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Sono oscuramente consapevole del dolore, del freddo e del sapore di metallo. Scorticato, stranito, senza nemmeno poter scuotere la testa, sono appollaiato sul mio piccolo trono di legno, in mezzo ai resti fangosi dell’acqua scomparsa da tempo, in equilibrio su una nascosta piattaforma di pietrisco che da un secolo o più soffoca il pozzo, ridotto ormai a un ornamento. Ho sempre in testa la corona di metallo e i miei vestiti strappati sono quelli di un umile lavoratore. L’acqua filtra attorno a me, sotto di me, gelida e spossante.
Guardo in su, nonostante la mia vista sia limitata dalla maschera di ferro.
Sono già stato qui una volta, molto tempo fa. Ero un bambino. Mentre cercavo di vedere oltre il cielo.
Avevo letto da qualche parte che dal fondo di un buco abbastanza profondo è possibile vedere le stelle, se la giornata è molto limpida. C’eri anche tu, in una delle tue rare visite. Ti avevo convinta ad aiutarmi nel mio piano; mi osservavi, con gli occhi spalancati e una mano premuta sulla bocca, mentre sollevai il secchio, lo posai saldamente sulla pietra e mi infilai dentro. Ti dissi di farmi scendere. Quella discesa fu poco meno violenta di quella a cui mi hanno sottoposto gli uomini della luogotenente. Non avevo considerato che il peso del secchio sarebbe stato molto maggiore con me dentro, che tu eri troppo debole, o semplicemente che avevi una certa inclinazione a tirarti indietro e a lasciare accadere ciò che doveva accadere. Afferrasti la manovella, reggesti per qualche istante mentre io spingevo il secchio al di là della vera del pozzo. Appena libero dal sostegno della pietra, precipitai all’istante. Lanciasti un urlo e facesti un tentativo di frenare la manovella, lasciandoti strattonare e sollevare in punta di piedi, poi mollasti.
Caddi nel pozzo. Picchiai la testa. Vidi le stelle.
Non mi venne in mente che, in un certo senso, avevo raggiunto il mio scopo. Ciò che vidi erano luci, strane, confuse, bizzarre. Fu solo in seguito che collegai i sintomi visivi di quell’impatto con le stelle e i pianeti stilizzati che vedevo nei fumetti quando un personaggio riceveva un colpo simile. In quel momento rimasi dapprima intontito, poi temetti di affogare, poi mi accorsi con un sospiro di sollievo che sotto il secchio l’acqua era così bassa, e infine ero furioso con te che mi avevi lasciato cadere e impaurito per quello che avrebbe detto la mamma.
In alto, la tua silhouette si sporse a guardare oltre l’orlo del pozzo. Anche se potevo vedere solo il tuo profilo, notai che badavi a tenere i capelli ben lontani dalle pietre del pozzo e dalla corda del secchio. Gridasti e mi chiedesti se stavo bene.
Riempii i polmoni e aprii la bocca per parlare, per gridare, e tu chiamasti di nuovo, e c’era una nota di panico crescente nella tua voce, e le tue parole bloccarono in fondo alla gola le mie. Mi fermai a pensare per un istante, poi mi lasciai andare all’indietro, aprii braccia e gambe, non dissi nulla ma chiusi gli occhi e aprii la bocca.
Mi chiamasti un’altra volta, e la tua voce era colma di terrore. Rimasi immobile, socchiudendo appena gli occhi per osservarti attraverso l’ombra delle ciglia. Scomparisti in cerca di aiuto.
Attesi un istante, poi mi rimisi in piedi e tirai la catena finché divenne corda; continuai finché la svolsi completamente dal cilindro di legno attaccato alla manovella. Il cranio mi ronzava, ma per il resto non avevo dolori. Mi attaccai alla corda e puntai i piedi in fuori, tentando di fare presa sulle pietre viscide della gola del pozzo. Io ero giovane e forte, la corda era nuova e il pozzo non era più profondo del fossato rispetto al cortile. Mi tirai su rapidamente fino in cima, poi mi issai oltre il bordo e atterrai sui ciottoli del cortile. Sentii voci allarmate che provenivano dal portone del castello. Corsi dalla parte opposta, verso il passaggio che conduce al ponte, sotto il corpo di guardia, e mi nascosi fra quelle ombre.
