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Sono sdraiato accanto a radici contorte, e respiro con violenza. Vorrei alzarmi in piedi o almeno mettermi seduto, ma tutt’intorno a me continuano a sparare e non ho il coraggio di alzare la testa. Mi fanno male le mani; avevo dimenticato che erano ustionate quando le usavo per scavare. La jeep è rovesciata sull’argine di un fosso, e il retro è affondato nell’acqua del fondo; le ruote anteriori sono puntate contro le nubi che cominciano a rischiararsi. La strada è disseminata dei detriti lasciati dai profughi, e la jeep non è che uno dei tanti veicoli abbandonati sul nastro asfaltato o ai suoi margini. Davanti a me ci sono degli alberi, una scura massa di conifere. Con una torsione, se guardo attraverso i rami degli arbusti vedo una landa tormentata e sabbiosa, con costoni e colline e qualche basso albero spoglio.
Sulla collina più alta c’è un vecchio mulino a vento, una costruzione di assi dipinte di nero con le pale malconce che formano un crocifisso levato contro la grigia distesa del cielo.
Qualcosa si muove a est, verso le prime luci dell’alba: è un uomo che corre piegato, da un muretto di pietra all’altro. Dalla porta aperta del mulino viene una vampata di fuoco. Il suono dei colpi arriva nello stesso momento in cui l’uomo cade a terra. Cerca di rialzarsi, poi — mentre schioccano altri colpi — si scuote, ha un sobbalzo e giace immobile.
Guardando indietro, vedo un’altra figura che gira dal lato opposto attorno al mulino, tenendo il fucile con una sola mano e sollevando l’altra, stretta attorno a una spalla. Stringo gli occhi per tentare di distinguere meglio l’uomo nella luce ancora scarsa. Non credo che sia un soldato della luogotenente. C’è un istante di silenzio, mentre l’uomo si avvicina alla porta. Nulla si muove all’interno del mulino. Il soldato si avvicina, e arriva a un passo dalla porta.
Dall’interno arriva solo uno sparo, e l’uomo si leva di scatto dal lato del mulino, lascia cadere il fucile e si trascina avanti tenendosi un fianco. Sulla parete del mulino, dove prima era appoggiato l’uomo c’è una piccola chiazza pallida. Il soldato un po’ corre, un po’ cade attraverso la porta aperta del mulino, con le braccia che si muovono e lanciano qualcosa. Altri spari. Lui salta, le braccia si tendono in fuori e per un istante l’uomo ha l’aria comica di uno che voglia imitare la forma del mulino: i suoi quattro arti si allargano come le quattro pale. Quindi cade, crollando come un sacco di ossa rotte, finendo seduto per terra prima di ribaltarsi in avanti e scomparire nell’erba.
L’esplosione nel mulino è un unico lampo improvviso di luce e uno stridulo scossone di suono. Dopo pochi secondi dal mulino si leva un fumo bianco-grigiastro. Per un po’ resto immobile, in attesa, e non avverto altri movimenti né altri rumori.
Poi comincia il canto degli uccelli. Mi fermo ad ascoltarlo.
Non si muove ancora nessuno. Quando rabbrividisco decido di alzarmi. Mi alzo in piedi, barcollando, usando gli arbusti come sostegno, poi mi asciugo la faccia con il dorso di una mano tremante. Mi viene in mente che dovrei avere un fazzoletto da qualche parte, e finalmente lo trovo. Attraverso il tratto sabbioso verso il mulino, piegandomi e sentendomi ridicolo, ma continuo a temere che possa esserci ancora qualcuno, più paziente di me, nascosto, in attesa, con un fucile. Mi fermo accanto a un albero rachitico, e scruto l’oscurità oltre la soglia del mulino. Qualcosa scricchiola sopra di me. Mi abbasso di scatto e quasi cado, ma sono solo i rami, che oscillano nella brezza.
Mister Taglio è appeso a una palizzata di filo spinato, appena sotto il mulino, quasi inginocchiato, con la faccia posata sulle punte; sotto di lui la terra è intrisa di sangue scuro. Il fucile gli pende da una mano, ondeggiando nel vento.
A poca distanza, sul pendio, c’è il soldato che ha gettato la bomba a mano, sdraiato nell’erba alta. La sua uniforme non mi è familiare, anche se non avrei comunque potuto riconoscerlo, dato che la sua faccia è una rossa devastazione di carne insanguinata.
