37514.fb2 Canto di pietra - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 10

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NOVE

Tu ti agiti, il vento sta producendo un rapido cambiamento nell’aria che si rasserena e negli alberi che fremono attorno a noi mentre mi preparo a partire. Decido che le mie scarpe non sono abbastanza robuste e le cambio con un paio di solidi stivali, e questo richiede anche un cambiamento di calze e pantaloni, quindi di giacca, camicia e panciotto se non voglio sembrare ridicolo. Sto ben attento a prendere tutto ciò che avevo nelle altre tasche, e provvedo perfino ad appendere da solo i vestiti scartati.

Mentre passo dalla tua stanza, ti trovo con gli occhi pesanti e la bocca piena, intenta a fare colazione. Mi siedo sul tuo letto e ti guardo mentre mangi lentamente. Fai ancora un po’ di fatica a respirare.

«Roly mi ha detto», sussurri ansimando, «che è morto Arthur.»

«Non dovresti chiamarlo Roly», dico automaticamente.

«È vero?» chiedi.

«Sì», rispondo. Tu annuisci e continui a mangiare.

Mi chiedo cosa sto provando adesso e stabilisco che è nervosismo. Sono abituato solo all’aspettativa, non a questa emozione forse simile ma del tutto spiacevole, e immagino che mi colpisca così acutamente proprio perché ne sono così poco avvezzo. Ci sono stati spaventi e crisi a volontà in questi ultimi anni, col peggiorare della situazione — in maniera del tutto incredibile all’inizio, anche se, col senno di poi, c’è il marchio dell’inesorabilità su tutto ciò che è accaduto — fino all’attuale eccesso di avversità, ma in qualche modo in passato riuscivo a sfuggire a questo senso di timore.

Forse in passato mi sono sempre sentito padrone delle circostanze, sicuro com’ero dell’amministrazione della nostra casa e delle sue distribuite risorse; perfino mettersi per strada, abbandonando il castello nel suo interesse, mi era sembrato un atto coraggioso e assennato, perché finalmente prendevamo fra le mani il nostro destino, dopo che la determinazione precedente cominciava a sembrare più temeraria che coraggiosa. E alla fine di quel tentativo di fuga, quando la luogotenente ci ha riportati indietro, io provavo preoccupazione, rabbia e una specie di indignata paura fisica, ma tutto questo era tenuto in scacco al fondo della mente dalla necessità di una reazione immediata che la situazione ci richiedeva, dalla nostra immersione nel presente e nelle sue pretese.

Ma questa trepidazione, questa ansietà febbrile, questa apprensione rivolta al futuro è qualcosa di completamente diverso. Non riesco a ricordare di essermi mai sentito così fin da quando venivo spedito in camera mia in attesa della punizione da parte di papà.

Do un’occhiata alla tua stanza. Sento che, di sotto, la luogotenente sta gridando gli ordini ai suoi uomini. Di sopra continuano i colpi di martello. Il castello, circondato, assaltato, invaso, usato e trafitto, ci trattiene tutti: te e me, i nostri domestici, i soldati della luogotenente. Le sue antiche pietre, per quanto inviolate, sembrano adesso diminuite: non per un’offesa intenzionale, non per il furto di qualche significativo tesoro, ma solo per la presenza della luogotenente e dei suoi uomini, il castello perde valore, viene ridotto a qualcosa che si può esprimere semplicemente in termini di tempo e di circostanze. Dov’è finito ormai il nostro retaggio? Dove va cercato lo spirito del luogo, e quanto importa ancora?

Nonostante il suo aspetto bellicoso, il castello appartiene a una civiltà raffinata, e il suo valore si può apprezzare solo in tempo di pace; per riassumere completamente il suo antico significato e potere, tutto attorno a noi dovrebbe precipitare ancora più in basso, fino al punto in cui non funzioni più nessun motore, non esistano più le armi da fuoco e la luogotenente e i suoi uomini siano ridotti all’uso di frecce, archi e lance (eppure, anche così, le macchine da assedio riuscirebbero lo stesso ad abbatterlo).

Sto facendo, e ho fatto, la cosa giusta? Forse avrei dovuto confonderli riguardo alla mappa e avvisare invece il fronte avversario del loro attacco, e poi — evitando con un pretesto di andare con loro — fermarmi qui e sopraffare i pochi soldati lasciati indietro, nella speranza che il grosso della loro truppa venisse annientata dai nemici. Forse non avrei dovuto far parola del carburante nascosto sotto la carrozza.

