37514.fb2
La terra è tiepida sotto l’alta mano del sole, la luce cade bocconi e aggiunge nuove tonalità alla tavolozza delle stagioni; questa strada, dorata per un recente acquazzone, fuma come un lucente sentiero diretto verso il cielo. Ci muoviamo velocemente, senza incontrare nessuno, attraverso una nebbia da palcoscenico che si innalza tortuosamente, colpita dal sole. Ci trasciniamo dietro, lungo viali alberati, il fumo dei tubi di scappamento, fili spezzati di un burattino. Le strade fumanti sono tranquille, se non vuote; passiamo accanto a carri e roulotte finiti nei fossi, camion rovesciati su un fianco o precipitati nei canali di scolo, con le ruote puntate verso l’aria e il naso infisso nel fondo umido. Altri camion, autobus, furgoni, pickup e automobili trasformano in gincane i lunghi rettilinei della strada. Le loro carcasse sono bruciate o capovolte, o semplicemente sono state abbandonate. Tutto parla delle folle che hanno percorso questa strada, lasciandosi alle spalle questi carapaci di metallo come fanno i granchi dal corpo molle sul fondo del mare, dopo aver mutato la loro precedente anatomia. Ci muoviamo a zigzag in questa desolazione senza vita come un ago che percorre un lacero arazzo di rovine.
In più, la strada è ostruita da mucchi e file di beni abbandonati, e si vede la miseria dell’immaginazione dei profughi, se non della loro stessa vita, considerando quello che dapprima avevano pensato di portarsi dietro, e poi sono stati costretti a lasciare: elettrodomestici, poveri oggetti per ornare la casa, vasi di piante, intere collezioni di dischi, sgargianti mucchi di riviste ormai fradicie di pioggia; come se, travolti da un panico improvviso, avessero afferrato la prima cosa capitata sottomano, non appena si erano resi conto che starsene a casa loro non era più un’idea così consigliabile.
Non ci sono cadaveri, a quanto vedo, ma qua e là ci sono mucchi di vestiti, sparsi dal vento o da qualche animale attraverso i campi e sulla sede stradale, disposti talvolta dal caso in una vaga somiglianza con una forma umana, che attira così l’attenzione di un occhio sbigottito. Continuiamo la nostra corsa senza tentare di evitare questi detriti, travolgendoli e gettando qua e là pentole e padelle, paralumi, scatole, custodie di plastica. Rimbalziamo su mucchi di vestiti stracciati, e li spargiamo a destra e a manca.
Il nostro autista corre veloce e sterza all’improvviso, a quanto pare per colpire qualche oggetto mancato o fatto rimbalzare all’indietro dalla jeep che ci precede; urla e ride quando distrugge un altro oggetto domestico smarrito o una padella che ruota su se stessa, colpita dall’altra jeep. La sua pelle nuda è chiazzata dal freddo, ma lui sembra non accorgersene. La sua bandana verde oliva si increspa nel vento, gli occhiali da sole scintillano. La luogotenente è seduta con una gamba appoggiata alla maniglia interna della porta, il calcio del lungo fucile è posato sul suo grembo accanto alla radio, e la canna è ritta nel vento come una frusta. Il soldato davanti a me sta seduto allo stesso modo, e continua a controllare il suo fucile, togliendo il caricatore e infilandolo di nuovo, dentro e fuori, dentro e fuori.
Ogni tanto si piega in avanti e, con uno straccio estratto da una giberna che porta alla cintura, olia qualche altro millimetro quadrato della lucida superficie dell’arma. Porta alti stivali con legacci, una voluminosa tenuta da fatica e un giubbotto trapuntato che, credo, una volta doveva essere bianco ma che poi è stato chiazzato di colori che rappresentano tutte le tonalità del fango, dal marrone al nero, al rosso, giallo e verde. Ha in testa un elmetto metallico simile a quello della luogotenente ma con le parole MORTO DENTRO scarabocchiate sulla tela verde, con qualcosa che sembra rossetto scarlatto.
Dietro e sopra di me, Karma indossa un paio di calzoni alla zuava rubati a qualche contadino, sormontati da una pelliccia che proviene da un nostro armadio e copre il suo giubbotto da combattimento; le mani strette alla staffa della mitragliatrice sono avvolte in guanti da sci, a uno dei quali è stata rimossa la punta dell’indice, per permettere un migliore accesso al grilletto. Sulla tela che ricopre l’elmetto ha cucito le decorazioni concesse a qualche mio antenato.