Papà e mamma comparvero insieme a te e al vecchio Arthur; la mamma strillava, agitando le mani. Papà gridò e disse ad Arthur di tirare la manovella dell’argano. La mamma si muoveva in tondo con le mani strette alla bocca, girando attorno al pozzo. Tu stavi indietro, con un’aria pallida e sconvolta, singhiozzando e respirando a fatica, con gli occhi fissi sulla scena.
«Abel! Abel!» gridò papà. Arthur si affannava alla manovella del pozzo, sudato. La corda strideva sul tamburo, e alla fine cominciò a sollevare qualcosa. «Maledizione, non riesco a vedere…»
«È colpa sua, sua!» gemeva la mamma, indicando te. Tu la guardavi senza espressione, e tormentavi l’orlo del vestito.
«Non fare la stupida!» le disse papà. «La responsabilità è tua: perché la grata del pozzo non è chiusa a chiave?»
Mi percorse allora un brivido sconvolgente; provai una sensazione che solo in seguito avrei potuto identificare come qualcosa di sensuale, di orgasmico, mentre osservavo in disparte gli altri che si preoccupavano, faticavano, si lasciavano prendere dal panico e recitavano solo per me. La vescica rischiava di mettermi in imbarazzo e dovetti serrare lo stomaco attorno a un grumo di gioia mentre allo stesso tempo incrociavo le gambe e mi stringevo con le dita la virilità ancora glabra per evitare di bagnarmi un’altra volta i calzoni.
Apparvero altri domestici e l’amante di nostro padre, affollandosi attorno al pozzo mentre Arthur portava alla superficie il secchio vuoto. I lamenti della mamma riempirono il cortile. «Una torcia!» gridò nostro padre. «Trovatemi una torcia!» Un domestico tornò di corsa dentro il castello. Il secchio era posato sul muretto, gocciolante. Papà saggiò la corda. «Può darsi che qualcuno debba scendere giù», dichiarò. «Chi è il più leggero?»
Io ero piegato al buio, e cercavo sempre di non farmela addosso. La fiamma di un’esaltazione feroce mi riempì, minacciando di esplodere.
Poi vidi la fila di goccioline che avevo lasciato, dal ponte al portico in cui mi trovavo. Guardai inorridito le chiazze, scure monete dell’acqua sporca del pozzo caduta dai miei abiti fradici sui ciottoli grigi e asciutti; due o tre per ogni passo. Ai miei piedi, nel buio, l’acqua aveva formato una piccola pozza. Volsi di nuovo gli occhi al cortile, dove si era radunata una folla ancora maggiore che quasi oscurava nostro padre, il quale stava adesso illuminando con una torcia il fondo del pozzo e spiegava ai domestici di sollevare le giacche sopra di lui, così che la luce del giorno non lo abbagliasse mentre tentava di vedere nell’oscurità.
Le gocce cha avevo lasciato luccicavano al sole. Non riuscivo a credere che nessuno le avesse notate. Adesso la mamma stava urlando in maniera isterica: un rumore acuto e stridente che prima non avevo mai sentito da lei né da nessun altro. Mi scuoteva l’anima, mi inondava la coscienza. Cosa dovevo fare? Mi ero vendicato di te — anche se, avevo notato, tu sembravi solo un po’ preoccupata — ed eri già stata almeno in parte incolpata, ma adesso dove sarei finito? Era tutto diventato molto più serio di quanto avessi previsto, passando con vertiginosa rapidità da una grandiosa beffa originata da un lampo di genio a qualcosa — lo capivo semplicemente dal numero e dall’anzianità degli adulti che stavano perdendo il controllo — che non sarebbe finito senza una punizione grave, dolorosa e prolungata inflitta a qualcuno: quasi sicuramente a me. Mi maledissi per non averci pensato prima. Da un abile piano alla caduta, all’affanno, alla calamità: tutto in pochi minuti.
L’idea mi apparve come un salvagente a un uomo che affoga. Raccolsi tutto il mio coraggio e lasciai il nascondiglio nelle ombre sotto il corpo di guardia, avanzando malfermo e sbattendo le palpebre. Lanciai un debole grido, tenendomi una mano alla fronte, poi gridai un po’ più forte, dato che il primo era stato ignorato. Qualcuno si voltò, poi tutti; si levarono urla ed esclamazioni. Feci qualche altro passo esitante mentre la gente mi correva incontro, poi crollai teatralmente sui ciottoli appena prima che mi raggiungessero.
