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Mi arrampico su pendii, supero palizzate, guado torrenti. Rami e foglie morte mi sferzano e mi impacciano. Gli animali selvatici scappano via, gli uccelli sobbalzano e si alzano in volo e mi lascio dietro il vapore del mio respiro, traforato dalla pioggia, cancellato dal suo tranquillo bombardamento. Corro e salto e inciampo, mi getto attraverso rami, siepi e cespugli, mi tuffo in tutta la fragile riserva dell’inverno imminente finché non vedo il castello.
Il castello: talismano, emblema, si leva grigio dalla grigia forma degli alberi gocciolanti davanti a me. In questo momento, nella nebbia della pioggia gelida, non sembra affatto una cosa nata dalla terra, ma un’invenzione delle nuvole, un sogno che sorge dall’aria brumosa.
Supero il vecchio ponticello vicino al frutteto, e le sue travi sospese squittiscono e restano a oscillare sui cavi. Oltrepasso il giardino murato, l’aranciera, i depositi dei vasi, i nudi alberi ornamentali, le serre infrante, le fredde intelaiature dei tubi di riscaldamento, pile di travi marce e piccole dipendenze annerite, davanti alle quali il terreno è disseminato di latte, vecchie ruote, bastoni e schegge, pentole e padelle. Corro e le mie gambe sono stanche e cedono, la testa mi martella, la gola mi brucia; corro sulle pietre ricoperte di muschio, sulle lastre d’ardesia cadute, sui mucchi fradici di vecchia segatura, e mi ritrovo, finalmente, su un lato del castello.
Tutto sembra in pace. Un camion è fermo davanti al ponte sul fossato. Sui prati, l’accampamento degli sfollati manda un po’ di fumo azzurro pallido a fondersi con la pioggia. Non vedo nessuno. Perfino i saccheggiatori sembrano aver abbandonato la loro postazione: non pendono più dalla torre e hanno lasciato solo la vecchia pelle di tigre, appesantita, pendula, agitata dal vento, a salutare il nuovo giorno.
Mi lascio cadere nei cespugli, col petto che si gonfia nel tentativo di prendere fiato, mentre cerco di recuperare le forze e di pensare a cosa fare adesso.
La pioggia, ubiqua, continua a cadere dal cielo basso e pesante, mi imbeve gocciolando dai rami neri e spogli, rovesciandosi dalle ultime foglie del colore della decomposizione: hanno forme frastagliate come mani contorte e restano tenacemente attaccate, ma con fatica, in lotta perenne col vento che le visita. Le raffiche disperdono il fumo che si leva dalle tende e fa scricchiolare e sbattere i rami sopra di me. Mi tiro su e mi inginocchio, e mi imbevo di ogni particolare del castello: le pietre annerite dalla pioggia, le finestrelle disperse sui muri, il buco sul tetto dove sbatte una tela cerata grigia e, sulla torre più lontana, la pelle inzuppata, a brandelli, della tigre artica, da cui, a ogni raffica di vento, esplode una miriade di goccioline; e mi sembra di poter accogliere ogni pietra scheggiata e rimossa, di vederle tutte disposte in un progetto davanti a me, trasformate in un diagramma nella mia mente.
Avanti, dico al mio corpo tremante ed esausto. Muoviti adesso. Ma ha bisogno di qualcosa di più, di più tempo, non riesce ancora a funzionare. Estraggo la pistola automatica, quasi che il suo peso metallico possa contagiarmi con la sua determinazione. Mi fanno male le mani e la testa, dove la pioggia lava la ferita. Le gambe si irrigidiscono. Tremo, e fisso con confusa incredulità i vapori che si levano dalle gambe e dalla faccia e dalle mani e dal corpo, pensando che questo velo fumante sia il mio corpo che evapora, la mia determinazione che si dissolve nella pioggia. Poi riprende a soffiare il vento, e spazza via il mio sudario.
