37514.fb2 Canto di pietra - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 21

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VENTI

E adesso, mia cara, ho finito. La storia è finita, e ha fatto di noi ciò che voleva. C’è stata una sera, e con l’alba verrà il peggio. Guardo il giorno morire lentamente: il pacchiano spettacolo del sole trascina le nuvole con sé e finalmente ha la meglio sull’ultimo debole bagliore del castello.

Un uccello da preda, di ritorno dalla caccia, sta volteggiando ad ampi cerchi, e sale e si lascia cadere sull’ultimo arreso calore emesso dalla nostra casa, tagliando secchi angoli nel tranquillo fumo grigio, riemergendone al di là, virando all’indietro.

Un falco, ne sono certo. Uno di quelli che ho liberato, che adesso è tornato indietro. Alzo lo sguardo, lasciandomi vincere per un istante da una facile ammirazione per l’animale, immaginando che in qualche modo sappia che io sono qui e tu no e che tutto è perduto, che il coltivato istinto dell’assassino l’abbia richiamato a riconoscere i nostri destini.

Ma era solo un uccello, e anche stupido, secondo i nostri criteri; la sua struttura delicatamente feroce, quel cranio tagliato stretto, ospitano l’intelligenza necessaria alla sua funzione di carnivoro, e nessun altro pensiero. Disegnato per occupare il suo posto nella vita grazie alle lotte dei suoi progenitori, scolpito dalla vasta semplicità dell’evoluzione, non ha percezione delle nostre tribolazioni più di quanta ne abbia un coltello, o un proiettile, ed è altrettanto innocente. La sua crudele bellezza, come siamo soliti chiamarla, soddisfa il nostro acquisito timore reverenziale, ma è il nostro orgoglio, la nostra ferocia e la nostra grazia che noi deifichiamo in esso, e a nostro rischio scordiamo che è la nostra mente a essere sottoposta alla presa meccanica dell’artiglio, e proprio grazie al nostro pensiero rimaniamo per sempre superiori a esso.

Sento altri cannoni, il grande rombo che rulla sulla terra da qualche fronte lontano, e quasi mi sorprende: il mondo inconsapevole viene risospinto nella mia coscienza, mentre sono qui legato, condannato, in attesa.

I soldati dicono che partiranno domani. Hanno cacciato via i profughi per occupare il loro misero accampamento sul prato, e adesso anche un paio di mariti e uno dei nostri domestici galleggiano nel fossato. Tu, silenziosa per sempre, sei ancora innalzata nell’aria che si rischiara, una forma annerita sospesa sopra il guscio crollato e sventrato del castello; i tuoi occhi sereni osservano asciutti ciò che l’aria ti offre, e mi chiedo se il falco preferisca la carne cotta o al sangue, e se verrà a visitarti.

Perché anch’io sono legato, ridotto a un giocattolo, a una marionetta davanti alla bocca del cannone. Mi hanno legato qui per le braccia, le gambe e il corpo, con l’ampia imboccatura del pezzo puntata sul fondo della schiena (un’arma più grossa e più potente dove tenevo quella più piccola, l’inutile pistola della luogotenente); sono un sacrificio su un altare sospeso, inarcato come una quantità sconosciuta, una risposta sbagliata, un bacio al fondo della pagina, come le pale di un mulino, in verità, ma senza ruotare. Sono stato in posizioni più comode, è vero, ma posso stendermi sulla canna d’acciaio per togliere peso alle gambe allargate. Le braccia, tirate indietro dalle corde, sono del tutto intorpidite e così non mi fanno più male, e gli uomini mi hanno tirato un cappotto e una coperta, di modo che non dovrei morire troppo presto. Mi hanno perfino dato da mangiare un po’ di pane e del vino.

