brutta uniforme dei Vopo. Aveva i capelli cortissimi e lo sguardo intenso. Alle sue spalle si intravedeva un tratto del Muro. Lessi il documento due volte. Non risultava che avesse dato le dimissioni. C’era scritto che il suo grado attualmente era quello di maggiore, e che era stato proposto per l’ordine di Lenin, in virtù del lungo e prezioso servizio prestato. La candidatura all’ordine di Lenin era stata avanzata nell’ottobre 1989, in concomitanza con il quarantennale della DDR. Un mese prima del crollo del Muro di Berlino. Possibile che all’epoca nessuno nella STASI sospettasse l’enormità del cambiamento che stava per abbattersi sulle loro teste? In preda a un nuovo attacco di nausea, annotai nel mio taccuino il nome di Schadenfelt e il numero del mio dossier. Poi uscii dalla stanza lasciando i documenti sul tavolo. Per me potevano anche bruciarli.

Herr Weber era alla reception:

«Arrivederci, Herr Lime» disse. «La rivedremo?»

«No.»

«Allora archivierò la sua pratica come visionata. Un altro pezzo di sofferenza che torna da dove è venuta.»

«Addio, Herr Weber. E mi saluti le scimmie.»

Ridacchiò.

Uscire all’aria aperta fu una liberazione, e mi incamminai senza meta per le strade bagnate. Non so per quanto tempo camminai, ma a un tratto mi ritrovai in Alexanderplatz. Era già scesa la sera e la luce dei fari e delle insegne si rifletteva nelle pozzanghere. Avevo i capelli fradici, ma non pioveva più.

Entrai in un bar, andai in bagno, mi asciugai il viso e mi pettinai, poi scelsi un tavolo d’angolo e ordinai un caffè e un doppio snaps. Domandai al proprietario se potessi consultare l’elenco telefonico. Il barman me lo lanciò senza aprire bocca, e cercai il nome Schadenfelt. Risultavano tre Helmut. Uno abitava in Karl Marx Allee, a pochi passi da Alexanderplatz: decisi che tanto valeva cominciare da quello. Vuotai il bicchiere, bevvi il caffè e uscii con la testa che mi girava: l’effetto dell’alcol sul mio stomaco vuoto. Raggiunsi il portone che mi interessava e controllai il citofono. In corrispondenza del nono piano a destra, trovai il nome di Helmut Schadenfelt, e pigiai il bottone. Non rispose nessuno. Provai di nuovo. Ancora niente. Dopo una decina di minuti il portone si aprì e ne uscì una donna anziana ben vestita; allora entrai, salutandola con gentilezza. Quella mi lanciò un’occhiata vagamente sospettosa e si allontanò.

L’ascensore odorava di cavolo e vernice fresca. La porta di Schadenfelt era marrone come le altre. Suonai un paio di volte, ma non accadde nulla. Non potevo essere certo che quello fosse lo Schadenfelt che cercavo, ma il mio istinto mi diceva che era così.

Aspettai più di un’ora. Ogni volta che udivo qualcuno sulle scale, facevo finta di star salendo o scendendo a mia volta, a seconda della direzione in cui gli sconosciuti erano diretti. Infine arrivò. Era un uomo corpulento sui sessant’anni, con il viso chiazzato di rosso e l’addome rigonfio del bevitore di birra. Anche le gambette, esili sotto il ventre prominente, erano da alcolizzato. Infatti era sbronzo, e non mi notò. Con difficoltà infilò la chiave nella serratura. Quando la porta si aprì verso l’interno, feci un passo avanti dicendo, in tedesco:

«Il tenente colonnello Schadenfelt? Ha un momento?».

Lui si girò barcollando. I suoi occhi, sebbene annebbiati, erano sorprendentemente penetranti.

«Fuck off, foreigner!» disse e fece per chiudere la porta.

Avanzai di un altro passo e lo colpii all’altezza del plesso solare con l’indice e il medio della mano destra. Quando si accasciò, improvvisamente pallido, lo afferrai per la camicia e lo spinsi all’interno dell’appartamento, dove lo sbattei contro il muro. Scivolò con la schiena lungo la parete finché fu per terra. Lo sguardo era vacuo, e le vene del collo pulsavano vistosamente. Lanciai un’occhiata verso le scale. Non c’era anima viva. Chiusi la porta. Tutto si era svolto in pochi secondi.

L’appartamento di Helmut Schadenfelt era piuttosto grande, con tre camere e un bel soggiorno. Evidentemente abitava ancora nell’alloggio che il partito e la STASI gli avevano procurato anni prima. La cucina rigurgitava di piatti sporchi, il letto disfatto puzzava, e due delle stanze erano vuote, come se avesse impegnato o venduto tutti i mobili. Dappertutto c’erano bottiglie vuote. Una foto incorniciata attirò la mia attenzione: Helmut da giovane. Indossava l’alta uniforme della STASI e stava ricevendo una medaglia da Markus Wolf. Alle spalle dei due riconobbi Oscar, anche lui in alta uniforme. Guardai la data riportata in basso: 16 aprile 1985.

Ruppi la cornice contro lo spigolo di un brutto tavolo piastrellato, ne estrassi la foto e la infilai nella tasca interna del giubbotto di pelle.

Sentii Schadenfelt gemere in corridoio. Quando lo raggiunsi si era alzato su un ginocchio. Era ubriaco, ma pur sempre grande e grosso, e non volendo correre rischi gli assestai un calcio nel fianco facendolo ricadere in terra. Quindi parlai in inglese.

«Helmut, amico mio. Sono venuto per avere qualche informazione, nient’altro. Se continuo così, finirò per ammazzarti. Se prometti di comportarti bene, diventerò molto più gentile, allora potremo bere uno snaps insieme. Batti le palpebre se capisci quello che dico.»

Batté le palpebre, e io lo aiutai a tirarsi in piedi e a raggiungere il divano verde.

«Lo snaps, in cucina» disse con voce roca. Aveva gli occhi spaventati, ma non abbastanza.

«Niente scherzi, eh, signor tenente colonnello?»

«Snaps» ripeté lui.

Andai in cucina e trovai una bottiglia nel frigorifero, quando tornai lo trovai dove lo avevo lasciato, intento a massaggiarsi un ginocchio. Gli porsi la bottiglia, e dopo aver preso un sorso lui fece per ridarmela, ma l’aspetto della sua casa mi aveva fatto passare la voglia di bere.

«Chi sei, e che cosa vuoi?» domandò. «Non ho soldi.»

«Voglio parlare di Karl Heinrich.»

«Fuck off» disse… Lo colpii senza troppa forza, ma lui cadde sul pavimento.

«Sono di pessimo umore, tenente colonnello. Vediamo di sbrigarci. Karl Heinrich?»

«Chi sei?» domandò arrampicandosi di nuovo sul divano. Era più resistente di quanto sembrasse. Quando allungò la mano afferrai la bottiglia.

«Chi sei?» ripeté.

«Peter Lime.»

Scoppiò a ridere. Poi allungò di nuovo la mano per prendere la bottiglia.

«Peter Lime. Perché non lo hai detto subito?»

L’ultima frase l’aveva pronunciata nella mia lingua madre.

«Come mai parli danese?»

«Danese, inglese, russo, tedesco. Era il mio lavoro. È stato il mio lavoro per quarant’anni. Come sta Oscar?»

Dal mio sguardo capì che quel tono non mi piaceva.

«Calmo, calmo, Peter!» disse. «Sono finito. Sono solo un vecchio. Mi arrendo. So che pratichi il karate. Beviamoci uno snaps, poi potremo parlare. So che un bicchierino ogni tanto fa piacere anche a te. So molte cose sul tuo conto. Sei il migliore amico di Karl Heinrich. Ti vuole bene come a un fratello.»

Cominciò di nuovo a ridere, e per farlo smettere gli tesi la bottiglia: prese un lungo sorso e cominciò a parlare come se avesse bisogno di confidarsi con qualcuno. Come se avesse sperato nella mia visita.

«Vedendomi adesso, non puoi capire. Il potere, l’influenza, la sensazione di essere qualcuno e di fare qualcosa. Cambiare le cose. Costruire uno stato socialista in terra tedesca. Fermare l’avanzata del capitalismo. Ma, soprattutto, il gioco: reclutare, comandare, gestire gli agenti. Non vedermi come sono oggi. Il mio è l’aspetto dei perdenti, e noi abbiamo perso la guerra. Senza spargimenti di sangue, ma l’abbiamo persa lo stesso. Io ho vissuto l’epoca della nostra grandezza. Avevamo duecentomila informatori, e nell’HVA eravamo oltre cinquemila, la crema del Ministero per la sicurezza, sotto il grande Wolf. Eravamo l’organizzazione spionistica più esperta del mondo. Sapevamo tutto quello che succedeva a Bonn, a Copenaghen, a Londra, in Vaticano. Il nostro successo fu incredibile, e sono orgoglioso di avervi contribuito.»

«Ma, come hai detto, avete perso…»

«Abbiamo perso, sì, ma se ti aspetti che mi inginocchi a chiedere perdono al mondo, scordatelo. Credevo nel socialismo, e ci credo ancora.»

Bevve di nuovo, e vedendo la luce che adesso brillava nei suoi occhi, mi preparai a rimetterlo in riga con la violenza. Ero arrabbiato e disperato, e mi accorsi che desideravo essere provocato per poter sfogare la mia aggressività.

«E Karl Heinrich? Ci credeva anche lui?»

«Quando suo padre tornò dalla prigionia sovietica, nel 1948, era diventato comunista. Karl nacque nel 1950, un anno dopo la fondazione della NATO e della Germania Occidentale. Karl Heinrich assimilò la fede rivoluzionaria insieme al latte materno. Solo uno stato tedesco socialista avrebbe potuto impedire il ritorno del fascismo. Reclutai Karl Heinrich quando aveva quattordici anni ed era già capo della Freie Deutsche Jugend nella sua scuola. Firmò il giuramento in cui prometteva di non tradire mai la patria né parlare del suo lavoro per la MfS. Ha sempre mantenuto la parola.»

«E poi?»

«Era in gamba, e siccome eravamo convinti della sua solidità ideologica, lo mandammo dall’altra parte con un’identità nuova. Avevamo già due agenti a Francoforte, una coppia che per età avrebbe potuto avere un figlio come Karl Heinrich. Così “nacque” Oscar. Trasferimmo la famiglia ad Amburgo, e il resto è storia, come si dice. È stato uno dei nostri uomini migliori. Io ho avuto l’onore di istruirlo. Divenne come un figlio per me. Non si lasciò mai corrompere. Tutto qui.»