Passo in rassegna le finestre e la merlatura del castello in cerca di te, mia cara, e ho il disperato bisogno di vedere il tuo volto. Guarda giù, guarda giù, perché non guardi giù, a vedere uno di cui la luogotenente sarebbe stata fiera, uno come lei, un assassino adesso, come il suo spirito velato, come un fantasma, nascosto fra i cespugli con una pistola, coperto di fango e di foglie, sfregiato dalla battaglia e da un proiettile, pronto a progettare l’attacco e la liberazione: non un profugo, ma un nuovo soldato, per te.
Sopra il sibilo grigio della pioggia si leva un rumore che si raccoglie e gonfia oltre il castello. Riconosco il rombo di un motore, che cresce, cala, cambia, e allora sento il clacson del camion, suonato con violenza in qualche punto, ancora distante, del viale d’accesso. Esco di corsa dai rami, inciampando e scivolando sull’erba intrisa di pioggia, puntando verso la facciata del castello e il ponte sul fossato. Devono essere partiti all’improvviso, richiamati dalla radio; potrebbero essere andati tutti, lasciando il castello incustodito. Scivolo sulla ghiaia e per poco non cado. Supero il camion, corro sul ponte e mi infilo nel passaggio coperto sotto il corpo di guardia. La saracinesca mi blocca la strada: la scuoto e cerco di sollevarla, invano. Dietro di me, sento il motore del camion, che si fa sempre più vicino.
Dall’altra parte del cortile, appena visibile oltre il cannone, un soldato esce dalla porta principale. Mi immobilizzo. Lui mi vede, torna dentro e riappare all’improvviso con un fucile, spianandolo contro di me. Non mi viene nemmeno in mente di sparargli con la pistola che tengo in mano. Invece mi abbasso, mi volto e corro via; i colpi del fucile scheggiano le pietre mentre io mi lancio oltre il ponte. Il camion sta risalendo dal viale, con le luci accese. Qualcuno si sporge da una finestra, prendendo la mira su di me. Sento un altro sparo.
Provo ad aprire la portiera del camion parcheggiato, ma è chiusa a chiave. Attraverso il sentiero di ghiaia verso la riva erbosa che finisce nel fossato, pensando di usare l’argine come riparo, ma l’erba è troppo bagnata; faccio pochi passi e poi scivolo verso il basso. Cado nel fossato, finisco nell’acqua e mi dibatto disperatamente, boccheggiando in quella stretta gelida, cercando di trovare un appoggio nel pendio ripido sul fondo, sempre reggendo con una mano la pistola e tentando con l’altra di afferrare l’erba o il terreno per tirarmi fuori.
Sollevo spruzzi d’acqua, appoggio la schiena all’argine erboso e guardo in su. Un soldato si sporge dalla merlatura, puntandomi contro un fucile. Agita la mano, grida qualcosa. Io cerco di stare in equilibrio e prendo la mira; la pistola rincula con violenza, una volta, due volte, poi si ferma. Dall’alto delle mura cadono schegge di pietra. Tiro ancora il grilletto, poi getto via l’inutile pistola. Il soldato è scomparso, ma adesso riappare: sbircia, poi si sporge dal parapetto e grida qualcosa. Volto la schiena, e comincio a issarmi con entrambe le mani per uscire dal fossato, aspettando per tutto il tempo lo sparo, il terrificante colpo di maglio di un proiettile che mi colpisce. Invece sento solo risate.
Dimenandomi goffo e impacciato dai vestiti appesantiti dall’acqua, mi tiro all’asciutto e risalgo l’argine. Vola una bottiglia e colpisce l’erba vicino a me, rimbalzando nell’acqua sul fondo. Raggiungo il sentiero di ghiaia e mi metto in piedi, barcollando, e alzo gli occhi alle mura. Il soldato agita ancora il braccio. Adesso i due camion sono parcheggiati insieme. Alcuni soldati stanno scaricando qualcosa dal cassone del camion che è appena ritornato; altri sono fermi a guardarmi. Un’altra bottiglia parte dalla merlatura, frantumandosi dopo un volo arcuato sulla ghiaia vicino ai miei piedi. Uno dei soldati del camion comincia ad avanzare verso di me, e col fucile mi fa cenno di avvicinarmi. Mi metto a correre verso gli alberi.