Tutti i miei tentativi di impersonare l’uomo d’azione, l’assassinio della luogotenente e la responsabilità del tuo, mi hanno assicurato solo un giorno di vita in più, e ci sono costati tutto. L’intenzione dei soldati è di puntarmi verso il cielo, alle prime luci dell’alba, di elevarmi, disteso sul muso del cannone, mettere una carica senza granata nella culatta e poi gettare i dadi per stabilire chi tirerà la corda dello sparo.

Li ho supplicati, ho cercato di farli ragionare, ho reclamato, ma loro considerano questa morte del tutto appropriata, e non solo perché sono convinti — a ragione — che sia stato io a uccidere la luogotenente. Le mie suppliche erano troppo eloquenti, forse, il mio appello alla ragione era destinato al fallimento fin dal principio, e quanto al tentativo di rivolgermi a loro da uomo a uomo — come un poveretto ingiustamente accusato, un commilitone, un compagno di sventura — doveva essere, a quanto pare, semplicemente risibile (di sicuro loro hanno riso).

Eppure, nonostante tutto il mio terrore — che sento negli intestini che subiranno l’urto della mia espulsione — credo di poter ancora assaporare il fatto che la mia vita finirà con un vuoto, e vedo le possibilità di variazioni raffinate che i soldati potrebbero non apprezzare. E così vorrei che il falco scendesse a rodere qualche parte di me, o che i soldati mi innalzassero adesso, mi mettessero un vecchio elmetto di latta sulla testa, avvicinassero una spugna alla mia bocca e mi colpissero al fianco con una baionetta… Ma io sono comunque fra questi ladroni, un occhio di calma nel cerchio dei loro veicoli, qualcosa di cui si sono già stancati.

Il falco si posa su di te, mia cara. Cerco di guardarlo con un occhio disinteressato mentre ti tira, stacca brandelli di carne, ti lacera, ma è un esercizio impossibile, e devo distogliere lo sguardo verso gli alberi spogli e le tende scure e gli uomini della luogotenente rimasti qui.

Sono impegnati a esaurire le ultime provviste del castello, a consumare il cibo e il vino, o si occupano delle donne che hanno deciso di tenere con sé. Domani potrebbero sparare qualche altro colpo nella direzione di un nebbioso fronte occidentale, e poi ritirarsi, ma forse no.

Ci sono state discussioni. Sembrano indecisi. Alcuni vogliono abbandonare il cannone, perché sarebbe un peso che li rallenterebbe, e in più non hanno nessun bersaglio da colpire. Altri vorrebbero offrire i propri servigi a qualche organizzazione più ampia, o trovare qualche altro riparo, una cittadella o un paese che potrebbero minacciare con il cannone, e così farsi pagare in cambio della promessa di non usarlo.

Io non capisco la loro guerra, non so chi combatte chi, per che cosa e perché. Potremmo essere in qualunque luogo, in qualunque epoca, e ogni causa porterebbe gli stessi risultati, la stessa fine, che si vinca o che si perda.

Osservo il campo, finalmente appropriato alla loro natura: i soldati sono tranquilli o sbuffano, attizzano un fuoco, fumano le rinsecchite sigarette della luogotenente, trangugiano il loro bottino, controllano le armi o stanno con le donne.

Devo essere troppo tollerante, ho il sospetto, perché la verità è che provo pietà per questi bruti. Adesso mi uccidono ma moriranno poco dopo, torcendosi sulla terra intrisa del loro sangue senza una luogotenente pronta a baciarli sulla bocca e finirli rapidamente; o vivranno mutilati, o in un ospizio, con un fantasma di dolore che aleggerà per sempre intorno al ricordo abbreviato della carne, o si porteranno le ferite ancora più in profondità, nell’oscurità abissale della mente, e ancora fra molti decenni si agiteranno, tormentati da sogni di morte, soli nel sonno anche se qualcuno dormirà al loro fianco, trasportati dai memori artigli dell’orrore impresso dentro di loro in un tempo al quale credevano di essere sopravvissuti e sfuggiti, e dove invece ritorneranno per sempre.

