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L’inverno è sempre stato la mia stagione preferita. Ma siamo già in inverno? Non lo so. Una definizione tecnica c’è, qualcosa che si basa sui calendari e sulla posizione del sole, ma credo che, semplicemente, ci si renda conto che la stagione è cambiata, e in maniera irrevocabile; è l’animale dentro di noi che sente l’odore dell’inverno. A dispetto degli schemi artificiali della nostra cronologia, l’inverno è qualcosa che viene inflitto al nostro emisfero, qualcosa che viene strappato alla terra dal cielo freddo che diventa ancora più freddo e dal sole basso che si abbassa sempre di più, qualcosa che permea l’anima e penetra nella mente attraverso il naso, tra i denti e oltre la barriera porosa della pelle.
Un crudo vento fa roteare minuscole spirali di foglie sulla superficie grigia e tormentata della strada e le scarica nelle gelide pozze d’acqua sul fondo dei fossi. Le foglie sono gialle, rosse, ocra e marrone; i colori del fuoco nel cuore di questo gelo umido. Alcune foglie restano sugli alberi ai lati della strada; non c’è ghiaccio ai bordi delle pozze, e non c’è neve sulle colline ai lati della pianura, sotto il sole di mezzogiorno che splende al centro di un’ampia porzione di cielo azzurro. Eppure sembra che l’autunno sia ormai finito. Verso nord, in lontananza, le montagne sono nascoste dietro un’incombente armata di nubi. Forse c’è neve su quelle cime, ma da qui non riusciamo a vederla. Il vento viene da nord, e sospinge verso di noi veli di pioggia dalle colline. Oltre i campi che si estendono a sud — alcuni di un biondo spento e desolato, altri mietuti e ridotti a nuda terra, altri ancora scavati da crateri — si levano colonne di fumo, deviate di lato dal vento freddo. Per un istante, il vento ha insieme l’odore della pioggia e del fuoco.
Quelli che ci circondano, profughi come noi, mormorano e pestano i piedi sulla viscida superficie della strada. Siamo, o eravamo, un flusso di umanità, un’ondata di reietti che pulsa rapida in questo paesaggio immobile, ma adesso qualcosa ci blocca. Il vento si smorza di nuovo, e col suo riflusso sento il sudore di corpi non lavati, e il puzzo dei due cavalli che trascinano la nostra carrozza di fortuna.
Tendi la mano da dietro e mi stringi il gomito.
Mi volto verso di te, pettino una ciocca dei capelli neri come ebano che ti coprono la fronte. Attorno a te sono ammucchiate le valigie e i bauli che abbiamo pensato di portarci dietro, pieni di tutto ciò che, nelle nostre speranze, poteva tornarci utile senza diventare una tentazione troppo forte per gli altri. Beni più preziosi sono nascosti dentro e sotto la carrozza. Sei rimasta seduta a cassetta, la tua schiena contro la mia, rivolta verso la strada che abbiamo percorso, forse sforzandoti di vedere la casa che abbiamo lasciato, ma adesso ti stai girando sul sedile, nel tentativo di vedere oltre me, con una ruga che turba la tua espressione come una crepa sul volto marmoreo di una statua.
«Non so perché ci siamo fermati», ti dico. Mi alzo un istante, per guardare oltre le teste della gente davanti a noi. Cinquanta metri più in là, un camion con il cassone coperto sbarra la vista; qui la strada corre dritta per almeno un chilometro, fra campi e boschi (i nostri campi, i nostri boschi, le nostre terre, come continuo a chiamarli).
Questa mattina, quando noi e i nostri pochi domestici ci siamo messi in cammino, la fiumana di gente, carri e veicoli si estendeva ininterrotta, senza fine: un’unica colonna di sfollati in movimento disordinato, con gli occhi fissi a terra, che arrancava approssimativamente da ovest a est. Non avevo mai visto una simile massa di persone: un fiume d’anime lungo la strada. Mi ricordavano gli omini di carta dell’infanzia, ritagliati da giornali piegati e poi stesi in file, uniti uno all’altro, tutti uguali, tutti leggermente diversi, tutti che traevano la propria forma da ciò che era stato rimosso e, così fragili, infiammabili, eliminabili, richiedevano per natura un appropriato maltrattamento. Ci siamo uniti a loro con sufficiente facilità: ci adattavamo benissimo, eppure spiccavamo nella massa.