Eppure credo ancora di aver fatto bene; per il momento siamo dalla stessa parte e io perseguo i nostri scopi aiutandoli nel tentativo di conquistare il cannone. Quell’arma ormai ci ha preso le misure, e solo la fortuna gli ha impedito di distruggere metà del castello — e te e me — con il primo colpo di stamattina. Chissà cosa accadrà oggi pomeriggio? In qualunque attacco, il mio posto sarà per forza nella retroguardia, disarmato. Se falliscono, dovrei riuscire a scappare, a ritirarmi con loro, o perfino a liberarmi della loro compagnia. Comunque vada, non esisterà più la ragione per la quale hanno sparato contro il castello, e così potremo magari essere lasciati in pace. Se il gruppo della luogotenente avrà successo, benché di sicuro ridotto nel numero, la minaccia più immediata al castello sarà stata comunque eliminata, dato che sarà finita nelle mani della luogotenente o sarà stata distrutta.

E se non altro, libererò per un po’ la casa dalla loro presenza. Li guiderò fuori di qui per la battaglia, e in virtù di questo episodio più o meno irrilevante, mi sarò lasciato coinvolgere: mi sarà consentito di sentirmi vivo come mai mi è capitato in precedenza.

Forse nessuno di noi tornerà indietro, mia cara; forse solo tu, i nostri pochi domestici e i più miti e malconci della truppa della luogotenente erediterete il castello. Ti guardo sbadigliare, pettini all’indietro un pesante ciuffo di capelli neri che ti è caduto sul viso, spalmi il burro su una fetta di pane, e mi chiedo se mi ricorderai con affetto e rimpianto o se mi ricorderai e basta, dopo un po’.

Oh, cara. Credo proprio che sia autocommiserazione. Sto immaginando di morire in circostanze drammatiche, di esserti tragicamente sottratto, e poi di essere dimenticato, cosa ancor più lamentevole. A quali terribili cliché ci riducono la guerra e le lotte sociali, e come devono essere potenti i loro effetti, se perfino io ne sono stato infettato. Credo sia il caso di tornare padrone di me stesso.

Finisci la colazione e ti strofini le dita, guardandoti intorno in cerca di un tovagliolo. Sto per offrirti il mio fazzoletto quando tu scrolli le spalle e usi l’orlo di un lenzuolo, e poi ti succhi un dito alla volta. Vedi che ti sto guardando e sorridi.

Mi chiedo quanto tempo abbiamo. Forse dovrei cercare di ricavare il massimo da quella che potrebbe essere l’ultima nostra occasione di vederci: liberarti dalle coperte, sbottonarmi i pantaloni e rapidamente ficcarmi tra le tue gambe, ansioso per la minaccia incombente di una morte tutt’altro che piccola.

All’improvviso mi tornano in mente le innumerevoli volte in cui il nostro amore — considerato sbagliato, per natura, e intensificato da tutte le irregolarità che riuscivamo a escogitare — si è palesato in questo alto e grande letto a baldacchino, questo palcoscenico dei nostri copiosi atti, questa piattaforma di tante provocatorie vedute: una volta con oli profumati, e ci è voluta una vita per toglierci dalla pelle quegli odori dolciastri; una volta con una camicia da notte sollevata fino al collo, e poi tesa strettamente sul tuo volto, fino a cancellarti in quel vuoto, e a far emergere uno per uno i tratti del tuo viso mentre sobbalzavi e ti dimenavi (la qual cosa mi ha insegnato che talvolta è un minimo cambiamento, la più piccola e contingente delle variazioni che fornisce il piacere più intenso); quante volte, in verità, ci siamo mascherati mentre allo stesso tempo eravamo nudi, o con il corpo travestito, mentre il linguaggio dei vestiti mentiva sul sesso; o limitati nei movimenti, legati con morbide sciarpe o cinghie di cuoio, con uno di noi ridotto in forma di X fra i robusti montanti di questo letto; o impegnato in qualche umiliazione smodata, bestiale e crudele; tu, o io, al guinzaglio, la nostra stessa vita in potere dell’altro — in un cappio, in un laccio di pelle o fatto con i tuoi capelli, quando li avevi lunghi, il mio metodo preferito — boccheggianti fino a quell’orgasmo strozzato che è stato negato ai nostri poveri saccheggiatori; o insieme ad altri, in un intrico di corpi che si sfioravano al lume delle candele, soffocati e abbandonati in una condivisa tempesta di carezze, dolci e aspre e gentili e feroci e indulgenti e severe e lubriche e crudeli, mentre tutti scivolavamo, lottavamo, spingevamo e ci costringevamo a un sollievo vacillante e molteplice.