«Non direi» dissi io. «Non direi proprio.»

«Was meinst du?»

«Quale era il compito di Oscar?» gli chiesi.

«Si occupava di questioni operative. Non ha importanza.»

Abbassò lo sguardo, che si fece assorto e torvo, allora feci un passo avanti e lo colpii due volte in viso. Non doveva dimenticare la sua paura, se volevo che accettasse di rivelare cose che aveva giurato di tenere per sé. Provò a difendersi, ma non era che un vecchio ubriaco. Gli sfilai la bottiglia di sotto il braccio.

«Ti ho chiesto che cosa faceva Oscar, Helmut» dissi.

Alzò le mani come per proteggersi da eventuali nuovi attacchi.

«Reclutava agenti, cercava di influire sull’opinione pubblica.»

«Che mi dici di una danese di nome Lola?»

Si fece pallidissimo: non era bravo a mentire, anche se aveva servito il regno della menzogna.

«Chi è?»

Si aspettava che lo colpissi di nuovo con la destra, invece gli assestai un sinistro sul naso facendolo ricadere all’indietro sul divano, un rivolo di sangue gli sgorgò da una narice.

«Ti avevo avvertito, Helmut. Sono di pessimo umore. Tu sei stato il suo ufficiale superiore fin dal 1964. Ti ho chiesto di una danese che si chiamava Lola.»

«Okay, Lime. Okay. Basta. Non picchiarmi più. Su, dammi quella bottiglia…»

«Lola» insistetti.

«Era uno dei suoi migliori agenti. A letto dava agli uomini quello che volevano, e li faceva parlare. Fu Karl Heinrich a reclutarla. Poi fu assegnata a me.»

«Perché?»

«Un agente non può dare istruzioni alla propria moglie. Non sarebbe appropriato.»

Restai di sasso. Helmut salutò il mio sgomento con una risata sprezzante che si trasformò in un accesso di tosse. Quando l’attacco passò, disse:

«Sì, hai sentito bene, Lime. Erano la coppia di agenti più in gamba che abbia mai visto. Ciascuno aveva le proprie doti, ed erano disposti a usare sia il cervello sia il corpo. Hanno servito lo stato in maniera esemplare».

«Quando divorziarono?»

«Divorzio? A quel che mi risulta sono ancora sposati, almeno per la legge della DDR. Avevano altre storie. E allora? Credi forse che abbiano mai dato peso agli stupidi tabù della morale borghese? Erano insieme anche quando erano lontani.»

«E adesso lei dov’è?»

«Non lo so. Sono in pensione anticipata. Non so niente. I am nothing.»

Lo guardai minaccioso.

«Non puoi permetterti questo appartamento. Oscar e forse anche Lola ti danno una mano, quindi te lo domando ancora: dov’è Lola?»

«A Mosca. Là abbiamo ancora conoscenze. Ma non ha importanza, Lime. Lavoravamo per una nazione riconosciuta, sovrana. Non abbiamo commesso nessun reato. I nostri nemici hanno provato a far condannare Misha non so quante volte. Non ci sono riusciti. E adesso, dammi quella bottiglia.» Scossi la testa.

«Oscar e Lola godevano del genere di copertura che consentiva loro di viaggiare per il mondo, incontrare gente, cambiare aria quando necessario. E se fossero stati l’anello di congiunzione fra la DDR e i terroristi della Rote Armee Fraktion, dell’ETA, dell’IRA e delle Brigate Rosse italiane? Se fossero due personaggi chiave del terrorismo rosso internazionale? Allora, Herr tenente colonnello, si tratterebbe sempre di un reato caduto in prescrizione e non punibile nella Repubblica Federale Tedesca? O a Roma, o a Londra? Cosa ne pensa il tenente colonnello di questa mia ipotesi?»

«Stai farneticando, Lime.»

«Ponendo che le cose stiano come dico io, si spiegano molte cose. Pur di proteggere la propria stupida vita ora che la guerra è finita, qualcuno è stato disposto a stroncare altre vite.»

Il vecchio fece per prendere la bottiglia. La vista della sua faccia impiastrata di moccio e di sangue e il puzzo di alcol che emanava dal suo corpo sfatto mi diedero la nausea. Mi resi conto che si era anche pisciato sotto. C’era un lago ai suoi piedi.

«Tutto pur di cancellare le tracce pericolose del passato, non è vero?» chiesi.

«Anche se avessi ragione, non riusciresti mai a provarlo. Tutti i documenti relativi alla nostra battaglia sono stati distrutti prima della fine. A Mosca gli archivi sono chiusi. I russi sono più intelligenti di noi. Non ci sono documenti. È tutto sparito. Bruciato o fatto a pezzetti. Ridotto a brandelli e chiuso dentro grossi sacchi. È come se non fosse mai successo. Come il Muro. Chissà, forse abbiamo solo sognato di averlo costruito? E adesso, per la miseria, dammi quella bottiglia.»

Quando allungò il braccio, gli afferrai la mano e gliela piegai all’indietro finché non stramazzò sul pavimento, poi gli vuotai la bottiglia addosso mentre urlava per il dolore causato da due o tre dita fratturate.

«Salute, tenente colonnello» dissi. «Quando chiami Madrid, saluta Oscar da parte mia. Digli che Leica sta arrivando per fargli una bella foto.»

22

L’indomani mattina, sull’aereo che mi riportava a Madrid, ebbi tutto il tempo di seguire il consiglio di Clara e riflettere sulla situazione. Ripensai agli anni trascorsi con Gloria e Oscar, un flusso di bei ricordi. Mi chiedevo se Gloria fosse al corrente del doppio gioco del marito. Era possibile tenere nascosta la propria doppia identità al coniuge per tanti anni? Oscar, come continuavo a chiamarlo dentro di me, probabilmente aveva usato l’infedeltà come paravento quando doveva lavorare per la STASI. E Lola? Evidentemente, quando i giornalisti avevano cominciato a farle domande sui suoi studi e sulle altre credenziali, si era sentita scottare il terreno sotto i piedi perché sapeva che il suo passato era un mito fabbricato in Normannenstrasse. Era tutto un dedalo di specchi. Non sapevo se ciò che vedevo fosse la verità, il suo riflesso distorto, oppure il riflesso di un riflesso.

Quando ero rientrato in albergo, Clara era in camera ad aspettarmi. Vedendo la mia espressione sconsolata aveva sgranato gli occhi ed era corsa ad abbracciarmi. Le avevo racconto tutto, lentamente e a bassa voce.

«Così hai picchiato un vecchio ubriacone?» aveva domandato incredula.

«Sì» le avevo risposto con un’improvvisa fitta di rimorso.

Si era stretta a me sussurrando:

«Povero, povero Peter. Povero Peter».

Io l’avevo scostata da me fissandola negli occhi.

«Tu sapevi di Oscar?»

«Lo sospettavo. Abbiamo pedinato Lola e anche lui in diverse occasioni. Ricevemmo una dritta dagli inglesi.»

«Perché non me lo hai detto?» Sentivo che sarebbe bastato un niente per volgere la mia rabbia e la mia aggressività contro di lei.

«Non avevo nulla di concreto in mano. E poi, mi avresti creduto?» Aveva un’espressione impaurita.

Le avrei creduto? Mi domandai sull’aereo. Probabilmente no. La notte precedente ci eravamo amati con foga, con disperazione. Quella mattina mi aveva accompagnato all’aeroporto e poi era partita in macchina alla volta di Copenaghen. Ci eravamo separati con un abbraccio.

«Telefonami.» Aveva detto. «E non fare sciocchezze.» In quel momento non me l’ero sentita di prometterle né l’una né l’altra cosa.

L’aereo si preparò all’atterraggio. Madrid era avvolta da una soffice oscurità. Presi un taxi e andai dritto a casa di Gloria e Oscar o Karl Heinrich. Stavo per scoprire quanto Gloria sapesse di tutta quella faccenda. Helmut Schadenfelt aveva sicuramente telefonato a Madrid non appena ero uscito dal suo fatiscente appartamento. Era probabile che Oscar fosse fuggito. Ma Gloria? Gloria aprì la porta, e come mi vide mi mollò un ceffone. Fece in tempo a colpirmi di nuovo prima che riuscissi ad afferrarle le braccia e a spingerla all’interno dell’appartamento.

La trassi a me. La tenni stretta fra le mie braccia finché non cessò di vomitare improperi al mio indirizzo. Sentii le sue spalle rilassarsi, poi sussultare al ritmo dei suoi singhiozzi. Quando si calmò la guidai in soggiorno, la feci sedere sul divano, le versai un whisky, ne presi uno anch’io e le accesi la sigaretta. Aveva un aspetto orribile. Ma il viso era disfatto e impiastrato di mascara.

«Perché accidenti non mi hai telefonato, Peter?» mi chiese.

«Volevo capire se in questa storia fossi coinvolta anche tu…»

«In quale storia, stronzo? Ieri squilla il telefono. È una voce maschile che dice qualcosa in tedesco. Gli passo Oscar, che subito diventa pallido come un cencio. Poi riattacca e prende il cappotto. È stravolto, come se avesse visto il diavolo in persona. Sulla porta si gira e dice: “Non ci rivedremo mai più. Puoi ringraziare Peter”. Io gli corro dietro, ma riesce a raggiungere l’ascensore, e quando arrivo giù in strada, è sparito. È successo altre volte che se ne andasse, ma questa volta è per davvero. E dire che stavamo attraversando un buon periodo. Ho telefonato a tutti. Perfino a qualcuna delle sue amichette. È sparito. Ha vuotato il conto comune e parte di quello d’esercizio della ditta. Dove cazzo è andato? E tu cosa c’entri in questo maledetto casino, Peter?»

Stava per scoppiare a piangere di nuovo, ma prese un sorso del drink.

«Credo che sia andato a Mosca» dissi.

«A Mosca. E perché? Che ci è andato a fare mio marito a Mosca?»

«Non… non è tuo marito. È una lunga storia, Gloria.»

