37234.fb2 A voce nuda - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 7

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La mattina, non riuscì a presentarsi per l’ora di colazione. Aveva sperato di essere lì, vispa come un grillo, ogni mattina prima di Roger, ma l’insonnia della notte precedente aveva avuto la meglio su di lei, che finì col dormire fino a mezzogiorno. Roger era andato via da un pezzo quando si svegliò. Punteggio: Roger: uno, Catherine: zero.

Il sole si riversava dalla finestra, il calore le accelerava il metabolismo producendole un fastidioso ribollio in corpo. Poco prima di svegliarsi aveva avuto un incubo: sognava di soffocare dentro un sacco umido e trasparente; ora, finalmente e angosciosamente lucida, si liberò a viva forza delle coperte appiccicose e si mise seduta, madida di sudore.

Fece una doccia e si vestì, udendo unicamente i rumori prodotti da lei stessa. Forse gli altri bighellonavano al piano di sotto in attesa di cantare, solo che mancava il soprano. Forse erano andati insieme a esplorare i dintorni, lasciandola sola nello Château de Luth con i suoi arcolai, i flauti antichi e un letto dove non sapeva se ce l’avrebbe fatta a coricarsi di nuovo.

Non aveva motivo di preoccuparsi. Arrivata in cucina trovò Ben, ancora con il suo pigiama XXL e l’aria un po’ impacciata, seduto da solo sulla panca inondata di sole a scartabellare un «Times Literary Supplement» di quattro anni prima.

Che tipo strano, pensò Catherine. Il più anziano fra loro, a cinquantacinque anni aveva la stessa faccia da bambino di quando avevano istituito il Coro Courage. Era sempre stato enorme, benché fosse relativamente più grosso ora di due decenni prima. Sicuro di sé senza darlo a vedere e misurato su tutti i fronti, aveva un unico punto debole: lo stomaco d’Achille. A ogni tournée rivelava una sorprendente scorta di talenti fin lì insospettati — l’anno prima aveva smontato il motore rotto dell’autobus che li accompagnava rimettendolo in sesto con una cravatta e due fedi nuziali — solo che in fatto di alimentazione era una frana.

— Ciao, — disse lui, e da un punto al suo interno scaturì una specie di rombo non molto dissimile dai mugugni che costituivano il suo contributo al Partitum Mutante.

Catherine era sicura che sarebbe stato in grado di risolvere qualunque sfida fisica o intellettuale posta da una pentola e una confezione di avena, ma era chiaro che per qualche motivo non sapeva decidersi ad affrontarla. Ben la guardò con una supplica sincera negli occhi. Le stava dicendo, con quello sguardo, che amava profondamente sua moglie, solo che lei era a Londra mentre Catherine era lì con lui, e allora che fare?

— Ti va un po’ di porridge, Ben? — gli chiese lei.

— Sì, — rispose all’istante, i guancioni che prendevano colore.

— Allora ne preparo un po’ per tutti e due, — disse Catherine.

Venne fuori che, a parte il soprano che aveva passato la mattinata a dormire, nel Coro Courage mancava anche il contralto. Alle prime luci dell’alba, Dagmar aveva preso la bici inoltrandosi nel bosco con Axel, e non era ancora tornata. Forse era andata a Martinekerke o a Duidermonde a fare provviste; forse si teneva solo in esercizio. Fatto sta che era sparita, così Roger sbrigava un po’ di corrispondenza su uno dei computer, Julian leggeva un tascabile in salotto e Ben stava lì ad aspettare che qualcuno gli offrisse la colazione.

— Fai «oh», — disse Catherine cominciando a versare il latte.

— Oh, — mormorò lui contrariato quando si accorse che la scodella minacciava di straripare.

Sentendo rumore di cibarie, Julian riprese la strada della cucina dove qualche ora prima si era nutrito di pudding di riso in scatola e caffè. Indossava un paio di jeans neri, una T-shirt nera e i calzini neri. Dalla punta dei capelli phonati all’attaccatura delle caviglie sembrava una star del cinema francese.

