37514.fb2 Canto di pietra - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 17

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SEDICI

Nero su nero, il castello si staglia sospeso nella distorta simmetria dell’aria, senza offrire garanzie di soluzione, ma lasciandomi entrare, lurido e dissotterrato, attraverso la porta non chiusa né sorvegliata. L’atrio, illuminato dagli ultimi mozziconi di candela, sembra il quadro vivente di un massacro. Corpi disseminati sul pavimento; pozze di vino, scure come sangue. Solo un respiro sonoro e qualcosa di mormorato in un sonno profondo provano che si tratta di torpore di massa, e non della scena di una strage. Mi avvio sulla scalinata. I miei piedi restano appiccicati su alcuni gradini e, nonostante le mie cautele, sbriciolano rumorosamente qualcosa su altri. Nei corridoi e nelle stanze del primo piano mi accoglie una confusione di tavoli rovesciati, sedie fatte a pezzi e scrittoi abbattuti; ecco tende appallottolate sotto le finestre, ecco un opaco luccichio di frammenti di cristallo e cerchi metallici nel punto in cui è caduto e si è infranto il lampadario; nel camino del salone fumano i resti bruciacchiati di sedie scheggiate e di cassetti: spirali di fumo si levano pigre nell’oscurità che le attende a bocca aperta. Due corpi addormentati giacciono avvolti nei brandelli squartati dell’arazzo che prima occupava l’intera parete; vedo una mano soldatesca che stringe ancora il collo di una bottiglia.

Dappertutto scintilla la devastazione di vasi, lampade, statuette, ridotti ad ammassi seghettati le cui punte taglienti, estratte da ciò che era un tempo il loro io intatto, risplendono come ghiaccioli confitti in un ammasso di ritagli torti e strappati che un tempo erano pagine di libri e mappe, stampe e dipinti, tessuti e fotografie, tutti gettati come una neve vecchia e grigia di riporto su un paesaggio di desolazione assoluta: la morbidezza di questo strato sembra una sorta di espiazione per la violenza che è stata necessaria alla sua creazione.

Una tale deliberata distruzione. La mia casa, la nostra casa, desolata, saccheggiata, in rovina; il tesoro raccolto nei secoli, da un intero albero genealogico di antenati e in mezzo mondo annientato in una notte di frenetica e insensata licenza. Mi guardo intorno, scuotendo la testa, mentre i sensi vacillano davanti alla percezione della portata e della scala di ciò che è andato perduto. Una tale bellezza, una tale eleganza, una tale grazia: tutto devastato. Tanti oggetti accumulati con amore, tanti preziosi possessi, tanta elaborata ricchezza, tutto cancellato dall’adulta esagerazione di una collera infantile, liquidato davanti all’esplosione momentanea di un’allegria distruttiva, abbandonato a nient’altro che alla furia improvvisa e infiammata di un vandalo.

C’è, nondimeno, una parte di me che esulta al pensiero di ciò che è stato compiuto e che si sente liberata grazie a tutta questa distruzione.

Da dove ha avuto origine gran parte del nostro irregolare godimento, se non dall’infrazione, dalla rottura, dalle macerie? Abbiamo infranto leggi e tabù e strutture morali, e il nostro apostolato, la nostra infezione hanno causato lo stesso comportamento negli altri. La massima parte dei valori che la società considera fondamentali li abbiamo sdegnati, demoliti, abbattuti. Più un’azione era aberrante, più vi abbiamo trovato diletto: il piacere elementare di un atto veniva ingrandito e moltiplicato dalla gioia deliziosa di immaginare la rabbia apoplettica che avrebbero ostentato quasi tutti gli altri se fossero mai venuti a conoscenza di ciò che avevamo fatto, per non parlare — altro pensiero maligno, eroticamente eccitante — delle arteriosclerotiche vette di scandalo a cui si sarebbero innalzati se ne fossero stati testimoni oculari.