Le misi davanti la foto di Oscar in divisa, lei la prese e la guardò a lungo, mentre fumava un’altra sigaretta sforzandosi di rimanere calma. Era una donna forte, combattiva. E aveva il diritto di sapere. Le raccontai la storia di Karl Heinrich e Lola, e lei mi stette ad ascoltare fino in fondo senza interrompermi né prorompere in esclamazioni drammatiche. Al suo posto probabilmente un’altra sarebbe crollata, ma non Gloria. La rivelazione dell’inconcepibile slealtà di Oscar suscitò in lei la stessa rabbia glaciale che provavo io. Scusandosi si alzò, uscì dalla stanza e tornò dopo qualche minuto con la faccia pulita, i capelli in ordine e indosso una camicetta stirata. Portò un bricco di caffè e due tazze, che posò sul tavolo. Tolse i bicchieri e il portacenere pieno. Era la Gloria che conoscevo: mentre rassettava, la sua mente sottile lavorava a pieno ritmo. Tornò a sedersi davanti a me e mi versò il caffè dicendo:

«Peter, cosa hai intenzione di fare?».

«Voglio rintracciare Oscar.»

«Dove?»

«A Mosca.»

«Ah!» disse lei. «Speri di trovarlo frugando tra oltre dieci milioni di persone!»

«Contatterò qualcuno che mi aiuterà a scovarlo» dissi.

«Okay. E poi?»

Presi un sorso di caffè. Era caldo e forte come lo sapeva fare Gloria.

Bella domanda, quella. Perché volevo trovare Oscar? Per sentire dalle sue labbra perché Amelia e Maria Luisa fossero morte? Decisi di essere sincero con Gloria.

«Ventiquattro ore fa volevo trovarlo per ammazzarlo. Preferibilmente due volte. Occhio per occhio, eccetera… Ma adesso, non ne sono sicuro. Forse voglio guardarlo negli occhi per l’ultima volta e costringerlo ad ammettere tutto. Oppure voglio dargli un pugno in faccia e poi andarmene.»

«Due» disse Gloria. «Dagli due pugni, uno per te e uno da parte mia. Ma devi lasciarlo vivere.»

«Cosa c’è, speri di riprendertelo per l’ennesima volta?» sbottai.

Gloria prese un sorso di caffè e incrociò le lunghe gambe sporgendosi in avanti.

«No, Peter. Non lo voglio più. Abbiamo avuto entrambi un sacco di amanti, Oscar, Karl Heinrich e io. Ma eravamo due vasi comunicanti. Non ci sono dubbi sul fatto che mi abbia amato, e io ho amato lui. Adesso è finita e io so cosa fare per fargliela pagare: quel vecchio comunista ipocrita si è abituato a vivere da ricco. Bene, per Oscar la bella vita finisce qui. È ora che il paladino del proletariato diventi proletario a sua volta.»

«Che vuoi fare?»

«Chiederò l’annullamento del matrimonio, così perderà tutti i beni in comune. Metterò in piedi una causa per truffa. Bloccherò le carte di credito, i conti correnti, i diritti di trasferimento e via elencando. Comunicherò a tutti i nostri clienti e clienti dei clienti che Oscar è insolvente e che la sua firma non vale cento pesetas. Sono un avvocato, ricordi? So come muovermi affinché l’uomo d’affari spagnolo di oggi torni a essere il tedesco orientale povero in canna di ieri. Peter, se lo uccidi mandi a monte la mia vendetta, non potrei mai perdonartelo.»

Non riuscii a trattenere un sorriso.

«Va bene Gloria, hai vinto: te lo prometto. Sei una ragazza in gamba.»

Probabilmente appena me ne fossi andato sarebbe scoppiata in un pianto disperato, ma era abituata a lottare e nessun uomo l’avrebbe vista in ginocchio, men che meno Oscar, colui che aveva amato per tutti quegli anni.

«Eh sì. Quando avrò superato questa storia, mi toccherà rispolverare qualche vecchio amante. Non riuscirà a farmi abbassare la testa. Lo conosco. Fra un mese gli mancherò da morire, e allora darà un calcio nel culo all’oca che sta con lui. Nessuno può fingere di amare oltre un certo limite. Ho ragione o no, Pedro?»

«Hai ragione. Te la senti di stare da sola? Vuoi che rimanga qui?» le domandai.

Finì il caffè e posò la tazza con forza eccessiva.

«O te ne vai adesso, Pedro, oppure vieni a letto con me».

Mi alzai e la raggiunsi, dandole un bacio fraterno sulla bocca, ma mi ritrassi quando la sua lingua avida cercò di insinuarsi nella mia bocca.

Gloria sorrise e mi diede una spintarella.

«È a causa della danese che hai deciso di fare il difficile?»

«Può darsi.»

«Se dovessi rincontrare l’amore, Pedro, coglilo. L’amore è l’unica cosa pulita di questo mondo. E adesso vattene, e telefonami tutti i giorni.»

«Gloria, lo sai che mi piaci, ma io…»

«Su, fila, e telefonami.»

«Te la caverai?» chiesi.

«Mi prenderò una sbronza, oppure mi metterò a telefonare, non sono fatti tuoi. E adesso, da bravo, vattene.»

Presi un taxi fino a casa e telefonai a Clara, ma non era ancora tornata, oppure aveva staccato il telefono. Non c’era nemmeno una segreteria telefonica a cui affidare un messaggio. Scolai buona parte di una bottiglia di whisky, ma quando il viso rosso e disperato del tenente colonnello si riaffacciò alla mia mente, smisi di bere. Barcollando raggiunsi la camera da letto mentre brani di una delle mie poesie danesi preferite mi mulinava nel cervello. Erano versi della prima raccolta di Tom Kristensen, che in gioventù mi aveva conquistato fin dal titolo, Sogni corsari. Le parole «Il mondo è ripiombato nel caos» mi ronzavano nelle orecchie, ma non riuscivo a ricordare il verso seguente, e il bisogno di ritrovarlo divenne ossessivo. Non avevo la più pallida idea del perché fosse proprio quel verso a tormentarmi. E tra i fumi dell’alcol non riuscivo a ricordare in che punto della vasta biblioteca di Don Alfonso avessi collocato le mie edizioni di poeti danesi.

Derek da Londra mi aiutò con il passo successivo. Sapevo che aveva lavorato molto a Mosca e quando gli telefonai dicendogli che avevo bisogno di un contatto un po’ particolare in città, fu subito molto disponibile. Mi domandò di Oscar e Gloria, e gli dissi che stavano bene. Anch’io stavo bene, lui stava bene, tutto era OK. Dopo i convenevoli, Derek chiese:

«Di che genere di contatto hai bisogno, esattamente?».

«Di qualcuno che possa trovare una certa persona per me, indicarmela, e poi tenersi alla larga.»

«Allora hai deciso di ributtarti nella mischia! Complimenti, Lime!» disse.

«Proprio così.»

«Non dovrei chiederti chi è il bersaglio, ma te lo chiedo lo stesso.»

«Si tratta di Cristo, è stato avvistato a Mosca, non lo sapevi?» scherzai.

«Stavo solo pensando che magari potessi aver bisogno di un socio.»

«Derek, lo sai che lavoro sempre da solo» ribattei.

«Ricevuto. Bene, un paio di volte mi sono servito di un tizio. È sveglio, efficiente, un po’ equivoco, ha le mani in pasta, sai cosa intendo. Naturalmente costa…»

«I soldi non sono un problema» dissi.

«Ti chiederà circa mille dollari al giorno, più il premio.»

«Va bene. Che tipo è?»

«È un ex del KGB, o giù di lì. Mosca ne è piena. Sono quasi tutti vermi senza sostanza, ma il nostro è in gamba. Forse è un mafioso, forse è solo un uomo d’affari. Nella Mosca di oggi i confini sono un po’ confusi. È titolare di quella che chiama un’agenzia di consulenza per la sicurezza. Che altro dire? Ha sempre mantenuto la parola.»

«Dammi il suo numero» dissi.

«C’è un dettaglio» aggiunse Derek. «È molto pignolo e selettivo nella scelta dei clienti, per ragioni di sicurezza, naturalmente. Perciò dovrò telefonargli io; lui ti chiamerà solo dopo aver preso informazioni sul tuo conto. Come immaginerai non è sempre facilmente reperibile.»

«Okay, Derek. Chiamalo pure. Digli che si tratta di una cosa urgente, un affare che va concluso subito. Ti devo un favore.»

Derek rise:

«Scordatelo, Lime. Ho un sacco di debiti arretrati con te. Non mi devi un cazzo».

«Di’ al tuo amico che è una cosa urgente» ripetei.

«Lo farò. Salutami Gloria e Oscar e ringraziali ancora da parte mia per la bella serata che abbiamo trascorso insieme a Londra.»

«Senz’altro» dissi.

Trascorsi alcuni giorni di attesa gironzolando per casa e sforzandomi di non bere.

Mi dedicai a sistemare i miei libri in ordine alfabetico per autore e a mangiare le pietanze di Doña Carmen. Dopo la morte di Don Alfonso, aveva continuato a venire e io non me la sentivo di licenziarla. Non provai a richiamare Clara, in compenso parlavo con Gloria un paio di volte al giorno. C’era una vulnerabilità segreta nella sua voce, ma il tono era sbrigativo e professionale quando mi aggiornava sui progressi della sua vendetta. Eravamo un duo molto triste.

Finalmente una mattina telefonò Sergej Sjuganov. Dal suo inglese si sarebbe detto che avesse frequentato i migliori collegi d’Inghilterra, ma più probabilmente il suo impeccabile accento oxfordiano era il frutto della vecchia scuola di lingue per diplomatici di Mosca, magari di un periodo trascorso a lavorare all’ambasciata di Londra.

«Mr. Lime, mi dicono che lei desidera concludere un affare con me» disse.

«Vorrei che lei trovasse qualcuno. Si tratta di…»

Mi interruppe.

«Mi scusi, Mr. Lime. Non al telefono.»

«Incontriamoci, allora.»

«All’aeroporto di Francoforte, la sala vip della zona centrale, vicino al duty-free, domani pomeriggio. Ci sono due voli che atterrano quasi alla stessa ora da Mosca e da Madrid.»

«D’accordo. Come la riconoscerò?»

«La troverò io. Alto, giubbotto di pelle, codino, jeans. Avrà con sé una copia di “El Pais”.»

«Okay» dissi.

«Porti una foto del bersaglio. A domani, Mr. Lime» e riattaccò.

Il pomeriggio successivo, all’aeroporto di Francoforte, comprai una Coca e mi sedetti a un tavolo ad aspettare con «El Pais» davanti. Mezz’ora dopo un tipo sportivo e tarchiato, suppergiù della mia età, si sedette di fronte a me e mi tese la mano.