Quando fui seduto, consolato, con la testa premuta contro il petto gemente della mamma, con le mani tenute e strofinate da due diversi domestici, sospirai e dissi «Oh, povero me» e sorrisi valorosamente e sostenni di aver trovato un tunnel segreto dal fondo del pozzo al fossato, e che avevo strisciato e nuotato finché non ne ero uscito, mi ero arrampicato sull’argine e avevo percorso, esausto, il passaggio sotto il corpo di guardia.
Ero quasi convinto di averla fatta franca quando papà si acquattò davanti a me, con un’espressione cupa e gli occhi di pietra. Mi fece ripetere la storia. La ridissi, esitando, non più così sicuro di me. Avevo detto che mi ero arrampicato sull’argine? Volevo dire il ponte. I suoi occhi si strinsero. Pensando di colmare un buco, ma in realtà portando un’altra fascina al mio rogo, dissi che il passaggio segreto era crollato alle mie spalle; non sarebbe servito, dunque, mandare qualcuno di sotto a controllare. Anzi, tutto il pozzo era pericolante. Io mi ero salvato per puro miracolo.
Guardare negli occhi nostro padre era come guardare in un tunnel nero senza stelle in fondo. Era come se mi stesse vedendo per la prima volta, come se io stessi fissando un passaggio segreto attraverso il tempo, fino ad acquisire una prospettiva da adulto, grazie alla quale capivo come mi sarebbero sembrati il mondo e le storie di bambini bugiardi e impertinenti quando avessi raggiunto la sua età.
Le parole mi morirono in gola.
Lui allungò il braccio e mi schiaffeggiò, con forza, in piena faccia. «Non essere ridicolo, ragazzino», disse, concentrando in quelle poche parole tutto il disprezzo che una lingua riesce a comunicare. Si rialzò agilmente e si allontanò.
La mamma gemette, e si mise a strepitare in maniera incoerente contro di lui. I domestici avevano un’aria confusa: alcuni fissavano me con un’espressione preoccupata, altri seguivano lui con lo sguardo, mentre rientrava nel castello. La sua amante lo seguì, tenendo te per mano.
Arthur, che allora mi appariva vecchio ma in realtà non lo era, guardò il vuoto nella folla creato dalla partenza di nostro padre; la sua espressione era preoccupata e piena di rimpianto, scuoteva la testa o sembrava volerlo fare; non perché avessi vissuto una terribile avventura e poi, ingiustamente, il mio stesso padre non mi avesse creduto e, anzi, mi avesse colpito con violenza, ma perché anche lui riusciva a vedere attraverso la mia misera e disgraziata bugia, ed era preoccupato per l’anima, per il carattere, per la futura tempra morale di un bambino così svergognato — e incapace — da ricorrere con tanta facilità a bugie simili. In quella compassione c’era un rimprovero altrettanto severo e sferzante di quello che nostro padre mi aveva indirizzato con la doppia manciata di dita e di parole; proprio in quanto confermava che era quello il giudizio maturo e consapevole delle mie azioni e di quelle di mio padre e non un’aberrazione che avrei potuto minimizzare o ignorare, il muto rimprovero di Arthur mi colpì ancor più in profondità.
Cominciai a piangere. E piansi non con le calde lacrime facili e futili della frustrazione e della rabbia infantili, ma con la prima angoscia da adulto, con un dolore intenzionalmente spogliato di qualunque piccola preoccupazione da bambino; grandi lacrime singhiozzanti di un dolore che veniva dal cuore — non solo egoistico, per un angusto senso dell’utile o dello spiacevole, perché ero stato scoperto o perché sapevo che probabilmente mi aspettava una lunga punizione, anche se c’era anche questo — ma per aver fatto perdere a nostro padre la fiducia e l’orgoglio nel suo unico figlio maschio.
Ecco cosa mi torturava, e si estendeva fino alle pietre del castello; ecco cosa mi afferrava come un artiglio e spremeva da me quelle lacrime fredde e amare di dolore e non poteva essere placato dalle tenere carezze di mia madre e dai dolci colpetti sulla schiena e dai morbidi abbracci.
In seguito, la mamma avrebbe continuato a dichiarare che credeva alla mia storia, anche se ho il sospetto che lo dicesse solo per sottrarre a nostro padre il suo ultimo convertito, per frustrare la sua volontà; un’altra falsa vittoria nella campagna ultradecennale che combattevano l’uno contro l’altra, dapprima nel castello, assediandosi e tradendosi a vicenda, poi separati. Lei conveniva che dovessi essere punito, anche se per salvare la faccia sosteneva che la ragione era la mia idea di scendere nel pozzo. (La mia pretesa di essere caduto, che anche il fatto di essere sceso nel pozzo era stato un incidente, era stata contraddetta da te, mia cara, che già rivelavi un improvvido rispetto per la verità.)