Abbiamo piegato a tali voleri il corpo — nostro e altrui — che ormai non ci restano altre proibizioni da ignorare, altre santità da insozzare, altre leggi da infrangere. Ci siamo fermati davanti allo stupro non simulato, alla tortura non volontaria e all’omicidio, ma a parte ciò molte volte ci siamo sottomessi a grandi dolori e corteggiato la morte mediante dolci costrizioni. Cosa rimane, che non richieda la forza, e dunque che ci abbassi al livello del comune stupratore o del vile torturatore, la stirpe miserabile che può raggiungere i propri scopi solo con la materiale sopraffazione degli altri? Nulla, avrei pensato fino a oggi.

Avevo creduto che ormai non ci rimanesse che la prospettiva degli stessi atti compiuti con nuove sfumature e l’occasionale, minima variazione. Era, è vero, la causa di una punta di rimpianto, qualcosa con cui è abbastanza facile convivere, come il rendersi conto che è impossibile ottenere tutti gli oggetti del proprio desiderio, o la distante prospettiva della morte in tarda età. Vedo adesso che restava sempre questa possibilità: la distruzione dei nostri valori, delle proprietà che avevamo care. Riconosco di essere stato cieco a non capire che una parte della moralità che condividevamo con gli altri implicava restrizioni degne di essere infrante, e perciò nascondevano in quella sovversione una quantità di piacere in precedenza mai sospettato.

Non credo che avrei mai potuto compiere una simile devastazione: la nostalgia, qualche residuo di sentimento familiare, il rispetto per l’abilità artigianale e la consapevolezza dell’impossibilità di condurre a termine una tale rovina me l’avrebbero impedito; ma dato che ormai tutto questo è stato compiuto da altri, perché non dovrei assaporarlo e gloriarmi del risultato? Chi altro dovrebbe farlo? Chi altro lo meriterebbe? Non certo questi casuali distruttori, questi occupanti temporanei: dubito che sapessero che i dipinti che hanno ridotto a brandelli, il vaso scagliato contro un muro o il libro gettato nel fossato o lo scrittoio schiantato e bruciato nel camino valessero ciascuno più di quanto potrebbero mai pensare di guadagnare, in pace come in guerra. Io solo posso con equità e con il dovuto discernimento apprezzare cosa è andato qui distrutto. E non mi dovevano questi materiali, questa ricchezza di mercanzie e d’arte un ultimo contrappeso di piacere, un’ultima tenerezza, benché non fosse altro che il riconoscimento, nel commiato, del loro perduto valore?

Perduto, dunque. E insieme a tutto ciò, è scomparsa anche gran parte delle cose che ci eravamo trascinati dietro quando abbiamo lasciato il castello, pochi giorni fa. Adesso potremmo anche rinunciare a questi muri non più ingombri, credo. Ora non resta che la nuda struttura, e non vorrei tentare di indovinare quanto riuscirà a sopravvivere rispetto ai beni che un tempo ha ospitato. Resiste solo il guscio, il solo corpo: comatoso, vegetativo, rapidamente abbandonato dagli abitanti, con la padronanza di sé ridotta ormai a nulla.

Ma grazie a questa perdita, noi vinciamo. Siamo liberi, possiamo finalmente andarcene, allontanarci col cuore oltre che con le gambe.

Attraverso il salone deserto, passando davanti al fragile applauso dei vetri infranti e alla ferrosa approvazione delle armature gettate per terra, delle spade cadute e di indecifrabili detriti metallici. Una fioca luce lunare filtra fra le nubi che si aprono e si allontanano, consentendomi di vedere. Strappo un arazzo che pende insaccato da una parete e digrigno i denti per la feroce fitta di dolore che ne ottengo. Rimetto sul piedistallo una fanciulla di marmo e appoggio il suo braccio spezzato sullo scaffale accanto; la fanciulla splende lattescente nella luce grigio-azzurra, luminosa e spettrale.

Raccolgo, chinandomi, una statuetta. È una pastorella, idealizzata, ma squisita e splendidamente eseguita, come la ricordavo. Ha perduto la testa, ed è stata spezzata dal suo piedistallo. Mi accuccio per cercare gli altri pezzi. Trovo la testa coperta da un cappellino, e strofino via un po’ di polvere di gesso dai lineamenti delicati. Il naso è stato scheggiato, e la punta brilla, bianchissima, attraverso il leggero rossore della vernice. La testa sta in precario equilibrio sulla sottile scanalatura del collo: la poso con cura sullo scaffale della libreria, accanto al braccio della statua, e poi continuo ad avanzare in mezzo alla devastazione.