— ’Giorno, — disse con un ghigno, il libro ancora a mezz’aria, come se alzando gli occhi dalla pagina si fosse accorto che la cucina si era spostata portandosi fino a lui.

— Ciao, Julian, — disse Catherine, cercando di non far trasparire la delusione nel veder deturpato quel momento di beata semplicità: la scodella di avena bollente, lei che la offriva, Ben Lamb che la riceveva senza una parola. Mentre Julian si frapponeva senza tanti complimenti fra lei e Ben, Catherine si accorse che il libro che reggeva ad ali spiegate fra le eleganti mani era una specie di thriller con una faccia femminile terrorizzata in copertina, e si sorprese a pensare: quanto non mi piace quest’uomo.

— Julian, vuoi un po’ di porridge?

Alle prime cinque parole della domanda gli si illuminarono gli occhi, spenti però dalla delusione non appena sentito il finale.

— No, grazie, — disse. — Non c’è niente di più… ehm… sostanzioso.

— Non lo so, — disse Catherine, lanciando un’occhiata ansiosa a Ben che infilava cucchiaiate di havermout fumante in bocca. — Il porridge sazia abbastanza, non trovi?

— A dire il vero pensavo a delle uova, — confessò Julian.

— Magari le porta Dagmar quando torna.

— Mmm. — Chiaramente per Julian la prospettiva di chiedere a Dagmar di dividere il cibo con lui non era delle più realistiche.

Catherine si riempì una ciotola con gli avanzi di havermout e chiese a Julian come avesse dormito.

— Ho di nuovo passato mezza nottata in bianco, — si lamentò lui, accomodandosi su uno sgabello. Teneva il tascabile annidato in grembo, con l’immagine patinata di una bellona dagli occhi sgranati che lo fissava dallo spazio fra le magre cosce nere.

— Allora hai sentito le grida? — disse Catherine.

— Grida?

— Sì, là fuori, in qualche punto del bosco.

— Magari era il figlio di Dagmar, — suggerì lui. — O i pipistrelli.

Catherine capì che non aveva sentito niente.

— Io le ho sentite benissimo, — disse Catherine. — Umane. Ma incredibilmente sconsolate e strane. Solo grida, niente parole.

Julian sorrise con indulgenza.

— Un bimbo piange nella notte, / un bimbo piange per la luce, / per tutta lingua ha il pianto,eh? — disse, senza tradire la minima espressione.

Catherine lo fissò perplessa e a disagio. Spesso Julian aveva certe uscite: la citazione incantatoria di uno dei poeti vittoriani o romantici che lei preferiva, recitata con una scrollata di spalle, neanche fosse la strofetta smaliziata di una pubblicità televisiva o un vecchio slogan elettorale considerato caustico, o superato, o causticamente superato, a posteriori.

In un altro punto della casa, un telefono squillò.

— Gli acchiappaiantasmi, — disse Julian per punzecchiarli.

A telefonare era una ragazza di nome Gina. Voleva sapere se erano d’accordo che andasse quel pomeriggio a pulire ’t Luitspelershuisje, cambiare le lenzuola e tutto il resto.

Per Catherine fu un sollievo quando Roger glielo disse. Chissà perché non si aspettava aiuti domestici; di fronte all’indifferenza del direttore per i loro bagagli, si era fatta l’idea che non fosse nello stile olandese. Ma se qualcuno prendeva provvedimenti per le lenzuola impregnate di sudore del letto che doveva dividere con Roger quella notte, allora era un altro discorso.

Qualche minuto dopo che Roger ebbe comunicato il messaggio della cameriera, Dagmar tornò dalle sue avventure, accaldata e infastidita. Arrancò verso la cucina con una busta di plastica per mano e Axel ancora sulla schiena che frignava e si lamentava.

— Moment mal, moment mal, — lo sgridò lei, lasciando cadere la spesa sulla panca della cucina. Il «Times Literary Supplement» venne occultato da yogurt, albicocche fresche, pane croccante, formaggio, avocadi, carne surgelata, caffè, confezioni di Vla met echt fruit!, contenitori plastificati di salviette per bambini… e uova.

