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Un vestibolo ribassato: nell’atrio d’ingresso del castello, la cappa della luogotenente è stata gettata da parte come una pelle di velluto, attorno alle spalle di un’armatura vuota che sta immobile sotto un rosone di spade appese al muro. I motori freddi delle jeep sferragliano in cortile. La luogotenente sta parlando con il soldato dai capelli grigi, quello ferito alle gambe e con la cicatrice sulla faccia; lui si appoggia alla stampella di fortuna e ascolta coscienziosamente gli ordini. Vicino ci sono due nostri domestici che osservano la luogotenente e poi si volgono verso di me.
La luogotenente mi squadra dalla testa ai piedi. «Cambiato di nuovo, Abel?»
«In meglio, spero», le dico toccandomi i pantaloni per assicurarmi di averli riabbottonati. Non credo che lei noti il mio gesto.
Anche la luogotenente è vestita in modo diverso: ostenta sempre gli stivaloni, ma adesso indossa calzoni di tweed e un gilè sulla camicia verde. Il giubbotto mimetico e un elmetto d’acciaio fanno fatica a dare il necessario tocco marziale a quella tenuta da campagna. Sopra l’elmetto c’è un tessuto verde, tenuto fermo da una reticella nera tesa e aderente e — in questo momento di detumescenza in cui il cuore mi rimbomba nel petto — evocativa.
Il soldato con la cicatrice mormora qualcosa alla luogotenente. Lei aggrotta le sopracciglia, dà un’occhiata ai domestici e si piega verso di me, mi mette una mano sul braccio e dice sottovoce: «Seppelliranno il vecchio Arthur nel bosco dietro il castello; il posto migliore è forse un cratere di granata. Se non altro è profondo».
Faccio cenno di sì, leggermente sorpreso. «E appropriato», concordo. Così Arthur andrà a raggiungere papà. La mamma aveva sparso proprio lì le sue ceneri: l’aveva restituito alla terra di casa al suo ritorno, in una cassa, dopo essere stato assassinato in una città straniera.
«Probabilmente incideranno qualcosa su un pezzo di legno», dice la luogotenente. «Come si chiamava di cognome?»
La guardo imbarazzato. «Di cognome?» ripeto, per prendere tempo.
Mi fissa stringendo gli occhi, sospettando, ne sono convinto, che non lo sappia. Ha ragione, naturalmente, ma non posso perdere il piccolo vantaggio che ho su di lei.
«Sì», dice, «Il cognome di Arthur: come si chiamava?»
«Ignatius», le rispondo, aggrappandomi al primo nome che mi viene in mente (e adesso che ci penso, era il nome del cugino che avevo scoperto con te in quella notte di occupazioni condivise).
La luogotenente corruga la fronte, ma poi trasmette con calma questa falsa informazione al soldato sfregiato, che annuisce e si allontana zoppicando. Lei mi rivolge un sorriso sottile e solleva il fucile che aveva posato vicino al muro. Non me n’ero accorto. Il contenitore che aveva ospitato il fucile della luogotenente era un vecchio bossolo di granata che la nostra famiglia aveva sempre usato per riporre ombrelli, bastoni da passeggio e così via. Lei coglie il mio sguardo mentre controlla il fucile e se lo mette in spalla. Con uno stivale dà un colpetto al cilindro d’ottone. «Un calibro più piccolo», mi dice, poi accenna alla porta e al cortile.
«No, no, dopo di lei», rispondo, battendo i tacchi.
La sua bocca fa di nuovo quella piccola torsione, e dopo un cenno ai due soldati feriti nell’atrio esce alla luce del sole, batte le mani, raduna i suoi uomini e, con una fretta improvvisa, si mette a gridare: «Su, avanti! Andiamo!»
Prendo posto sulla seconda jeep, con lei. La luogotenente si siede dietro l’autista, io sull’altro sedile posteriore, e fra noi c’è il treppiede della mitragliatrice, affidata al soldato coi capelli rossi, Karma, che per il momento sta seduto, con una natica puntata su ciascuno degli schienali dei sedili e i piedi schiacciati fra le nostre cosce.
La prima jeep abbaia e scatta in avanti, evitando di poco il pozzo e sbandando attraverso il cancello e il ponte sopra il fossato. Noi la seguiamo, oltrepassiamo il pozzo, avanziamo sui ciottoli umidi con una minima perdita di aderenza, e poi ci tuffiamo verso la stretta apertura del cancello. Il motore aumenta i giri mentre passiamo nel breve tunnel sotto l’antico corpo di guardia, fra le torri. Al di là, il sole mi acceca, inondandomi gli occhi di una ricca luce dorata. In alto, il cielo è blu cobalto.