«Sergej Sjuganov» disse. Indossava un impeccabile abito scuro, una camicia bianchissima e una bella cravatta tenuta con fermacravatte d’oro. Al polso portava un Rolex e profumava di un costoso dopobarba. Il suo viso era solcato da piccole, sottili rughe, abbronzato, come se si concedesse vacanze di lusso o frequentasse abitualmente un solarium. I suoi occhi erano di un azzurro intenso. La sua stretta di mano fu forte e secca.

«Caffè, Mr. Sjuganov?»

«Sì, grazie. Abbiamo meno di mezz’ora, Mr. Lime. Torno a Mosca con il volo Lufthansa.»

Andai al bar e tornai con una tazza di caffè per lui e un’altra Coca per me. Gli avevo portato un paio di foto recenti di Oscar. Le avevo scattate io stesso. Ce n’era una a figura intera, un ritratto di fronte e uno in cui si vedeva più di profilo. Diedi le foto a Sjuganov, che le esaminò.

«È molto alto» disse. «Sui cinquanta. Elegante. Sicuro di sé. Ricco. Si tiene in forma, ma ha una tendenza alla pancetta. Dà nell’occhio. Mi dia qualche informazione su di lui: lingue, nazionalità, background.»

Gli dissi che Oscar era cittadino tedesco, oltre al tedesco parlava l’inglese e lo spagnolo, forse un po’ di russo. Era abituato a viaggiare. Era stato addestrato dalla STASI e aveva una storia un po’ torbida, che gli riassunsi…

Notai un guizzo nei suoi freddi occhi azzurri.

«Ah! Naturalmente questo complica un po’ le cose.»

«In che senso?» domandai.

«È più difficile trovare qualcuno abituato a confondere e a cancellare le proprie tracce. Le verrà a costare qualcosa in più, Mr. Lime. Che cosa, precisamente, vuole che faccia con quest’uomo?»

«Che lo trovi. Credo che sia a Mosca. Deve essere arrivato poco più di una settimana fa. Questo è tutto quello che so» dissi.

«Io costo mille dollari al giorno. Lei trasferirà diecimila dollari come deposito su un conto in Svizzera. Tutte le spese dell’operazione sono a carico suo. Più un premio di diecimila dollari.»

«E se non dovesse trovarlo?»

Sjuganov sorrise di nuovo:

«Un tedesco alto due metri, a Mosca da poco più di una settimana. Lo troveremo. Abbiamo le nostre conoscenze. È solo una questione di soldi e non ci vorrà più di una settimana. Se il bersaglio ha lasciato Mosca, sarà un po’ più complicato, ma non impossibile. Se non dovessimo trovarlo, lei pagherà solo le spese effettive, ma questa è un’ipotesi assurda. Lo troveremo, vivo o morto».

«Bene» dissi.

Sjuganov si sporse verso di me.

«E quando lo avremo trovato? Cosa dobbiamo fare?»

«Avrò bisogno di un interprete. Non conosco il russo.»

«Di solito c’è un motivo per cui una persona si nasconde e un’altra vuole trovarla. Quindi, che cosa vuole che facciamo una volta trovato il bersaglio? Un intervento diretto richiede una trattativa a parte. Se capisce quello che voglio dire.»

Avevo capito.

«No» dissi. «Lei dovrà solo portarmi da lui, al resto penserò io.»

«E se il bersaglio è armato? Oppure potrebbe essere protetto, avere dei complici.»

Riflettei un momento, quindi dissi:

«Se avrò bisogno di qualcuno che mi protegga, vorrei poter contare sulla vostra assistenza.»

«Nessun problema» disse alzandosi e tendendomi la mano. «So che lei paga i suoi debiti, perciò…»

«Perciò affare fatto» conclusi.

«È stato un piacere incontrarla Mr. Lime, e buon ritorno a Madrid. Ci vediamo a Mosca» disse e sparì tra la folla. Un elegante uomo d’affari in mezzo a tanti altri.

23

La mia ultima visita in Russia risaliva al tempo in cui il paese era ancora una delle quindici repubbliche socialiste della defunta Unione Sovietica. Come la DDR, l’Unione Sovietica era stata cancellata dalle carte geografiche non con la violenza e il sangue, ma con una firma che tre presidenti mezzi ubriachi in un capanno da caccia a Minsk avevano apposto su un foglio.

Vista dal cielo mentre l’aereo penetrava le fitte nuvole e iniziava l’atterraggio nell’aeroporto di Sjermentova, la Russia era identica a come la ricordavo: cosparsa di neve da cui spuntavano piccoli villaggi, il fumo che saliva dai comignoli l’unico segno di vita percepibile. Un paesaggio piatto ed eterno, interrotto solo dalle sagome dei laghi e dai fiumi ghiacciati.

Già all’aeroporto, il nuovo si mescolava al vecchio. Lunghe code si snodavano al controllo passaporto e bagagli, ma il terminal era pieno di pubblicità e di promesse di favolose vincite al casinò. I poster pubblicitari reclamizzavano marche di computer e telefoni cellulari. Ovunque c’erano montagne di bagagli. La gracchiante voce femminile diffusa dagli altoparlanti pareva la stessa di sempre. I russi che tornavano a casa, mescolati agli uomini d’affari e ai turisti, erano vestiti meglio di quanto ricordassi.

Sergej Sjuganov aveva mantenuto la parola chiamandomi dopo dieci giorni. Il bersaglio era stato individuato, c’era una stanza prenotata a mio nome all’Hotel Intourist, sulla Piazza Rossa. L’albergo era di categoria inferiore rispetto a quelli in cui alloggiavo normalmente, ma era più anonimo del restaurato Metropol o del National. Sjuganov sperava nella mia comprensione. Mi aveva dato un numero di fax pregandomi di comunicare la data e l’ora esatta del mio arrivo. Mi sarebbero venuti a prendere all’aeroporto.

Prima di partire avevo telefonato a Gloria per informarla. Aveva dichiarato di voler venire anche lei, ma le avevo detto che era meglio di no, e si era lasciata convincere senza tante storie. Era comprensibile che in realtà non avesse voglia di ritrovarsi faccia a faccia con Oscar. Preferiva portare a termine la separazione definitiva da lui barricata dietro articoli di legge e fredde citazioni in giudizio. La causa procedeva secondo le previsioni, mi aveva detto. I conti erano stati chiusi. L’agenzia andava avanti. Mi aveva chiesto di rientrare come socio, e questa volta non avevo risposto subito di no. Ma in cuor mio sapevo di non volerlo fare. Mi era divenuto chiaro a bordo dell’aereo, mentre pensavo a Clara e alla possibilità di iniziare una nuova vita insieme a lei.

Uscii nella sala arrivi, e tra la folla scorsi un giovanotto di ventotto, ventinove anni, con indosso un giubbotto di pelle. Reggeva un cartello con il mio nome. Era ben rasato e aveva l’aria di passare metà della sua vita in palestra.

Mi salutò, prese la mia borsa e con la testa mi fece segno di seguirlo. La sua Mercedes nera era parcheggiata davanti all’ingresso. Il freddo mi colpì come una martellata. Indossavo dei jeans e il mio giubbotto di pelle sopra a un maglione pesante. Era un freddo secco, l’aria sapeva di benzina. Le macchine sostavano in folle e i gas di scarico turbinavano nel vento leggero. Il giovanotto mi tenne aperto lo sportello e presi posto sul sedile posteriore, al caldo dell’abitacolo. C’era anche un autista; quello che mi aveva accolto si sedette accanto a lui, e l’auto si staccò quasi senza far rumore dal bordo del marciapiede. Il palestrato digitò un numero sul. cellulare e disse un’unica frase in russo. Sjuganov si faceva pagare profumatamente, ma il servizio era inappuntabile.

Ci dirigemmo a velocità sostenuta verso la città. Il fondo stradale sconnesso faceva vibrare la macchina. Il traffico restò scorrevole finché non arrivammo in prossimità del centro, dove ci ritrovammo ad avanzare a passo d’uomo. Diverse strade avevano cambiato nome. Molti negozi nuovi e illuminati esponevano decorazioni e alberi di Natale finti. La città era un grande compromesso fra la vecchia pesantezza sovietica e le seduzioni della modernità occidentale. La neve era ammucchiata in cumuli lungo il marciapiede, ma la carreggiata era sgombra. Nella luce dei fari dell’automobile turbinava qualche raro fiocco di neve. Finalmente davanti a noi apparve la sagoma del Cremlino, e poco dopo arrivammo all’Hotel Intourist, un grosso grattacielo quadrato di cemento ai margini della Piazza della Rivoluzione. Un tempo quella zona era aperta al traffico, ma adesso sembrava un parco pullulante di pedoni.

«Hanno fatto un centro commerciale, Mr. Lime. Otto piani sotto terra» spiegò il giovanotto dell’areoporto in un inglese dall’accento marcato. «Mi chiamo Igor» aggiunse.

«Piacere, Igor» dissi.

Scendemmo ed entrammo nella lobby brulicante di persone.

«I documenti, prego» disse Igor. Gli porsi il passaporto e il visto. Si avvicinò alla reception e si rivolse a due impiegate immerse in una fitta conversazione. Quelle lo ignorarono, e lui parlò di nuovo in tono più duro. Subito una delle due allungò la mano per prendere i miei documenti, mentre l’altra consegnava la chiave elettronica a Igor con un sorriso di scusa.

Salimmo al diciannovesimo piano e percorremmo un lungo corridoio, Igor bussò a una porta, e si fece da parte per cedermi il passo. Era una bella suite con tanto di tavolo per riunioni. L’arredamento era nuovo, nei toni rossi e marroni già preferiti dall’Unione Sovietica. C’erano un minibar, un televisore e un cartello che informava che l’albergo era dotato di telefono satellitare. E c’era Sergej Sjuganov.

Indossava il suo abito impeccabile. Mi tese la mano.

«Benvenuto a Mosca, Mr. Lime. Si serva da bere e poi ci mettiamo al lavoro. Sicuramente lei è un uomo impegnato quanto me.»

«Indubbiamente» risposi. Feci per aprire il minibar, ma Sjuganov scosse la testa e mi indicò la bottiglia di vodka posata su un tavolino. Riempì due bicchierini e mi tese il mio.