Salgo fino al mulino e provo a entrare. L’interno puzza di fumo e di un odore di muffa che dev’essere quello della farina vecchia. Gli occhi si adattano gradatamente all’oscurità. Nell’aria c’è ancora polvere o farina, che volteggia e si posa sospinta dalla brezza che entra dalla porta. Dal soffitto esce un’unica grande asta di legno, connessa con un assale a due enormi mole antiche, di pietra, in equilibrio nella loro posizione come una coppia di danzatori immobilizzati in una figura. Imbuti e scanalature vanno dalle tramogge alle pietre, vene e arterie di un duplice cuore. Una predella ottagonale di legno circonda il grande troncone di roccia. Non resta molto altro: niente sacchi né grano né farina macinata di fresco; credo che sia passato molto tempo dall’ultima volta che il mulino ha funzionato.
Inciampo su un paio di caricatori di fucili automatici. Accanto alla porta vedo un uomo sdraiato sulla schiena, con il petto squarciato e sanguinante. Sotto la maschera di sangue e farina c’è un viso che riconosco: è uno degli uomini della luogotenente, anche se non so come si chiama. Accanto a lui c’è una radio che sibila. La bomba a mano sembra sia esplosa poco avanti, ai piedi di una spirale di scale di legno che portano a un’oscurità ancora più profonda; i gradini sono spaccati e scheggiati.
Dietro le mole di pietra del mulino c’è la luogotenente, seduta, con la schiena appoggiata alla parete di legno. Ha le gambe tese davanti a sé e la testa è abbandonata sul petto. La testa dà uno strattone quando mi avvicino, e si leva anche la mano, impugnando una pistola. Indietreggio, ma la pistola le sfugge dal pugno e rimbalza sulle assi del pavimento. Lei mormora qualcosa, poi la testa le ricade in avanti. C’è sangue sotto di lei, e la sua superficie è coperta da una sottile patina di farina. Una polvere grigio-biancastra sui capelli, sulla pelle e sull’uniforme della luogotenente la fa assomigliare a un fantasma.
Mi accuccio accanto a lei, le metto una mano sul mento e le rialzo la testa. Gli occhi si muovono sotto le palpebre e anche la bocca, e nient’altro. Il sangue uscito dal naso ha tracciato due rivoli gemelli che superano le labbra e continuano sul mento. Le lascio ricadere la testa sul petto. Accanto alla sua mano c’è il fucile automatico. Un caricatore è aperto e vuoto. Tocco varie levette e graffe e alla fine trovo quella che apre anche l’altro caricatore: anche questo è stato svuotato completamente. Vado a raccogliere la pistola della luogotenente. Sembra leggera, ma quando la apro vedo che ha ancora almeno due proiettili.
Guardo l’uomo morto accanto alla porta, gli altri due morti che si vedono fuori, Mister Taglio appeso al filo spinato come la fotografia di una guerra più antica, il soldato che ha lanciato la bomba a mano, bocconi, con la faccia nascosta nell’erba ondeggiante. Tengo la pistola della luogotenente nella mano ustionata e tremante.
Cosa fare? Cosa fare? Infuriare, mormora la mia musa, e mi accuccio di nuovo accanto alla luogotenente e le metto, a titolo di esperimento, la bocca della pistola contro la tempia. Ricordo il primo giorno che ci siamo incontrati, quando lei aveva fatto saltare le cervella al ragazzo con la ferita al ventre, dopo averlo baciato sulla bocca. Penso a com’era pochi minuti fa, nuda sul letto, inginocchiata per spararmi, per uccidermi. La mano trema talmente che devo impugnare la pistola anche con l’altra. La canna vibra contro la pelle della tempia, sotto i riccioli castani. Sotto la superficie olivastra pulsa debolmente una piccola vena. Deglutisco. Il mio dito è troppo debole, è incapace di esercitare la minima pressione sul grilletto. Per quanto ne so, sta morendo comunque; avrà una commozione cerebrale, o comunque sta perdendo coscienza e tutto questo sangue indica per forza una grave ferita, da qualche parte. Ucciderla potrebbe essere una liberazione. Rafforzo la mia presa e miro lungo la canna, come se facesse qualche differenza.