…E non posso fare a meno di ricordare altri danni tumultuosi, molti anni fa, provocati da papà anche se portati a termine dalla mamma. Fu anche l’occasione della nostra prima separazione.

Il ricordo è annebbiato, non tanto per l’accumulo degli eventi che si frappongono quanto per la mia giovanissima età in quel momento. Rammento che dopo l’iniziale scambio di urla, la mamma strillava e papà si limitava a parlare, che la voce di lei aggrediva le orecchie e che invece bisognava sforzarsi per distinguere le parole di lui. Ricordo che lei lanciava e lui si abbassava, o tentava prese al volo.

Noi eravamo in camera nostra, a giocare, quando sentimmo le loro voci, talmente alte che erano salite fino a noi, raggiungendoci nello spazio arioso della soffitta dipinta di chiaro. La bambinaia era sempre più nervosa, sentendo le urla e le grida, le parole aspre e le accuse che filtravano dalla camera da letto al piano di sotto. Andò a chiudere la porta, ma il rumore arrivava lo stesso, per mezzo di qualche strada secondaria della geografia più volte alterata del castello, mentre noi giocavamo con i mattoncini o i treni o le bambole. Credo che ci guardassimo l’un l’altra, restando in silenzio, e continuammo a giocare.

Finché non potei più resistere e superai la bambinaia, aprii la porta e scesi di corsa gli stretti gradini, singhiozzando, mentre la donna mi gridava di tornare indietro. Anche lei si mise a correre, e tu ti avviasti a passi felpati dietro di lei.

Erano nella camera di papà. Varcai di corsa la porta mentre la mamma gli scagliava contro qualcosa. Una porcellana, parte della collezione che lui aveva radunato, volò, bianca come una colomba, attraverso la stanza e si infranse sul muro, sopra la testa di papà. Credo che avesse cercato di afferrarla, e ce l’avrebbe fatta, se non fosse stato distratto dalla mia improvvisa comparsa. Mi guardò infuriato, mentre correvo in lacrime dalla mamma.

Lei era in piedi accanto a una vetrina, vicino al muro; lui era vicino alla porta che collegava le due stanze da letto. Papà era vestito per andare in città. La mamma indossava una camicia da notte trasparente sotto la vestaglia, era spettinata, sulla faccia aveva la crema di qualche trattamento di bellezza. Nella mano sinistra teneva un foglio di carta color lavanda su cui c’era scritto qualcosa.

Lei non si accorse della mia presenza finché non andai a batterle contro la coscia e mi aggrappai a lei, supplicando che lei e papà smettessero di gridare, di litigare, di comportarsi in maniera così orribile. Annusai il suo profumo, quel suo odore naturale difeso con tanta cura e quella leggera essenza floreale che prediligeva, ma colsi anche qualcosa d’altro; c’era un profumo diverso, più chiaro e muschiato del suo, e solo in seguito capii che doveva provenire dal biglietto spiegazzato che teneva in mano.

Pensavo, forse, che solo per il fatto di essere lì, solo col ricordare loro la mia esistenza sarei riuscito a farli smettere di litigare, senza immaginare che la mia presenza, anzi, proprio la mia esistenza avrebbe potuto fornire un altro stimolo alla disputa. Non sapevo che l’intero corso successivo delle nostre vite sarebbe stato determinato da due pezzi di carta, presenti entrambi in quella stanza. Uno — bianco, severo, dai bordi netti, piegato con cura nella giacca di papà — era una lettera con un sigillo di stato, che lo inviava in una capitale straniera a rappresentare la sua nazione; l’altro — quello azzurro e profumato, stretto con furia dalla mano della mamma — era stato nascosto da papà, scoperto dalla mamma, nuovamente nascosto da lei e infine rivelato, pochi minuti prima, come reazione. Entrambi rappresentavano una possibilità per chi li sventolava; insieme definivano la calamità che incombeva sulla nostra famiglia.

