37234.fb2 A voce nuda - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 12

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E così cantarono, mentre il sole risplendeva in cielo e la temperatura all’interno del castello si inerpicava verso i 30 gradi. Era peggio che stare sotto un intero impianto di luci di scena; tutti e cinque bollivano dentro i vestiti.

— Finiremo per cantare nudi, — suggerì Julian. — Così metteremmo un po’ di sensualità in questo brano!

Gli altri lasciarono correre, capendo che il poveretto era in calore.

Quando, alla fine, furono tutti troppo stanchi per proseguire, Roger e Julian andarono a letto — non insieme, naturalmente, anche se negli ultimi tempi Julian dava l’impressione di considerare chiunque, perfino i compagni di Coro, come un possibile oggetto sessuale. Il disgusto che aveva provato sulle prime vedendo Dagmar allattare, col trascorrere dei giorni si era stemperato in una sorta di tolleranza, salvo poi inasprirsi in una forma di curiosità così acuta da mettere in imbarazzo tutti fuorché lui. Dagmar, di norma indifferente alle misere brame di uomini indesiderati, si sentiva sempre più a disagio, e l’allattamento divenne un atto via via più segreto, perpetrato al riparo di porte chiuse. In presenza di Julian, tendeva a incrociare le braccia sul petto, in un gesto protettivo, aggressivo. Dopo una mezz’ora passata a fissare Julian per fargli abbassare lo sguardo, balzava in piedi e si metteva a camminare su e giù, una fascia scura sul petto dove gli avambracci sudati avevano inzuppato la stoffa dei vestiti che indossava.

La sera della visita del direttore, dopo aver finito con il Partitum Mutante ed essersi assicurata che Julian fosse andato a letto, Dagmar si sbracò sul divano con Axel attaccato al seno. Ben era seduto vicino alla finestra a fissare un cielo che, alle undici meno un quarto, serbava ancora qualche brandello di luce. Stava calando di nuovo quel silenzio soprannaturale, che dal salotto permetteva di sentire perfino il gocciolio di un rubinetto in cucina.

Stranamente ringalluzzita dopo che il figlio le aveva succhiato il latte, Dagmar decise di portare Axel a fare una passeggiata nel bosco. Non invitò Catherine; la donna più anziana immaginò che dovesse essere uno di quei momenti in cui Dagmar voleva scorrazzare per il mondo sola con il suo piccino, spiegandogli le cose in tedesco.

— Sta’ attenta, — disse Catherine mentre uscivano. — Ricordati della leggenda.

— Quale leggenda?

— Una volta una madre e il figlioletto sono spariti in quel bosco, alla fine della guerra. Certi dicono che il bambino sia ancora là fuori.

Dagmar si soffermò un attimo a fare un calcolo mentale.

— Be’, se dovessimo incontrare un bambino di settantacinque anni lungo la strada, magari Axel sarà contento di giocare con lui, — disse, e se ne andò a zonzo nel buio.

Rimasta sola con Ben, Catherine valutò i pro e i contro di andare a letto. Sul versante dei pro, era esausta. Ma la casa aveva assorbito tanto di quel calore che probabilmente non sarebbe riuscita a dormire.

— Vuoi qualcosa, Ben? — gli chiese.

— Mm? No, grazie, — rispose lui. Era ancora seduto vicino alla finestra, la camicia bianca resa quasi trasparente dal sudore. Nonostante la stazza da orso, non aveva peli sul corpo, per quanto le era dato vedere.

— A proposito, come stai? — gli chiese. Sembrava una domanda leggermente assurda a quell’ora di sera.

— Stanco, — disse lui.

— Anch’io. Non è strano che abbiamo vissuto qui insieme, giorno dopo giorno, e abbiamo cantato insieme all’infinito senza quasi scambiare una parola?

— Io non sono un gran conversatore.

Ben chiuse gli occhi poggiando la testa all’indietro, come se stesse per liberare l’anima nell’etere, lasciandosi dietro il corpo.

— Sai, — disse Catherine, — dopo tanti anni non so quasi niente di te.

— C’è ben poco da dire.

— Non so nemmeno esattamente di che nazionalità è tua moglie.