Da qualche punto più avanti ci giungono dei rumori. Potrebbero essere grida; poi sento il crepitio secco di piccole armi da fuoco, suoni dispersi e acuti sospinti dal vento che ha ripreso a soffiare. Ho la bocca secca. La gente attorno a noi — famiglie, in generale, gruppetti uniti dalla parentela — pare farsi piccola. Sento un bambino che piange. Un paio dei nostri domestici, che guidano i cavalli, ci rivolgono un’occhiata. Dopo un po’, una nuova zaffata di fumo si leva da dietro il camion. Poi la coda di uomini e veicoli riprende ad avanzare. Do un colpo alle redini e le due cavalle saure ripartono. Dal tubo di scappamento del camion esce una nuvola di fumo.
«Erano spari?» mi chiedi alzandoti in piedi e guardando oltre il mio braccio. Sento il tuo profumo, il sapone del tuo ultimo bagno al castello, stamattina, come un ricordo floreale dell’estate.
«Credo di sì.»
Le cavalle ci trascinano avanti. Il puzzo del motore diesel del camion aleggia brevemente nel vento. Nascosti, legati sotto la carrozza, ci sono sei fusti di gasolio, due di benzina e uno di lubrificante. Abbiamo lasciato i nostri automezzi nel cortile del castello, considerando che i cavalli e questa carrozza avessero più probabilità di portarci in un luogo sicuro, ovunque esso sia, dei veicoli a motore. Non abbiamo valutato nel nostro calcolo solo le miglia per gallone o i chilometri per litro; dalle voci che ci sono giunte, e da quel poco che abbiamo visto, i veicoli funzionanti, e in particolare quelli in grado di viaggiare anche fuori strada, attirano l’attenzione proprio di coloro che stiamo cercando di evitare. Anche per questo il castello, a prima vista così saldo e sicuro, è in realtà una fonte di guai. Devo continuare a ripetermi — e a ripetere a te — che abbiamo fatto la cosa più saggia, lasciando la nostra casa proprio per salvarla. Si accomodino pure quelli che già adesso, senza dubbio, ci stanno mettendo sopra le mani: più cose riescono a portar via, meglio è.
Il fumo davanti a noi diventa sempre più fitto, più vicino. Penso che forse un’anima più possessiva e meno protettiva della mia avrebbe dato fuoco al castello, stamattina, alla partenza. Ma io non ho potuto farlo. Certo, mi sarei sentito meglio al pensiero di sottrarre il bottino a coloro che ci minacciano, ma non ci sono riuscito lo stesso.
Uomini armati in uniforme — sia le uniformi sia le armi sono diverse fra loro, irregolari — gridano qualcosa agli occupanti del camion davanti a noi. Il camion lascia la strada e svolta in un campo, lasciando passare chi lo seguiva. Davanti, la colonna di profughi — una corrente di persone di cui appaiono teste, cappelli, cappucci, carri stracarichi e vacillanti — si estende fino all’orizzonte.
Arriviamo all’origine del fumo, e di fianco a questa colonna verticale la nostra si ferma di nuovo. Accanto alla strada c’è un furgone che brucia; è capovolto nel fosso, non del tutto posato su un fianco; dietro, un rimorchio aperto ha la coda che punta verso l’aria; tutto ciò che conteneva sotto un telo scuro è sparso al suolo. Il furgone pulsa per il fuoco, le fiamme traboccano dal parabrezza e dai finestrini infranti, il fumo si rovescia fuori dagli sportelli posteriori spalancati. Gli sfollati che avanzano, almeno quelli a piedi, si accalcano sul lato opposto della strada mentre lo oltrepassano, forse per paura di un’esplosione. Altri uomini in uniforme frugano tra le merci cadute dal rimorchio, incuranti del fuoco vicino. Stesi sull’argine del fosso, accanto al furgone, quelli che sembravano due mucchi di stracci si rivelano per quello che sono: due corpi, uno a faccia in giù e l’altro, una donna, che fissa il cielo con immobili occhi spalancati. Una chiazza marrone scuro si allarga su un lato del suo giubbotto. Anche tu ti alzi a guardare. Più avanti si leva un gemito miserevole e disperato.