La mamma mi strinse a sé e io singhiozzai nella consolante trapunta della vestaglia, mentre il suo pugno chiuso — quello che stringeva il biglietto — mi premeva tremante fra le scapole. Lei riprese a urlare, con le parole che precipitavano veloci, disperate e affannate dalla bocca. Parole feroci, accusatrici, umiliate; frasi e periodi carichi di scoperte e tradimenti e abbandoni e atti sordidi e odio. Allora capivo ben poche di quelle parole, oggi non ne ricordo direttamente nessuna, ma il loro significato, il loro peso mi perforavano le orecchie come lance infuocate e mi esplodevano nella mente; le gridai di smettere e mi portai le mani alle orecchie.

Anche altre mani si chiusero attorno a me e cominciarono a spingermi fuori. Mi aggrappai di nuovo alla mamma, ancora più stretto, mentre la bambinaia cercava di strapparmi via e tu eri ferma sulla soglia, con la mano sulla maniglia, con gli occhi scuri spalancati, calmi, inquisitori.

La voce di papà era misurata, calma, ragionevole. Parlava di dovere e opportunità, di stanchezza e di nuovi inizi, del peso del passato e delle promesse del futuro, di terre inaridite e di terre vergini. La sua calma glaciale aveva l’effetto opposto sulla mamma e ogni parola sembrava eccitare il suo furore e trarre nuovo veleno da lei: ogni parola che alludeva alle responsabilità pubbliche veniva distorta, e costretta a mettere in discussione il suo comportamento privato, e diventava non solo vuota ma disonorevole.

Papà riteneva doveroso che andassimo tutti; la mamma gridava che sarebbe partito da solo.

La voce della mamma si stava arrochendo; infilò una mano nella vetrina, estrasse una statuetta e la scagliò contro papà, che la prese al volo e la tenne in pugno mentre le parlava con il più ragionevole dei toni. Lei si mosse, trascinandomi con sé mentre la bambinaia cercava di staccarmi le dita dal suo fianco; la mamma posò l’avambraccio sullo scaffale e fece cadere con un solo movimento tutte le statuette di porcellana, che si infransero o rimbalzarono sul pavimento.

Io gemevo e tiravo calci alla bambinaia.

Tu attraversasti la stanza e prendesti delicatamente la statuina dalla mano di papà, poi — quando la mamma ne gettò un’altra sopra la tua testa, e la statuetta, deviata dal braccio teso di papà, si frantumò sul pavimento — ti inginocchiasti a raccogliere i frammenti di porcellana, riponendoli nel grembiule macchiato di colori dove giaceva anche la figura intatta.

Credo che i singhiozzi desolati alla fine dovettero fiaccarmi, perché la bambinaia riuscì a staccarmi dalla mamma; mi tenne stretto per la mano e mi trascinò via urlante, con i piedi che si tiravano dietro un tappeto, verso di te. Tu alzasti lo sguardo, ti alzasti in piedi e svuotasti con cura il grembiule sull’alto letto di papà. Prendesti l’altra mano della bambinaia e lei condusse te e trascinò me alla porta; le sue scuse vennero cancellate dalle urla strozzate della mamma. La statuina seguente colpì con forza papà alla testa. Lui si portò una mano alla fronte e fece un’espressione seccata alla vista del sangue che gli macchiava le dita.

Alla porta riuscii a liberarmi e corsi indietro; la bambinaia tentò di inseguirmi e io saltai sul letto e lo attraversai a grandi passi, disperdendo i pezzi di porcellana che avevi raccolto tu. Raggiunsi papà: ora volevo difenderlo dalla furia della mamma.

Lui mi spinse via. Mi fermai, confuso, in mezzo a loro due, fissando papà mentre lui mi puntava il dito contro e gridava qualcosa. Ricordo che non capii, e pensai: Perché non mi vuole? Cosa c’era che non andava in me? Perché accettava solo te?

La mamma strillava il suo rifiuto; la bambinaia mi afferrò con entrambe le mani e mi tenne sotto un braccio, appoggiato su un fianco; all’inizio mi dibattei appena, ancora sconvolto. Presso la porta mi scossi e mi liberai ancora una volta e mi diressi verso papà. Questa volta lui imprecò, mi prese per la collottola e mi spinse fuori dalla porta, passando accanto alla bambinaia piangente che si scusava. Mi scagliò lontano nell’atrio. Atterrai ai tuoi piedi. La bambinaia uscì di corsa dalla camera da letto e la porta sbatté alle sue spalle; si sentì scattare la serratura.