«Alla riuscita dell’operazione» disse e bevve tutto d’un fiato; io lo imitai.

Igor, probabilmente uno dei gorilla di Sjuganov, era seduto su una sedia accanto alla porta.

«Guardi qui» disse Sjuganov. Sul tavolo ovale al centro della stanza erano posate alcune foto e una cartina di Mosca e dintorni.

Le foto ritraevano Oscar insieme a una donna che riconobbi essere Lola, anche se si era tinta i capelli di nero. C’erano foto di Oscar da solo, di Lola da sola, di Oscar e Lola insieme. Dalle stampe sgranate capii che le immagini erano state scattate con il teleobbiettivo, alcune con un mille, altre con un quattrocento. L’ambientazione era un mercato dove piccole donne grassocce avvolte in cappotti informi e con i fazzoletti in testa sedevano tra pile di frutta e verdura. Un’altra serie di foto li ritraeva davanti a una grande casa rossa immersa in un bosco di betulle, dove una spessa coltre di neve ammantava i rami e il terreno. C’era un aggeggio nero montato sul muro che circondava tutta la casa: probabilmente una telecamera. Con un brivido, in una delle foto riconobbi il grosso irlandese con il manganello della casa di San Sebastián. In un’altra immagine Oscar e Lola sembravano immersi in un’animata discussione. L’irlandese li guardava, sotto il suo cappotto sbottonato si intravedeva una fondina da spalla. Lola era uguale a come l’avevo vista nelle immagini televisive a Copenaghen, mentre Oscar aveva un’aria devastata, furiosa.

Sjuganov mi lasciò esaminare le foto con tutta calma. Oscar era fuggito a Mosca perché c’era Lola, e qui sperava di poter stare al sicuro finché si fossero calmate le acque. La Russia era un paese in cui con i soldi si potevano comprare sia l’influenza, sia la sicurezza. Ma io lo avevo trovato. E adesso, che dovevo fare? Il fatto che Lola fosse lì non mi sorprendeva, né faceva alcuna differenza, ma quale sarebbe stata la mia prossima mossa?

«È pronto ad ascoltare quello che abbiamo scoperto?» mi domandò Sjuganov.

«Credo di sì.»

«Okay, Mr. Lime. Il bersaglio abita in una villa di recente costruzione nei dintorni di Mosca. In un vecchio quartiere di dacie. Una dacia, se non lo sapesse, è una casa per le vacanze russa, ma oggi può significare una grande villa in muratura fatta costruire fuori città da persone molto ricche. Un tempo l’élite del partito abitava in quella zona, ma è stata privatizzata e adesso ospita le case di gente, come dire, intraprendente che desidera pace, tranquillità e la massima sicurezza. Mi segue?»

«La seguo.»

«Il bersaglio è nei guai. Negli ultimi due giorni ha provato invano a cambiare un assegno, a far addebitare le sue spese sulla Visa, l’Eurocard e l’American Express. Le carte risultano bloccate e questo manda in bestia il nostro uomo, che comunque, per il momento, è in possesso di contanti. Talvolta esce, ma per lo più resta a casa. Beve troppo e litiga molto con la donna. Dormono insieme, anche se hanno ognuno la propria camera da letto. Almeno, così crediamo.»

«Sa chi è la donna?» domandai.

Sjuganov mise da parte le foto e disse:

«Non faceva parte del nostro compito controllare la sua identità, ma sappiamo due o tre cose di lei».

«Sarebbe a dire?»

«È ricca. La casa è sua e so da chi l’ha acquistata. Ha conoscenze al Ministero della cultura. Ha ottenuto la licenza di mercante d’arte a tempo di record. È autorizzata a comprare e a vendere arte russa e a esportarla. Anche opere con più di cinquant’anni. Una licenza del genere deve esserle costata parecchi soldi, ma non avrà difficoltà a farla fruttare. Il mio paese svende i propri beni. In tutti i modi. E un russo può disapprovare questo fatto, oppure fare in modo di partecipare alla spartizione della torta. In fondo non cambia niente. Una volta in questa città parlava Lenin. Oggi è il denaro a parlare.»

«Come si fa chiamare la donna?» chiesi.

«Svetlana Petrovna. È brava. È già riuscita a introdursi nelle cerchie vicine al Presidente, e grazie a questo fatto è considerata intoccabile. Ho l’impressione che quella donna riuscirebbe a vendere sabbia nel Sahara.»

«O neve a Mosca» aggiunsi.

Guardai le foto di Lola, che anche con i capelli neri era bellissima. Nell’immagine davanti alla villa il suo sguardo per Oscar era pieno di disprezzo. Evidentemente i tentacoli di Gloria erano arrivati fin laggiù. Se Oscar non dipendeva economicamente da Lola, poco ci mancava. Chissà quale impatto quella realtà avrebbe avuto sulla loro atipica relazione? La parte del più debole, del bambino costretto a chiedere la paghetta non si addiceva affatto a Oscar.

«La casa sembra nuova di zecca, Mr. Sjuganov. Chi era il precedente proprietario?»

«A Mosca tutte le abitazioni come quella sono nuove, Mr. Lime» rispose Sjuganov contemplando la foto a colori. «Fu fatta costruire dal direttore di una banca privata. A quanto pare era un mezzo mafioso. Fu ucciso a colpi di arma da fuoco davanti alla sede centrale della sua banca. Allora la villa passò nelle mani di un ragazzo di ventidue anni, che ci andò ad abitare con le sue due mogli e quattordici guardie del corpo. Il ragazzo era un famoso produttore della neonata televisione privata. Ma le due mogli non riuscivano a mettersi d’accordo su quale fosse la sua preferita, così lo fecero ubriacare, fecero in modo che si imbottisse di cocaina e poi lo affogarono nella piscina che lui stesso aveva fatto costruire.»

«Che storia agghiacciante» commentai.

«Questa è la Russia» disse Sjuganov e continuò: «Il proprietario prima della Petrovna era un noto mafioso che controllava i mercati della verdura di Mosca. Aveva problemi con i suoi soci d’affari. Un bel giorno sparì, e da allora nessuno ha più sue notizie. Madame Petrovna ha acquistato la villa da un prestanome che conosco. L’ha avuta per pochi soldi, anche perché agli altri aspiranti fu fatto capire che dovevano tenersi alla larga».

«Chi era il prestanome?»

Sjuganov versò un’altra vodka per sé e una per me, quindi disse:

«Non sono tenuto a darle questa informazione, ma lo farò ugualmente. Il prestanome era un vecchio collega dei tempi del KGB, Victor Ljubimov. Visto che la Petrovna in passato ha lavorato per un’organizzazione analoga, è possibile che con la faccenda della casa Victor le abbia restituito un antico favore. Nonostante tutto, negli ex compagni sopravvive il senso dell’onore. In alcuni rapporti i soldi passano in secondo piano».

«Siamo sicuri che l’incarico che le ho affidato non interferisca con questo senso dell’onore, con qualche debito in sospeso…»

«Di me si può fidare, Lime. Lei è mio cliente, e io non ho nulla a che fare con quella donna. Non c’entra niente con il mio incarico né con la mia vita, presente o passata.»

«Va bene, Sjuganov. Allora mi dica, dove posso trovare la coppia felice?»

Sjuganov si concesse un sorriso e aprì la cartina stendendola sul tavolo. Mi mostrò dov’era l’Hotel Intourist, ai margini della Piazza Rossa e, con il dito, mi guidò in direzione della periferia occidentale lungo un grande viale chiamato Kutusovskij, poi verso destra, fino a una zona che sembrava un grande bosco punteggiato di laghi, dove tutta una serie di stradine secondarie sfociava sulla stretta strada principale. Sulla cartina erano riportati numerosi piccoli villaggi. Mi indicò quello più vicino alla casa di Lola e Oscar, a una quarantina di chilometri da Mosca.

«Voglio andare laggiù domani» dissi.

Sjuganov ripiegò la cartina. La sua guardia del corpo era sempre seduta presso la porta, con le mani sulle ginocchia, l’espressione a un tempo vigile e rilassata. Sjuganov si schiarì la gola e disse:

«Come vuole, Mr. Lime. Ma sappia che il bersaglio è protetto. Nella villa ci sono due irlandesi, forse ex membri dell’IRA. Lola ha due guardie del corpo che alloggiano nella vecchia dacia di legno della proprietà. C’è un sistema di telecamere. Come pensa di introdursi nella casa?».

«Pensavo di suonare il campanello» risposi.

La mia risposta lo sorprese. Si aggiustò la cravatta.

«Non glielo consiglierei» disse.

Sjuganov produsse una serie di foto a colori. Anche quelle erano state scattate con un teleobbiettivo, ma si vedevano chiaramente sia Oscar sia Lola. In una delle foto i due sembravano arrabbiati. In un’altra camminavano fianco a fianco. Lola era elegante nel mantello di pelliccia che le arrivava alla caviglia e un grazioso berretto di pelle. Oscar era avvolto in un lungo e pesante cappotto e stringeva in mano qualcosa di simile a una mazza da golf. O una lunga spranga.

«Crede di poter giocare a golf sulla neve?» dissi.

Sjuganov rise:

«La porta sempre con sé. Secondo me è un’arma. Infatti, guardi qui.»

Mi mise davanti un’altra foto. Questa volta c’era anche il grosso irlandese. Seguiva i due a qualche metro di distanza, con le mani sprofondate nelle tasche di uno spesso cappotto di pelle. In testa portava uno zucchetto di lana. Aveva l’aria infreddolita e annoiata.

«Il bersaglio esce raramente, e mai da solo. Quindi, Mr. Lime, devo chiederle ancora una volta. Che cosa vuole che faccia? Che cosa vuole fare? Il mio compito, tutto sommato, è concluso.»

«Passeggiano tutti i giorni?» domandai.

«Di solito fanno una passeggiata di mattina. Il giorno della recente bufera di neve l’uomo è rimasto in casa.»

«Come sono le previsioni del tempo per domani?» domandai.

«Gelo e sole, neve nel pomeriggio. Una giornata invernale come piace a noi russi. La mattina ideale per una passeggiata nel bosco» rispose Sjuganov e mi guardò come a dire che adesso la palla si trovava nella mia metà campo.

Riflettei un po’ e infine dissi:

«Andiamoci domani. Ho bisogno del vostro aiuto per tenere uno o entrambi i gorilla lontani, mentre io parlo con il mio ex amico e ascolto quel che ha da dire.»