La mia opinione è che, a meno che il coinvolgimento non sia superficiale, nessuno sopravvive a una guerra; la gente che esce dall’altra parte non è la stessa che ci è entrata. Oh, lo so, tutti cambiamo, tutti i giorni, e ogni mattina emergiamo diversi dal bozzolo del sonno, per incontrare un viso inesprimibilmente alieno, e ogni malattia, ogni shock ci invecchia e ci cambia in diversa misura… Però quando la malattia è passata e lo shock è svanito, torniamo a raggiungere, più o meno, la stessa società che avevamo lasciato, e su di essa ci riequilibriamo. Questa confortante triangolazione ci è negata quando la comunità stessa è cambiata quanto e più di noi, e dobbiamo ricostruire non solo i nostri esseri ma anche il tessuto di quel mondo condiviso.

E il soldato, che rinuncia al suo posto nel flusso della vita civile per essere inserito nei ranghi militari, cede più degli altri ai capricci di quella confusione. I profughi, collettivizzati dalla miseria e dalla sfortuna, portano con sé la propria vita quando si muovono, e continuano a nutrire una speranza pratica, anche se parziale, di resurrezione futura; quando i soldati sottraggono agli altri la vita, o perdono la propria, vanno verso la fine non per essere lodati o condannati, o per contemplare una vita così marchiata dall’errore, ma semplicemente per abbracciare la vuota verità della distruzione della mente.

Cara luogotenente, credo che tutti noi ti abbiamo sedotta, ti abbiamo deviata da un corso che forse ti avrebbe salvato la vita. Hai occupato la nostra casa cercando qualcosa nel fondo di noi, tentando di assicurarti una specie d’amore contrassegnato dall’antichità, dalla terra, dalla famiglia; aspiravi all’eredità che era nostra, e se non hai capito che pretese simili hanno ripercussioni ramificate, e che le pietre richiedono una loro continuità di sangue, se non hai compreso la serietà del loro isolamento, della solitudine in cui sono intrappolate, della durezza della loro responsabilità, allora non puoi dare la colpa al castello o a qualcuno di noi, e lamentarti di essere stata condotta alla tua fine.

Io avevo lasciato il castello; tu ci hai riportati indietro.

Scende profonda la notte su di loro e i soldati si riparano, nelle tende o sui camion, vicino a me. Il corpo mi duole per tutto quello che ha patito, straziato dal tempo e dal freddo. Continuo a credere che verrà il falco e sarà la mia liberazione, strappandomi gli occhi in un’ultima impensata estensione del tormento, o forse davvero mi libererà, lacerando le corde che mi tengono legato così da concedermi un ultimo tentativo di fuga.

… Ma è l’alba la mia liberazione più probabile. O forse potrei — una fine ignominiosa, questa — soccombere al gelido bacio della notte, cedendo, come il castello, il calore vitale all’abbraccio dell’aria e del vento.

Dovrei gridare, strillare, bestemmiare, scagliare imprecazioni contro questi imbecilli, o almeno disturbare il loro sonno nella mia ultima notte, ma temo le torture che potrebbero escogitare se li seccassi così, perché a quanto ho sentito e letto e visto, l’uomo abbrutito, così carente di ogni altro tipo di immaginazione, si dimostra straordinariamente ricco di risorse quando si tratta di inventare metodi nuovi e ingegnosi per fare del male.

Non posso accusare nessuno di noi, o tutti. Siamo tutti morti e moribondi, siamo tutti feriti. Noi tre, il castello in rovina, questi tristi guerrieri, nessuno di noi si merita di finire così, ma non dovremmo sorprenderci: è degno di nota, e anche di essere celebrato, il fatto che qualcuno riceva ciò che si merita.