La nostra luogotenente si mette una mano in una tasca e infila gli occhiali da sole. Il soldato al volante fa lo stesso. È senza elmetto ma porta una bandana verde oliva legata attorno ai capelli biondi; nonostante la temperatura e la scarsa protezione dagli elementi fornita dal parabrezza della vettura aperta, ha le braccia nude e indossa solo una maglietta strappata, uno scaldino, qualcosa che sembra un giubbotto antiproiettile e, sopra, un gilè con le tasche rigonfie e ornato di nastri di proiettili da mitragliatrice.
La jeep ci fa piegare di nuovo all’indietro mentre il ponte di pietra ci trasporta oltre il fossato e il primo fuoristrada accelera lungo il viale d’accesso. Superiamo i camion, in attesa sulla ghiaia. Ciascun motore tossisce, dà gas e ci viene dietro obbediente, mentre i tubi di scappamento annebbiano il cielo con neri schizzi di fumo. Mi chiedo se abbiano già riempito i serbatoi con il carburante di cui gli ho parlato.
La luogotenente mi mette in mano un fascicolo di carte infilato in una cartelletta di plastica. Dentro l’involucro trasparente vedo una parte della mappa che abbiamo consultato insieme, nella biblioteca. Lei si tira fuori una sigaretta e la accende, fissando la strada davanti a sé. Le ruote rombano sulla ghiaia. Mi guardo attorno mentre, osservati dagli sguardi cupi di alcune facce tese e ansiose, oltrepassiamo l’accampamento degli sfollati.
Dietro di noi i due camion avanzano ondeggiando fra i tiranti dell’accampamento; i loro teloni mimetici sembrano tende svolazzanti che per qualche motivo si sono messe in movimento fra le altre. Al di là, il castello. Si ergono i suoi blocchi di granito, luccicano le finestre, le torri e le merlature dividono il cielo blu, e la mole dorata, come il mantello di un leone contro il fondale dei boschi e il cielo di zaffiro, resiste, fiera e sempre vittoriosa, nonostante tutto.
Parto solo per ritornare, dico a me stesso. Lo abbandono solo per difenderlo meglio. I castelli hanno bisogno della loro dose di fortuna, oltre che di essere ben disegnati; stamattina abbiamo già avuto la nostra razione di buona sorte, e anche di più, quando la granata piovuta dal cielo non è riuscita a germinare e a produrre il suo fiore esplosivo, e spero che i miei stratagemmi — assorbire, cooperare, osservare, attendere — possano fornire una più ragionevole protezione di una sfida arcigna e ammonitrice che invita solo all’assalto e alla distruzione.
Assorbire come la terra, cooperare come il contadino, osservare e aspettare come il cacciatore. Le mie strategie devono rimanere nascoste sotto l’apparenza delle cose, come la geologia che si può solo sospettare sotto la superficie del mondo. È lì, nella rotazione palatale delle rocce sotterranee, che si decide il vero corso delle storie e dei continenti. Sepolte entro un limite indefinito, sollecitato da una continua tensione sotterranea, giacciono le potenze represse che plasmano il mondo futuro; una presa cieca e brutale di pressione e calore fluido, che tiene e trattiene la sua pietrosa riserva di forza.
E il castello, prodotto dalla roccia, modellato con quella durezza dalla carne e dal cervello e dalle ossa e dalle maree di tutti gli interessi umani in conflitto, è un poema inciso in quella forza; un valoroso e aggraziato canto di pietra.
Credo di vederti, mia cara, a una finestra, mentre saluti. Mi chiedo se ricambiare quel saluto, poi mi accorgo che la luogotenente, al mio fianco, si è voltata anche lei a guardarti. Si sistema la rete che le avvolge l’elmetto, soffia una nube di fumo che viene spazzata via dalla nostra avanzata e si volta di nuovo.
Quando torno a guardare non ci sei più, e al tuo posto c’è un abbagliante riflesso di luce, incastonato fra quelle pietre color miele come un gioiello liquido e splendente. Al di sopra, i tre saccheggiatori impiccati ondeggiano nella brezza, dimenticati; e ancora più in alto, con una grazia pesante e spontanea, senza potersi opporre alla salda presa del vento, il nostro vecchio memento, il nostro nuovo emblema, la bandiera, ci invia il suo saluto.
Un istante dopo, con una curva, ci infiliamo tra gli alberi, e il castello ci viene negato dal suo stesso parco.