Mentre attraverso di corsa il prato sento un grido, e mi volto per vedere il soldato che torna verso i camion. Gli altri non mi inseguono né mi sparano. Si radunano dentro il castello.
Mi acquatto fra i cespugli, rabbrividendo. Il mio corpo trema incontrollabilmente per il freddo, e devo farmi forza per convincermi di potermi scaldare ancora. Sulla merlatura, un soldato ubriaco agita una bottiglia, poi si volta e si allontana. Io guardo per terra, a quattro zampe, boccheggiando come un amante frustrato verso il terreno insensibile, inghiottendo il mio stesso respiro. Non riesco a mantenere nemmeno questa patetica postura, perché cedono sia le braccia sia le gambe; devo rotolarmi su un fianco, raggomitolato e fremente fra i cespugli come un animale spaventato e ferito.
Avevo creduto di essermi dimostrato impetuoso e temerario, ma il castello mi respinge. Sono chiuso fuori, e i soldati, sappiano o no che sono stato io a uccidere la loro luogotenente, sembrano disinteressarsi a me e non mi giudicano degno della fatica di inseguirmi. E tu, mia cara, non sei da nessuna parte. La pistola non è servita a niente: due colpi inutili, poi niente. E cosa avrei potuto fare, comunque, con quella roba? Stampella, lapide, tubo, mazza, lancia: le armi da fuoco hanno molti usi, molteplici effetti. Forse alterano le menti oltre che le anatomie; forse le loro emissioni entrano sotto la pelle non in un solo modo, ma in molti. Sono forse loro a decidere, più che quelli che le impiegano? Le loro bocche davvero parlano così forte, le loro canne traboccano di morte e mutilazioni con tale efficacia da parlare più forte di noi che, rifuggendo dal loro uso, non riusciamo a vedere che il danno maggiore lo procurano dietro di loro, piuttosto che davanti?
Ma la luogotenente…
Ma la luogotenente è morta, e così non è un buon esempio. L’ho uccisa perché sono diverso, o perché sono come lei? Ha poca importanza, e comunque la pistola l’ho buttata via.
Adesso sento altre grida che provengono dal castello. Mi metto in ginocchio, perché non riesco ancora a stare in piedi. Il freddo sembra essermi penetrato negli intestini; non credo di poter correre via. Colpi di fucile, ma solo in aria.
Sono dietro le merlature; quasi tutti gli uomini della luogotenente, e alcune delle donne dell’accampamento. Siamo divisi da grigi veli di pioggia, ma riesco a vedere tutto: le pietre scheggiate, la pelle di tigre gonfia d’acqua, il tetto bucato, e quella fila male assortita di uomini e donne, per lo più ubriachi e barcollanti, alcuni che agitano le mani, altri che sorridono, altri che gridano, altri ancora che sparano in aria.
Siete tutte e due con loro. Fino a questo momento c’era una parte della mia mente che si sforzava di credere che la luogotenente non fosse davvero morta, che potesse essersi districata prima che il vento mettesse in movimento le macine, che un soldato che non avevo notato fosse entrato nel mulino prima che le pale ripartissero, che qualcosa fosse saltato nel meccanismo del mulino, così che al muoversi delle pale le macine fossero rimaste ferme. Con la stessa furiosa e insensata speranza, quella parte di me si era illusa sognando una tua fuga dal castello: non eri affatto ottimista sul mio destino — come sembrava — ma inorridita da quello che sapevi che la luogotenente mi avrebbe fatto, e decisa a fuggire dal castello e dal suo controllo.
