37514.fb2 Canto di pietra - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 18

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DICIASSETTE

Castello, sono nato dentro di te. Adesso mi rivedi come un bambino inerme portato attraverso le tue sale devastate. Sulla stessa barella che era servita per la granata vengo condotto davanti ai soldati, alle loro temporanee conquiste e ai nostri domestici, tutti in piedi, a bocca aperta. I detriti che avevo attraversato e le forme assopite che solo pochi minuti fa avevo sfiorato — unica creatura animata, unica in piedi e capace di stare in equilibrio, sprezzante di fronte alla loro rumorosa letargia — adesso sono gli ebbri testimoni della mia espulsione: vengo spazzato via, impotente e disarmato. Ciascuno con una candela in mano, i membri di quella congregazione mi osservano, come una vergine abbagliante e pacchiana condotta per la processione annuale in mezzo all’usuale squallore dei fedeli.

La luogotenente allarga le braccia mentre avanza a grandi falcate, infilandosi il giubbotto. Tranquillizza la folla, dicendo a tutti di tornarsene a letto, schiacciandosi per superare me e i miei portatori, sistemandosi il colletto mentre scendiamo le scale. Il sangue scorre alla testa. No, no, un incidente. Troveremo aiuto. So dove si può trovare un dottore, l’ho visto l’altro giorno. Anche la signora è ferita ma di striscio. Tutti e due sembra che stiano peggio di come stanno in realtà. A letto; tornatevene a letto. Continuate a dormire. Andrà tutto bene.

Vedo un altro viso, calmo, pallido ma composto in cima alle scale mentre scendiamo rumorosamente (mani bianche sul legno scuro e straziato, l’altro braccio avvolto in bende, stretto al tuo seno latteo)? Credo di sì, ma poi la rampa di scale mi fa voltare e mi toglie quella visione.

L’atrio, e sono di nuovo orizzontale. Vedo un’armatura accanto alla porta, con una cappa nera foderata di rosso sulle spalle. Cerco di toccarne l’orlo quando le passiamo accanto, e il braccio si protende in una supplica, mentre la bocca tenta di articolare parole. Il braccio ricade, toccando il pavimento, e le nocche colpiscono il gradino della porta, crocchiando su di esso mentre usciamo in cortile. La porta viene chiusa con violenza. Sento stivali che corrono sui ciottoli, poi urla e grida.

Non il pozzo, cerco di dire. Abbiate pietà. (Forse lo dico, credo, mentre mi scaricano dalla barella e mi buttano sul pianale tra i sedili di una jeep.) Il fondo odora di fango e olio. Qualcosa di freddo e rigido viene gettato sopra di me, sopra tutto il mio corpo, togliendomi la poca luce che c’è. Le sospensioni del veicolo cedono, viene mormorata qualche parola, un lontano rumore metallico viene coperto quando il motore si avvia rombando e l’acciaio sotto di me si mette a tremare.

Cigolano gli ammortizzatori, l’aria sibila; due pesanti paia di stivali si posano su di me, schiacciandomi la testa e le ginocchia. Il motore tossisce e si imballa, le marce stridono e partiamo con uno strattone. I ciottoli del cortile mi scuotono, il passaggio sotto il corpo di guardia amplifica il rombo del motore, e poi siamo fuori, oltre le mura, sopra il ponte — altre grida e un unico colpo di pistola — e scendiamo per il viale d’accesso.

Cerco di seguire la strada, sforzandomi di combinare la mappa della memoria con i movimenti ciechi della jeep; qui la testa è spinta contro la fiancata, qui gli stivali pesano di più, o scivolano all’indietro o in avanti. Credevo di conoscere bene questo territorio, ma penso di aver perso l’orientamento prima ancora di lasciare il parco. Giriamo a sinistra alla fine del viale, credo, ma sono ancora confuso. Mi fanno male la testa e le costole. Anche le mani, e questo mi sembra così ingiusto, dato che le loro ferite risalgono a un tempo molto più remoto, e ormai dovrebbero essere guarite da un pezzo.

Vogliono uccidermi. Mi pare di averli sentiti dire ai domestici che mi avrebbero portato da un dottore, ma non ci sono dottori. Non mi portano dove mi aiuteranno, a meno che non vogliano aiutarmi a morire. Qualunque cosa sia mai stato per loro, adesso sono nulla; non un uomo, un altro essere umano, solo qualcosa di cui sbarazzarsi. Solo una cosa.