Tu allungasti la mano per asciugare un po’ del sangue di papà che mi era rimasto sul collo.

Quel giorno stesso lui ti portò via con sé, e per la prima e ultima volta colpì sua moglie che cercava di trattenerti. La mamma fu lasciata in lacrime sui ciottoli del cortile mentre lui conduceva te, tranquilla e remissiva, lungo il passaggio sotto il corpo di guardia e poi oltre il ponte fino alla macchina che lo attendeva. Io mi inginocchiai accanto alla mamma, condividendo le sue lacrime, e osservando la vostra partenza.

Ti voltasti solo una volta, mi guardasti negli occhi, sorridesti e salutasti con la mano. Non ricordo che tu abbia mai avuto un’aria più indifferente. Le mie lacrime sembrarono asciugarsi all’istante, e mi ritrovai ad agitare debolmente la mano, verso la tua schiena, mentre saltellavi via.

Mi avvio sulla scalinata centrale, dove il gesso, simile a una purissima nevicata, ricopre una figura addormentata, che si muove, bofonchia nel sonno e disturba appena la polvere. Qualcosa mi schiocca sonoramente sotto i piedi mentre passo accanto al soldato addormentato, e dalla forma raggomitolata esce un insulto ubriaco e incoerente. Resto immobile, e il soldato si riaddormenta, e il mormorio si smorza nel silenzio.

Mi viene in mente di lasciare qui la pistola che pende dal mio braccio destro, ma la mano dolorante e ustionata ormai si è abituata all’arma; serrata attorno alla sua freddezza, la carne bruciata non si lamenta, a parte un dolore sordo e distante; costringerla a muoversi adesso, staccare la pelle gemente dal calcio della pistola e flettere quella superficie segnata vorrebbe dire suscitare altro dolore. È meglio, meno penoso, lasciarla dov’è. E comunque, chissà, magari la pistola può tornarmi utile.

Salgo i gradini curvi fino al caposcala del piano delle stanze da letto, dove le ringhiere della balaustra, inclinate e spezzate, sporgono verso la tromba delle scale come dita che artigliano il vuoto. I miei piedi, che preferiscono il limite interno dei gradini, strusciano polvere di gesso a ogni passo. Il corridoio trabocca d’ombre, una buia foresta di colonne e pilastri pallidi, ampie chiazze di ombre d’inchiostro e raggi obliqui della luna; un sentiero invernale fra i detriti, fiancheggiato di oscure pozze che hanno lo stesso colore del retro degli specchi antichi. Sento lontani grugniti, un letto o un’asse scricchiolante, qualcuno che tossisce. L’aria puzza di fumo e sudore e alcol. Sul pavimento, la corrente di una finestra rotta spazza via un turbine di pagine strappate da libri. Provo a seguirle.

La porta della mia camera è socchiusa; all’interno l’aria è turbata dal russare di vari uomini. Nell’entrata che dà sulla tua camera, mia cara — e nella cornice di una finestra proiettata dalla luce della luna — giace un’altra forma assopita, arrotolata in un sacco a pelo, con un elmetto posato accanto alla testa e un fucile in equilibrio contro uno stipite della porta. Mi avvicino al soldato, posando con cura i piedi per evitare di far rumore schiacciando fogli e dischi rotti o un’asse danneggiata che scricchiola sempre. Mi sporgo verso di lui e colgo una traccia di quella che, alla luce della luna, sembra una ciocca di capelli rossi. È Karma, allora, il nostro mitragliere e fedele guardiano del sonno della luogotenente. Credo di poter girare la serratura della porta, ma se la aprissi farei cadere il fucile. Potrei sollevarlo, ma la cinghia è avvolta intorno al polso del guardiano, subito sotto il pugno serrato come quello di un bambino, accanto alla guancia.

Mi ritiro e punto sulla porta aperta del mio appartamento. L’oscurità è riempita dal rumore raschiante di un ubriaco che si dibatte nel sonno. C’è poca luce: il camino è spento, le tende sono tirate e comunque la stanza non è esposta alla luce della luna. Faccio scivolare con cura i piedi. So dove sarebbero tutti gli oggetti di questa stanza in condizioni normali, ma quali rifiuti siano stati abbandonati, quali vestiti lasciati cadere e quali mobili spostati da chiunque dorma qui adesso non lo posso indovinare né vedere.