Il soldato davanti a me estrae ancora una volta il caricatore. Ispeziona le pallottole scintillanti annidate al suo interno, lo rigira e ripete l’operazione, poi lo fa scattare di nuovo al suo posto. Sento l’odore dell’olio del fucile. Il soldato si mette a cantare; qualcosa di vagamente riconoscibile, che doveva essere popolare qualche anno fa. La luogotenente fruga in una borsa a tracolla posata ai suoi piedi — qualcosa che ha sulla mano attira il mio sguardo e penso alla borsa dei gioielli che tenevi vicino ai piedi sulla carrozza — poi torna ad appoggiarsi allo schienale e aggancia due bombe a mano sul davanti del giubbotto. La superficie sfaccettata delle bombe fa venire in mente grosse barrette di cioccolato fondente. La luogotenente si accende un’altra sigaretta.
Ho partecipato a battute di caccia non molto diverse da questa spedizione. Fuoristrada con trazione integrale e aria condizionata al posto di jeep con la mitragliatrice, rimorchi per il trasporto di cavalli invece di camion, doppiette, non armi automatiche. Eppure la sensazione è la stessa, e anche gli attori non sono molto diversi. La luogotenente possiede un suo stile, mentre sfreccia nella jeep con gli occhiali da sole, una sigaretta stretta fra le labbra, lo sguardo fisso avanti. Anche ai suoi uomini non manca un’aria militar-chic. Abitano articoli spaiati di un vestiario militare talvolta incongruo — un berretto da generale, spalline d’oro ma luride cucite su un giubbotto da combattimento, un’esibizione di nere bombe a mano appese su un gilè come distintivi. Altri ostentano abiti e articoli civili — un panciotto sgargiante indossato sotto una mimetica, un altro berretto dall’ambiguo statuto militare che forse apparteneva a un velista, l’anello per l’apertura di una lattina portato come orecchino: e molte di queste cose serviranno da portafortuna, immagino, oltre che come espressione di individualità.
E in un certo senso loro ci surclassano. Le nostre cacce erano frivole: semplici giochi per gente che aveva tempo, terre e risorse da sprecare in tali divertimenti. Lo scopo della luogotenente è più serio, la sua missione ha un’importanza molto maggiore delle nostre: adesso in palio c’è molto di più della vita o della morte di qualche sensibile animale. Tutti i nostri destini, e quello del castello, sono posati sul piatto oscillante della bilancia, in attesa di un giudizio emesso non da una magistratura, per quanto parziale nelle sue vedute, ma dalla nuda forza delle armi.
Questi tempi livellatori restano ingiusti, e rendono comune, degradandolo, ciò che dovrebbe essere libero da ogni volgare minaccia, in una campagna così incivilita e coltivata. Questa tensione malata e ansiosa, queste devastazioni che ci circondano mi sembrerebbero naturali in luoghi più aspri, dove meno si è edificato e meno c’è da distruggere. Ma in questo risiede forse il nostro errore originario; tutti coloro che hanno dato inizio a questo tumulto non riuscivano a credere che ci saremmo ridotti alla barbarie che abbiamo abbracciato.
Mi chiedo quale sia la storia della luogotenente e dei suoi uomini. Sembrano, almeno in parte, provenire da un vero esercito, anche se sono ovviamente irregolari e agiscono solo per se stessi, senza far parte di una forza più ampia e senza nessuna particolare devozione a una causa superiore. Eppure, mi viene in mente, i loro veicoli sono (o erano) dell’esercito. Molte delle bande armate che percorrono la nazione — poco meno, o poco più, di banditi — prediligono (o non hanno altra scelta che requisire) fuoristrada o pick-up civili. Al contrario, la luogotenente e i suoi uomini hanno vere jeep e camion militari, e le loro armi sembrano provenire tutte da una stessa fornitura: parecchie mitragliatrici pesanti, fucili automatici, granate da fucile, pistole automatiche simili. Avevo creduto che volessero prendersi anche i miei fucili da caccia ma, dato il loro arsenale, armi del genere non possono davvero essere la loro prima scelta. Sembrano anche, pensandoci adesso, molto disciplinati. Forse una volta erano un’unità dell’esercito regolare?
Decido di chiederglielo. Guardo la luogotenente, seduta con lo sguardo fisso sulla strada, gli occhi nascosti dietro gli occhiali neri. Volta appena la testa quando attraversiamo un incrocio, per leggere un cartello stradale piegato, e riprende la posizione di prima. Medito sul modo migliore di attaccare discorso. Lei estrae il portasigarette d’argento, lo apre e se ne sceglie una. Mi piego verso di lei, oltre il ginocchio di Karma. «Posso?» le chiedo, indicando il portasigarette che sta per riporre.
La maschera creata dagli occhiali da sole mi guarda: vedo il mio riflesso distorto. Le sue labbra si tendono. Mi allunga il portasigarette. «Certo. Si serva pure.»