La luogotenente crede che abbia voluto uccidere lei, o te, mia cara, o tutte e due. Anche se avessi la facoltà di parlare, non c’è nulla che potrei dirle che non sembri una misera scusa, una storia mal congegnata. Volevo vedere; sono stato solo curioso, nulla di più. Lei si era impadronita della nostra casa, si era impadronita di te eppure io non ne ero risentito, non la odiavo. Volevo solo guardare, avere conferma, essere testimone, condividere una minima parte della vostra gioia. La pistola? La pistola si era semplicemente presentata, è una creatura per natura promiscua, una cosa raccolta per caso, un invito rivolto alla mano per riempire la quale è stata disegnata e poi — nello stato in cui ero, attaccato a essa com’ero — era più facile tenerla che abbandonarla. Me ne stavo andando. Non avreste mai saputo che ero stato lì; la sorte, il puro destino ha decretato la mia caduta.

Non qui. Non qui. Sei stata davvero tu a dirlo? È quello che ho sentito davvero? Le parole mi echeggiano nella testa. Non qui. Non qui…

Così fredde, mia cara. Le parole, il loro significato così pratico, così oggettivo. Anche tu hai pensato che fossi venuto come un innamorato ardente e furioso a uccidervi entrambe? La nostra vita comune non ti ha insegnato chi e cosa sono io? Tutte le nostre giudiziose imprudenze, i nostri piaceri largamente diffusi, le reciproche libertà non ti hanno ancora convinto della mia mancanza di gelosia?

Oh, che dovessi ferire proprio te, che anche adesso tu debba cullare vicino al tuo petto quella ferita, pur leggera, pensando che l’abbia fatto apposta, e che volessi fare di peggio: questo è ciò che fa male, che mi ferisce. Vorrei poter soffrire io per quella ferita che con tanta imprudenza ti ho procurato. Le mie mani si stringono, sotto la tela cerata. Sembrerebbe che le mani siano diventati i miei occhi, e il mio cuore: perché entrambe piangono, e soffrono.

Il piano d’acciaio sotto di me ronza e vibra, la cerata s’increspa e sbatte, e un angolo mi picchietta in continuazione su una spalla come un villano fanatico che cerca di attrarre la mia attenzione. Il rumore dell’aria mi riempie le orecchie, vorticando e riverberandosi, lacerante, ossessivo, feroce nella sua insensata intensità, eppure capace di creare una calma più decisa di quella a cui avrebbe potuto aspirare il semplice silenzio. Mi ronza la testa, malata di questo vuoto risonante.

La mano destra è accanto alla fronte; trovo il comando che la porta più vicino, e la tela cerata copre il movimento. Sfioro la tempia: tocco qualcosa di bagnato, e sento il dolore della carne esposta; una lunga ferita che sanguina ancora, non più copiosamente, una scanalatura lungo un lato della testa, che parte dalle vicinanze dell’occhio e finisce oltre l’orecchio. Il sangue mi gocciola dalla fronte. Prendo qualche goccia e la strofino tra le dita, pensando a nostro padre.

Che triste razza è la nostra, che triste fine continuiamo a escogitare per tutti noi. Senza volerlo, mia cara, eppure quanti danni abbiamo provocato. A te, a noi, e a me, già ferito ma ormai vicino al momento in cui non potrò subire altro male. Dovrei andare così rassegnato alla mia fine? Non sono sicuro di avere molta scelta.

Siamo tutti partigiani di noi stessi, ognuno di noi, quando è costretto, è un combattente, e i vestiti sono la nostra armatura, racchiudono morbidi le nostre incerte corporature, mentre la nostra carne è il tessuto mortale così adatto alla mischia. Dal primo all’ultimo degli uomini, siamo tutti soldati, eppure ci sono quelli che anche di fronte alla morte non scoprono mai l’eccitante ferocia che questa marziale rivelazione richiede, dato che il loro particolare carattere ha bisogno di una combinazione di circostanze e motivazioni che non si è prodotta. I tiranni semplicemente astuti depredano la tollerante intelligenza di coloro che sono migliori di loro. Con la brutalità, gli eserciti forgiano nelle truppe quella fratellanza che dovrebbero estendere a tutti gli altri, e poi mettono l’uno contro l’altro. La nostra luogotenente fa qualcosa di simile su di me? Tiene anche me nel suo incantesimo? Avrei agito diversamente se fosse stata un uomo? E devo scoprire al momento della morte una capacità di sofferenza volontaria e un fatalismo che non avevo mai sospettato durante la vita?