Poi, oltre il fumo e le fiamme e il tetto deformato del furgone, dove un portapacchi spezzato ha disperso borse, fusti e scatoloni sull’erba giallastra e tra gli arbusti striminziti, si muove qualcosa.
È stato allora che abbiamo visto per la prima volta la luogotenente, che si levava dietro le fiamme insanguinate del furgone; la sua figura era deformata dal calore, come se ci apparisse attraverso un velo di acqua smossa: una roccia che ostruisce la corrente.
Viene uno sparo dal punto in cui si è fermato il camion, davanti a un cancello che conduce a un campo, di fronte all’imbocco di un sentiero nel bosco. Accanto a noi la gente si abbassa, i cavalli danno uno strattone e tu sussulti, ma io non riesco a staccare lo sguardo dalla figura dietro le fiamme. Altri spari, e finalmente mi volto, per vedere alcune persone che scendono inciampando dal camion con le mani intrecciate sopra la testa, mentre altri uomini in uniforme le spingono via, fanno cadere con un tonfo la ribalta posteriore e si mettono a frugare nel veicolo. Quando mi volto, tu ti sei di nuovo seduta, e la donna in uniforme che ho visto tra le fiamme sta venendo avanti, affiancata da due di quegli irregolari, fino allo sportello della nostra carrozza aperta.
La nostra luogotenente (anche se devo ammettere che ancora non sapevamo che lo fosse) è di corporatura media, ma i suoi movimenti comunicano un’idea di grazia. La sua faccia ordinaria è scura, quasi bruna di colorito, e gli occhi grigi sono ombreggiati da sopracciglia nere. Il suo abbigliamento è composto di molte uniformi diverse: gli stivali logori e macchiati provengono da un esercito, la sua tenuta di fatica da un altro, la giacca lurida e bucata da un altro ancora, e il berretto stazzonato, su cui spiccano un paio d’ali, sembrerebbe dell’aeronautica, ma il fucile (lungo e nero, con i caricatori a forma di mezzaluna disposti con cura uno accanto all’altro) è lucido e pulitissimo. Ti sorride e si tocca appena il berretto con due dita, poi si rivolge a me. Il fucile è comodamente appoggiato al suo fianco, con la canna che minaccia il cielo.
«E lei, signore?» domanda. La sua voce ha una ruvidezza che trovo perversamente piacevole, anche se mi si accappona la pelle per la minaccia sepolta nelle sue parole, una promessa di pericolo. Aveva sospettato, aveva previsto qualcosa già allora? La nostra carrozza ci distingueva dalla folla, come un gioiello montato su un anello da poco, che attirava il predatore nascosto in lei?
«Come, signora?» le chiedo, mentre qualcuno grida. Distolgo lo sguardo e vedo un capannello di soldati radunati attorno a qualcuno steso sul ciglio della strada, a pochi metri di distanza dal furgone in fiamme. La fila dei profughi oltrepassa anche questo gruppo tenendosi il più possibile lontana.
«Ha qualcosa che potrebbe servirci?» chiede la donna in uniforme, ondeggiando con leggerezza sul predellino della carrozza e — dopo averti rivolto un altro sorriso — sporgendosi per sollevare un angolo della coperta da viaggio con la bocca del fucile.
«Non so», dico lentamente. «Cos’è che potrebbe servirvi?»
«Fucili», dice scrollando le spalle. Mi fissa e stringe gli occhi. «Qualcosa di prezioso», dice a te, poi usa la bocca del fucile per sbirciare sotto un’altra coperta dalla parte dove siedi tu, pallida, con gli occhi spalancati fissi su di lei. «Combustibile?» dice, guardandomi di nuovo.
«Combustibile?» ripeto. Mi passa per la testa di chiederle se intende carbone, o legna, ma non do voce a questo pensiero, intimidito dai suoi modi e dal fucile. Un altro grido singhiozzante proviene dalla piccola calca di uomini davanti al furgone.