Castello, non saresti mai dovuto bruciare. Quel mulino era di legno: combustibile pieno d’aria. Tu eri di pietra. Sentivi con antico disprezzo il rombo terrestre delle sue ruote in ininterrotto movimento, eppure sei bruciato tu al posto suo, e adesso, a parte il tuo cranio scavato di travi annerite, non sembri quasi cambiato, visto da qui, nell’oscurità, eppure sei sventrato, come lo sarò io fra poco… Mi hanno detto che potrebbero minarti, per raderti al suolo, ma credo che l’abbiano detto più per abbattere me che te. Dovrebbero sprecare dell’utile esplosivo solo per distruggere te? Non credo proprio che lo faranno.

Castello, non ti ho reso giustizia dicendo che questa potrebbe essere un’epoca qualsiasi; un tempo le tue pietre avrebbero garantito la migliore delle protezioni, ma nei giorni dei cannoni e dell’artiglieria, basta puntarle contro di te, le canne dei cannoni, simili ad aghi di bussola, per appiccarti all’istante quel fuoco.

Forse abbiamo distrutto ciò di cui facevi parte nell’istante stesso in cui l’acciaio ha colpito la pietra della cava, e il martello del muratore e la granata sparata dal cannone sono entrambi responsabili della ferita. Tutto alla fine è costruzione, compreso questo: un uomo sul punto di morire che si rivolge a un edificio bruciato. Il mio sbaglio estremo, la mia finale follia. Ma in fondo siamo la bestia che dà nomi, l’animale che pensa grazie a una lingua, e tutto attorno a noi si chiama come noi abbiamo stabilito di chiamarlo, per mancanza di termini migliori, e ogni cosa a cui diamo un nome significa — per quanto ci riguarda — proprio ciò che vogliamo che essa designi. E, comunque, alla fine veniamo ugualmente puniti: perché le nostre belle parole definitorie alla fine non domano nulla, e se cadiamo vittime dell’ignota grammatica della nostra vita, dobbiamo affrontare con coraggio gli elementi e soffrire in cambio la loro indifferenza, del tutto ricambiata.

Il falco se n’è andato. Le ombre della notte ti lasciano sola come un’unica fiamma pallida sospesa sul guscio del castello, appena sfiorata da un cupo bagliore rosso rubino emesso dalle braci ancora accese all’interno. Forse l’uccello tornerà a liberarmi dalle corde, o forse i superstiti del gruppo a cui apparteneva il cannone — e che forse sono gli stessi che stamattina hanno teso l’imboscata alla luogotenente — attaccheranno all’improvviso, sconfiggeranno i miei torturatori e mi libereranno, colmi di gratitudine. O forse il vento gelido e le nuvole gonfie preannunciano la neve, che scenderà a coprirmi e ad ammorbidire i profili di ogni cosa qui intorno, compresi i cuori dei soldati, che avranno pietà di me e mi lasceranno andare.

Voglio una fine troppo pulita? O troppo aperta? Non lo so, miei cari, anche se prima dell’alba avrò la risposta, senza alcun dubbio.

Credo di voler morire, adesso. Davvero? Sono paradossale? Siamo tutti così: in noi la destra controlla e percepisce la sinistra, la sinistra la destra, ciò che vediamo è tutto invertito, e siamo sempre in due menti.

Vieni, alba, a coprirmi, vieni, luce, e fammi diventare ombra. Cancellami da questo luogo raso al suolo.

La vita è morte e la morte vita: accarezzare l’una significa abbracciare l’altra. Ho visto bestie morte, accanto a torrenti di montagna, dilatate dai gas, gravide di una morte generatrice. E tu, mia cara, tu trovasti l’espressione più adatta — anche se non ho mai potuto dirtelo, non ho mai potuto accennarti che era così che la vedevo — con quel tuo gonfiore, quando desti alla luce la morte (che noi nascondemmo, timorosi per la prima e unica volta della nostra intimità, minacciati da tutto ciò che condividevamo. Fu dopo quella silenziosa espressione del nostro amore che tu rifiutasti di articolare molto altro).