Forse la caduta dalla ricchezza e da un ordinamento sociale a questa brutale assenza di regole imposta dalle armi ha talmente corroso il mio senso della dignità che posso considerare con relativa equanimità la mia resa al processo di eliminazione: sono una foglia sospesa che sente il respiro della tempesta e si lascia andare, lieta. Adesso credo di essermi dimostrato miope, nel non rendermi conto che, anche quando viviamo in epoche di pace, quei periodi sono solo la riserva che prepara il loro opposto, proprio come la ricchezza accumulata, bifronte, implica nel suo dono la povertà. Siamo l’unico animale perverso per natura; non dovrebbe essere una sorpresa, per me, che questa valutazione si adatti alle questioni più generali esattamente come a circostanze più intime. Compiliamo regole per le relazioni fra sistemi, stati e fedi, e per quelle fra noi stessi, ma sono scritte sull’onda del momento, e per quanto le eludiamo, le glossiamo, le selezioniamo, per quanto cambiamo opinione e siamo abilmente maldestri nelle nostre modifiche, giustificazioni e pretesti epiciclici, finiamo sempre presi nelle nostre pastoie, e impigliati nei nostri fili ricadiamo sugli altri, non meglio preparati di noi.

Con una parte di me, colma di risentimento e frustrata da tanta sopportazione, me ne starei disteso qui sotto per un’accorta simulazione, radunando le forze, raccogliendo tutte le risorse, per poi balzare all’improvviso, prendendoli di sorpresa, afferrare un fucile, rovesciare la situazione e piegarli al mio volere, costringendoli ad accettare la mia autorità e a prendere la direzione che desidero.

Ma questo non sono io. Io sono ancora perduto nel mio corpo: le comunicazioni fra le varie parti sono ancora frammentarie, le gambe formicolano, le mani sono involontariamente serrate, la testa e le costole mi dolgono, la bocca riesce solo a gocciolare saliva; se cercassi di saltare non otterrei più di uno strattone, e se davvero riuscissi a mettermi in piedi un bambino potrebbe abbattermi con una spinta, e se anche afferrassi una pistola probabilmente sbaglierei mira o sarei vinto dal bottone di una fondina.

E anche se stessi bene di corpo e di spirito, dubito che potrei indossare la veste del comandante. Questi soldati sanno cosa vogliono fare, hanno una missione e seguono il loro corso, sono all’interno del loro ambiente naturale, per quanto possano soffrirne, per quanto possano bramare di riassumere abiti civili. Ma per me quello stato è l’unico in cui potrei essere me stesso, l’unico che riesco a comprendere e che non solo ha senso per me, ma è l’unico in cui io abbia un senso.

Vorrei tornare da te, mia cara, e al nostro castello, e poi essere libero di stare o andarmene a seconda dei nostri desideri, ecco tutto. Ma se mi levassi e prendessi una pistola — ammesso che ci riuscissi — se arrivassi a comandare, otterrei mai quel risultato? Potrei ucciderli tutti e tornare a salvarti? Uccidere la luogotenente, la tua nuova amante, e uccidere gli altri? Credo che su questa jeep viaggino anche Mister Taglio e Karma, anche se non sono sicuro che ci siano né — se ci sono — di come faccia io a saperlo.

Troppe cose sono imponderabili. Ci sono troppe cose da pensare.

Potrei saltare su e scappare, forse, evitando in qualche modo i loro spari; potrebbero lasciarmi andare, potrei non valere la fatica di un inseguimento. Ma per andare dove? Posso abbandonare te, abbandonare il castello? Voi due siete il mio contesto e la mia società, solo in voi e grazie a voi trovo e definisco me stesso. Benché entrambi siate stati catturati, l’uno rovinato per sempre, l’altra, per il momento, trattenuta con le lusinghe, io continuo a non avere un’esistenza reale senza di voi.

