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Qualcosa mi dice che questa storia non finirà bene. Lo sa il mio corpo (mi sussurra qualcosa): gli antichi istinti, quella parte della mente che un tempo chiamavamo cuore o anima, sono più acuti dell’intelletto nel giudicare simili situazioni, sanno annusare l’aria e capiscono con chiarezza che ciò in cui ci siamo imbarcati non potrà portarci che male.
Divento il torturatore di me stesso; ogni senso lotta con gli altri per ricavare il massimo da tutte le sensazioni, ottenendo invece il minimo di significato, e producendo una galleria degli specchi dove un nervoso eccesso di enfasi tende i suoi agguati. Cerco di calmare i miei pensieri ansiosi, ma la sostanza profonda del mio io sembra incapace di qualsiasi presa. Ciò che era solido e affidabile si è liquefatto e non c’è nulla a cui aggrapparsi che non scivoli subito via, lasciandosi dietro un recipiente vuoto e risonante ad amplificare ogni voce di pericolo che i nervi scorticati si affrettano a comunicare.
Attorno a me, ogni ombra sul terreno diventa la sagoma furtiva di uomini armati, ogni uccello che sbatte le ali fra due rami si trasforma in una granata scagliata nella mia direzione, ogni animale che fruscia nel sottobosco accanto al sentiero è il preludio a un balzo, a un attacco, ai colpi di maglio di pallottole che mi colpiscono o a una mano stretta attorno agli occhi e a una lama che mi taglia senza pietà la gola. Ho il naso e la bocca pieni del puzzo di foreste in decomposizione, dell’afrore di uomini brutali e spietati che attendono, sudando, di aprire il fuoco, e dell’odore di armi oliate e lucenti, ciascuna colma di morte e puntata verso di noi come i galli delle banderuole indicano la direzione del vento. Allo stesso tempo, mi sembra che ogni nostro rumore — il respiro dei cavalli, il più piccolo fruscio di una foglia o lo schiocco di un rametto — declami a piena voce la nostra avanzata e le nostre intenzioni alle foreste, alle pianure, alle colline.
Chiudo gli occhi, stringo i pugni. Vorrei che le budella smettessero di agitarsi. Uno dei soldati è stato male, mi dico. Lo so: l’ho sentito pochi minuti fa. È tutto il giorno che hanno la faccia pallida, nessuno ha mangiato dopo la colazione. Parecchi sono spariti sul retro della fattoria dove ci siamo fermati, per liberarsi da un’estremità o dall’altra. Non devi cedere. Pensa alla vergogna: doverti fermare, smontare, correre in cerca di un riparo, calarti i pantaloni, farti ridere dietro mentre te ne stai accovacciato, obbligato ad ascoltare le loro battute. Pensa all’espressione della luogotenente, alla sua sensazione di trionfo, di superiorità. Non lasciare che accada una cosa del genere. Resisti!
Il mio cavallo si arresta.
Apro gli occhi. Ci siamo fermati tutti. Il soldato mandato in avanscoperta è sul lato del sentiero e sussurra qualcosa alla luogotenente. Lei si volta, fa scorrere lo sguardo sulla fila di uomini a cavallo. Fa con la mano segnali che non capisco, e due soldati smontano e corrono da lei, oltrepassandomi. Entrambi hanno la faccia dipinta di colori mimetici e portano rami e foglie sull’uniforme. Uno regge una lunga balestra nera. Ci siamo ridotti a questo punto, penso io.
La luogotenente dà gli ordini; i tre uomini corrono avanti a grandi passi.
La luogotenente alza un braccio, indica l’orologio e mostra cinque dita. Vedo che gran parte degli altri smontano da cavallo. Alcuni scompaiono silenziosamente nella boscaglia. Noto che l’abbigliamento degli uomini è adesso più convenzionale, più militare; i vestiti variopinti, i souvenir del castello hanno lasciato il posto alla monotona uniformità delle mimetiche. La luogotenente li osserva e sorride. Accarezzo con dolcezza il collo di Jonah, poi mi siedo di nuovo sulla sella, con le braccia conserte. La luogotenente si volta di nuovo, fissando il sentiero imboccato dai tre soldati. La sua schiena sembra tesa e nervosa.
Scivolo in silenzio giù dal cavallo e faccio qualche passo nel sottobosco, in discesa, consapevole dello sguardo della luogotenente. Mi fermo accanto a un albero e mi sbottono i pantaloni. Mi fermo, pronto, si direbbe, e poi guardo di lato, come se solo in questo momento notassi che lei mi sta osservando. La fisso per un istante, poi mi allontano un po’, fino a un alto arbusto. Credo di vedere il suo sorriso, prima di essere nascosto.