«Carburante», riprende, «munizioni…» Si alza un nuovo grido dagli uomini stretti davanti a noi (tu sobbalzi di nuovo); la nostra luogotenente dà un’occhiata nella direzione di quel gemito orribile, e una minuscola ruga si forma e le svanisce sulla fronte quasi nello stesso istante in cui dice «… medicinali?» Sul suo viso appare l’ombra di un calcolo.
Scrollo le spalle. «Abbiamo un po’ di materiale di pronto soccorso.» Accenno alle cavalle. «I cavalli mangiano biada. È tutto il combustibile che gli serve.»
«Mmm», fa lei.
«Lucius», dice qualcuno davanti a noi. Il nostro domestico mormora qualcosa in risposta. Due uomini lasciano il piccolo gruppo radunato sulla strada, uno degli irregolari e il fattore del villaggio, che mi indica. La nostra luogotenente scende dalla carrozza e gli va incontro, si ferma davanti a lui volgendoci la schiena, con la testa curva, a parlare con il fattore. A un certo punto lui ci rivolge un’occhiata, poi se ne va. La luogotenente torna, risale di nuovo, sollevando il berretto sui capelli di un colore smorto, pettinati all’indietro. «Signore», dice sorridendomi. «Lei ha un castello? Avrebbe dovuto dirmelo.»
«Avevo», gli rispondo. Non posso fare a meno di gettare un’occhiata nella direzione di casa. «L’abbiamo abbandonato.»
«E un titolo», continua.
«Di poco conto», le assicuro.
«Bene», esclama la luogotenente, abbracciando con lo sguardo i suoi uomini. «Come dovremmo chiamarla?»
«Per nome, andrà benissimo. Mi chiami Abel.» Esito. «E lei, signora?»
Guarda sorridendo i suoi uomini, poi di nuovo me. «Mi può chiamare luogotenente», mi dice. E a te: «Come si chiama?» Resti seduta, con lo sguardo fisso.
«Morgan», rispondo io.
Resta a guardarti per un momento, poi, lentamente, posa di nuovo gli occhi su di me. «Morgan», dice. Un altro grido dal gruppo accalcato sulla strada. La luogotenente corruga la fronte e guarda da quella parte. «Ferita al ventre», dice con calma, mentre due dita tamburellano sulla vernice lucida dello sportello della carrozza. Dà un’occhiata ai due corpi che giacciono accanto al furgone in fiamme. Sospira. «Solo roba da pronto soccorso?» mi chiede. Faccio cenno di sì. Accarezza la ricca imbottitura all’interno dello sportello, poi scende e raggiunge il gruppetto sulla strada. Il capannello si apre e i soldati le fanno strada.
Al centro del gruppo un giovane in uniforme è sdraiato sul fianco, con le mani strette attorno alla pancia. Trema, geme. La nostra luogotenente va da lui. Posa sulla strada il fucile, si accovaccia, accarezza la testa del ragazzo e gli parla sottovoce, tenendogli una mano sulla fronte, mentre l’altra cerca qualcosa sul fianco. La luogotenente fa segno a un paio d’altri di spostarsi — obbediscono subito — poi si curva e bacia il giovane soldato sulla bocca. Sembra un bacio profondo, prolungato, quasi appassionato; un filo di saliva, che brilla ai raggi del sole che filtrano fra gli alberi, li unisce ancora mentre lei alza lentamente la testa. Le sue labbra si sono appena staccate quando la pistola posata accanto alla tempia del ragazzo esplode un colpo. La testa del soldato ha un sobbalzo, come se fosse stata scalciata con forza, il corpo ha uno spasmo e poi si placa, e un po’ di sangue schizza in alto e poi sulla strada. (Sento la tua mano sulla mia spalla, che mi stringe la pelle attraverso gli strati di giacca, maglioni e camicie.) Il giovane soldato si distende e crolla sulla schiena, bocca aperta, occhi chiusi.
La luogotenente si alza di scatto, rimettendosi il fucile sulla spalla. Concede al soldato morto un ultimo sguardo, poi si volta verso uno di quelli che si erano accalcati attorno al ferito. «Mister Taglio, fa’ in modo che sia sepolto come si deve.» Rinfodera la pistola automatica ancora fumante e dà un’altra occhiata ai corpi dei due civili stesi accanto al furgone in fiamme. «Quelli lasciateli ai cani.» Ritorna alla nostra carrozza, estrae un fazzoletto grigio da una tasca e si asciuga la faccia, togliendo qualche gocciolina di sangue del ragazzo. Salta di nuovo sul predellino, e punta i gomiti oltre lo sportello.