Sono senza risorse. Le scelte che hanno portato a questa conclusione si perdono troppo indietro nel tempo, lungo la strada o all’inizio della corrente — anche il modo di considerarlo è una nostra scelta — per poter fare qualche differenza adesso. Se fossi sempre stato un uomo d’azione, o se non ti avessi amata in questo modo, o fossi stato meno indiscreto, o avessi amato di meno il castello e l’avessi lasciato quando lasciarlo era più facile — o se l’avessi amato un po’ di più, così da essere disposto a morire lì invece di sperare di fuggire lontano per poi ritornare — allora forse non mi troverei steso qui sotto. Forse se mi fossi concentrato meno su di te e sul castello, e tu su di me, e se fossimo stati creature più convenzionalmente sociali, meno orgogliose del nostro rifiuto di nascondere ciò che provavamo l’uno per l’altra, forse anche così le cose sarebbero state diverse.

Perché siamo stati orgogliosi e sprezzanti, non è vero, mia cara? Fossimo stati più prudenti, meno sdegnosi, avessimo nascosto le nostre azioni e il nostro disprezzo per la trita morale del branco, avremmo forse conservato la più ampia rete di amici, conoscenti e contatti che poco alla volta si è sfilacciata attorno a noi, al diffondersi della verità sui nostri rapporti. Non è stata nemmeno solo quella consapevolezza che gradualmente ci ha isolati, era piuttosto l’impossibilità di negare quella percezione, perché la gente sa tollerare moltissimo negli altri, soprattutto in coloro la cui stima viene ritenuta degna di essere conquistata, ma solo se chi possiede quella conoscenza può fingere con verosimiglianza, con se stesso e con gli altri, di non sapere ciò che in realtà sa.

Tuttavia, quell’autoinganno a noi non bastava; sembrava una parte di quella moralità fuori moda che avevamo due volte negato, per mezzo della nostra unione proibita e per l’ampio raggio di relazioni poco meno scandalose a cui partecipavamo e che incoraggiavamo. E così, nella nostra vanità, dopo aver scoperto uno stimolo in quei primi scandali, desiderosi forse di nuove vie per scandalizzare, abbiamo reso troppo difficile per coloro che ci circondavano, e che avevano una minima considerazione per il giudizio degli altri, il negare ciò che eravamo e cosa facevamo.

Avevamo ancora amici, e venivamo ricevuti abbastanza civilmente nella maggior parte dei posti che avevamo conosciuto, e nessuno con una casa come la nostra, con cantine ben fornite e una generosa disposizione, ha mai fatto fatica a trovare gente che affollasse un party, ma nondimeno ci siamo resi conto che calavano gli inviti nelle altre grandi case, così come il tipo e la scala degli eventi pubblici in cui un minimo investimento nelle azioni della morale convenzionale era uno dei requisiti d’ingresso.

In quel tempo, accettavamo la nostra condizione di quasi reietti con l’indignazione dell’altezzosità, e non ci mancavano gli zelanti accoliti disposti a incoraggiare una tale convinzione. In seguito, quando tutti sono finiti in guerra e le terre attorno a noi si sono svuotate, quella selezione ci sembrò nient’altro che un riconoscimento del nostro coraggioso e volontario distacco, e dichiaravamo compiaciuti, ai pochi ancora lì ad ascoltarci, che i vigliacchi che erano fuggiti ci avevano finalmente lasciato in pace. Ancora più tardi, quando ormai potevamo parlare solo fra noi, abbiamo smesso di accennare a simili cose, e forse speravamo che, al sicuro nella nostra casa ormai vuota, le ostilità che si avvicinavano potessero anch’esse ignorarci, così come aveva fatto il resto della società.

Avremmo potuto agire diversamente. Avrei potuto agire diversamente. Sono così tante le scelte che forse mi avrebbero evitato di finire qui sotto.

Ma adesso che ci sono, non so cosa fare. Se c’è un rimedio, non sta nelle mie mani. E naturalmente un rimedio c’è, e sta nelle mani della luogotenente, ed è il suo fucile.