— Vietnamita.

— Lo immaginavo.

A quel punto la comunicazione si spense, ma senza dar adito a imbarazzo. L’acustica emotiva della stanza non era satura di vergogna e frustrazione, come nei silenzi fra lei e Roger. Il silenzio era una condizione naturale per Ben, e piombarci dentro insieme a lui era come raggiungerlo nel suo mondo, dove conosceva intimamente ogni onda sonora assopita, dov’era immune da paure.

Dopo un po’, seduta nell’immobilità del salotto oro e marrone insieme a Ben, Catherine diede un’occhiata all’orologio che lui aveva al polso. Mancava poco a mezzanotte. Ben non era mai stato in piedi così a lungo.

— Hai sempre voluto diventare un cantante? — gli chiese.

— No, — disse lui. — Volevo continuare a fare il timoniere.

Lei rise suo malgrado. — Continuare a fare che cosa? — Le tornarono in mente quelle orribili commedie cinematografiche che suo padre non le aveva mai permesso di guardare, neanche quando era abbastanza grande da uscire con Roger Courage.

— All’università, — spiegò Ben, — facevo il timoniere in una squadra di canottaggio. Urlavo le direttive con il megafono. Mi piaceva tantissimo.

— Poi cos’è successo?

— Ho aderito al movimento contro la guerra nel Vietnam. All’epoca Cambridge non era esattamente di sinistra. Ho perso buona parte degli amici. E poi sono ingrassato.

Non sei grasso, avrebbe voluto tranquillizzarlo Catherine, con benevolenza quasi istintiva, poi si rese conto che era un’assurdità, e si sforzò di mantenere una faccia impassibile davanti a quella faccia di luna piena. Le rassicurazioni sono una cosa così triste e pazzesca, pensò. Chiunque, nell’intimo, conosce la verità.

— Che cosa pensi davvero del Partitum Mutante, Ben?

— Be-e-e’… devo ammettere che per il basso è una passeggiata. Ma non credo che passeremo il resto del ventunesimo secolo a cantarla.

Calò nuovamente il silenzio. I minuti passavano. Catherine si accorse per la prima volta che non c’erano orologi nello Château de Luth, tranne quelli dei computer e del forno, e gli orologi da polso degli ospiti umani. Forse un tempo c’erano stati splendidi esemplari antichi rubati da qualche ospite precedente — immaginò Cathy Berberian che ne avvolgeva furtivamente uno fra la biancheria preparando la valigia per tornare a casa. O forse non c’erano mai stati orologi su quelle pareti, perché gli arredatori del castello avevano capito che il ticchettio dei secondi sarebbe stato esasperante, insopportabile, nel silenzio del bosco.

A un tratto, dall’esterno giunse un gemito lamentoso, indecifrabile, un grido così acuto e sinistro che Axel non sarebbe mai stato capace di emettere. Catherine aveva la carne elettrizzata dalla paura.

— Ecco! — disse a Ben. — L’hai sentito?

Ma, guardando verso di lui, si accorse che aveva gli occhi chiusi, il grosso petto che si alzava e si abbassava ritmicamente.

Catherine balzò su dal divano e si precipitò verso la porta d’ingresso. L’aprì — pianissimo, per non svegliare Ben — e sbirciò nella notte, che risultava di un’oscurità impenetrabile ai suoi occhi non abituati. Il bosco non si distingueva dal cielo, se non per il fatto che in uno c’erano le stelle e nell’altro no. Catherine era quasi convinta che Dagmar e Axel fossero stati fagocitati da un demone solitario, ingoiati dalla terra per non ricomparire mai più. Fu quasi una delusione quando, qualche minuto dopo, madre e figlio si materializzarono dalle tenebre avanzando lemme lemme verso il castello, le scarpe da ginnastica bianche di Dagmar che sfavillavano.

— Hai sentito il grido? — chiese Catherine, mentre Dagmar raggiungeva la soglia.

— Che grido? — disse Dagmar. Axel aveva gli occhi spalancati ed era pieno di energia, ma la madre era sfinita, pronta per andare a letto. Indugiò sulla soglia, come se stesse considerando l’idea di far tenere un po’ il figlio a Catherine.