Fantasie, mia cara, e mi sento ancor più esecrabile per aver immaginato che il fatto di lasciare sullo sfondo quei pensieri, di non aver osato pensarli apertamente avrebbe dato loro una possibilità in più di riflettere la realtà delle nostre circostanze. Invece, ecco la luogotenente: il suo corpo decapitato viene sorretto da due dei suoi uomini. Qualcuno dietro di lei mette un berretto o un basco su quello che è rimasto del suo collo. Credo che alcuni degli uomini stiano ridendo.
Due soldati costringono te — calma, priva di espressione — a salire sulle pietre del parapetto. I tuoi capelli neri, fradici, si appiccicano alla camicia da notte bianca. La stoffa bagnata aderisce come una pelle alla pelle, e lì in piedi, con le braccia dietro la schiena, con lo sguardo fisso nel vuoto, hai un’aria a un tempo smarrita e sensuale.
Ti tirano indietro, sul camminamento; vedo che ti sollevano la camicia da notte sopra la faccia mentre ti spingono contro il parapetto, con la testa fra due merli. Sento grida di scherno. Mi scopro a mordermi un labbro, e me ne accorgo solo quando sento il sapore del sangue.
Non credo che tu conceda un gran divertimento ai soldati, o forse le loro donne tengono a freno gran parte di loro; in ogni caso, dopo pochi minuti ti rimettono sul parapetto. La tua espressione è sempre indecifrabile. Mi sembra di vedere anche un filo di sangue sul mento. Ti stanno legando le braccia dietro la schiena; dal tuo avambraccio destro pende una benda. Credo di vederti tremare.
Gli uomini stanno urlando, e mi gridano di saltar fuori. Cerco di alzarmi, ma ricado all’indietro, paralizzato dal freddo e dalla consapevolezza della mia impotenza assoluta.
Il corpo della luogotenente viene unto con il vino, e poi spinto oltre il bordo del parapetto; cade dopo qualche volteggio nel fossato. Tu, mia cara, hai un’aria impotente quanto me, e i tuoi occhi sono vuoti come lo è la mia mente di idee che potrebbero salvarci. Alcuni sfollati — uomini, vecchie, bambini — avanzano dal lato della facciata del castello, esitanti, incerti, ma attratti dalle grida e dalle risate e dai colpi in aria e dalle voci delle ragazze sulla merlatura. In gran parte si radunano sul sentiero di ghiaia, anche se alcuni restano indietro, timorosi. Osservo gli uomini sulla merlatura, osservo il castello, con la sua bandiera che sbatte, osservo la pioggia, e un uccello nero che volteggia altissimo, e che potrebbe essere uno dei miei, uno dei rapaci che ho liberato, finalmente di ritorno.
Solo te non posso guardare: quella terribile espressione vuota mi agghiaccia, devia verso l’alto, o verso il basso, o di lato il mio debole sguardo. Quel volto è stato lo specchio della mia vanità; su di esso mi hai lasciato scrivere tutto ciò che io abbia mai voluto scrivere, mi hai mostrato tutto quello che io abbia mai voluto vedere. Adesso, come quel punto cieco nell’occhio che solo ci permette di vedere, è l’unica cosa che non posso guardare, l’unica vista che non posso costringermi ad accettare.
Boccheggiano. La folla boccheggia vedendoti cadere, una fiamma bianca e splendente che fluttua verso il fossato.
Corro di nuovo fuori, sbalordito della mia mancanza di controllo ma anche della forza che mi è tornata all’improvviso. I soldati non mi sparano.
Supero alcuni degli sfollati, facendomi largo a spinte, inciampando sull’argine del fossato. Ti si vede solo la testa, che spunta sulla superficie agitata dell’acqua come una risposta al corpo decapitato che galleggia poco lontano, e si muove a causa delle onde generate dalla tua caduta. Tossisci e sputi, dibattendoti. Accanto a me, la gente mormora qualcosa. Guardo in alto e vedo una corda che da un punto vicino alla tua testa raggiunge la merlatura. Qualcuno la tende e la tua testa scompare, trascinata sott’acqua. I piedi, legati, si levano dalla superficie, sussultando, poi le gambe, nude e scalcianti, e il tuo corpo, appeso a quella corda, si torce, visibile a tutti, finché solo la testa rimane sott’acqua.