Prendo una sigaretta; ci curviamo l’uno verso l’altra e lei accende prima la mia sigaretta e poi la sua. Il gusto è acre; il tabacco si deve essere seccato almeno per un anno, per essere diventato così amaro. Mi ero chiesto dove la luogotenente trovava il tabacco: davo per scontato che ci fosse un contatto, per quanto tortuoso e insicuro, e prerogativa di contrabbandieri e disperati, con qualche luogo dove potrebbero ancora prevalere la pace e una sembianza di prosperità, ma questi tubetti secchi sono stati di sicuro rubati in qualche negozio devastato o requisiti agli sfollati in fuga; nessuna traccia di una fornitura fresca.
«Non sapevo che fumasse, Abel», dice la luogotenente al di sopra del rumore della jeep.
«Un sigaro ogni tanto», le dico, cercando di non tossire.
«Mmm», fa lei, dando un tiro alla sigaretta. «Nervoso?» mi chiede.
«Un po’.» Sorrido. «Immagino che voi invece siate ormai abituati a queste cose.»
La luogotenente scuote la testa. «No. Alcuni diventano totalmente insensibili.»
Scuote la cenere nel vento e poi torna a guardare avanti. «Ma di solito muoiono appena dopo. Per la maggior parte delle persone la prima volta è la peggiore, poi va meglio per un po’, se nel frattempo si ha tempo di recuperare, ma dopo, di solito subito dopo, è sempre peggio.» Si volta verso di me. «Si diventa più bravi a nasconderlo, tutto qui.» Scrolla le spalle. «Finché non si crolla del tutto.» Un altro tiro alla sigaretta acida. «Ci sono due scuole di pensiero: alcuni dicono che ogni tanto è meglio abbandonarsi alla pazzia, per cercare di eliminarla dall’organismo, a rischio però di perdere completamente la testa; secondo altri invece bisogna reprimere tutto, nella speranza che veniamo travolti dagli eventi e scoppi all’improvviso la pace, così che possiamo avere il nostro bello stress post-traumatico in tutta comodità.»
Accidenti, sono arrivati a pensare anche questo. «Una scelta truce», dico. «Ma voi siete stati addestrati per tutto questo, no?»
La luogotenente getta la testa all’indietro ed emette un suono che potrebbe essere una risata. «L’addestramento militare era già parecchio accelerato, quando ci siamo arruolati quasi tutti noi.»
«Siete sempre stati…?»
La radio gracchia. Lei alza una mano verso di me mentre si porta all’orecchio il ricevitore. Dalla base della radio si dipartono dei fili che finiscono sotto il sedile dell’autista. Mi rendo conto all’improvviso che solo i motori dei veicoli, e dunque il carburante, tengono in carica le radio. Non riesco a sentire ciò che viene trasmesso, e la sua risposta è così rapida che non riesco a distinguere le parole.
La luogotenente dà un colpetto sulla spalla all’autista e si allunga per parlargli in un orecchio; lui comincia a lampeggiare alla jeep che ci precede e agita un braccio, mentre la luogotenente ruota sul sedile e gesticola al camion dietro di noi.
Rallentiamo, i veicoli accostano, e a me viene ordinato di starmene in disparte, a prendere a calci pietre da spedire nel fosso acquitrinoso, mentre la luogotenente si riunisce coi suoi uomini. Getto nelle acque immobili e profonde del fosso il mozzicone di sigaretta, che fa una specie di sibilo. Più in là, interi campi sono allagati: il sistema di irrigazione e drenaggio della pianura è stato sconvolto dalla mancanza di cure da parte degli uomini.
La luogotenente apre una mappa sul cofano di una jeep, indica col dito, gesticola e guarda i suoi uomini a turno, dando ordini a ciascuno di loro.
Ripartiamo, e poco dopo svoltiamo in strade secondarie, fino a imboccare una ripida pista sterrata che ci conduce sul fianco di una piccola valle. La luogotenente sembra tesa, e non ha voglia di parlare; i miei tentativi di riprendere la conversazione di prima le strappano solo grugniti e monosillabi. Non fuma altre sigarette. La nostra jeep si porta in testa e, dopo che qualcuno è andato avanti a piedi, arriviamo alle spalle di una fattoria sul pendio; la luogotenente salta giù e sparisce all’interno della casa.
Riappare pochi minuti dopo, va dietro uno dei camion e si fa passare una borsa che riconosco. È quella in cui avevo messo i fucili quando siamo scappati con la carrozza. A quanto si vede, deve essere altrettanto pesante. Lei la porta dentro la fattoria. Dietro di me, Karma scruta i fianchi della valle e i boschi con un binocolo; si irrigidisce puntando il profilo di una collina, poi si rilassa. «Spaventapasseri», lo sento borbottare.