E così venni mandato in camera mia per la prima di molte notti, senza altra compagnia che i libri di scuola e razioni da prigioniero.
Il mio esilio mi apportò un beneficio incalcolabile, un premio che non avevo per nulla cercato e che, anni dopo, sarebbe maturato fino a consolidarsi.
Venisti tu in camera mia, dopo aver persuaso un domestico a lasciarti entrare con un passe-partout, così da poterti scusare per quella che, secondo te, era stata la tua responsabilità nel mio delitto. Portasti un dolcetto rosa che avevi preso in cucina e nascosto nel vestito. Ti inginocchiasti accanto al mio letto. Un’unica lampada da comodino illuminava le mie guance gonfie di lacrime e i tuoi occhi neri e spalancati. Mi porgesti il dolce con le due mani, con un rispetto quasi comico. Lo presi annuendo, ne mangiai metà col primo morso, e poi mi infilai il resto in bocca.
Ti alzasti in piedi con una grazia misteriosa e sollevasti il vestito per denudare la carne dal bordo dei calzini all’ombelico. Ti fissai smettendo di masticare, con la bocca piena di una pasta rosea e zuccherosa. Fermasti l’orlo del vestito sotto il mento, poi infilasti una mano sotto le lenzuola e mi prendesti la mano più vicina, guidandola con dolcezza verso la fessura lanuginosa tra le tue gambe, tenendola premuta lì e strofinandola piano avanti e indietro. L’altra tua mano si chiuse attorno ai miei genitali, e poi cominciò a tirare e accarezzare il mio sesso. Inumidite, incoraggiate, le mie dita scivolarono dentro di te, lasciandomi sbalordito sia per essere stato in qualche modo inghiottito sia per il calore che vi scoprii. Anch’io inghiottii di riflesso: il boccone del dolce rosato.
Tu continuavi a massaggiare insieme me e te, mentre io restavo sdraiato, ancora incredulo, paralizzato dalla novità di quanto accadeva, da quell’ultimo e bizzarro cambiamento della sorte. Avevo paura a reagire, esitavo perfino a manifestare la minima volontà, temendo che la stupefacente (e perciò, di necessità, precaria) combinazione di circostanze che aveva elargito tale imprevedibile rapsodia venisse sconvolta dal minimo errore da parte mia.
Dopo aver guidato le mie dita inghiottite in te con un ritmo più rapido e più deciso, all’improvviso ti mettesti a tremare, sospirasti, e subito dopo allontanasti la mia mano dandomi un colpetto sul polso. Lasciasti ricadere il vestito, tirasti indietro le mie coperte, poi ti inginocchiasti e mi prendesti in bocca, succhiando e muovendo la testa, con i tuoi capelli che mi facevano il solletico alle cosce.
Mi limitai a guardare. Forse fu semplicemente quella sorpresa, forse — più probabile — il fatto che ero ancora troppo piccolo. In ogni caso, non ci fu, in quella prima prova, nessuna culminante esplosione di tripudio né alcuna emissione nel tempo che avemmo a disposizione. Il solletico, il movimento della testa, il succhiare andarono avanti per un po’, finché il domestico, sempre più nervoso per la paura di essere scoperto, bussò alla porta e la aprì appena per sussurrare un ammonimento. Lasciandolo cadere dalla bocca come uno scintillante lecca lecca, baciasti il mio roseo gonfiore, poi lo copristi e ti allontanasti con calma eleganza; la porta si aprì e si richiuse per te e rimasi solo.
O non del tutto: arrotolai di nuovo le coperte per osservare il mio nuovo amico, che ormai mi stava lentamente abbandonando. Lo toccai a titolo sperimentale mentre mi annusavo lo strano aroma sulle dita, ma la mia virilità se ne andò di sua iniziativa, e non l’avrei più rivista appieno fino al giorno in cui il vento e la pioggia mi tesero un’imboscata nei boschi fangosi.
Tu, mia cara, non avresti rivisto lo spettro che avevi risvegliato fino al nostro convegno sul tetto del castello, dieci anni dopo, in una notte tiepida, sopra la festa.