Forse, mio ingiusto amore, forse sei stata tu l’unica a vedere veramente chiaro, e col tuo rifiuto di scoprire ciò che cercavamo di trovare attraverso di te, l’hai saputo fin dall’inizio, e così ti sei serbata fedele. Forse, per quanto ingiustamente, il tuo stesso sesso ti ha resa più vicina a ciò per cui noi dovevamo lottare, negandolo. Forse tu sola hai capito il nostro destino dal principio: il tuo genere e la tua inclinazione ti fornivano gli strumenti per ospitare concezioni che a noi erano negate.

La pioggia cade su di me; lecco l’umidità dalle labbra. Siccome nessun falco è venuto a tagliare le corde che mi legano e i soldati liberatori non hanno attaccato, ho dovuto liberarmi comunque, sospeso quassù. Dovrei vergognarmene? No, non me ne vergogno. Siamo fatti in gran parte d’acqua, e noi stessi non siamo altro che bolle, e il nostro corpo non è che un vortice momentaneo, un’onda immobile nel flusso del nostro corso aggregato. Passiamo in acqua i mesi più formativi, in una vita che anche allora ci è semplicemente data in prestito, un’indipendenza che fin dall’inizio è legata a una serie di corde, e non ha molta importanza se la nostra fine è un composito scioglimento o una vincolante decomposizione. È già abbastanza dover camminare su questa riva e trascinarci su simboli instabili, per preoccuparci che quella corda ci strangoli.

Eppure, mentre il calore si raffredda sulla mia gamba, all’improvviso tremo di paura, come se la ripetizione di quest’atto infantile portasse con sé anche il costante timore vissuto nell’infanzia, e confesso che, come un bambino, mi metto a piangere. Ah, l’autocommiserazione; credo che il massimo della sincerità lo raggiungiamo quando abbiamo pietà di noi stessi.

Ma la mia paura è in gran parte una formalità, mia cara perduta sofista, un omaggio formale — tremante, lo ammetto, non irrigidito — che il corpo esige per se stesso, e di cui la mente non si stupisce, poco convinta com’è che ci siano molte ragioni per andare avanti, a parte l’abitudine. Se c’è qualcosa dopo questa esistenza, preferirei vederlo adesso piuttosto che in seguito, e se — come sospetto — l’unico pasto che seguirà a questo aperitivo sarà il festino dei vermi, perché allora accumulare altri dolci ricordi a cui dover dire addio, quando sopravverrà l’inevitabile?

Quanto al volgare interesse di vedere il risultato delle nostre vite — spingere poco più in là il nodo del presente, prima che ricada nel passato e si avviluppi un’altra volta — non provo un grande desiderio di vedere tanto per vedere ciò che, lo sento, finirà più o meno allo stesso modo. Ogni età, contenendo noi, contiene anche tutte le altre fino al limite della nostra comprensione reciproca, e domani, quando verrà, sarà semplicemente un altro giorno in una processione quasi infinita di giorni dopo giorni, e verrà e se ne andrà, come hanno fatto tutti gli altri e come faremo anche noi: esisterà per il tempo assegnatogli, e poi, per un tempo infinitamente più lungo, non esisterà. E se noi, presi nel gorgo di quell’infinita marea e sprofondando per la nostra prima e ultima volta, riusciamo ad aggrapparci a un pugno di altri giorni, tendo a credere che lo facciamo non tanto nella debole speranza di salvarci, quanto nel maligno tentativo di trascinarli sul fondo con noi.

E che dire della superstizione? Un tempo il castello aveva una cappella; nostro padre, che adesso è in questa terra, la fece eliminare. Bambino, mi fermai nell’opaco splendore del rosone, il giorno prima che venissero gli operai, piangendo al pensiero della sua fine, per ragioni puramente sentimentali. Qualche giorno più tardi, quando la sua dogmatica immobilità di vetrate colorate era stata rimossa, salii con te sull’altare, battendo gli occhi davanti al rigoglio vivente della campagna estiva, che finalmente si apriva alla vista.