È venuta la mia ora, credo, mia cara. Certo, in un altro senso è venuta ed è andata. Credo di aver fatto del mio meglio per proteggere te e il castello, e adesso, forse, andando verso la morte senza un lamento, potrei almeno portare con me la consolazione di aver lasciato te, se non la nostra casa, in mani più sicure di quanto si siano dimostrate le mie. Forse non c’è salvezza per il castello; il suo valore probabilmente si è ridotto della metà semplicemente per le devastazioni al suo interno, e inoltre lui continuerà a spiccare e a costituire una ghiotta preda per i cannoni finché dureranno questi tempi tormentati. Ma per te c’è speranza; al fianco della luogotenente, se è così che deve andare, grazie alla libertà di movimento, all’abilità e all’equipaggiamento del suo gruppo, potresti trovare una certa sicurezza, una certa protezione. Le sue braccia ti proteggeranno meglio di quanto non abbiano potuto fare le mie.

Poche cose vanno secondo le nostre aspettative, eppure mi sorprendo quando c’è un grido — della luogotenente — e all’improvviso vengo gettato in avanti, semischiacciato sotto i sedili anteriori mentre risuonano altre grida. In lontananza crepitano degli spari, e una sequenza di tonfi scuote la jeep. Prima immagino che abbiamo lasciato la strada e siamo finiti su un terreno roccioso, ma qualcosa in quegli impatti mi dice che non è così. Sterziamo con violenza. Adesso gli spari echeggiano sopra le nostre teste, c’è un’altra sequenza di colpi penetranti, misti al suono di vetro infranto e a un rantolo e un grido, e sterziamo ancor più violentemente nella direzione opposta. Vicino, le urla sono quasi strilli, poi un terribile schianto, da spezzare la schiena, fa roteare il mondo e accende le luci sul fondo dei miei occhi. Rotolo nell’oscurità, colgo per un attimo la luce del giorno, poi qualcosa mi colpisce alla nuca e sono oscuramente consapevole di atterrare su qualcosa di freddo e umido e morbido e profumato di terra, mentre un peso mi grava sulle gambe.

Attorno a me esplode il tuono infuocato di una mitragliatrice. L’odore acre della polvere da sparo mi riempie il naso, mi fa lacrimare gli occhi.

«Karma?» sento che dice qualcuno, da una certa distanza, come dall’esterno. Credo di avere gli occhi aperti ma tutto sembra molto buio. Una sensazione di freddo comincia a penetrarmi nelle ginocchia.

«No», dice un’altra voce. Un’altra sparatoria. Quella cosa che mi pizzica il naso potrebbe essere erba. Sento l’odore di gasolio.

«Là», rantola un’ultima voce. La luogotenente. «Il mulino. Presto: adesso!»

Una terribile esplosione di spari, vicinissimi; di nuovo l’odore di polvere da sparo. Poi diminuisce, e continua a decrescere rapidamente mentre prosegue in lontananza. Mi sembra di sentire gente che corre, sento il tonfo dei piedi sul terreno. Cerco di muovere le gambe: non riescono ad andare in su o in giù, intrappolate da qualcosa di pesante sopra di esse. L’odore di gasolio diventa ancora più forte. Tutt’intorno risuonano armi da fuoco. Mi assale il panico, il cuore si mette a correre all’impazzata e il mio respiro si fa breve e rapido. Ho anche un braccio intrappolato, preso tra il mio fianco e qualcosa di solido.

Districo l’altra mano da duri strati di tela cerata e scopro che vicino alla faccia ho del terriccio coperto d’erba. Sono sdraiato per terra, e la jeep è sopra di me. Pianto le dita nel terreno come artigli, mi afferro e tiro con tutte le mie forze. Le gambe scivolano di qualche centimetro; cerco di scalciare e di fare presa con i piedi. Uso il braccio intrappolato come leva per districarmi da ciò che mi immobilizza, e scopro che a bloccarmi è il mio stesso peso. Qualcosa mi gocciola sulla nuca. L’odore di gasolio diventa sempre più forte. La terra sussulta sotto di me e un improvviso schianto acuto mi fa pensare che sia esplosa una granata in mezzo alle scariche di mitragliatrice.