Striscio attorno ai piedi del letto e avanzo a tastoni oltre la cassapanca, e la mia mano sensibilizzata dal fuoco sfiora qualcosa che sembra biancheria femminile e un bicchiere posato accanto. Attraverso la stanza fino al muro accanto alla porta che dà sulla tua camera. Le scarpe incontrano vetri rotti, uno strato crepitante sulla superficie del tappeto. La vetrina accanto al muro è stata aperta; la mia mano in avanscoperta tocca lo sportello di legno e vetro e lo chiude con un morbido scatto e con il rumore stridente di qualcosa che gratta sul vetro. Mi immobilizzo. Il russare alle mie spalle ha un’esitazione e cambia tonalità, ma continua virilmente. Avanzo a tentoni fino alla porta.

Il passe-partout di Arthur fa scattare con dolcezza la serratura. Ricordo che ci sono chiavistelli su entrambi i lati della porta. Allungo la mano e scopro che quello da questa parte non è chiuso. Ho un’esitazione, chiedendomi cosa potrà mai succedere quando girerò questa maniglia, a cosa potrà condurre l’apertura di questa porta.

La maniglia si abbassa con facilità nella mia mano dolorante, e con una minima pressione la porta, robusta e pesante, comincia ad aprirsi.

Entro nella stanza, in un malcerto spazio ambrato pieno di ombre. La porta si chiude con uno scatto inavvertibile.

Finalmente, mia cara. Trovo te e la nostra luogotenente.

La stanza è illuminata da larghi monconi di candela e dai resti del fuoco nel camino, con i ciocchi ridotti a incandescenti caverne rosso scuro in un paesaggio grigio e nero, privo di fumo e di fiamma. Su ogni candela c’è un bagliore a forma di lacrima, immobile come vetro soffiato. Tremano appena alla debole corrente prodotta dal mio ingresso, una dopo l’altra: prima la candela sul lato più vicino del camino, poi quella su una cassapanca, poi quella all’estremità lontana del fuoco, infine la candela sul comodino, su cui è posata una pistola automatica di metallo nero e lucente. La dolce marea delle ombre lambisce la pelle della luogotenente e la tua, come la luce che accarezza le forme levigate della vostra carne condivisa.

Il corpo della luogotenente, di cui è visibile una metà in verticale, è più snello di quello che mi sarei aspettato. In questa luce, la sua pelle sembra quella di un bambino: morbida e rosata. Siete sdraiate insieme, nude, con le membra intrecciate, circondate da un caos indolente di cuscini, lenzuola, vestiti; la tua guancia è sulla sua spalla, la sua gamba gettata sul tuo fianco, una sua mano è posata con leggerezza sul tuo seno. Come sembra vulnerabile, insieme a te, mia cara, la nostra luogotenente, come è muto l’orgoglio del comando, quanto poco da luogotenente è la sua nuda accessibilità, quanto disposta al sonno la spalla che si adatta alla guancia, la nera capigliatura arruffata, la posa languida del braccio gettato all’infuori, la curva succosa della natica e la morbida mano a coppa: tutte le sue membra fluttuano sulle gonfie lenzuola di seta come relitti a stento collegati in un mare magico e calmo.

E quanto innocente, quanto bella appari tu, innalzata sopra la dissolutezza alcolica inghiottita dai piani inferiori, languida e composta in una pace comune e silenziosa, sicura nella tua morbida cittadella di sonno. Avanzo con cura ai piedi del letto, stando bene attento ai punti in cui il pavimento cigola, abbassandomi per evitare che la mia ombra proiettata dalle candele cada sul viso serenamente addormentato della luogotenente.

Quanto desidero unirmi a voi due, scivolare in silenzio fra voi e condividere il vostro calore, essere accettato da lei e insieme da te.

