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L’acqua nera del pozzo sa di marcio: è l’odore di qualcosa che trasuda dalla terra, un odore che, benché rancido, dovrebbe almeno essere caldo e avvolgente, e invece è freddo e acuto. Colgo anche una traccia di odore umano, che indica che il vino e il cibo vomitati qui dentro si sono mescolati all’orina per creare toni ancora più pungenti che accompagnano il lezzo terroso del buco.
Tiro su nel naso un po’ di sangue; dentro l’elmo di metallo avverto una specie di rimbombo. Cerco di alzarmi ma mi sento paralizzato dal freddo. Mi chiedo da quanto tempo mi trovo qui. Alzo la testa, facendo sbattere l’elmo contro la parete del pozzo, per cercare di vedere l’imboccatura. Luce. Luce attraverso i fori dell’elmo, forse. O no. Sbatto gli occhi e la vista si mette a girare. Mi fa male il collo. Abbasso la testa e vedo ancora le luci.
Poi rivedo le stelle e resto sdraiato nel cuore svuotato del castello, stretto nel suo abbraccio notturno, mentre la sua avida freddezza mi infetta, e mi sento parte dei suoi soffocanti detriti: un altro granello disperso, gettato prima agli elementi più rapidi e poi al suolo, fatto rotolare lungo una direzione, una strada, un letto che non ho la possibilità di scegliere, e nessun modo di abbandonare.
Io non sono che cellule: niente di più, credo. La presente combinazione — ossa, carne, sangue — è più complicata della maggior parte delle miscele similari reperibili sulla rozza superficie del mondo, e la mia quota di plasma cosciente può essere maggiore di quanto riescano a mettere insieme altri animali, ma il principio è lo stesso, e il risultato di tanta sapienza in eccesso è semplicemente quello di farci conoscere appieno la verità della nostra irrilevanza. Il mio corpo, tutto questo essere stordito, sembra poco più di un mucchio di foglie d’autunno, sospinte e adunate da un mulinello di vento, e intrappolate, stipate da una casuale geografia sussidiaria in un deposito circoscritto. In che cosa sono più importante di quella temporanea pila di foglie, di quell’aggregato di cellule, sottoposte a una morte collettiva? Perché ciascuno di noi dovrebbe avere più significato?
Eppure continuiamo ad ascrivere a noi stessi una quantità di dolore, di gioia, di peso, di importanza maggiore rispetto a qualsiasi altro ammasso di materia, ed è questo il nostro sentimento profondo. Forse ci lasciamo sedurre dalle nostre stesse immagini, e quella di una foglia secca trascinata lungo la strada non è la stessa di un profugo.
Portiamo dentro di noi il limo dei nostri ricordi, come i tesori riposti nelle soffitte del castello e ne siamo sbilanciati, ma il nostro limo ha profondità geologiche e risale, attraverso le storie comuni, le genealogie, le stirpi, ai primi contadini, al primo gruppo di cacciatori, alla prima caverna condivisa o albero con un nido. Grazie al nostro spirito riusciamo a risalire ancora più indietro, e al di là, tanto che conserviamo gli strati sepolti delle geologie di tutti i pianeti negli stadi del cervello, e conteniamo nel nostro corpo la conoscenza delle esplosioni dei soli che vissero e morirono ben prima che noi esistessimo.
Più è profondo il limo più è potente il flusso, e non riesco a scendere fino in fondo, fino agli estremi detriti, non finché respiro e penso e sento. Le mie ossa potrebbero restare comodamente qui sotto — solo minerali, cose fredde, «cose» — ma non l’uomo che pensa a un eventuale epilogo.
Sprofondato in questo buco, credevo un tempo di vedere le profondità del cielo, di guardare in quel passato che è l’antica luce delle stelle, e allo stesso modo adesso, abbassato a una comprensione più elevata, aiutato dai miei torturatori, credo di vedere la via verso il futuro. Da qui, con questa nuova prospettiva, credo di vedere l’insieme del castello, il suo disegno si staglia su di me, trasparente e confermato, grazie a una terra non più opaca, che mette a nudo le pietre dell’edificio innalzate dal suolo alla comunione della pioggia e dell’aria.
Ecco la casa militante, un’impresa perfettamente abbozzata rannicchiata attorno a un vuoto segreto e protetto, con le insegne e le bandiere che si agitano impavide al soffio di venti volgari; un pugno in un guanto di ferro che prevale sull’aria spianatrice.