La stessa intuizione che debba esistere qualcosa oltre questo mondo fisico mi fa pensare che sia sbagliata. Ci inebriamo troppo di tale sentimento, e se dobbiamo abbandonarci a questa sorta di antropomorfismo, potrei allora sostenere che la realtà non potrebbe certo resistere alla tentazione, né lasciarsi sfuggire l’opportunità, e si sentirebbe obbligata a sopprimerci. Il modo in cui accadono le cose, in cui agiscono, include un’asprezza assoluta, una generale mancanza di cerimonie e di rispetto alla quale possiamo opporre tutte le nostre pie convinzioni e le più riverite istituzioni e contro la quale possiamo imprecare e opporci per il tempo preciso della nostra vita, ma che abbraccia tutte le nostre aspirazioni e degradazioni, tutte le nostre promesse e menzogne, tutto ciò che facciamo e non facciamo, e che alla fine ci spazza via con minor sforzo di quanto una metafora riesca a comunicare.

Ci vogliono più errori, più possibilità del tutto casuali, più caos e minuzie per produrre una storia epica che una sordida, o l’eroe piuttosto che l’uomo comune. Il romanzesco, o la nostra fede in esso, è la nostra vera rovina.

Eppure c’è una sorta di progresso, potrei ammetterlo; un tempo credevamo in felici distese di caccia, urì, veri palazzi sospesi nel cielo, e dèi in forma umana. Oggi, fra coloro con abbastanza senno da rendersi conto della dificoltà in cui si trovano, prevale una spiritualità più sofisticata: un’infinita insensatezza che rimpiazza e sposta ogni cosa, così che, un giorno, quando tutti saremo polvere, particella, onda elettromagnetica, coloro che ci succederanno vedranno in quel nostro stato una continuità maggiore di quella che ci saremmo meritati.

E nella nostra piccola sfera, anche la mortalità è mortale, e c’è una fine alle fini, e ai giorni: non sono infiniti.

Grazie a un empio potere, in sé privo di significato, tanto insensato quanto implacabile e irresistibile, dovremmo sapere alla fine che tutto ci è ostile, e che il nostro amore muore con noi, non il contrario. (Nulla sopravvive così a lungo, così viva il nulla, così addio.)

D’altra parte, magari è proprio come dicono loro.

Ma ne dubito, e mi porterò le mie probabilità, come tutto il resto, via con me.

La notte mi punta all’angolo estremo del cono d’ombra della terra, come se mi mirasse verso il suo lembo remoto. Ah, fate del vostro peggio, idiota stella e roccia complice. E, nero uccello, fa’ ciò che era prevedibile, per quello che ho raggiunto e quello che ho lasciato, per quello che ho fatto e quello che ho trascurato, per quello che ho provato e quello che ho lasciato perdere, ciò che sono stato e che non sono stato, per ciò che importa e significa ed è meno di un mezzo pensiero in ciascuno di noi, e niente di peggio — e di sicuro niente di meglio — di questo.

Lasciami morire, lasciami andare; ho detto quello che dovevo dire, ho rifiutato di farcela, e adesso — è già l’alba? È questa una sorta di sonno, o sto sognando, o sento davvero la sveglia e l’ultimo squillo di tromba? — affronto il mio futuro, volto la schiena alla desolazione di una vita e a questi ottusi persecutori e sono giustamente innalzato, glorioso e trionfante, verso cieli del colore del sangue e delle rose, sogghigno ai dadi che rotolano (sì sì: iacta est alea, noi che stiamo per morire vi disprezziamo), rido agli applausi che si levano, tenendomi a galla, e così saluto la mia fine.

FINE