Sobbalzi, ti pieghi in due, riesci a tirar fuori la testa; il corpo pallido è nudo, e la testa e i capelli sono coperti dal lungo sudario bianco della camicia da notte inzuppata, bloccata attorno al collo; sbatte, gocciola, si increspa, pallida e sinuosa come il tuo corpo tirato. Ti fanno cadere di nuovo. Dopo il tuffo vai sotto; la camicia da notte galleggia attorno a te come una ninfea, poi riemergi, boccheggiando. La corda si tende ancora e tu scompari sotto.
Mi sento gridare, li supplico di fermarsi, di lasciarti andare. Cerco di ricordare i loro nomi, ma non sono sicuro di saperli: «Fogliasecca! Verbo!» grido, ma si mettono a ridere, applaudono e ti tirano su e giù con la corda.
Corro avanti, scivolo e cado lungo l’argine fino all’acqua. Gli uomini fischiano e urlano quando entro nel fossato, tendo le braccia, cerco di afferrarti mentre ti pieghi di nuovo e sollevi la testa fuori dalle onde, ma loro ti spostano più in là, fuori dalla mia portata, applaudendo e sparando di nuovo in aria. Io mi getto a nuoto verso di te, dimentico del freddo e della fatica, con le dita che si protendono come artigli per afferrarti.
Qualcuno si muove sull’argine, uno degli sfollati che grida verso di me e si mette a scendere sull’erba, allungandomi qualcosa. Dall’alto vengono grida di avvertimento, poi sparano e davanti a lui l’acqua crepita e spruzza. L’uomo viene tirato su dai compagni sul sentiero; si stanno muovendo in tondo, seguendo te mentre i soldati ti rituffano in acqua e io cerco di inseguirti.
Afferro l’orlo della camicia da notte e cerco di tirarti a me, ma loro ti trascinano ancora più in là, verso l’angolo del castello e del fossato, e la tela si strappa e cade via. Ci nuoto sopra e si impiglia a me, mi trattiene, mi rallenta. I soldati sghignazzano. Tu colpisci il muro, poi finisci di nuovo sott’acqua, poi salti fuori, sputando acqua, piegandoti debolmente sulla vita; il tuo viso è stravolto dalla tensione, la tua voce non è ancora stata udita.
Continuo a venirti dietro, e l’acqua mulina attorno a me: è un pozzo livido e incalzante di freddo, che prosciuga il calore, la forza, il respiro, il pensiero, la vita. Con le unghie scavo nella melma gelida e indurita che ricopre le pietre del castello, e la camicia da notte da cui non riesco a liberarmi e i miei stessi vestiti intrisi d’acqua mi trattengono indietro, mi tirano a fondo. Giriamo l’angolo, seguiti dalla folla, con i soldati che si danno i turni per reggere la corda, abbassarti e tirarti fuori, e gettano bottiglie che mi cadono vicino, e ridono e urlano. Inghiotto aria, inghiotto acqua, agito disperato le acque cupe, cado all’indietro, mentre loro continuano a trascinarti, e ti scorticano la pelle nuda sulle pietre ruvide dell’angolo seguente. Ormai non ti dibatti quasi più: quando prendi fiato, il suono che ti esce dalla bocca è stridulo e disperato, asmatico. Dall’alto i soldati fingono di incitarmi mentre avanzo, senza coordinazione, nell’acqua gelida e gli sfollati seguono la tua forma pendula e silenziosa fino all’angolo seguente, e poi oltre, scomparendo.
Le mie dita, ustionate, congelate, artigliano le pietre viscide e mi trascinano lentamente avanti, sempre con la tua camicia da notte impigliata dietro di me, fino all’angolo. Anch’io giro attorno.
I soldati sono in silenzio, immobili, e la folla è ferma sulla ghiaia.