Giaccio sul fondo, seminale, germinale; una cosa diretta verso il fango, verso la terra, in evoluzione, per nulla sgomentata dal peso del passato incommensurabile compresso sotto di me e dalla colonna di atmosfera che tenta di schiacciarmi, due forze che insieme premono e mi costringono a sottomettermi e a diventare parte di una superficie più grande e più grossolana.
Ma adesso è adesso, è adesso la richiesta, e devo agire.
Tento di scrollarmi o di strapparmi via l’elmo, ma non ce la faccio. Decido di liberare prima le mani.
Mi dimeno, intirizzito dal freddo, per sciogliere il nodo. Piego le dita e cerco di far presa sulla corda di campanella che mi tiene strette le mani. Spingo e tiro e contorco i polsi tra i legacci.
Un rumore, di sopra.
Alzo lo sguardo nel buio, e mi pisciano addosso; l’urina rimbalza su di me, risuonando delicatamente sull’elmo e sibilando nell’acqua. È appena tiepida: il passaggio nell’aria fresca della gola del pozzo l’ha portata quasi alla stessa temperatura dell’acqua immobile sul fondo. Qualche grido, e poi, con un tonfo che mi fa sussultare, qualcosa di solido colpisce l’elmo e finisce in acqua. Risate, di sopra; altre grida, che si affievoliscono e poi tornano. Poi alcuni conati di vomito.
E il vomito, questa volta. È più caldo dell’urina. Il suo fetore rancido cresce attorno a me. Soprattutto vino, direi. Altre risate, poi il silenzio.
Continuo a lottare con i legacci che mi stringono i polsi. Credo che se solo riuscissi a vedere bene, anche in questa oscurità quasi totale, ce la farei. Ma ho bisogno delle mani per togliermi l’elmo. Provo, invece, a mettermi in piedi nel secchio, pensando che potrei riuscire a liberarmi dell’elmo se riuscissi a incunearlo con più forza contro la parete del pozzo. Anche questo tentativo fallisce: le mie gambe si rifiutano di collaborare.
Mi rimetto al lavoro coi nodi. Sono diventati umidi e scivolosi; le dita non fanno presa sulla superficie viscida. Finalmente, sento qualcosa che si scioglie a un’estremità del nodo, ma per quanto torca i polsi e allarghi il più possibile le dita non riesco a tirare il capo.
Ricado all’indietro, esausto, vedendo ancora le luci davanti agli occhi. Credo di aver perso conoscenza.
Non passa molto tempo, o forse sì.
Mi piego in avanti per incastrare la visiera dell’elmo contro la catena dell’argano, e poi, un anello alla volta, spingo all’insù la visiera finché riesco a portarla sopra la testa e a bloccarla. Adesso finalmente ci vedo, anche se non c’è molto da vedere. Vorrei che l’aria fosse più respirabile. Alzo lo sguardo: una corona stellare di pietra, composta di luci riflesse, mi fissa a sua volta, vuota.
Vederci non mi aiuta a sciogliere la corda. Dopo un’altra pausa boccheggiante e altre vertigini, mi piego all’indietro, sollevo i polsi, mi protendo con la bocca e faccio pendere verso i denti il capo pendulo della corda.
La puzza è spaventosa; qualcosa di umido mi gocciola sulla faccia. Ho un conato di vomito, devo fermarmi. Quando è passato lo stimolo faccio un altro tentativo. Alla fine riesco ad afferrare fra i denti la corda. Comincio a tirare, torcendo di nuovo i polsi e cercando di sfilare le mani.
Qualcosa cede. I polsi si stanno liberando. Una mano scivola fuori, umida e viscida e scorticata. Sputo la stoffa lurida che mi è rimasta in bocca. Sciolgo il cappio rimasto sull’altro polso, poi mi distendo, con le braccia e la schiena che protestano, e mi levo il peso dell’elmo dalla testa. Lo lascio cadere nell’acqua accanto a me, poi cerco di mettermi dritto, facendo forza con le mani sull’orlo del secchio. Senza successo. La schiena mi fa male come se fosse stata appena ustionata. Allungo le mani verso la catena del secchio e la tiro verso di me finché, un tratto alla volta, la corda finisce e si tende. Mi appendo, tiro e finalmente riesco a liberare la schiena e le caviglie incastrate.
L’acqua arriva solo a metà polpaccio. Cerco di stare in piedi ma non ci riesco: le gambe si piegano e devo stendere entrambe le braccia per sostenermi, appoggiandomi precariamente all’indietro. Alla fine ribalto il secchio e mi ci siedo sopra, in attesa, tremante, che mi ritorni una qualche sensibilità alle gambe.