Ma so che non è possibile. Nessun atto della luogotenente fa pensare che i suoi gusti possano accettare una simile inclusione, o che lei possa cedere a ciò che desidero io. Devo contentarmi di essere stato testimone, di aver visto quanto doveva essere visto e sarà serbato con cura nella mia memoria. È sufficiente. Non ho idea di cosa potrebbe comportare quanto ho visto, del mutamento di situazione e fedeltà che potrà suscitare in seguito, ma da molto tempo abbiamo convenuto che cose come queste devono essere trattate con ragionevole passione, e di correre questo rischio. Solo il margine che ci siamo concessi ci permette di andare alla deriva insieme, solo i legami più allentati ci terranno uniti. La nostra ampia licenza è stata la garanzia di una rilassata affiliazione, e ci ha mantenuto nelle nostre orbite irregolari, mentre una minor portata di reciproco consenso ci avrebbe ben presto separati per sempre.

È stato egoistico, da parte mia, intromettermi in questo modo. Continuate a dormire, gentili signore. Perdonatemi per aver tratto questa minima quantità di piacere dalle conseguenze del vostro. Uscirò di scena, vi lascerò in pace e forse troverò un letto da qualche parte, di sopra.

Mi muovo con la cautela necessaria attorno al letto, badando di nuovo a dove metto i piedi, di nuovo piegandomi sotto la linea di luce che congiunge lo stoppino delle candele agli occhi chiusi della nostra luogotenente.

Un’asse scricchiola sotto di me, dove prima non si era mai mosso nulla. Certo, capisco all’improvviso; sono vicino al tappeto che copre il buco lasciato dalla granata. La luogotenente si muove nel sonno. Faccio un lungo passo per togliermi dall’asse danneggiata, che manda uno schiocco improvviso tornando a posto. Sento un rumore dietro di me, sul letto, e comincio a voltarmi, sbigottito, perdendo l’equilibrio, barcollo e metto il piede sul bordo del tappeto, pensando che sia centrato sul buco.

Ma qualcosa nel castello mi tradisce. Mentre guardo all’indietro, e vedo la tua testa che comincia a levarsi e la luogotenente che si volta di scatto, torcendo le coperte attorno a sé come un bozzolo filato — mentre i suoi occhi si aprono lentamente e la sua mano si protende verso il comodino — il mio piede finisce nel buco malchiuso sotto il tappeto. La gamba scompare di sotto, trascinandomi con sé; l’altro piede scivola sul pavimento di legno mentre comincio a sprofondare. Le mie braccia si distendono, e le mie mani tentano di stringersi a…

La pistola, dimenticata nella mia presa bloccata dall’ustione, emette un rumore assordante. Liberata come un uccello artigliato per aggrapparsi alla salvezza del trespolo marmoreo del camino, la mia mano, con le dita che si contraggono dolorosamente, si stringe invece al grilletto della pistola. Esplode uno sparo, e rimbomba nella stanza con una forza assordante, e una lancia di fuoco sgorga dalla bocca, coprendo la luce delicata delle candele e delle braci, accecandomi. Ho la gamba incastrata nel buco; mi volto mentre cado, e la mia testa colpisce la griglia metallica al bordo del focolare; la pistola sta ancora sparando, posseduta da una sua vita sussultante, e il suo folle abbaiare mi riempie la mano e le orecchie. Il marmo si crepa, si disperdono schegge, grida e colpi di rimbalzo echeggiano da qualche parte nel gorgo del rumore. Rotolo sulla schiena, confuso, mentre la pistola continua a saltarmi in mano. Anche mentre cado sul pavimento, con la gamba bloccata, preso come un animale in trappola, mi scopro a chiedermi come faccia la pistola a continuare a sparare, e solo oscuramente comincio a capire che, al contrario di tutte le pistole che abbia mai usato, questa spara finché si tiene premuto il grilletto. Dico alla mia mano di aprirsi, voglio che le mie dita lascino il grilletto, e intanto cerco di risollevarmi, di mettermi seduto.

Allora vedo la luogotenente, nuda e inginocchiata a gambe larghe sul letto, con una pistola tenuta a due mani e puntata contro di me. Apro la bocca per spiegare. Dietro — oltre il rosa del suo corpo agile e disteso — vedo te, rannicchiata, piegata in due, tremante, che ti stringi un braccio.

È sangue quello che c’è sulle lenzuola? Sono stato io che…?