«Le serve un’arma?» chiese Sjuganov.

«No. Non sarà necessario. Niente sparatorie. Solo una chiacchierata amichevole.»

«È proprio questo che mi fa paura» disse Sjuganov.

«Domani» dissi io.

«Per noi va bene. È il cliente che decide. Questa è la legge fondamentale dell’economia di mercato. Si faccia trovare pronto qui in albergo domani mattina alle otto. Bisognerà che le procuriamo degli abiti più adatti, però» disse Sjuganov. «Credo di avere la sua stessa taglia. Che numero di scarpe porta?»

«Quarantaquattro, quarantaquattro e mezzo» risposi.

Con fare formale mi tese la mano; gliela strinsi:

«Ci sarà anche lei?» gli domandai.

«Verrò insieme a Igor, mio amico e collega dei vecchi tempi.»

«Quali vecchi tempi?»

«I tempi della falce e martello. Igor era nella mia ultima squadra, specializzata in raccolta di informazioni, sabotaggio, infiltrazione e gestione dei nemici dello stato. È uno degli elementi migliori che abbia mai avuto. Poi è finito tutto e ci siamo messi in proprio. Anche nella nuova Russia non corro certo il rischio di rimanere disoccupato.» Fece un cenno in direzione dell’uomo silenzioso seduto accanto alla porta e i due sparirono, lasciandomi solo nella stanza con la vista sui tetti ammantati di neve.

Provavo uno strano senso di vuoto. Avrei dovuto sentirmi spaventato, teso, ma per il momento non ero né l’una né l’altra cosa. Poi, guardando ancora le foto di Oscar e Lola, sentii la rabbia che tornava a insinuarsi nel mio animo. Il fatto che Oscar avesse avuto una doppia vita per tanti anni, che avesse servito una dittatura, mi sgomentava. Ma quei fatti appartenevano al passato, non riguardavano specificamente lui e me. Non stava a me condannarlo oppure perdonarlo. L’assassinio di Amelia e Maria Luisa, invece, mi riguardava direttamente. E sia che avesse messo la bomba con le proprie mani, sia che avesse delegato quel compito ad altri, consideravo Oscar responsabile.

Ero a Mosca perché volevo sapere, volevo sentirmi dire, che le due persone che più avevo amato in vita mia erano morte a causa sua. Vittime del suo egoismo e della sua sete di potere, del suo disperato tentativo di seppellire il passato e far finta che non fosse mai esistito. Aveva fatto l’impossibile per nascondere il suo segreto, finché la mia foto era saltata fuori, una dimostrazione del fatto che non ci sarebbe mai riuscito. Perché c’è sempre qualcuno che ricorda, c’è sempre un’altra foto o una didascalia che qualcuno ha tralasciato di cancellare.

24

L’indomani, alle otto meno qualche minuto, Sjuganov bussò alla mia porta. Avevo dormito male. La stanza era troppo calda, ma a quanto sembrava, abbassare il riscaldamento era impossibile. Più volte nella notte, ero stato tentato di scendere in uno dei numerosi bar o nel casinò dell’albergo. Ma non lo avevo fatto. Avevo bevuto quasi un’intera bottiglia di vino e avevo guardato la CNN alla televisione. Avevo sollevato il ricevitore del telefono americano AT&T per chiamare Gloria e Clara, ma poi avevo cambiato idea. Avevo contemplato i tetti e i pennacchi di fumo fuori della finestra. A giorno fatto mi ero finalmente addormentato.

Sjuganov, vestito di nero da capo a piedi, entrò a passi energici nella stanza. Aveva con sé una borsa sportiva contenente un paio di pantaloni pesanti, una canottiera di lana, un maglione, calze, giacca a vento, scarponi, guanti e uno zuccotto da sci azzurro.

«Fa freddo oggi» disse. «C’è vento e la neve arriverà prima del previsto. Indossi questi, poi ci muoveremo. Ho già mandato due uomini sul campo. Ci avviseranno se il bersaglio uscirà. Se non lo farà, dovremo rimandare l’operazione a domani.»

I vestiti e gli scarponi mi stavano a pennello. Quando uscimmo dall’albergo non mi sembrò che facesse tanto freddo. Nell’aria c’era umidità e una sensazione di neve. Montammo sul sedile posteriore della Mercedes nera e Sjuganov mi porse un grosso bicchiere di plastica pieno di caffè e un panino fresco al formaggio. Igor occupava il sedile anteriore accanto all’autista, che si sarebbe detto un suo clone: aveva gli stessi capelli a spazzola, lo stesso giubbotto di pelle e la stessa espressione vigile stampata in volto.

Il traffico era intenso e i vigili imbacuccati nei cappotti neri onnipresenti. Quasi informi nelle divise spesse, stavano piantati in mezzo alle corsie agitando le palette. Quando uno di loro ci fece cenno di accostare, vidi l’autista tendergli un documento e una banconota. Quello gli restituì il documento senza guardarlo e ripartimmo.

Mentre bevevo il caffè dolce e caldo, immaginai che quella non fosse che una delle mie solite spedizioni: avevo ingaggiato qualcuno perché mi aiutasse a scovare una celebrità, e adesso settimane di ricerche stavano finalmente per dare i loro frutti. Presto mi sarei trovato di fronte alla mia preda ignara. Ma la realtà era diversa, e questa volta non avevo portato né la Leica né la Nikon.

Dopo circa un quarto d’ora, l’automobile superò un grande arco di trionfo, e subito dopo, sulla sinistra, scorsi un altro monumento in lontananza.

Sjuganov parlò.

«Ha visto? Celebrano due vittorie fondamentali per questo paese. L’arco è per il 1818, quando sconfiggemmo Napoleone. Il secondo monumento commemora la vittoria sui tedeschi. Siamo un paese costruito con il sangue e con gli scheletri. Non abbiamo molto di cui andare fieri. Per questo coltiviamo il ricordo della guerra e delle nostre vittorie in guerra. Soprattutto la nostra vittoria contro Hitler ci unisce. È l’unica cosa pulita che ci rimane. L’unica cosa che ancora sentiamo si avere in comune, Mr. Lime. La Russia è sinonimo di sofferenza. In questo maledetto paese non c’è una sola famiglia che non abbia una storia di guerra e di morte da raccontare».

Svoltammo a destra e costeggiammo un gruppo di caseggiati azzurri, poi la strada si restrinse e cominciammo ad avanzare tra le betulle. Per non pensare a Oscar e al nostro imminente incontro, domandai:

«Sjuganov, qual è la sua opinione circa il cambiamento? Il crollo del comunismo, la nuova Russia».

«Siamo a un guado, Mr. Lime. Viviamo in una società capitalistica che è in mano ai ladri, e la Duma e il Cremlino pullulano di delinquenti. Ma è un momento di passaggio. Io ho servito il socialismo, non con grande convinzione, ma perché ero un patriota russo. E lo sono ancora. Sono per la democrazia e per l’economia di mercato. Per quest’ultima perché mi ha arricchito. Per la prima perché rappresenta il futuro. E quando uno ha dei figli deve pensare al futuro.»

«Lei ha figli?»

«Un ragazzo di diciassette anni e una ragazza di quattordici. Il maschio è in collegio in Inghilterra; La femmina frequenta una scuola privata inglese qui a Mosca. Sono loro la nuova Russia. Dimenticheranno l’eredità degli scheletri. Sono convinto che siamo sulla strada giusta, ma spetterà alle nuove generazioni liberare la Russia dalle tenebre.»

«Che cosa dicono i suoi figli del lavoro del padre?»

Deglutì.

«I ragazzi non sanno niente del mio lavoro. Sono un uomo d’affari. Per tutta la vita ho lavorato diciotto ore al giorno. Prima lo stato e il partito mi elargivano soldi e privilegi in cambio dei miei servizi. Oggi mi procuro tutto da me. Ho una bella casa, mia moglie può andare a fare la spesa nei nuovi supermercati. Andiamo in vacanza in Florida. In cambio del mio lavoro non ricevo più medaglie, ma soldi. Ho rinunciato a considerare la mia vita da un punto di vista morale. La mia esistenza è votata al benessere della mia famiglia e alla soddisfazione dei miei clienti. Lei non è tipo da condannare questo atteggiamento, vero?»

«Neanche per sogno» risposi.

Proseguimmo in silenzio sulla strada che si inoltrava nel bosco di betulle. Da molto tempo non vedevo tanta neve, sulla terra, sui rami, sui tetti delle case. Attraversammo un paio di cittadine, e di fianco a un caffè mi parve di riconoscere il mercato della foto. Sjuganov mi guardò annuendo: «Ci siamo quasi».

Entrammo in una specie di radura e l’autista spense il motore. Igor e Sjuganov scesero dall’auto e indossarono una tuta bianca con cappuccio che tirarono fuori dal baule. Sjuganov parlò sottovoce in russo nel suo walkie-talkie, e ricevette una gracchiante e concisa risposta.

«Il bersaglio non ha ancora lasciato la villa. Lei aspetti in macchina, così non sentirà freddo.»

Igor si mise ai piedi un paio di sci corti e si addentrò agilmente nel bosco. Con la tuta bianca quasi impercettibilmente intessuta di fili dorati, sparì ben presto alla vista, perfettamente mimetizzato con i colori della neve e delle betulle. Rimasi seduto sul sedile posteriore. L’autista girò la chiavetta dell’accensione e accese il ventilatore, e Sjuganov mi offrì un’altra tazza di caffè. Mi sembrava di stare lavorando. Mi trovavo sul posto, ero pronto. Adesso non mi restava che aspettare.

Dopo circa mezz’ora il walkie-talkie di Sjuganov gracchiò, e lui rispose sbrigativamente. A un suo cenno scesi dalla macchina. Il cielo era greve e la neve sempre più vicina.

«Il bersaglio sta arrivando» annunciò Sjuganov. «C’è anche la donna, e il grosso irlandese, come al solito, li segue a distanza di una decina di metri. Anche se tra loro parlano tedesco, probabilmente i due preferiscono non farsi sentire da lui.»

«Sono pronto» dissi infilandomi i guanti e abbassandomi il cappello sulle orecchie.

«Sa sciare, Lime?» mi domandò.

«Assolutamente no» risposi.

«La guiderò io fino al bersaglio. Poi tornerò un po’ indietro e mi porterò tra la guardia del corpo e il bersaglio. Quanto tempo le occorrerà?»