«Stavo chiedendo se avete armi», dice.
«Ho… ho un fucile da caccia e una carabina», le rispondo e mi trema la voce. Guardo la strada davanti a noi. «Potremmo averne bisogno per…»
«Dove sono?»
«Qui.» Mi alzo con lentezza e guardo la cassa sotto il sedile. La luogotenente accenna a un suo uomo che prima non avevo notato, dall’altra parte della carrozza. Il soldato si arrampica, apre la cassa, ci fruga dentro e solleva la borsa di tela cerata nella quale avevo stivato i fucili, la controlla e poi salta giù.
«La carabina non ha un calibro da guerra», protesto.
«Ah. Vorrà dire che non potrà sparare ai soldati», dice la luogotenente, scuotendo la testa senza malizia.
Guardo di nuovo nella direzione in cui stavamo andando. «La prego, non ho idea di quello che potremmo trovare più avanti…»
«Oh, non credo che dovrete preoccuparvi di questo», dice lei, salendo più in alto e scuotendo di nuovo la testa. Lo stesso soldato che aveva preso i fucili risale accanto a me. Comincia a perquisirmi, con precisione ma senza brutalità, mentre la luogotenente sogghigna verso di me e sorride a te, che guardi all’insù, stringendo le mani guantate che continuano a tremare. Il soldato ha un odore aspro, quasi fetido. Non trova niente degno di essere mostrato, a parte il pesante mazzo di chiavi che mi sono messo in tasca questa mattina. Le getta alla luogotenente, che le afferra con una mano sola, le solleva e le volta verso la luce.
«Che solenne mazzo di chiavi», dice, poi mi guarda con aria inquisitiva.
«Sono quelle del castello», le dico. Scrollo le spalle, con un leggero imbarazzo. «Per ricordo.»
Le rigira rumorosamente fra le mani, poi con un gesto teatrale le infila in una tasca della giacca strappata. «Sa, abbiamo bisogno di un posto dove rintanarci per un po’, Abel», mi dice. «Un po’ di riposo e ricreazione.» Sorride a te. «Quanto è lontano il castello?»
«È dall’alba che stiamo andando avanti.»
«Perché siete partiti? Un castello dovrebbe essere una protezione sufficiente, no?»
«È piccolo», le dico. «Non ha un’aria molto formidabile. Per niente formidabile. In verità è solo una casa; una volta aveva un ponte levatoio, ma adesso c’è un normale ponte di pietra sopra il fossato.»
Fa vedere che questa notizia l’ha impressionata. «Oh! Un fossato…» Suscita le risatine dei soldati attorno a lei (e noto per la prima volta che molti di loro hanno un’aria esausta e abbattuta: alcuni si radunano attorno a noi, altri portano via il corpo del ragazzo morto e altri ancora invitano la gente dietro la carrozza a superarci e proseguire il cammino. Molti soldati sembrano feriti: alcuni zoppicano, altri tengono un braccio appeso a fasce logore, altri hanno bende sporche attorno alla testa come bandane grigie.)
«Il cancello non è molto robusto», dico e sento che le mie parole sono deboli come questi soldati sporchi e raccogliticci. «Avevamo paura di un saccheggio, se avessimo provato a tener duro», continuo. «C’erano soldati da quelle parti; hanno cercato di prendere il castello, ieri», dico.
Gli occhi della luogotenente si stringono. «Che soldati?»
«Non lo so.»
«Uniformi?» chiede. Getta uno sguardo malizioso intorno. «Meglio delle nostre?»
«Non è che li abbiamo visti.»
«Armamenti pesanti? Cosa avevano?» continua e, davanti alla mia esitazione, agita una mano e suggerisce: «Carri armati, autoblindo, cannoni…?»
Scrollo le spalle. «Non lo so. Artiglieria, mitragliatrici, granate…»
«Mortaio», dici tu, deglutendo, con gli occhi sbigottiti che passano da me a lei.