Ma avverto un cigolio, uno schiocco sopra di me, e poi un disorientante senso di movimento, e un rumore sordo che mi circonda. Mi guardo intorno con gli occhi sbarrati, chiedendomi cosa stia succedendo, e non posso credere ai miei occhi, e solo allora mi rendo conto che è il mulino che si è messo a ruotare. La forza del vento deve essere appena diventata sufficiente per spingere l’alto cerchio delle pale a rivolgersi alla corrente. Stridendo, risuonando, con molti gemiti luttuosi e dolenti cigolii, il mulino si muove e — come se le pale e gli ingranaggi e le pietre fossero magneti — alla fine si stabilizza di fronte all’aspro nord. Osservo il cambiamento del paesaggio attraverso la porta: scivola lentamente dalla strada e dalla foresta verso il suo lato lontano, toglie alla vista i morti e rallenta borbottando fino a fermarsi, per mostrare il paesaggio verso ovest, lungo la strada che, a quanto pare, il destino mi impedisce di percorrere fino alla fine, per costringermi a tornare indietro, verso il castello.
Il mio sguardo torna a posarsi sulla luogotenente. Il vento irrompe dalla porta aperta e le scompiglia i riccioli castani. Depongo la pistola. Non posso farlo. Raggiungo l’entrata, di nuovo assalito dalla debolezza e dalle vertigini, guardo il giorno che nasce e respiro profondamente. Le pale del mulino, la cui tela è lacera e slabbrata, sono sollevate in una vana supplica al vento, impotenti.
Eppure, una parte di me continua a dire: «Sforzati, afferma il tuo io…» Ma lo fa troppo bene, questa frase è pronunciata con troppa chiarezza. Non so, non posso impersonare una rabbia così vitale. È una cosa che conosco empiricamente, ma niente di più e questa conoscenza mi inchioda.
La osservo di nuovo. Cosa farebbe lei? Eppure: perché dovrebbe importarmi quello che farebbe lei? È seduta lì, più vicina alla morte di quanto possa sapere, è in mio potere. Sono io che comando, io che ho vinto, anche se per pura fortuna. Cosa farò? Cosa dovrei fare? Essere quello che sono, agire normalmente? Ma cosa vorrà mai dire normale, e che valore, che utilità può avere la normalità in tempi così anomali? Vale meno di niente, direi. Perciò: rompi le regole, agisci in maniera diversa, sii irregolare.
La luogotenente si merita la mia ira per quello che ha sottratto a noi, compresa la possibilità di fuggire, pochi giorni fa, quando ci ha fermato su questa stessa strada. Quella prima intromissione ha condotto a tutto il resto: alla occupazione della nostra casa, alla distruzione del lascito della nostra famiglia, alla luogotenente che ha preso il mio posto accanto a te e — come doveva essere nelle sue intenzioni — al progetto del mio assassinio. Quel suo primo sparo, che mi ha abbattuto: quello è stato nell’agitazione del momento. Ma quando mi hanno messo nella jeep, mi hanno portato via dal castello, nell’ora tradizionale delle esecuzioni, l’hanno fatto a sangue freddo, mia cara.
La tolleranza che ho ostentato e provato nei confronti della nostra luogotenente era un residuo di epoche più civili, quando grazie agli agi della pace potevamo concederci l’un l’altro una simile cavalleria. Pensavo di dimostrare, con un’esibizione di civiltà, tutto il mio disprezzo per questi giorni disperati e per la volgare arroganza della luogotenente, ma oltre un certo grado una simile gentilezza diventa controproducente. Devo lasciarmi infettare dalla natura violenta di questi tempi, devo aspirare il loro respiro contaminante, accettare il loro fatale contagio. Guardo la pistola che ho in mano. Eppure, questa è la maniera della luogotenente. Ucciderla con l’arma che lei avrebbe potuto usare per uccidere me sarà anche poetico — giustizia o ingiustizia poetica — ma è una rima troppo facile per i miei gusti.
Il vento mi accarezza le guance e mi tira per i capelli. Il mulino si tende, sembra sul punto di muoversi ancora, poi si blocca. Poso la pistola sul pavimento, la riprendo in mano, controllo che abbia la sicura e me la infilo nella cintura dei pantaloni, dietro la schiena. Mi guardo intorno, alla ricerca di una leva, di qualcosa che governi il meccanismo.