Finalmente. Mi slaccio in fretta la cintura, mi accoscio e mi libero. Un’opportuna brezza fornisce un sussurro che copre altri rumori. Ho scelto la direzione giusta: la corrente d’aria proviene dal sentiero. Basta un fazzoletto, sacrificato.
Torno a unirmi agli altri, riabbottonandomi con cura. La luogotenente tiene sempre lo sguardo fisso sul sentiero davanti a sé. Mentre rimonto a cavallo, c’è qualche movimento nella direzione sulla quale sembra appuntarsi la sua attenzione. Fa un altro segnale agli uomini, e riprendiamo a salire lungo il sentiero.
Un minuto dopo superiamo le due sentinelle uccise. Stavano in una piccola trincea fra gli alberi, a monte del sentiero. Sono state trascinate fuori dal loro nido e gettate insieme sul terreno in pendio. Sono entrambe giovani, in tenuta da combattimento; uno ha una freccia di balestra conficcata nell’occhio sinistro, l’altro ha la gola tagliata così in profondità che la testa è quasi staccata dal corpo. Guardando da vicino, si vede che anche la gola dell’altro è stata tagliata, ma con maggiore eleganza. I nostri due soldati asciugano i coltelli sui vestiti degli uomini che hanno ucciso, e hanno un’aria orgogliosa. La luogotenente annuisce soddisfatta e fa un segnale; i corpi vengono gettati di nuovo nella trincea, dove ricadono pesantemente. I due eroi rimontano sui cavalli condotti fino a loro; il terzo uomo, l’esploratore, è scomparso di nuovo.
Troviamo il cannone dieci minuti dopo. A un segnale dell’esploratore la luogotenente ci raduna in un avvallamento e ci fa smontare. Gli uomini si caricano in spalla i pesanti zaini e imbracciano le armi; i cavalli vengono legati agli alberi. La luogotenente fa scorrere lo sguardo sugli uomini, sui loro volti, gli zaini, le armi. Sussurra a qualcuno, sorride, distribuisce colpetti sulle braccia.
Viene da me e mi parla all’orecchio. «Questa è la parte pericolosa, Abel», sussurra. «Fra poco si comincia a sparare.» Sento il suo alito sulla guancia, sento la fisicità di questo basso mormorio che penetra le soffici circonvoluzioni di cartilagine e carne. «Può stare qui con i cavalli, se vuole», mi dice. «O venire con noi.»
Volto la testa, accosto la bocca al suo orecchio. La sua pelle olivastra non ha nessun odore. «Vi fidate a lasciarmi qui con i cavalli?» le chiedo, divertito.
«Oh, be’, dovremmo legarla a un albero», dice con dolcezza.
«Legato o costretto a guardare», le dico. «Lei mi vizia. Verrò con voi.»
«Pensavo anch’io.» All’improvviso compare davanti ai miei occhi un enorme coltello seghettato, con la lama coperta di strisce di vernice scura e opaca: resta nudo solo il filo dentellato, una linea lucente che mi oscilla davanti agli occhi. «Ma d’ora in poi neanche un sospiro, Abel», sibila la luogotenente, «o sarà l’ultimo.» Stacco a fatica lo sguardo da quella lama spaventosa e cerco di cogliere una traccia di ironia negli occhi grigi, ma vedo solo il riflesso di un acciaio ancora più grigio. I miei occhi si sono spalancati; li stringo e sorrido nella maniera più indulgente che posso, ma lei si è già voltata. In lontananza, portato dalla brezza, sento il ronzio di un motore.
Lasciamo i cavalli, attraversiamo un basso argine e un’altra leggera depressione e poi ci arrampichiamo per il ripido pendio di una cresta, solcato di radici; il rumore del motore diventa sempre più forte. Alla fine della salita, in mezzo a un umido felceto nel quale la luogotenente e i suoi uomini strisciano con una grazia delicata e la minima agitazione — cose che cerco di emulare — ci troviamo in cima a una rupe.
Sotto, in piena luce, c’è il cannone, a un tiro di granata. Sta al centro delle costruzioni di una vecchia miniera, circondato dalle rovine di un’impresa fallita: una graticciata corrosa di binari bruni a scartamento ridotto, una traballante torre di legno sormontata da un’unica ruota, scortecciata, magazzini cadenti con finestre vuote o infrante, tetti di lamiera curvi e deformati e una manciata di bidoni arrugginiti.
