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La luce nello Château de Luth era fioca e perlacea il giorno prefissato per il rientro a casa del Coro Courage. Il tempo era finalmente cambiato. I bagagli ingombravano il salone simili a orribili sculture moderne accostate a viva forza ad arcaici arcolai, flauti dolci, libri rilegati in pelle e liuti.
Jan van Hoeidonck sarebbe arrivato da un momento all’altro a bordo del suo minibus giallo banana, dopodiché, di sicuro, una volta sgombrata la casa Gina sarebbe andata a pulire. Un paio di mobili dell’ingresso erano stati malamente danneggiati dai portantini dell’ambulanza facendo passare il corpo di Ben attraverso lo stretto pertugio, ma i proprietari del castello non potevano che fare buon viso. Inutile aspettarsi che i pezzi d’antiquariato durassero in eterno; prima o poi, il deterioramento dei secoli avrebbe avuto la meglio.
In piedi vicino alla finestra, lo sguardo cieco fisso sui milioni di minuscoli sassolini di grandine che turbinavano sbatacchiando contro i vetri, Roger si risolse a sollevare l’argomento che bene o male andava affrontato.
— Dobbiamo decidere che cosa fare, — disse in tono pacato.
Dagmar si girò dall’altra parte, guardando in terra anziché al bambino che teneva stretto fra le braccia. Lei un’idea di che cosa avrebbe fatto ce l’aveva, e chiara, ma non era quello il momento di esporla a Roger Courage.
— Per il festival c’è ancora tempo, — disse, dondolandosi sulla valigia di plastica spropositatamente grossa di Catherine.
— Sì, ma non aspetta certo noi, — disse Roger.
— Dàcci un taglio, Roger, — gli consigliò Julian sommessamente, chino sul pianoforte, le lunghe dita che sfioravano tutti i tasti senza premerli.
Roger fece una smorfia vergognandosi di quello che stava per dire, di quello che non poteva esimersi dal dire, di quello che era costretto dal suo Dio personale a dire.
— Ce la caveremmo egregiamente, — disse agli altri. — La parte del basso nel Partitum Mutante è quella di gran lunga più lineare. Conosco un tizio di nome Arthur Falkirk, un vecchio amico di Ben. Cantavano insieme a Cambridge…
— No, Roger.
Era Catherine a parlare. Aveva la faccia rossa e gonfia, resa irriconoscibile dalle lacrime. Prima di riuscire finalmente a calmarsi quella mattina, aveva pianto con più trasporto, con meno ritegno di quanto non facesse da quando aveva sette anni. E, quando le sue urla si erano levate più fragorose, il torrente di pioggia aveva attutito l’acustica dello Château de Luth consentendo a quel lamento di trovare una collocazione accanto allo scricchiolio delle antiche fondamenta, al frastuono dell’acqua che scorreva da tubi di scolo e grondaie, al rumorio dei telefoni. Ora aveva la voce roca, talmente bassa che nessuno l’avrebbe mai presa per un soprano.
Roger tossì a disagio.
— Ben era molto coscienzioso, — disse. — Avrebbe voluto…
— No, Roger, — ripeté Catherine.
Il telefono squillò, e lei sollevò la cornetta prima che il marito riuscisse a muovere un muscolo.
— Sì, — gracchiò nel microfono. — Sì, è il Coro Courage. Parla Catherine Courage. Sì, capisco, non si preoccupi. No, certo che non interpreteremo il Partitum Mutante. Forse il signor Fugazza troverà un altro ensemble. Una registrazione sarebbe l’alternativa più pratica a questo punto, ma sono sicura che il signor Fugazza si farà venire in mente qualcosa… Una dedica? È un pensiero molto gentile, ma non credo che Ben avrebbe apprezzato. Lasci fare a me, mi dia il tempo per pensare. Mi chiami al numero di Londra. Ma aspetti qualche giorno, se non le dispiace. Sì. Di niente. Arrivederci.