Corro in cima alle scale scheggiate, e ho un breve attacco di vertigini per lo sforzo, poi entro nell’oscurità degli ingranaggi di legno, dei longheroni, dei recipienti, delle tramogge; alla fine trovo una leva di legno simile a quelle delle vecchie cabine ferroviarie, unita per mezzo di barre di ferro arrugginito a un diaframma di legno nel muro, attraversato da un assale orizzontale che scompare all’esterno. Tiro la maniglia. Un rumore come un sospiro, e un gemito. Una sensazione di potenza liberata pervade il mulino, e l’asta orizzontale comincia a ruotare lentamente, facendo muovere i cigolanti ingranaggi di legno che convertono il movimento orizzontale in verticale e lo trasmettono alle macine del piano di sotto. Mi precipito di nuovo da basso, quasi cadendo per la fretta in fondo ai gradini.
Le due grandi macine girano lentamente lungo il loro percorso, scuotendo l’intero mulino con il loro rimbombo basso e determinato. Rallentano mentre le osservo, in corrispondenza del calo del vento, e poi riprendono velocità. Ecco una fine diversa, ecco una poesia più appropriata. Sono scosso da una strana eccitazione e la fronte mi si imperla di sudore. Devo assolutamente farlo, finché la risolutezza mi infiamma.
Le mie mani scivolano sotto le ascelle della luogotenente e la tiro su. Lei emette un debole lamento. La poso accanto al grande cerchio di pietra del binario delle macine, facendola inginocchiare come una fedele nel tempio. Sorreggo il peso del suo tronco, impedendole di cadere in avanti. Ha un fianco intriso di sangue. Una ruota passa lentamente davanti a lei. Mi tremano le mani mentre la tengo e faccio passare la ruota; poi lascio che la luogotenente si protenda in avanti, con le spalle posate sul bordo del binario e la testa sulla strada della ruota, pronta al sacrificio. Mi sporgo all’indietro, e il cuore martella impazzito; la ruota di pietra che segue romba poderosa e letargica verso il cranio della luogotenente, gettando un’ombra sulla sua testa. Chiudo gli occhi.
Un suono terribile e stridente mi scuote, quindi si placa. Apro gli occhi. La testa della luogotenente è incastrata fra la macina e il binario, ma è intatta. Credo di sentirla emettere una specie di piagnucolio. Corro alla porta. Una debole brezza ansima davanti alle pale bucate, immobili, bloccate. Torno alla macina e cerco di fare arretrare le ruote per liberare la testa della luogotenente, ma si rifiutano di muoversi. Tremo di rabbia, urlo e cerco di spingerle nella direzione opposta, per frantumarle il cranio con le mie sole forze, ma anche così so che non spingerò con tutta la mia potenza, e il risultato è lo stesso, e lei resta incastrata ma incolume, con la testa che blocca le pietre.
Cosa sto cercando di fare? Potrei comunque toglierla di qui, farla rinvenire e chiederle scusa? O vivrò col ricordo delle pietre che si muovono e del suo cervello che schizza sulle mole? Scoppio a ridere, lo ammetto: non c’è nient’altro da fare. Non posso ucciderla e non posso liberarla. Dalla radio accanto al cadavere vicino alla porta esce un improvviso suono gracchiante. Mi allontano dalla luogotenente, lasciandola inginocchiata lì, premuta e bloccata, una supplice per metà prostrata davanti a un tondo altare di pietra. Sulla porta di quel fortino improvvisato mi volto verso il vento, poi salto fuori, correndo via, volgendo il viso verso il vento e verso di te, mio castello.
Mi sferza una pioggia gelida, mia cara, ma io rivolgo la faccia anche a te, in quella vecchia torre rovinata, e finalmente le gocce nascoste nella brezza mi donano le lacrime per tutti noi. Mi fermo alla jeep, come se il mio ultimo mezzo di trasporto potesse in qualche modo benedire il mio viaggio, ma non ha nulla da offrirmi. Mi avvio da solo per la strada nell’aria fredda e cammino nella brezza intrisa di pioggia lungo i campi desolati.
Siamo creature liquide, mia cara, e questa pioggia contagiosa sembra qualcosa che tu mi invii, affinché io possa afferrare i suoi fili ed esserne guidato. Il mio spirito, lontano da quella costruzione di legno e pietra, comincia a risollevarsi, al pensiero di tornare da te. Ero sicuro che non sarebbe mai successo, ma adesso ne ho di nuovo la possibilità. Posso trovare la maniera di entrare, o aspettare che gli uomini della luogotenente se ne vadano, senza comandante, in fuga. Posso riscattarti, se lo vuoi.