Roger se n’era già andato; Ben Lamb ebbe la cortesia di seguirlo, rendendosi conto che in cucina non c’era spazio per tutto quel ben di Dio, Catherine, Dagmar, Julian e anche per lui. Julian esitava, gli occhi fissi sulle uova. Stava pensando che avrebbe soprasseduto agli irritanti strepiti del bambino se si profilava un’omelette all’orizzonte.

Solo che Dagmar piombò sullo sgabello dritto davanti a lui issandosi Axel sulla spalla prima di lasciarlo ricadere in grembo. Poi, dopo aver sollevato la T-shirt, scoprì un seno e guidò la bocca del bambino verso il capezzolo.

— Con permesso, — disse Julian, lasciando le due donne a occuparsene.

Catherine si sedette sulla panca della cucina fissando lo sguardo assente nella scodella di porridge di Ben. Era talmente pulita e lucida che sembrava l’avesse leccata, anche se in tal caso immaginava che se ne sarebbe accorta. Lei, da parte sua, aveva la tendenza a stufarsi del cibo, lasciandolo a metà. Siccome a Roger per qualche motivo dava fastidio, nella casa di Londra Catherine aveva preso l’abitudine di nasconderlo, non appena le passava la voglia di mangiarlo, in qualunque angolino o ricettacolo le capitasse a tiro. Lo finirò dopo, si diceva, ma il mondo girava, girava, girava. Giorni, settimane dopo, bagel ossificati cadevano dalle tasche del cappotto, yogurt con una pelliccetta di muffa spuntavano dal portagioie, banane nere e semiliquefatte giacevano come cadaveri nella tomba delle sue scarpe.

Catherine si augurava di non fare altrettanto lì allo Château de Luth, anche se era un’eventualità da non scartare. Era facile che Roger passasse dopo di lei a pulire, tenendo la lingua a freno perché non erano soli. Altro che diventare matta; non sarà che le stava venendo l’Alzheimer? A quarantasette anni le sembrava abbastanza inverosimile… Eppure: con l’Alzheimer non si scende a patti… ti esenta da ogni colpa. Nessuno si sognerebbe di ricondurti alla ragione, né attenderebbe con impazienza che torni ad avere una vita sessuale. Non dovresti più prendere il Prozac, e se qualcuno trovasse un cumulo di mele mangiate a metà dietro il televisore, be’, capirebbe.

E, al momento di morire, non ti accorgeresti nemmeno di quello che succede. Un fremito distratto e ti ritroveresti all’altro mondo, sbattendo debolmente gli occhi alla luce dell’Onnipotente.

Catherine mise a fuoco il «Times Literary Supplement», ripulito da lei stessa del cibo che aveva riposto ordinatamente nel frigorifero e negli armadietti qualche minuto prima. Era aperto alla pagina delle lettere, e nove illustri accademici provenienti da ogni angolo della Gran Bretagna e degli Stati Uniti dibattevano l’identità della persona a cui erano dedicati i sonetti di Shakespeare, facendone indistintamente una questione personale. Dichiaro chiusa la corrispondenza sull’argomento, ammoniva il direttore, anche se dopo quattrocento e passa anni era ovvio che la discussione sui sonetti, al pari di qualunque discussione, sarebbe andata avanti all’infinito senza mai arrivare a una conclusione. Quanto a Catherine, non aveva un’opinione, se non che sposare nove uomini così avrebbe significato conoscere altrettante varianti dell’inferno.

— Mangiate pure tutto quello che vi pare, — disse Dagmar.

Catherine, che aveva dimenticato la presenza della ragazza tedesca, alzò gli occhi con un sobbalzo.

— Oh… grazie, — disse.

— Però, se sono l’unica a fare la spesa, mi servono più soldi, — aggiunse Dagmar. Il bambino succhiava ancora al seno, tranquillo come un gattino addormentato.

— Basta che lo dici a Roger, ci pensa lui, — disse Catherine. Erano anni che non firmava un assegno né metteva piede in una banca. Negli ultimi tempi aveva una tesserina di plastica che faceva uscire i soldi da una fessura incastonata nel muro, ammesso che lei ricordasse un numero a quattro cifre… e la tessera, naturalmente. Nel bosco di Martinekerke non c’era sicuramente un posto dove infilare quella tesserina di plastica.