Perdo di nuovo i sensi, e mi risveglio nell’acqua fetida e ghiacciata, dibattendomi e sputando. Mi inginocchio nella feccia gelida e cerco a tastoni il secchio. Torno a sedermici sopra.
Non so quanto tempo sia passato. Sto seduto con la testa fra le mani, cercando di soffiare un po’ di vita nel mio corpo; ogni tanto mi metto a tremare. A un certo punto il rumore di fondo cambia, finisce qualcosa, e quando alzo gli occhi, dopo aver percepito una nuova alterazione, è notte fonda; è scomparso il bordo di luce elettrica riflessa dalla roccia, e sopra di me non c’è più alcun alone luminoso. Abbasso la testa, poi provo ad alzarmi. Il formicolio mi assale le gambe, dall’inguine all’alluce. Riesco a stare in piedi, con lo sguardo puntato nell’oscurità.
Passa un po’ di tempo prima che mi senta pronto per un tentativo. Non so quanto. Non viene nessun altro a liberarsi nella mia segreta o a ridere di me, anzi, lassù in alto tutto sembra perfettamente silenzioso e buio.
Afferro di nuovo la corda del secchio, aggrappandomici con tutto il mio peso per saggiarla. In cima qualcosa cigola, e la corda cede appena. Sembra poco sicura. Non sono certo di avere la forza di risalire il pozzo. Forse dovrei starmene qui seduto sul secchio ad aspettare il mattino. Alla fine avranno compassione di me, o semplicemente si ricorderanno di me, e forse caleranno una corda per tirarmi su. Oppure no: magari mi lasceranno qui finché muoio, o mi getteranno addosso pietre e rocce fino a seppellirmi. Posso confidare nella compassione della luogotenente? O nel tuo amore? Non posso averne la certezza.
Poi mi appoggio all’indietro, con le scapole contro il muro, e spingo avanti i piedi nell’acqua, oltre il secchio e l’elmo sommerso, fino al muro più lontano, curvo e stretto. Mi tendo e mi tiro, sollevandomi. La nuca e la spina dorsale fanno a gara a chi protesta più dolorosamente, ma le ignoro entrambe. La catena congiunta alla corda si arrotola a spirale sul mio grembo. Adesso i piedi sono mezzo metro sopra il livello dell’acqua; la testa è un metro sopra di loro. Faccio una pausa, incuneato nella mia posizione. Ero troppo piccolo per fare così, la prima volta. In questo modo, però, posso fermarmi durante la salita nel pozzo, facendo riposare le braccia se diventano troppo deboli per lo sforzo.
Provo a partire, tirando la corda; ho il respiro affannato e il cuore batte sempre più forte a mano a mano che salgo. Le braccia cominciano a tremare, vibrare e bruciare per la fatica; mi fermo a prendere fiato, lasciandole penzolare, facendo smorfie di dolore quando la nuca e la schiena incontrano rocce ruvide e sporgenti. Anche le gambe cominciano a tremare. Riprendo a salire, a un incerto ritmo d’ambio: una mano stringe la corda, tirando, poi sale un piede, poi l’altra mano, poi l’altro piede.
Scivolo quando sono ormai vicino all’imboccatura. Una mano, stanca, trova qualcosa di viscido su quel filamento e perdo la presa; cado per un tratto, mi aggrappo d’istinto con entrambe le mani alla corda e di sopra l’argano stride con forza. Riesco a far presa e mi fermo, con le gambe penzoloni. Per l’attrito, i palmi e le dita bruciano come carbonizzati, facendomi gemere con la fronte appoggiata alla corda, mentre stelle luminose vorticano nel mio campo visivo. Ondeggio come un impiccato, con i piedi che urtano contro le pareti del pozzo. Sulle guance mi scorrono le lacrime. Spingo i piedi all’infuori per fare presa e incunearmi. Potrei lasciarmi cadere, rinunciare, fermare il dolore che parte dalle mani e mi inonda semplicemente arrendendomi all’attrazione seduttiva della terra; morte o incoscienza, non ha molta importanza. Ma qualcosa in me non cederà e sa che cos’è quell’unione di mani bruciate sulla corda fredda e consunta: una miccia.