Solo il cannone sembra efficiente e completo. La sua forma metallica è di un verde scuro e opaco; il suo corpo è più lungo dei camion che abbiamo lasciato alla fattoria. Appoggia su due ruote alte con pneumatici di gomma; sotto la canna ci sono due tubi paralleli, lunghi e sigillati, e a protezione degli uomini c’è una piatta corazza inclinata sulla culatta, dove un intrico di ruote, maniglie, leve e due sedili ribaltabili sormonta una larga base circolare, che dà l’impressione di poter essere abbassata per bilanciare l’arma.
Sul retro, i due lunghi puntelli sono stati girati per formare una specie di asta da traino. Un gruppo di soldati è impegnato ad agganciarlo a un rumoroso trattore, mentre dietro di loro è in attesa, col motore ronzante, un camion non militare col cassone aperto. Altri uomini in uniforme stanno caricando borse, zaini e scatoloni sul camion, andando avanti e indietro dalla meno rovinata delle costruzioni della miniera; un edificio di mattoni a due piani che doveva ospitare gli uffici. Conto in tutto solo una dozzina di uomini, nessuno dei quali, a prima vista, porta armi. Ci raggiunge l’odore del gasolio.
La luogotenente, accanto a me, usa il binocolo da campo, poi sussurra ansiosamente ai suoi uomini; vengono passati gli ordini in entrambe le direzioni della fila, sopra la mia testa. Percepisco l’eccitazione nell’atto stesso della sua comunicazione ai soldati, due gruppi dei quali stanno correndo via ai due lati della fila, proprio sotto il culmine della cresta: le loro ombre si disperdono, si fondono buie con l’oscurità. Si muovono più velocemente di prima, dato che ogni loro rumore è coperto dai motori e dal vento favorevole. La luogotenente e gli uomini rimasti accanto a lei stanno tutti infilando una mano negli zaini, per prendere caricatori e granate.
Mi guardo intorno: l’azzurro perfetto e privo di vita del cielo, la massa scura di abeti sul pendio ocra dietro la miniera, il cielo arancione, sospeso sul ciglio lontano della collina come dita che si aggrappano a una sporgenza; poi abbasso di nuovo gli occhi sul cannone, che adesso è all’ombra delle colline occidentali. È stato agganciato al trattore. Dietro, il camion si sta muovendo, con l’autista che si sporge fuori dallo sportello mentre il veicolo accosta a fianco di un edificio crollato, verso una roulotte a due assi coperta di tela cerata. Quattro soldati si mettono dietro la roulotte e cercano di spingerla verso il camion, ma non ci riescono. Scoppiano a ridere, e le loro voci rimbombano, poi scuotono la testa, e si mettono a fare gesti al camion.
La luogotenente si irrigidisce all’improvviso; piega la testa, come se volesse sentire qualcosa, o avesse sentito qualcosa. Mi guarda e aggrotta le sopracciglia, ma non credo che mi veda. Forse riesco a sentire qualcosa. Potrebbe essere una sparatoria lontana: non i tonfi nebulosi dell’artiglieria ma il secco scoppiettio di piccole armi automatiche. La luogotenente punta il fucile, abbassando la guancia all’altezza del calcio. I soldati sdraiati accanto a lei prendono anch’essi la mira.
Torno a guardare i soldati della miniera. Il trattore ronza in folle, attaccato al cannone. Sembra che abbiano qualche problema col gancio della roulotte. Passa mezzo minuto.
Poi dall’edificio di mattoni esce di corsa un soldato, agitando un fucile e gridando qualcosa. L’atmosfera cambia all’istante; i soldati si guardano intorno, poi scappano; alcuni si dirigono alla palazzina degli uffici, altri puntano alla cabina del camion, dove l’autista è in piedi sul predellino, si direbbe con lo sguardo fisso su di noi.
Poi vengono colpi d’arma da fuoco da qualche parte alla nostra destra, e il terreno sotto i soldati che corrono verso gli uffici comincia a sussultare e vibrare di detonazioni in miniatura di terra e pietra. Due uomini cadono.
La luogotenente fa una specie di sibilo, poi il suo fucile comincia a eruttare: germogliano fiamme e spine gemelle di dolore mi si conficcano nella testa. Mi infilo le dita nelle orecchie, gli occhi si serrano involontariamente, mentre abbasso la testa, la premo al suolo e mi lascio scivolare all’indietro. L’ultima cosa che vedo della miniera è il parabrezza del camion che diventa bianco, trafitto da grossi buchi neri, e l’autista che viene gettato all’indietro, e cade e si piega come se fosse stato colpito al ventre dal calcio di un cavallo.