«Cinque minuti. Il tempo di fargli una domanda.»

Sjuganov mi guardò perplesso, parlò brevemente nel walkie-talkie, e ci incamminammo. Seguimmo le forme degli sci di Igor e ben presto ci ritrovammo nel folto del bosco. Sebbene fossimo a poche centinaia di metri dalla strada principale, perdetti quasi subito il senso dell’orientamento. Neve, betulle e sterpaglia: lì attorno non c’era altro, e tutti gli scorci si assomigliavano. Se Sjuganov mi avesse abbandonato mi sarei smarrito con molta facilità. Lui procedeva agile e spedito nella mimetica bianca, mentre io sprofondavo in continuazione nei punti in cui la neve era più alta, oppure restavo impigliato in un ramo. Dopo una decina di minuti ci ritrovammo su un sentiero. Qui la neve era compatta, calpestata da diverse paia di scarponi e striata da tracce di sci. Eravamo in cima a una specie di collinetta, da cui dominavamo un lungo tratto del sentiero.

«Io aspetto qui» disse Sjuganov. «Se vuole, può allontanarsi un po’ e nascondersi dietro un albero. Il bersaglio e la donna passeranno davanti a me, così potrò bloccare la guardia del corpo.»

«Non la vedranno?» domandai stupidamente: infatti a mo’ di risposta estrasse una pistola a canna lunga da sotto la tuta e con un cenno del capo mi fece capire che dovevo sbrigarmi. Feci come aveva detto. Quando fui dietro l’albero cercai con lo sguardo Sjuganov, ma non vidi altro che neve, betulle e cespugli.

Udii Lola e Oscar ancor prima di vederli. Stavano litigando. Il tedesco di Lola era spedito e fluente. Mi parve che discutessero di soldi, ma da quella distanza non potevo esserne sicuro. Mi accovacciai e sbirciai da dietro il tronco.

Oscar batteva la mazza da golf contro i cumuli di neve e i rami. Era un’immagine assurda. Chissà, magari era impazzito.

Oltrepassarono il punto in cui pensavo fosse appostato Sjuganov, e si diressero verso di me. Quando furono a una distanza di circa cinque metri, apparve il grosso irlandese, e fu come se Sjuganov si materializzasse nella neve alle sue spalle. Vidi il gorilla irrigidirsi mentre, con tutta probabilità, Sjuganov gli bisbigliava una minaccia all’orecchio e gli piantava la canna della pistola nella schiena.

«Questo paese mi fa schifo» diceva Oscar. «Che cazzo posso fare? Gloria mi ha ripulito e visto che tu non vuoi darmi altro che spiccioli, allora…»

«Devi avere pazienza, Karl Heinrich. Troviamo un accordo» disse Lola. «Posso proporti…»

«Sono stufo delle tue fottute proposte» gridò Oscar conficcando la mazza in un cumulo di neve e sollevando una cascata bianca. Lola si scostò e inarcò le sopracciglia ben delineate, visibilmente infastidita da quelle bambinate.

Uscii dal mio nascondiglio.

«In Russia non ci sono molti campi da golf, Oscar» dissi in inglese.

Per qualche attimo lui rimase completamente immobile, quasi che il gelo lo avesse trasformato in ghiaccio. Avevo immaginato e sognato quel confronto tante volte negli ultimi giorni, e adesso non provavo altro che disprezzo. Oscar aveva una brutta cera. Il suo viso era pallido e pieno di rughe sotto il colbacco, gli occhi lacrimosi e iniettati di sangue. Erano gli occhi di quando si abbandonava ai vizi, alcol e anfetamine. Di quando dormiva poco e diventava irascibile e aggressivo. Si riscosse, si guardò alle spalle e vide che l’irlandese non arrivava.

«Il tuo amico ha da fare, Oscar» dissi.

«Fottiti, Lime» sibilò Oscar con voce arrochita dalla rabbia.

«Peter Lime, che piacere» disse Lola, in danese. «Certo che ne sono passati di anni.»

«Taci, non sono qui per parlare con te» dissi.

«I soliti modi sgarbati» ribatté lei con la sua voce affettata. Nell’attimo in cui mi voltai per guardarla, Oscar alzò il bastone e mi colpì con violenza all’altezza del ginocchio: un dolore lancinante mi fece urlare e piegare in avanti e la mazza tornò a colpirmi, questa volta sulla schiena. Oscar aveva mirato alla nuca, ma Lola gli aveva dato una spinta salvandomi la vita. Il dolore era intollerabile. Cercai di rimettermi in piedi mentre Oscar si girava furioso verso Lola per colpirla in pieno viso con la mazza di ferro.

«Sjuganov!» gridai rialzandomi, e, zoppicando, mi mossi per andarlo a cercare. Oscar guardò Lola, che distesa su un fianco tingeva la neve di rosso, poi guardò me. I suoi occhi erano furiosi e vacui.

«Sjuganov!» gridai di nuovo. Ma ad apparire fu l’irlandese. La faccia insanguinata e feroce era quella di un assassino. Impugnava una pistola.

Le cose si mettevano male. Mi lanciai giù per il bosco come potevo, zoppicando e cadendo, poi rialzandomi, mentre nell’aria echeggiava uno sparo, poi un altro seguito da un sibilo a pochi metri da me.

«Resta qui, Lime!» Era la voce di Oscar, stavolta in spagnolo. «Non ti muovere, brutto stronzo. Non ho ancora finito con te, vigliacco figlio di puttana. È colpa tua se mi trovo in questo buco. Mi hai rovinato la vita bastardo fottuto. Torna qui! Jack, get him. But don’t kill the motherfucker!»

Mi allontanai arrancando più in fretta che potevo, la paura più forte del dolore. Aveva cominciato a nevicare e il vento soffiava gelido contro la mia faccia. Ma dove cazzo erano finiti Sjuganov e Igor? Sentii altri due spari, non ero in grado di dire a quale distanza. Mi ritrovai su uno stretto sentiero dove la neve era più compatta. Dopo una curva mi fermai, mi sfilai i guanti e mi appiattii contro un albero. L’irlandese si avvicinava di corsa. Aveva la guancia insanguinata, ma non riuscivo a vedere nessuna ferita. Forse il sangue non era suo? Correva un po’ goffamente, la pistola nella destra. Balzai in avanti, feci un giro su me stesso e cercai di colpirlo in viso. Il ginocchio dolorante mi fece vacillare un po’ e lui, che era abituato alla lotta, abbassò la testa da un lato. Lo colpii alla spalla, e la pistola gli cadde di mano sparendo nella neve. Ritrovò subito l’equilibrio, e si mise in posizione di combattimento, con le braccia mobili in avanti e le ginocchia leggermente flesse e scattanti. Sbuffò:

«Allora vuoi fare la lotta, eh, Lime. Che bello. Fatti sotto, figlio di puttana, dai, fatti sotto».

Sentii i passi pesanti di Oscar che si avvicinava urlando infuriato. Fintai con la sinistra, e l’irlandese rise della mia mossa troppo prevedibile spostando agilmente il peso del corpo. Il potente calcio che sferrai all’albero proprio accanto a lui fece vibrare i rami carichi di neve che si rovesciò in una cascata farinosa. Il mio avversario ne rimase temporaneamente accecato e perse l’equilibrio. Gli conficcai il piede nell’inguine, poi lo colpii alla gola con il taglio della mano destra tesa, come mi aveva insegnato Suzuki raccomandandomi di ricorrere a quella mossa solo in situazioni estreme, lo colpii alla gola. Sentii lo schiocco rivoltante e secco del suo collo che si rompeva.

Oscar mi era quasi addosso. Riuscii a schivare il colpo della sua mazza da golf, e contemporaneamente a fargli lo sgambetto che lo fece cadere lungo disteso nella neve. Si rialzò in un lampo e mi saltò addosso, stringendomi il costato tra le braccia fino a farmi uscire tutta l’aria dai polmoni. Lo colpii due volte con la mano sinistra cercando di centrarlo all’altezza della laringe. Al terzo colpo gli ruppi un sopracciglio, e un fiotto di sangue gli zampillò dal naso. Prese a spingermi all’indietro, nel tentativo di torcermi le braccia sulla schiena. Mi divincolai dalla sua stretta e gli piantai il gomito in un rene. Lui mugolò come un animale ferito, ma anziché stramazzare a terra, fece un giro su se stesso cercando la mazza fra la neve; allora lo colpii ancora una volta in faccia con la destra, talmente forte che le nocche mi si spaccarono. Oscar cadde all’indietro contro un albero, e i suoi occhi si fecero vitrei.

«Accidenti, Oscar. Io volevo solo parlare con te» dissi. «Volevo una spiegazione.»

Non riuscivo quasi a parlare.

«Perché Amelia? Perché Maria Luisa?» gli chiesi mentre cercavo di riprendere il controllo del respiro. Ormai nevicava fitto, e la neve sferzava il viso contuso di Oscar mescolandosi al rosso del sangue che gli usciva dal naso, dalle labbra e dal sopracciglio. Si portò la mano alla bocca e sputò un dente. Poi si lanciò di nuovo alla carica, ma la sua ira adesso era così folle da renderlo incapace di controllare i movimenti.

Scansai facilmente i suoi colpi goffi e scoordinati, finché non desistette, si voltò e si mise a correre lungo il sentiero. Rimasi un attimo interdetto, poi, istintivamente, mi lanciai al suo inseguimento. Lo sentivo ansimare a pochi metri da me, ma nella bufera solo a tratti riuscivo a scorgere il nero del suo cappotto.

Non so per quanto corressimo. I miei polmoni si contraevano dolorosamente, il ginocchio mi uccideva, ma non mi fermai. La neve cadeva così abbondante da ricoprire ogni impronta quasi nell’istante in cui nasceva. All’improvviso mi ritrovai fuori del bosco. Vidi che Oscar era caduto, e giaceva a diversi metri da me su una piatta, bianca distesa. Si alzò in piedi, ma ricadde e si tirò su di nuovo, quand’ecco che il ghiaccio del fiume su cui eravamo finiti cedette sotto i suoi piedi. Oscar liberò con uno strattone la gamba intrappolata, ma con uno scricchiolio sinistro il ghiaccio se la rimangiò. Si udì un altro scricchiolio e Oscar affondò fino alla cintola nell’acqua mortalmente fredda. Mi mossi per raggiungerlo avanzando con cautela sul ghiaccio che gemeva ad ogni mio passo.