Credo, solo per un istante, di udire un grido, che mi insegue dal mulino, e mi volto un’ultima volta a guardarlo, ma una voce dovrebbe lottare contro il rumore della pioggia, e potrebbe essere stata semplicemente la radio; in più, non sono nemmeno sicuro di aver sentito davvero qualcosa; mi volgo un’altra volta verso il castello, a testa bassa contro la pioggia.
Alla fine credo di avere uno scopo: portarti via. Solo te, nulla dei nostri averi, delle cose, senza la minima intenzione di tornare nel luogo che è stato la nostra casa. La luogotenente e i suoi uomini ci hanno liberati dai nostri fragili possessi e dalla lealtà alle pietre del castello, e così ci lanciano, insieme e da soli, nell’aria libera della fuga, finalmente consci della sua forza pervasiva in tutta la sua ribelle eloquenza. Le dita della luogotenente possono averti sottratta a me per un breve istante, ma tu tornerai a essere mia come sei sempre stata.
Guidami, guidami, vento. Guidami con la tua resistenza e portami dalla mia amata, conducimi al nostro rifugio, mio profugo infido. L’anello, penso, fermandomi.
Avrei dovuto strappare dalla mano della luogotenente l’anello d’oro bianco con rubino, quello che lei ti aveva preso il primo giorno, sulla carrozza, su questa stessa strada. Mi volto, esitando.
Sento in questo istante il rumore di un motore, dalla direzione del castello. Mi riparo dietro un vecchio carro rovesciato sul ciglio della strada, con una grande ruota di legno, a raggi, puntata verso il cielo. Il suono proviene da uno dei camion della luogotenente, che avanza con una faccia verde oliva immobilizzata nel rictus della griglia e gli occhi luminosi dei fari. Supera a tutta velocità il mio nascondiglio, trascinandosi dietro nubi di fumo, con le ruote che mandano un rumore lacerante solcando il fondo stradale. Il telone che copre l’intelaiatura d’acciaio sbatte e schiocca nella scia. Noto che dentro sono seduti degli uomini, impegnati a trafficare con le armi.
Mi rimetto in piedi accanto al carro, guardando il camion che corre in direzione del mulino. La scia del camion mi avvolge, mi scuote, finché non torna la brezza. Decido che non mi vergognerò del sollievo che provo in questo momento pensando a lei. Che la trovino loro, che la salvino. Non si merita niente di meno, immagino. È stata una follia trattarla così. Dietro di me, gli alberi oscillano, qualche foglia morta si leva da un fosso e un’altra raffica gelida mi fa ondeggiare, tremare.
In lontananza, vedo accendersi le luci posteriori degli stop, e il camion si ferma accanto alla jeep ribaltata. Gli alberi fra me e il mulino si piegano, lentamente, poi tornano in posizione, e dalle cime scure si alzano in volo le forme di uccelli neri.
Il camion, minuscolo per la distanza, fa retromarcia vicino al mulino. Mi volto verso ovest, verso il castello, e la pioggia mi punge, sotto la sferza del vento. Il camion si è fermato. Gli uomini stanno saltando giù. Poi c’è un suono improvviso, proprio accanto a me e faccio un salto, portandomi le mani tremanti alla schiena, in cerca della pistola.
Ma è solo un vecchio straccio, un sacco impigliato nella ruota del carro, che fa vela nel vento e fa muovere la ruota.
Mi strofino gli occhi e osservo le figurine che corrono verso il mulino: saltano giù dal cassone, oltrepassano il fosso, scavalcano di slancio i muretti, corrono sul terreno aperto, si fermano, saltano, corrono, si slanciano all’insù, il primo si avvicina alla porta del mulino.
Dove le braccia di legno, benché infrante, benché lacere nel tessuto che le ricopre, avanzano sicure nel loro corso circolare, e finalmente libere salutano il vento che le oltrepassa.
Volto la schiena, e corro, prima lungo la strada, poi, quando la strada piega, continuo diritto verso di te, nei campi, attraverso i boschi, nella pioggia battente, nel vento che mi soffoca, e vedo tutto e non vedo nulla, e ho sempre davanti agli occhi la vista di quelle logore pale di mulino, che salutano, salutano, salutano.