Il fuoco prosegue per qualche minuto, intervallato dalla secca esplosione delle granate fra gli edifici della miniera; alzo gli occhi e vedo la luogotenente che si ferma per inserire il caricatore, poi di nuovo sostituisce la coppia consumata con quella posata accanto alla sua mano, e ogni movimento è eseguito con fluida abilità, senza fretta. Il fucile continua ad abbaiare, quasi senza sosta. Nell’aria c’è un puzzo amaro e acre. Un paio di tonfi dietro e sotto di noi potrebbero essere colpi di risposta, e credo di sentire gracchiare la radio della luogotenente, ma lei la ignora o non riesce a sentirla. Ben presto l’unico suono è quello delle armi della luogotenente e dei suoi uomini.
Poi si ferma.
Il silenzio risuona. Apro del tutto gli occhi, e fisso la figura bocconi della luogotenente. Lei sta osservando la fila di uomini al suo fianco. Anche loro si stanno guardando, si controllano. Nessuno sembra ferito.
Mi spingo di nuovo all’insù, lungo il piccolo tunnel di felci appiattite che ho appena prodotto, fino alla cima della rupe e guardo la miniera. Si leva un po’ di fumo. Alcune finestre della palazzina degli uffici sembrano corrose, i loro infissi di metallo sono deformati, i mattoni che le circondano sono polverizzati, ridotti a curve, e frammenti di mattone arancione sono sparsi per terra. Osservando il camion, si direbbe che un gigante abbia intriso un immenso pennello di vernice nera e poi abbia cominciato a scrollarlo, distribuendo macchie nere sulla lamiera. Esce vapore dal radiatore e dai buchi aperti nel cofano. Al di sotto, una scura pozza di gasolio si allarga come sangue sotto un cadavere. Il trattore è inclinato: una grossa ruota posteriore ed entrambe le gomme anteriori sono sgonfie. Ovunque sul terreno giacciono corpi caduti e scomposti, alcuni con fucili al fianco o ancora stretti in mano.
Poi, un movimento alla porta della palazzina degli uffici. Viene gettato fuori un fucile, che atterra e scivola per un tratto del binario. Qualcosa di pallido balugina nell’oscurità dell’entrata. La luogotenente mormora qualcosa. Un uomo esce zoppicando dall’edificio, con la faccia insanguinata, un braccio penzoloni e l’altro che agita quello che sembrerebbe un foglio di carta bianca. Viene colpito da uno sparo che proviene dalla nostra destra, e getta all’indietro il capo. Cade come un sacco di cemento e non si muove più. La luogotenente fa un verso di leggera disapprovazione. Grida qualcosa ma le sue parole sono coperte dai colpi che provengono dall’ultimo piano dell’edificio. Il fuoco di risposta dal nostro fianco destro solleva polvere dai mattoni attorno alla finestra e poi, con uno scoppio, qualcosa sfreccia sopra trattore, cannone e camion e scompare nella stessa apertura; l’esplosione segue quasi immediatamente, e produce una nuvola di detriti che escono dalla finestra scuotendo la polvere dalle grondaie del tetto di lamiera.
Torna il silenzio.
Sono fermo nella luce del crepuscolo sulla strada che conduce alla miniera; il cielo è una fredda cupola turchese sopra la folla buia e silenziosa degli alberi. La luce del sole si ritira lentamente davanti alle ombre, risalendo il pendio. L’aria è fragrante, carica del profumo di resina che ha preso il posto del fumo di polvere da sparo. La ghiaia rossa sotto i miei piedi stride mentre mi volto per ispezionare il campo di battaglia.
Osservo gli uomini della luogotenente che controllano con cautela le forme abbattute che costellano il suolo; tengono i fucili puntati e carichi, voltano e perquisiscono ogni cadavere, impadronendosi di armi, munizioni e di qualunque cosa ecciti la loro fantasia. Uno dei caduti geme mentre viene girato sulla schiena ed è messo a tacere da un coltello. Il fiato gli gorgoglia dalla ferita come un sospiro. Poco sangue, curiosamente.