Roger era alla finestra, girato di spalle. Aveva le mani strette dietro la schiena, una infilata fiaccamente nell’altra. Stagliato contro la cascata scintillante di grandine, si riduceva quasi a un contorno. All’esterno, si sentì sbattere lo sportello di una macchina; gli altri non avevano nemmeno sentito il minibus di Jan van Hoeidonck arrivare, ma adesso era lì.
Catherine si sedette accanto a Dagmar sulla valigia; era così inutilmente grande che il bordo offriva spazio in abbondanza per tutte e due.
— Hai deciso di fare il viaggio con noi questa volta, grazie, — sussurrò all’orecchio della ragazza tedesca.
— Figurati, — dichiarò Dagmar in tono spento. Le lacrime rotolavano giù dalle guance frangendosi sul petto del bambino mentre permetteva a Catherine di stringerle una delle giovani mani d’acciaio che non avevano retto alla sfida di ricacciare la vita nella carne di Ben Lamb.
Il rumore di una spallata che apriva la porta gonfiata dalla pioggia infranse quel momento. Una poderosa raffica di aria umida, fragrante, terrosa spazzò la casa mentre Jan van Hoeidonck faceva il suo ingresso. Senza una parola, andò nel salone, agguantò due valigie — quella di Roger e quella di Ben — e si diede a trascinarle fuori dalla porta. Dagmar e Catherine scivolarono via dalla valigia di Catherine lasciando che Roger la trascinasse sulle rotelle, anche se tanto valeva lasciarla lì. Era piena di vestiti che non aveva messo, di cibo che non aveva mangiato. Avrebbe viaggiato più leggera in futuro, ammesso che ci fosse un futuro.
Cristo santo, non ricominciare, pensò. Limitiamoci a tirare avanti. E corse fuori sotto l’acquerugiola.
Il minibus giallo era più spazioso di come lo ricordasse, anche se, ora che si erano aggiunti Dagmar e Axel, c’erano più passeggeri dell’ultima volta — quanto a numero, se non a mole. Roger era seduto di nuovo vicino a Jan van Hoeidonck. Il direttore si allontanò dallo Château de Luth, le labbra serrate, concentrato su quanto vedeva attraverso i tergicristalli in movimento; le probabilità che lui e Roger riprendessero il filo del discorso sul futuro dell’Amsterdam Concertgebouw erano scarse. Julian era seduto in fondo al pulmino a scrutare il cottage che rimpiccioliva in prospettiva, tornando a farsi cartolina illustrata, immerso nella nebbia al di là dell’acquazzone.
Erano in viaggio da meno di cinque minuti quando all’improvviso la pioggia defluì dal cielo, e il bosco si materializzò come emergendo da una caligine di scariche elettriche. Poi uscì il sole, abbagliante.
Irradiandosi attraverso il vetro azzurrato del finestrino, il calore inondò il viso di Catherine, dando sollievo alle guance, pizzicando i bordi infiammati delle palpebre. Scomparsa la pioggia, l’acustica del mondo tornava a cambiare: il lieve ronzio del motore emerse dal basso, e gli uccelli presero a cinguettare tutt’intorno, mentre all’interno del pulmino, il silenzio dell’assenza di Ben si andava accumulando come alito cattivo. Era orribile, ferale.
Istintivamente, per colmare il vuoto, Catherine si mise a cantare; la canzoncina più semplice e consolatoria che conoscesse, un antico canone che cantava prima ancora di avere l’età per capire il significato delle parole.
La voce da soprano usciva dalla gola infiammata tremula e sommessa, quasi stonata. Catherine guardava fisso fuori dal finestrino, senza curarsi di quello che gli altri pensassero di lei; potevano etichettarla come un caso clinico, se ne avevano voglia. Il terribile silenzio si attenuava, era quella la cosa importante.
Attaccando la seconda strofa, rimase sconcertata nell’accorgersi che Julian si era unito a lei, delicato contrappunto tenorile a offrire assistenza alla sua conduzione vacillante.
A quel punto si era unito anche Roger, e Dagman, che non conosceva le parole, improvvisò uno strano ma appropriato discanto sans paroles.
E andarono avanti a cantare, senza guardarsi, diretti verso casa.