— Come hai dormito stanotte, Dagmar? — chiese Catherine, portando la scodella di Ben nel lavandino.

— Benissimo, — disse Dagmar.

— Non hai sentito niente di strano, alle prime luci dell’alba? Come un grido dal bosco?

— Niente è capace di svegliarmi, — disse Dagmar, abbassando lo sguardo su Axel, — a parte lui, ovviamente.

Non sembrava molto probabile, dato il funzionamento pressoché silenzioso del piccino, anche se di sicuro Dagmar parlava con cognizione di causa. Catherine rimase colpita vedendo che, nell’abbassare lo sguardo sul figlio che aveva al seno, alla base del viso magro e dalla pelle compatta della ragazza tedesca si era formato un doppio mento che la invecchiava di cinque anni. Dagmar aveva anche una sottile cicatrice sulla fronte che Catherine non aveva mai notato. Rughe del futuro, cicatrici del passato, milioni di segni a registrare una vita privata che a nessun estraneo è dato capire.

— Ti stai divertendo qui? — chiese Catherine.

— Certo, — rispose Dagmar. — È bello che ci mettano a disposizione tutto questo spazio. Sono una musicista professionista ormai da nove anni, e ho un figlio; è ora che qualcuno ci paghi per fare le prove, ti pare?

— Ma il luogo in sé, il brano in sé… ti divertono?

— Non m’importa un accidenti della musica di Pino Fugazza, — disse Dagmar con un’alzata di spalle, scostando Axel dal seno. Il capezzolo e l’areola rilucevano di saliva, il che indusse Catherine a distogliere immediatamente lo sguardo. — Voglio cantarla bene. Se la musica che mi mettono davanti mi annoia tanto, farei meglio ad alzare il culo e compormela da sola, ti pare?

Catherine, ancora in imbarazzo per il disgusto provato vedendo il capezzolo cosparso di bava, rimase tanto più sconcertata per la piega che stava assumendo la conversazione. Quel linguaggio spiccio adottato da Dagmar accentuava il fatto che fosse straniera perfino più dell’accento tedesco, e la sincera indifferenza per l’incarico che li aveva condotti lì era ancora più sbalorditiva. Ma la cosa in assoluto più strana era l’idea di comporre la musica da soli qualora insoddisfatti di quella fornita dagli altri.

— Tu scrivi musica? — Ai margini inferiori della sua visione, Catherine scorse la T-shirt che calava andando a coprire il perturbante turgore di carne.

— Certo, — disse Dagmar, trovando un punto più adeguato dove poggiare la testa lanuginosa del figlioletto. — Tu no?

Catherine non si era mai sognata di comporre una nota. Suonava il piano con destrezza, se la cavava bene con il flauto, le bastava leggere lo spartito di un brano musicale per sentirlo risuonare nella testa — anche se non con la precisione con cui riusciva a sentirlo Roger, è ovvio. Quando si trattava di leggere uno spartito, Catherine immaginava il proprio cervello come una vecchia radio, col sonoro che ogni tanto andava e veniva, e il cervello di Roger come un lettore di cd, che coglieva ogni sfumatura grazie all’efficienza del digitale. Quanto all’eventualità di fare dei segni sul pentagramma con le sue mani: no, era inconcepibile. Le rare volte in cui si permetteva di cantare una nota diversa da quelle che qualcuno aveva scritto per lei, Roger era sempre lì pronto a dire: «Fa diesis, Kate, non fa naturale» o qualcosa del genere.

— Sono convinta di non avere i requisiti, — disse a Dagmar.

La ragazza tedesca non sentiva un forte impulso a contraddirla, gli occhi marroni scuri e opachi come cioccolato al caffè belga.

— Se lo dici tu, — commentò, stringendosi nelle spalle.

Catherine si richiuse in se stessa: aveva sperato di sentirsi rassicurare. Che strani questi tedeschi, non capivano che una dichiarazione di inadeguatezza di fatto è solo una scusa per sentirsi incoraggiare. Forse era un bene che non avessero vinto la Battaglia di Inghilterra.