Muovere le dita, costringendole ad aprirsi e chiudersi su quella superficie ruvida, mi fa boccheggiare. Piango per il dolore e la fatica; le braccia tremano così forte che sono certo che si piegheranno e cederanno al prossimo sforzo. Decido di fermarmi a riposare, punto le spalle contro la parete e quasi urlo quando la testa cade all’indietro, priva d’appoggio, e urta contro una pietra orizzontale.
Ho raggiunto la superficie. Sento col naso e le orecchie la differenza e annuso l’aria più fresca.
Tiro fuori i piedi, poi ruoto su un fianco, stringendo il muro di roccia, e per poco non ricado nel pozzo quando perdo l’appiglio su una pietra scivolosa. Invece cado da questa parte del cerchio di pietra e mi ritrovo sui ciottoli del cortile, accanto al cannone della luogotenente, che giganteggia nell’oscurità pietrosa del cortile. Poso le mani sui ciottoli freddi, e lascio che il castello rinfreschi come un unguento la pelle ustionata dalla corda.
Il castello non è del tutto buio: le luci elettriche sono spente ma tremolano alcune feudali torce da giardino. Regna un frammentario silenzio: sento un lontano colpo di tosse e un grido, forse umano. Mi rimetto in piedi, in attesa, respirando con forza, ondeggiando un po’. Il cielo notturno invia una pioggerella leggera e spruzza d’acqua il mio viso levato all’insù; alzo le mani verso la sua freschezza, come se mi arrendessi. La debole luce delle torce si riflette sulla mole metallica del cannone, mostrando la sua muta bocca puntata verso l’oscurità. Barcollo fino alla jeep più vicina, solo per sedermi. Mi porto le mani davanti alla faccia, e le piego nonostante il dolore.
Sedendomi, trovo una borsa infilata fra i due sedili, con qualcosa di duro all’interno. Infilo una mano, mordendomi le labbra per il dolore, e tiro fuori una pistola automatica, pesante, con uno splendore offuscato. La rigiro. È fredda e allevia il dolore della mano. La tengo stretta e mi allontano dalla jeep, raggiungendo la saracinesca chiusa che blocca il passaggio sotto il corpo di guardia. Oltre il breve tunnel c’è un barlume di torcia che illumina la balaustra spezzata del ponte sul fossato. Sbircio attraverso la griglia di ferro battuto.
Sento qualcuno che russa, quasi sotto di me, dall’altra parte della saracinesca. Faccio un salto all’indietro. Arrivano i suoni di qualcuno che si sveglia, si rigira, borbotta. Ho come l’impressione di un’oscurità che si muove, di gente che si alza per riempire lo spazio davanti a me. Poi uno strofinio, e un fiammifero che si accende. Mi riparo gli occhi, e attraverso la griglia metallica vedo prima una mano, poi un viso scuro, poi altri tre. Gli uomini dell’accampamento mi fissano attraverso il ferro battuto, le cui aperture tracciano un grafico di rassegnata preoccupazione sui loro volti tirati e sporchi.
«Chi è?» dico. Il fiammifero tremola. Non posso leggere nulla su quelle facce; sono forse spaventate, rassegnate, furiose? Non lo saprei dire. «Vi conosco?» chiedo loro. «Conosco qualcuno di voi? Chi siete? Cosa è successo? Che ora è?»
Il fiammifero tremola di nuovo, prossimo alla fine. Viene lasciato cadere all’ultimo momento, e si spegne prima di toccare i ciottoli. Apro la bocca per ripetere le domande, ma sembra del tutto inutile. Sento uno scalpiccio, il rumore di gente che si risistema, e capisco che gli uomini si stanno sdraiando di nuovo, come prima.
Provo a girare la ruota di ferro che alza e abbassa la saracinesca, ma il lucchetto è chiuso. Sto per voltarmi quando mi viene in mente la chiave che ho preso ad Arthur e infilato in una tasca. Mi sono ricordato di spostarla quando mi sono cambiato d’abito? Mi tocco con delicatezza le tasche con la mano libera. Trovo la chiave, la prendo fra due dita impacciate e la provo, ma sbatte nella serratura del lucchetto, molto più larga. Gli uomini si agitano al rumore, poi si rimettono sdraiati, e ben presto ricominciano a russare.
Mi fermo lì, con le mani tremanti per la fatica, stringendo una chiave sbagliata nell’oscurità quasi assoluta, poi mi volto e lascio gli uomini in attesa oltre la saracinesca, serrata ma aperta, e avanzo verso il cuore del castello, indovinando di essere diretto verso qualche piccola sciagura.