La luogotenente ha controllato il cannone, e l’ha trovato in perfetta efficienza; Mister Taglio ne sembra affascinato: monta a controllare gli strumenti, fa girare le ruote metalliche, tira le leve, abbassa il lucente fondo metallico della culatta e infila dentro il naso. La luogotenente cerca di usare la radio, ma deve risalire sulla cresta per ristabilire il contatto. La roulotte dietro il camion si rivela piena di granate e cariche per il cannone.
Il cassone del camion devastato offre altre munizioni, varie provviste, cibo e parecchie casse di vino, in massima parte intatte.
Sulla strada compare la jeep che non si era fermata alla fattoria, annunciata da un grido dell’uomo che la luogotenente ha lasciato di vedetta sulla cresta. I soldati della jeep urlano e ridono e applaudono quelli che hanno conquistato la miniera, e raccontano la loro sparatoria: avevano sorpreso un altro camion all’inizio della strada per la miniera. Raccontano storie, si scambiano insulti burleschi, una sensazione di sollievo riempie l’aria, ovvia e acuta come l’odore di pino. In tutto hanno ucciso circa venticinque nemici. Al passivo: una ferita da nulla, già pulita e bendata.
Qualcosa si muove ai miei piedi. Abbasso gli occhi e per terra, come un altro soldato ferito, vedo un’ape che arranca goffa e appesantita e si trascina alla cieca sulla fredda ghiaia del sentiero: sta morendo nella sua spessa e pelosa uniforme, vinta dal gelo della stagione che avanza.
Un altro grido della sentinella sulla cresta e si sente il rombo di un motore che risale verso la miniera. È uno dei camion della fattoria, con i fari che lampeggiano. Avanza dritto verso di me; devo togliermi dalla strada per farlo passare. Gira ondeggiando al centro degli edifici e si ferma stridendo. Abbasso gli occhi al punto in cui sono passate le ruote, aspettandomi… Ma no: l’ape non è stata schiacciata e continua a strisciare.
Ce ne andiamo alla svelta. Il camion aggancia il cannone e carica il bottino e tutti noi, preceduto dalla jeep, che trascina a fatica la roulotte, appesantita dalle munizioni. Alla fattoria il secondo camion prende in consegna la roulotte e il contadino viene rapidamente informato del luogo dove potrà trovare i suoi cavalli. Ha un’aria scura ma è abbastanza saggio da tenere a freno la lingua.
La luogotenente risale sulla sua jeep; io vengo lasciato sul secondo camion insieme ai soldati, sempre più allegri; mi mettono in mano una bottiglia di vino e mi offrono una sigaretta mentre scendiamo sobbalzando lungo la pista sterrata, nell’oscurità degli alberi.
C’è un ultimo atto, appena prima di imboccare una strada asfaltata: un sussulto di freni e una serie di colpi di mitragliatrice davanti a noi manda tutti in cerca di fucili ed elmetti. Poi alcune grida ci informano che la faccenda è stata sistemata.
Era un pick-up, pieno di commilitoni di quelli uccisi alla miniera, colpito non appena aveva lampeggiato i fari vedendoci arrivare. Anche loro sono stati eliminati senza nessuna perdita: solo uno era riuscito a fuggire dal veicolo crivellato, per morire a faccia in giù sulla strada. Il pick-up incendiato viene spinto fuori strada dal primo camion, si ferma su un fianco in un fosso invaso dalle erbacce sotto gli alberi, e comincia a crepitare per via delle munizioni che esplodono. Lo lasciamo a illuminare la notte, e riprendiamo la strada cantando.
Osservo per qualche minuto quel fuoco lontano, mentre corriamo lungo la strada rettilinea. Il pick-up in fiamme, i cespugli, gli alberi sopra di essi e tutto ciò che può essere infettato da quella febbre producono un rogo che cresce eppure resta uguale; una tremante conflagrazione che aggredisce il cielo notturno e si diffonde mentre noi la riduciamo allontanandoci, così che quella massa instabile sembra fissarsi, e quella consunzione furiosa e unica sembra, per qualche istante, destinata a durare.
Ma poi, dall’apertura sul fondo del camion, che oscilla forsennatamente nelle curve per evitare le carcasse dei veicoli abbandonati, vedo che tutto ciò che abbiamo affidato all’attenzione della notte stellata alla fine soccombe, e le fiamme si smorzano e muoiono.
Io non canto, non grido, non bevo, non rido con l’allegra truppa che divide con me le panche del camion. Aspetto invece un agguato, uno schianto, una conclusione drammatica che non arriva, e quando in questa sguaiata notte d’inverno svoltiamo nel viale della nostra casa, percepisco la mole del castello con una fitta di sorpresa e di amara, sicura delusione.