La luogotenente spara prima che io riesca ad aprire la bocca, prima che possa spiegare, o chiedere, o protestare. Qualcosa mi colpisce sul lato della testa come un picchetto conficcato da un martello, facendomi ruotare, facendomi contorcere, facendomi girare gli occhi così da vedere le minuscole fiamme delle candele che roteano e lasciano una scia e creano un alone attorno a me, e le loro piccole vite tremolanti si trasformano in un intero popolo di candele.

Poi la luce si spegne del tutto mentre cado di nuovo all’indietro, colpendo le assi in un silenzio che svanisce.

Oscurità. Non più spari. Immobilità.

Mi sembra di non poter sentire nulla direttamente, eppure in qualche modo sono consapevole delle cose. Sono cosciente di un pianto, di grida, di voci che tranquillizzano, di cose che sbattono pesantemente e terribili ruggiti e rumori di tonfi e di passi. L’esistenza, la presenza di questi suoni mi viene in qualche modo segnalata, ma solo in quanto concetti, entità astratte. Non saprei dire chi piange, chi parla o cosa si dice o quali sono esattamente quei suoni e cosa significano.

Voglio aprire gli occhi ma non posso. C’è una tempesta in arrivo, penso. La pistola mi viene tolta dalla mano. Non fa troppo male. Qualcosa mi rimbomba nel fianco, nelle costole. Accade di nuovo. Mi ci vuole un momento, nell’oscurità che mi avvolge, per capire che vengo preso a calci. Comincia a far male. Il pianto, le grida, i colpi continuano. Sono gli alberi? Sento gli alberi che hanno preso a muoversi nella brezza? Un altro calcio, e questa volta fa più male.

«…qui!» dice una voce, distintamente.

Alcune mani si stringono attorno a me, mi sollevano bruscamente. La gamba viene districata dal buco nel pavimento. Poi sono di nuovo messo giù, e atterro su qualcosa di morbido, credo.

Sono sulla schiena. No, bocconi.

Adesso sento rumori confusi. Scricchiolano assi, sbattono porte, arrivano zoppicando alcuni piedi; fruscio di vestiti, sdrucciolii; lontani passi di corsa, con un ritmo spezzato, tutti diretti qui; urla confuse, preoccupate, sollevate e irose; frenetici scambi di parole. Credo che soffriremo tutti quando arriverà la tempesta. La mia testa viene sollevata, e poi lasciata cadere di nuovo. Sento la tempesta che si raccoglie sulle montagne. Strano torpore. Altre parole. Corone di nubi nere che si ammassano. Respira ancora. Una certa oscurità in cima. Barry. Bara. Sbarazzarsi.

Sei tu che piangi, credo. Parole di conforto della luogotenente. Sto ancora cercando di parlare perché ci devono essere cose da dire. Credo che i miei occhi siano aperti, ma non perché credo di vedere qualcosa. Credo di poter vedere. Di certo mi piacerebbe. Consapevole di altre persone. La stanza sembra molto rossa, come la osservassi attraverso una nebbia di sangue. Tu sei sul letto, rannicchiata, abbracciata: accudita. Gesso sul pavimento, sangue scuro sul letto. La luogotenente, seduta sul letto, si sta infilando uno stivale. Un leggero sibilo, qualche vecchio arnese alimentato a gas. C’è un tappeto sotto di me, che si inzuppa lentamente. Voce che riconosco: quella di un domestico, che grida, implora, nella stanza accanto, poi una frettolosa discussione, ordini e altre grida, la voce del domestico che protesta, si calma, se ne va, scompare. Ma la tempesta continua ad avvicinarsi; romba contro le mura cave del castello.

Mi chiedo chi abbia gridato. Sei stata tu, mia cara, o lei? O io, forse? Per qualche ragione mi sembra importante proprio adesso, sapere chi ha gridato, ma so solo che qualcuno l’ha fatto. Ricordo quell’urlo, mi torna in mente il suono, posso ripeterlo nella mia mente anche al di sopra del rombo della tempesta, ma nel ricordo potrebbe essere stato chiunque di noi tre. Forse siamo stati tutti e tre insieme. No.

«…on qui!» dice una voce. Ma di chi?

Uno scuro rombo postumo mi consuma. Adesso è arrivata la tempesta. L’ultima cosa che sento è «Non qui, non qui. Non…»