La luogotenente torna senza la borsa. «Va bene», dice agli altri sulla jeep, e si allunga a prendere la tracolla vicino al suo sedile.
Entrambi i camion e una delle jeep vengono parcheggiati in un alto fienile aperto sul cortile della fattoria. La luogotenente controlla le cartine con me. Indico la prima parte della strada che inizia da qui e anche uno dei soldati, che si è dipinto il viso di verde, nero e giallo, allunga la testa per guardare. Un uomo che non avevo visto prima — un contadino, a giudicare dal vestito e dai modi — apre il cancello di una stalla e tira fuori una dozzina di cavalli. Sono una mescolanza di giovani e vecchi, puledri, giumente e castrati. Ce ne sono due che sembrano purosangue e una coppia di enormi cavalli da tiro, con gli zoccoli larghi e coperti di peli. Vengono sellati i più piccoli, mentre sulle ampie groppe dei cavalli da lavoro vengono fissati gli zaini presi dai camion.
«Salti su», mi dice la luogotenente mentre monta goffamente su una cavalla nera, ingarbugliando le redini. Mi guarda dall’alto. «Sa cavalcare, no?»
Con una torsione monto in sella al castrato sauro accanto a lei. Lo accarezzo sul collo e mi sistemo sulla sella, mentre lei sta ancora districando le redini e cerca di infilare il piede nell’altra staffa.
Strofino la criniera del mio cavallo. «Come si chiama?» chiedo al contadino.
«Jonah», risponde lui andandosene.
Avrei voluto non averglielo chiesto.
Mister Taglio e un’altra mezza dozzina di soldati montano sugli altri cavalli.
Tre soldati prendono la jeep che è rimasta fuori dal fienile e tornano indietro per la strada sterrata da cui siamo saliti. Due uomini restano alla fattoria, a guardia dei tre veicoli. Un soldato — quello che ha studiato la mappa con noi — va in avanscoperta. Ha una piccola radio, non porta lo zaino ed è armato solo di pistola e coltello. Ci mettiamo a seguirlo con i cavalli salendo il pendio, prima attraverso un prato ripido e poi in un bosco fitto e intricato.
La luogotenente riesce a far rallentare la sua cavalla finché arriva al mio fianco. «D’ora in poi facciamo molto silenzio, d’accordo?»
Annuisco. Lei fa lo stesso, poi con un paio di colpi di tacco spinge avanti la cavalla.
Il sentiero si stringe; i rami ci graffiano, ci sferzano, mirano agli occhi. Dobbiamo abbassarci per evitarli, e i cavalli da tiro devono aspettare pazientemente di districare i loro carichi. La nostra ridotta pattuglia arranca a fatica, superando una successione di creste e fossati che sembrano onde dell’oceano, pietrificate e fissate di traverso sul fianco della collina. L’aria è immobile e silenziosa, nella fioca penombra sotto il traforo di rami e le scure torri delle conifere. Alla guida c’è la luogotenente, goffa sulla cavalla nera. Io sono l’unico davvero capace di montare. Il mio castrato sbuffa, e il suo fiato produce da solo un cambiamento nell’aria gelida.
Dietro di noi, i valorosi bruti della luogotenente si sforzano di tenere contemporaneamente sotto controllo le armi che sbattono fra loro e le cavalcature: sono già in battaglia.
Qualcuno vomita, sul fondo della pattuglia.
Ci fermiamo a un bivio, dove ci attende il nostro esploratore. Si direbbe che sulla mimetica e l’elmetto sia spuntata una foresta di rametti, fronde d’abete e ciuffi d’erba. Io e la luogotenente consultiamo la mappa: le nostre gambe si toccano, i cavalli si strofinano il muso l’uno contro l’altro. Indico la strada a lei e all’esploratore. Mentre segno col dito un punto sulla mappa mi accorgo che mi trema la mano. La ritraggo subito, sperando che la luogotenente non se ne sia accorta.
Continuiamo a salire lungo il sentiero ripido e stretto. Mi sembra di distinguere nell’aria un odore di morte che filtra in questi boschi umidi. Qualcosa si rigira nel mio ventre, come se la paura fosse un bambino che entrambi i sessi possono portare e far crescere nelle viscere. Il continuo avvallarsi e innalzarsi di creste contorte ricorda la superficie di un cervello umano, esposto dal bisturi di un chirurgo sotto le volte insanguinate del cranio: ogni divisione nasconde un pensiero maligno.
Sopra il fitto manto dei sempreverdi e oltre l’insieme spezzato di rami nudi e neri, il cielo che prima era blu sembra dissanguato di ogni colore. Ha la tonalità delle ossa seccate dal vento.