E, soprattutto, la prima volta che ti ho condivisa, verso l’alba di un ricevimento, molti anni fa, poco prima che le nostre feste diventassero famigerate, quando, dopo averti a lungo incoraggiata, con accenni, lusinghe e l’esempio implicito, mi fu concesso di trovarti qui, senza freni, su questo letto trasformato in un gonfio paesaggio di puro biancore, immobilizzata e immobilizzante e sobbalzante allo sprone del piacere, salendo e cadendo come un vascello abbandonato sul mare gonfio e tempestoso.

Era un cugino, uno dei miei migliori amici, con cui ero andato a cavallo, avevo cacciato e tirato di scherma e passato molte altre notti ebbre e dissipate. In quel momento lo scoprii sotto di te, legato con corde di satin, che godeva di te mentre lo cavalcavi, eretta e arcuata, con le mani strette attorno alle sue caviglie, e poi — dopo che il ragazzo si era ripreso dalla sorpresa iniziale al vedermi, e aveva colto la mia idea, che anzi l’aveva evidentemente rinvigorito — per me ti curvasti in avanti, allungandoti verso di lui e baciandolo mentre anch’io mi univo a voi, salendo vicino a lui, parallelamente ai suoi colpi generosi ma — con tenerezza, con pazienza, sforzandomi di non causare dolore — dedicandomi a un approccio più basilare. Mentre tu a una mia parola ti fermasti, come una cavalla obbediente, sentendo lui che si muoveva sotto e dentro, fu lui con grandi sforzi a rendersi conto che stava liberando in me ciò che cercava in te e in se stesso.

È stato, forse, il mio miglior momento. A giudicare secondo i crudi criteri contabili che si possono applicare a simili materie, in molte occasioni seguenti ci saremmo senza dubbio superati, ma c’era una freschezza, un’insostituibile e irripetibile novità in quella prima volta che la rese altrettanto preziosa — no, più preziosa — della semplice perdita della verginità. Per ciascuno di noi quel primo atto è di solito un’occasione di nervosismo, di affannosa goffaggine e di squisiti zenit di imbarazzo che solo la giovinezza può fornire davvero; non può mai assurgere all’appagamento fisico e alla raffinatezza intellettuale del gusto — la capacità di apprezzare pienamente ciò che si sta compiendo — che solo l’esperienza può portare con sé e che, col passare del tempo, uno riesce a cogliere nelle successive variazioni dell’atto, senza considerare in quali precise particolarità esso non abbia precedenti.

A quanto pare sono riuscito a decidermi. Tutto è silenzioso per un istante. Allungo una mano verso la tua caviglia, e la afferro attraverso le coperte mentre tu alzi gli occhi, sbigottita, e qualcuno bussa bruscamente a una porta. Il suono proviene dalla mia camera. Volgiamo entrambi lo sguardo.

«Sì?» dico, a voce abbastanza alta.

«Stiamo andando», grida una voce militaresca. «La luogotenente dice che deve venire anche lei.»

«Un minuto!» grido. Strappo via lenzuola e coperte dal tuo letto.

Hai un’aria imbronciata, mentre sollevi i fianchi per tirare in su la camicia da notte. «Stiamo tentando di battere un record?»

«Ci sono cose che non ci aspetteranno», dico, sbottonandomi appena mentre mi sollevo verso di te.

«Be’, non farmi male…» dici con aria petulante.

Più che dolore, una tale forzatura richiede tempo, nonostante la determinazione che uno possa metterci. Seppellisco la faccia fra le tue gambe, e sprofondo nel profumo di te, terrestre e insieme salmastro. Lascio cadere un po’ di saliva, poi mi sollevo e mi immergo in te.

Un altro grido.