— Tanto per cominciare non ho la formazione giusta, — disse Catherine. — I vari Pino Comesichiama hanno studiato composizione per anni.

Era chiaro che Dagmar si faceva un baffo delle credenziali di Pino.

— Canticchiare sottovoce in bagno è comporre, non trovi? — disse, stringendo Axel contro la spalla. — Io canto per me stessa quando vado in bici, e per mio figlio. E non è il Partitum Mutante che canto, questo è certo.

Sfoderò un largo sorriso, che Catherine ricambiò. Era un modo piacevole e sicuro per chiudere la conversazione.

— Ora metto Axel a letto, — disse Dagmar. — Dovresti andare a fare una passeggiata, non credi? Là fuori è tutto perfetto: il clima, il bosco, tutto.

— Mi piacerebbe, — le assicurò Catherine. — Non sai quanto. Ma forse Roger vuole che cominciamo subito.

L’occhiata che le scoccò Dagmar la fece vergognare tanto che corse a cercare le scarpe.

Gina la cameriera arrivò a bordo di una piccola Peugeot bianca proprio mentre Catherine usciva dalla porta — un tempismo perfetto, così Roger non poteva arrabbiarsi per il ritardo nelle prove, giusto?

Vagamente sgomenta per la propria indocilità, Catherine mollò gli ormeggi dalla casa senza dare spiegazioni a chicchessia, dirigendosi velocemente ai margini del bosco, per poi sbirciare da lì, attraverso gli alberi radi, in direzione del castello. Roger e Julian facevano a gara per dare il benvenuto a Gina la quale, contrariamente alle aspettative, era una bionda poco più che ventenne con un fisico da ballerina e una tenuta da lavoro in tema. Tutto nei Paesi Bassi aveva una qualità superiore al previsto. Perfino l’aspirapolvere che Gina cercava di estrarre dal sedile posteriore dell’auto senza l’aiuto degli stranieri sembrava degno di un premio per il design e capace di risucchiare qualunque cosa nel suo lucente corpicino di plastica.

Per quanto Catherine ne sapeva, Roger non le era mai stato infedele. Non era nel suo stile. Una volta che prendeva un impegno, vi si atteneva scrupolosamente e non lo mollava a nessun costo. A nessun costo. Né era probabile che un infarto o un colpo apoplettico glielo portassero via. Aveva quattro anni più di lei, ma era in gran forma. Sarebbero stati insieme per sempre, a meno che non morisse prima lei.

Catherine diede le spalle al castello, inoltrandosi fra gli alberi. Camminando calciava dolcemente il morbido tappeto frusciante di foglie morte e terra torbosa per tracciare una specie di sentiero da seguire dopo nel caso si fosse persa. Il cielo era limpido, il venticello mite. Le impronte sarebbero rimaste, ne era sicura.

Durante la guerra, probabilmente i nazisti avevano ucciso delle persone in quel bosco. La guerra era arrivata in Belgio, no? Provò una leggera vergogna nell’ammettere che non ne era sicura. In realtà ne sapeva ben poco su qualunque argomento che esulasse dal canto. Roger l’aveva salvata dall’infelicità post-adolescenziale al Magdalen’s College e, da lì in poi, si era assunto la responsabilità del mondo intero. Le diceva quello che secondo lui poteva interessarle, evitava accuratamente quello che a suo parere era meglio non sapesse. E lei, da parte sua, aveva davvero la memoria corta, soprattutto negli ultimi tempi. Era possibile che Roger una volta le avesse parlato del ruolo svolto dal Belgio durante la Seconda guerra mondiale, ma ormai l’aveva dimenticato.

In ogni modo, ammesso che i nazisti fossero stati in quel bosco, il posto era perfetto per giustiziare qualcuno. Catherine si chiese cosa si provasse a essere presi in una retata, scortati fino al ciglio di una fossa comune, e fucilati. Cercò di provare pena per quelli che non desideravano morire: le donne con dei figli, magari. Ma riusciva a pensare solo che sarebbe stato provvidenziale liberarsi di quel peso delegando ad altri la decisione: a un nazista che ti conduca dalla menzogna alla tomba, dove ti sparerà un colpo dietro la nuca, un punto dove non arriveresti mai da sola.