Spingendo all’insù, poi afferrandomi di nuovo al suolo, riesco a liberare parte delle gambe dal peso che le blocca. I miei piedi incontrano una sporgenza sul pavimento rovesciato della jeep; scalcio e tiro e spingo, cercando di liberare le scarpe, ma si rifiutano di muoversi. Il liquido che mi cola sulla testa sembra caldo, come l’olio del motore. Cerco di girarmi su me stesso, in modo da appoggiare la schiena al suolo. Le gambe restano com’erano, torte a fatica. Adesso c’è un po’ di luce. Spingo via la tela cerata dal mento e tendo una mano, trovando il retro del sedile anteriore. Mi aggrappo al sedile e tiro con tutte le mie forze una gamba. Strisciando, la gamba si libera; l’altra la segue un istante dopo. Il liquido adesso mi cade sulla faccia, e ne sento il sapore. Non è olio del motore, non è gasolio, ma sangue. Lo sputo e mi dirigo verso la luce fioca, facendomi largo fra le pieghe della tela cerata come fra vestiti gettati via.

Il bordo della carrozzeria della jeep mi blocca. C’è solo una spanna di apertura verso l’esterno, dove l’alba pallida che sta spuntando fornisce i primi indizi della forma delle cose. Vengo di nuovo assalito dal panico con l’aumentare della puzza di gasolio. Solo un paio di minuti fa ero pronto a morire, ero colmo di un fatalistico senso di accettazione, ma in quel momento non avevo più speranza, mentre adesso sì. Inoltre, immaginavo che la luogotenente mi avrebbe concesso una morte rapida; un paio di proiettili in testa e sarebbe stato tutto finito. Morire in trappola, bruciato vivo, invece, non mi sembra affatto attraente.

Faccio un tentativo per spostare di peso il veicolo che mi imprigiona, spingendo a quattro zampe, e poi mi dico che non è il caso di fare lo stupido. Tastando attorno, stabilisco che non ci sono altre vie d’uscita. Sopra di me, oltre lo schienale del sedile del guidatore, la mia mano incontra qualcosa. Sembra una testa, una nuca. Incuneata tra lo schienale e il terreno, è ancora calda, e i capelli sono intrisi di sangue. Qualcosa si muove sotto i capelli, facendomi gelare il sangue. Tiro via subito la mano, e cade anche un pezzo di tessuto, freddo, umido, appiccicoso, che mi si avvolge attorno alle dita. Scuoto la mano, cercando disperatamente di liberarmene. Cade vicino alla mia testa e nella fioca luce che filtra dall’esterno riesco appena a distinguere la bandana di Karma.

Sembra che debba crearmi da solo una via d’uscita. Mi volto e comincio a scavare nel terreno intriso di rugiada, strappando zolle di terra sotto la piccola apertura. La sparatoria continua implacabile e scoppiano altre due granate, e la seconda manda frammenti di shrapnel a picchiettare la jeep sopra di me. Mi aggrappo e strappo e scavo e spingo, estraendo interi cespi d’erba, e le dure radici si spargono e frustano l’aria nel lasciare la terra fredda; poi spingo all’indietro, accanto a me, le zolle, e riprendo a scavarne ancora.

A un certo punto la testa comincia a girarmi, e devo fare una pausa. Il rumore di spari sembra calato, più lontano. Sprofondo la faccia nell’erba spruzzata di terra sotto di me. Ha l’odore terroso dell’umidità, ma anche del sangue, del gasolio, della polvere da sparo. Mi perdo in esso per un istante. Il fuoco è calato di sicuro. Distinguo colpi singoli. Esplode un’altra granata, più distante. Usando una sola mano, misuro la trincea che ho scavato sotto la carrozzeria. Ancora un po’. Strappo erba e terra all’estremità del buco, poi mi volto sulla schiena e spingo, usando come appoggio la sporgenza sul pavimento della jeep e trascinandomi con tutte le forze sul terreno sdrucciolevole e granuloso.

La testa emerge nell’aria fresca; in alto, il cielo è grigio scuro, striato di tonalità più chiare. Punto le spalle contro la carrozzeria della jeep. Ho di nuovo le braccia intrappolate; mi scuoto, mi agito, scalcio con i piedi per fare presa su qualcosa all’interno della jeep. Spingo la testa all’indietro dal fondo del buco che ho scavato, e punto il mento contro il petto. Faccio forza per gettare all’indietro la testa, gemendo di dolore, poi scalcio e mi dimeno. Le spalle si liberano, scivolo più fuori, estraggo le braccia e spingo, e striscio sull’erba umida verso i rami nudi di una macchia di arbusti.