Metto la mia mano sulla tua. «Non sono sicuro che fosse un mortaio», dico alla luogotenente. «Penso che fosse… una granata da fucile?»
La nostra luogotenente annuisce con gravità, sembra pensarci un momento, poi dice: «Andiamo a dare un’occhiata a questo castello, Abel, d’accordo?»
«È abbastanza facile da trovare», le dico. Mi volto per un attimo verso la direzione da cui siamo venuti. «Basta…»
«No», dice lei aprendo lo sportello della carrozza e tirandosi su fino a sedersi accanto a te. Sposta di lato un paio di borse per mettersi più comoda e si posa il fucile sulle ginocchia. «Portateci voi al castello», dice. «Ho sempre desiderato viaggiare su una carrozza come questa.» Accarezza la morbida superficie del sedile. «E un po’ di conoscenza del luogo potrebbe essere utile.» Infila una mano all’interno della giacca — qualcosa di nero, da cerimonia, a brandelli, macchiata e sporca di terra — poi estrae una lucente scatoletta d’argento, la apre e ci invita a servirci. «Sigaretta?»
Rifiutiamo entrambi; lei ne estrae una e rimette via la scatola d’argento.
«Tornare indietro non mi sembra una buona idea», dico, sforzandomi di suonare ragionevole.
Si sta togliendo il berretto e si passa una mano fra i ricci corti e bruno topo. «Be’, pazienza», dice, aggrottando le ciglia mentre ispeziona l’interno del berretto e passa un dito sull’orlo. «Consideratevi requisiti.» Si rimette il berretto e mi guarda con un sorrisetto freddo. «Giri la carrozza e torniamo indietro.» Estrae un accendino dal taschino sul petto.
«Ma siamo partiti all’alba», protesto. «E abbiamo seguito la corrente. Non ce la faremo prima di notte…»
Scuote rapidamente la testa. «Metteremo i camion davanti.» Dà un colpo al berretto. «Non avete idea di come si sposta la gente quando si vede arrivare contro un camion con una mitragliatrice; resterete sbalorditi. Non ci vorrà troppo tempo.» Fa roteare con delicatezza la sigaretta fra due dita mentre con l’altra mano aziona l’accendino. «Giri la carrozza, Abel», dice attraverso una nuvola di fumo.
Il camion che adesso è davanti a noi è stato spinto nel campo; stanno aspirando il gasolio dal serbatoio. Facciamo manovra nello spazio davanti al cancello e un paio di jeep e due camion a tre assi con teloni mimetici avanzano dal loro nascondiglio nel bosco. I soldati che avevano esaminato i resti del furgone in fiamme caricano bidoni di benzina e fusti di plastica sul cassone di uno dei camion, che si mette sulla strada davanti a noi, in mezzo alla corrente di profughi, suonando il clacson, mentre un soldato si sporge dalla cabina da cui spunta la canna di una mitragliatrice. La folla si apre e si disperde alla vista del camion come l’acqua davanti alla prua di una nave; faccio fatica a tenergli dietro. Le cavalle vanno al piccolo galoppo per la prima volta in tutto il giorno.
Una delle jeep ci segue da vicino. Anche su di essa c’è una mitragliatrice, montata su un treppiede dietro i sedili anteriori. La seconda jeep resta indietro: due soldati e i nostri domestici seppelliranno il giovane morto e poi ci raggiungeranno.
La carrozza sussulta, ondeggia, trema; il vento umido mi sferza la faccia, è freddo e violento. L’ombra della carrozza, con le ruote che tremolano, si allunga oltre il ciglio della strada nella luce acquosa del sole. La luogotenente sembra soddisfatta e se ne sta seduta con le gambe accavallate e il fucile in equilibrio contro una coscia; il berretto è posato su una borsa accanto a lei, e la mano tira distrattamente all’indietro i capelli, scuri come una foresta carbonizzata. Sorride a turno a me e a te. Tu mi guardi e posi una mano guantata sulla mia.
Dietro di noi, il flusso dei profughi si richiude e continua il cammino. Il furgone in fiamme fa un rumore simile a una tosse lontana e una scura bolla di fumo sale nel cielo grigio, unendosi al fumo di tutto ciò che brucia nella pianura, veicoli, fattorie, case.