Poi, a distanza di qualche anno, un Robin Hood francese e i suoi allegri compari passerebbero a cavallo sopra le tue ossa, agitando i gagliardetti colorati per la gioia di tutti i bambini europei.

Un quarto d’ora dopo, Catherine smise di camminare e si accovacciò contro il ramo muscoso di un cedro del Libano, sistemandosi comodamente sul giaciglio del bosco. Non si correvano rischi a poggiare il sedere — il culo? — sul terreno; sembrava progettato dagli scienziati dei Paesi Bassi per nutrire la vegetazione senza sporcare i pantaloni. Il calore del sole, propagato dalla cima degli alberi, le irradiò vitamina D nella pelle. Tutt’intorno, la fievole luce dorata guizzava sui verdi e i marroni, mentre le foglie esalavano ossigeno puro e fragrante.

Spesso i compositori traggono ispirazione dalla natura, pensò Catherine. La Sinfonia «Pastorale» di Beethoven, Vaughan Williams, Delius, quel genere di cose. Che significato aveva la natura per lei? Cercò di stabilirlo, come se quella domanda le fosse appena stata posta da Dio.

Natura significava assenza di persone. Era un sistema organizzato per funzionare senza esseri umani, concentrato sull’inanimato e l’eterno. Il che di tanto in tanto era molto rilassante. Ma pericoloso, alla lunga: sarebbe calato il buio, e non ci sarebbero state porte da chiudere, né tetti sopra la testa, né coperte da tirare su. In fondo non siamo animali.

Catherine si alzò in piedi levandosi le foglie e i frammenti di corteccia da dietro i jeans. Aveva avuto abbastanza natura per quel giorno. Era ora di tornare a casa.

Percorrendo a ritroso il sentiero che aveva creato, divenne consapevole di tutti gli uccelli che dovevano essere posati sugli alberi attorno e sopra di lei. Alcuni intonavano un cinguettio musicale, ma la stragrande maggioranza era silenziosa. La guardava. Catherine non sopportava quell’idea; si concentrò sul rumore prodotto dai piedi che frusciavano nel sottobosco.

Il respiro sempre più veloce risuonava incredibilmente alto nell’immobilità, e con l’accelerare del passo i respiri si fecero più simili a espressioni vocali, con un tono e un timbro tutti loro. Esattamente come il canto avanguardistico, in realtà: i vocalizzi di un’anima terrorizzata.

Ora stava quasi correndo, incespicando sui rami staccati e le zolle di terra che aveva calciato prima. Lo sfarfallio della luce solare era troppo veloce fra gli alberi, sembrava una fluorescenza che funzionava male, livida e fredda. Aveva di nuovo perso la cognizione del tempo? Mancava di casa da ore?

Cosa farebbe adesso se sentisse il grido?

Il pensiero giunse improvviso, come una freccia scoccata dritto nel cervello. Era sola nel bosco di Martinekerke con la cosa che le aveva indirizzato i suoi lamenti durante la notte. E che forse ora teneva gli occhi scintillanti fra gli alberi puntati su di lei. Aspettava il momento buono per lanciare di nuovo quel grido, aspettava che lei si avvicinasse a tentoni tanto da poterglielo urlare dritto nell’orecchio, nella nuca, facendola crollare sulle ginocchia in preda al panico. Catherine correva, piagnucolando angosciata. Avrebbe fatto la brava da lì in avanti, se solo Roger fosse andato a salvarla.

Senza fiato, parzialmente accecata, irruppe nella radura. Malgrado l’intensità del terrore le erano bastati un paio di minuti per lasciarsi il bosco alle spalle; non si era allontanata poi così tanto da casa, in fin dei conti. Il castello era proprio al di là della strada, e la piccola Peugeot bianca parcheggiata davanti dichiarava a chiare lettere l’implausibilità di urla soprannaturali.

— Bene, è l’ora del Partitum Mutante, — le disse Roger, non appena ebbe varcato la soglia.