Tu penzoli nell’acqua, sospesa per le caviglie, e il tuo unico movimento è un ritmico torcersi della corda, che porta il tuo corpo, dal seno ai piedi, verso l’esterno e poi verso il castello, mentre la testa, le spalle e i capelli restano sommersi nella quieta circonferenza del fossato.
Io tremo, poi mi spingo avanti, andando a sbattere contro i tre cadaveri decomposti dei saccheggiatori. Nuoto verso di te. E in questo stato sospeso ci incontriamo dolcemente.
Ti tocco la testa fredda e la sollevo fuori dall’acqua. Hai gli occhi aperti, fissi; l’acqua ti gocciola dalla bocca e si raccoglie nelle narici. La pioggia cade piano attorno a noi.
Uno strattone della corda, e mi vieni strappata: la testa che cullavo scatta verso l’alto, colpisce la pietra, ha uno scarto e gocciola; i capelli neri cadono in lunghe linee rette e morbide, a incontrare la rozza compassione della pioggia. Quelle gocce mi colpiscono in viso, e i soldati ti issano oltre il parapetto, e sputano su di me.
Ondeggio all’indietro, urto l’argine erboso, mi volto. Gli sfollati guardano in basso, in alto, poi due allungano una mano e mi aiutano a risalire, vicino al ponte; la camicia da notte è rimasta a galleggiare sull’acqua. Quando raggiungo la ghiaia in cima all’argine, barcollo e non riesco a stare in piedi; i due che mi hanno soccorso mi aiutano a sedere sull’erba e mi mettono attorno alle spalle un vecchio cappotto; poi grida e spari li disperdono, ricacciandoli nell’accampamento. Cerco di rialzarmi, pensando che in qualche modo potrei ancora fuggire, ma riesco solo a mettermi in ginocchio, e finisco inginocchiato all’ombra dei camion, sulla ghiaia davanti ai ciottoli levigati del ponte.
I soldati sciolgono la pelle di tigre e la gettano di sotto; cade pesantemente sull’erba. Al suo posto legano te, e tirano la corda in modo da issarti; il pennone si incurva, e tu rimbalzi contro di esso mentre ti tirano fino in cima, legata per i piedi, e fissano la corda. La corda si torce e si ritorce, offrendoti alle sconfinate profondità del cielo.
I soldati abbandonano il tetto e, subito dopo, si leva del fumo.
Gli sbuffi grigi diventano neri, riempiono l’aria attorno a te; i riccioli neri del fumo vengono spazzati via dal vento carico d’acqua.
Vedo scomparire la tua sagoma bianca in mezzo al grigio e al nero. Abbasso la testa, e poco alla volta piccoli fiocchi di caligine scendono a ricoprirmi.
La gente è tornata all’accampamento: alcuni si mettono a levare le tende, altri sono già in viaggio sui carri. La pioggia e la fredda acqua del fossato gocciolano via da me. La saracinesca geme e gratta, e si avviano i motori. Uno dei soldati viene a prendermi, mi solleva per un gomito e mi sostiene mentre barcollo e poi mi guida quasi con gentilezza sul ponte. Voglio scappare, correre via per salvarmi, o lanciarmi verso gli sfollati, mettermi a gridare e a piangere e chiedere il loro aiuto, o forse far vergognare i soldati e costringerli a dimostrare pentimento e rimpianto, ma non ho più forze, non ho più calore per te o per me o per chiunque o per qualunque altra cosa.
Gli altri soldati mi vengono incontro, mi mostrano il castello vestito di fiamme, il fuoco che trabocca esultante da ogni porta e da ogni finestra, e poi, con i camion e la jeep e il cannone, abbandonano il luogo alle fiamme e al fumo e mi portano con loro fuori di lì.
Ti vedo attraverso il fuoco, credo, fredda e bianca e sospesa in un punto immobile, intatta fra quelle ondate bellicose, ondeggiante in quella mistura rapida e tumultuosa, in volo nella raffica del vento, un saluto per ogni rovina.