Oscar mi guardava con occhi traboccanti di angoscia e disperazione. Fece un tentativo di sollevarsi fuori del buco puntellandosi con le braccia, con l’unico effetto di aprire una nuova crepa nel ghiaccio. La neve sferzava l’acqua nera attraverso lo squarcio sempre più minaccioso. Ero a un paio di metri da lui.

«Perché le hai uccise, Oscar?»

«Aiutami, Peter» disse. «Aiutami. Muoio di freddo.»

«Perché, Oscar?»

«Fu uno sbaglio. Jack e gli altri dovevano solo prendere quella fottuta foto e qualche altro negativo. Dovevano solo bruciare quei negativi del cazzo. Sarebbe sembrato un caso di furto qualsiasi. Ma Amelia li sentì, e invece di starsene buona, li affrontò, si difese. Allora quegli irlandesi bastardi persero il controllo, si fecero prendere la mano. Credevo che fosse tutto finito, invece quella maledetta foto saltò fuori di nuovo. Perché accidenti non lasciasti perdere? Tanto niente avrebbe potuto ridartele. Quel che era fatto era fatto, idiota che non sei altro. Eravamo amici. Lo pensavo davvero. Lo penso davvero. Uno sbaglio, è stato uno sbaglio.»

Non c’era pentimento nelle sue parole. Non abbastanza. L’assassinio della mia famiglia per lui era un errore deplorevole, una disgrazia da superare in fretta, perché bisognava pur andare avanti. Presi a indietreggiare lentamente verso la sponda mentre nuove crepe tagliavano sibilando la superficie gelata del fiume. Oscar mi stava ancora fissando quando, con un grido terribile, sparì sotto il ghiaccio, dove la corrente lo afferrò e lo trascinò via.

Raggiunsi il limitare del bosco e provai a orientarmi. Pensai che se avessi camminato parallelamente al corso del fiume, prima o poi mi sarei imbattuto in una strada o in un centro abitato. Dopo un attimo di indecisione mi mossi nella direzione in cui il fiume, scorrendo sotto la crosta gelata, trascinava il cadavere di Oscar. Avevo freddo. La mia testa era completamente vuota, e quando Igor più tardi mi trovò, avevo perso la cognizione del tempo e del luogo in cui mi trovavo. Ero sul punto di arrendermi e stendermi a dormire sotto una coltre di neve.

25

Telefonai a Clara dall’albergo. Al terzo squillo rispose. Sembrava affannata e la comunicazione via satellite dava alla sua voce una qualità metallica.

«Clara, sono io» dissi.

«Peter! Che bello sentirti! Stai bene? Dove sei?»

«A Mosca. Torno a casa stasera.»

«Tutto bene?»

«Tutto bene. È tutto finito.»

«In un modo che riuscirai ad accettare?»

«Ci saranno incubi, rimpianti, ma devo accettarlo, non ho scelta se voglio provare a ricominciare… insieme a te. Dimmi che verrai a Madrid.»

«Perché, Peter?»

«Ho bisogno di qualcuno che mi porti treppiede e rullini.»

Rise.

«Dai, Peter, Perché? Dillo.»

«Ho bisogno di te.»

«È già un passo avanti» disse.

«Sai cosa voglio dire.»

«Può darsi. Ma a volte fa bene esprimerlo a parole.»

«Verrai?» insistetti.

«E di cosa vivrò?»

«Io ho un sacco di soldi.»

«Sii serio. Cosa mi inventerò?»

«Mi porterai il treppiede.»

Rise di nuovo, ma sentivo che esitava, che aveva paura quanto me. Lasciammo che un intero minuto trascorresse ticchettando nel silenzio frusciante della linea telefonica. Guardai il traffico giù in strada: tutti gli abitanti di Mosca si affrettavano da qualche parte. Il tempo era cambiato, la temperatura era salita sopra lo zero e la città era tutta schizzi e sciabordii. Dal cornicione pendevano i ghiaccioli più grossi e micidiali che avessi mai visto. Avevo nostalgia di Madrid e della mia casa.

Infine Clara disse:

«Non lo so. Mi manca il coraggio. Mi sono già bruciata le ali una volta e…»

«Le prime scottature sono le peggiori.»

«Non posso darti una risposta. Almeno non subito» disse.

«Ti voglio, Clara. Ti voglio nella mia vita. Vieni a Madrid.»

«Vedremo. Forse verrò a trovarti. Forse no. Forse è meglio lasciar perdere. Proprio non lo so. Ma abbi cura di te.»

Mi sembrò sul punto di piangere e forse per questo riagganciò. Rimasi a lungo seduto con il ricevitore in mano a fissare il vuoto. Una parte di me si sentiva vinta, finita, esausta. Ma l’altra metà provava un senso di liberazione e quasi di speranza.

«Buffa lingua, il danese» disse Sjuganov.

Era seduto nella mia suite con una vodka in mano. Aveva un braccio al collo, e un vistoso cerotto su una tempia. Io me l’ero cavata con un ginocchio tumefatto e un principio di congelamento al piede destro. Seguire la direzione della corrente era stata una scelta fortunata, e dopo un’ora ero stato raggiunto da Igor che perlustrava la riva del fiume. Nonostante la bufera, da soldato ben addestrato qual era, era riuscito a scorgere le mie orme e a portarmi in salvo.

Al momento dell’imboscata, Sjuganov aveva sottovalutato l’irlandese, che aveva un coltello a serramanico fissato al polso. La lama era affondata nel braccio del russo, e l’altro lo aveva messo fuori combattimento servendosi della sua stessa pistola. Igor era arrivato troppo tardi e aveva ingaggiato uno scontro a fuoco con l’irlandese, colpendolo prima alla gamba e poi a distanza ravvicinata alla testa. Le guardie del corpo russe di Lola per fortuna se l’erano squagliata.

«È stato un vero massacro» dissi levando il bicchiere.

«Nessuno è più mortificato di me. Va da sé che non mi aspetto alcun compenso» disse. «Ho commesso l’imperdonabile errore di sottovalutare un avversario.»

«E la polizia?» chiesi.

Lui strofinò il pollice contro l’indice e il medio in un gesto universale.

«Ma non basterà, immagino» dissi.

«Tutta la colpa ricadrà sul bersaglio. In quella villa c’era una quantità di droga sufficiente a stordire tutta Mosca. È stato il tedesco a uccidere la Petrovna. E siccome i due irlandesi lavoravano per lei, è logico pensare che abbiano cercato di difenderla, morendo nell’adempimento del loro dovere. A quel punto il bersaglio ha scelto il suicidio, o la fuga sul fiume ghiacciato che lo ha tradito. Il fiume è profondo, e la corrente molto forte. La pistola è sparita, il ferro da golf è stato ritrovato tutto sporco del sangue della donna. Lui era arrivato a Mosca da poco e non poteva sapere che un paio di settimane fa abbiamo avuto un improvviso aumento della temperatura. Il ghiaccio era fragile. La media giornaliera degli omicidi a Mosca si aggira sulla ventina. La polizia è sovraccarica di lavoro. Sarà ben felice di archiviare un caso d’omicidio risolto.»

«E Oscar?»

«Affiorerà con il disgelo, quello vero, a marzo. Per quell’epoca tutti avranno dimenticato questo caso, e sarà sepolto nella fossa dei senza nome.»

Esitai.

«Vorrei che lo faceste cremare e che mi spediste le ceneri. È possibile?»

Lui mi guardò sorpreso:

«Ci sarà da sbrigare qualche pratica, ma credo si possa fare. Mi permette di chiederle perché?».

«Oscar aveva molte facce. Conosco una donna che fra un po’ di tempo ricorderà volentieri solo alcune di quelle. Le facce belle. Penso che avere una tomba da visitare a Madrid le farebbe bene. Parlo per esperienza. Una tomba non cura la rabbia che proviamo per l’ingiustizia della morte. Ma un luogo dove parlare o protestare con chi non c’è più ci vuole.»

«D’accordo. Se il corpo riemergerà, l’accontenteremo. Farò inviare un comunicato alle stazioni di polizia che si trovano lungo il fiume. Un cadavere in balia della corrente può arrivare lontano, ma in genere riaffiora in primavera. Lo consideri il favore di un amico.»

«Grazie. Allora, potrò partire stasera senza avere noie al controllo passaporti?»

«Può tornarsene a casa tranquillo.»

Alzò il bicchiere.

«Le auguro buon viaggio, Mr. Lime» disse e bevve tutto d’un fiato.

Feci lo stesso. La vodka era forte e buona. Riempii di nuovo i bicchieri.

«Buon Natale» aggiunsi.

«E che la fortuna possa arriderle nel nuovo anno» disse in tono serio, e quello fu un brindisi che feci volentieri.

Come l’inverno, anche la primavera arrivò presto, e a fine febbraio il sole era insolitamente caldo. Sedevo in giardino a leggere una biografia di Hemingway trovata tra i libri di Don Alfonso, quando un taxi si fermò davanti a casa e Clara ne scese reggendo una piccola valigia. Pagò l’autista e venne verso di me. Io posai il libro sul tavolo, mi alzai e la raggiunsi ridendo. La brezza primaverile le scompigliava i capelli.

«Ciao, Peter» disse.

«Ciao, Clara. Sei bellissima.»

«Che tempo splendido avete qui. A Copenaghen nevicava.»

«È bello vederti. Però ti ci è voluto un po’ di tempo…»

«Ho deciso di scommettere. Non avrei telefonato. Se ti avessi trovato a casa, allora ci avrei provato; mi sarei detta che era destino. Se non ci fossi stato… lo avrei accettato. Lo so che è completamente irrazionale, ma solo così sono riuscita a vincere la paura.»

«Per fortuna di questi tempi sono quasi sempre a casa.»

Lei sorrise e si strinse a me. La circondai con le braccia e ci baciammo.

Più tardi, a letto, le domandai:

«Hai portato pochi bagagli. Non hai intenzione di fermarti per molto?».

«Dipende da quanto tempo resisterò a portarti il treppiede. Per il momento sono in aspettativa dal lavoro e ho subaffittato l’appartamento fino alla fine dell’estate. Non sono tanto stupida da mollare tutto così. Poi, si vedrà…»

«Se non altro è un inizio» dissi.

«E alla nostra età non credo si possa pretendere molto di più. Piuttosto: muoio di fame. Perché tanto per cominciare non mi fai vedere dov’è il frigo?»

FINE