37514.fb2 Canto di pietra - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 3

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DUE

E così siamo diretti al castello. Non pensavo di rivederlo così presto; anzi, ero quasi sicuro che non l’avrei visto mai più. Mi sento uno sciocco, come uno che alla stazione si è separato con cerimonie lunghe e toccanti da un amico intimo, per scoprire subito dopo che a causa di un equivoco sono saliti entrambi sul medesimo treno. Eppure, mentre i camion svoltano dalla strada principale, lasciandosi alle spalle la fila dei profughi, mi chiedo che accoglienza ci aspetta. Mentre ci avviciniamo cerco ansiosamente tracce di fumo: ho paura che i soldati comparsi ieri possano aver saccheggiato la casa e averle dato fuoco. Per ora, comunque, il cielo sopra gli alberi che circondano il castello mostra solo le nubi grigie che si spostano da nord.

Mentre avanziamo, la luogotenente controlla l’interno della carrozza, scoprendo molte cose che la affascinano. Mi volto quando trova il portagioie, dietro i tuoi piedi; ti pieghi e lo stringi al petto ma lei lo afferra e vince la tua resistenza con uno sguardo dolcemente ammonitore, oltre che con una forza tanto maggiore. Esamina un gioiello alla volta, provandosene alcuni sul petto, attorno al polso o a un dito; poi scoppia a ridere e te li restituisce, a parte un piccolo anello d’oro bianco con un rubino.

«Questo posso tenerlo?» ti chiede. La carrozza sobbalza rumorosamente per una buca e devo tornare a guardare avanti; la tua testa è premuta contro la mia nuca mentre tiro le redini per tener lontane le cavalle da una fila di buche sulla strada. Sento che le fai cenno di sì.

«Grazie, Morgan», dice la luogotenente, e ha un’aria molto soddisfatta.

Da qualche minuto sembra addormentata (mi dai un colpetto sulla schiena per indicarmela, e c’è un sorrisetto sulle tue labbra mentre accenni alla sua testa penzoloni). Non ne sono sicuro; il viso della nostra luogotenente non mi sembra del tutto disteso, come succede a chi si addormenta per davvero. Forse ci sta sempre osservando e aspetta di vedere cosa faremo.

Comunque stessero le cose, adesso si raddrizza, si guarda intorno, chiede dove siamo ed estrae dalla giacca una piccola radio. L’avvicina alla bocca, parla brevemente e i camion davanti grugniscono e si fermano sulla strada sterrata. Avanzo con la carrozza fino a raggiungerli; la jeep ronza in folle alle nostre spalle. Mancherà mezzo chilometro all’inizio del viale del castello, nascosto oltre una curva dietro gli scheletri umidi e scuri degli alberi.

«C’è una portineria?» mi chiede sottovoce la luogotenente. Faccio cenno di sì con la testa.

«C’è qualche altra strada per evitare la portineria?»

«Non per i camion», le rispondo.

«E con la jeep?»

«Credo di sì.»

Si alza di scatto, scuotendo la carrozza, si tocca il berretto rivolta a te e fa un cenno a me. «Ci guiderà lei. Prenderemo la jeep.» Mi rivolgi un’occhiata spaventata e stendi la mano verso di me. «Rotula», dice la nostra luogotenente a uno degli uomini sulla jeep. «Da’ un’occhiata ai cavalli.»

La luogotenente dà ordini che non sento agli uomini sui camion, poi salta sulla jeep e si mette al volante. Il soldato seduto accanto a lei tiene in mano un tubo verde oliva lungo circa un metro e mezzo. Immagino sia un lanciarazzi. Sono schiacciato sul sedile posteriore tra il treppiede metallico della mitragliatrice e un soldato pallido e grasso che puzza come una volpe morta da una settimana. Dietro di noi, all’estremità del veicolo, è accosciato il soldato che regge la pesante mitragliatrice.

Prendiamo lo stretto sentiero che penetra nella foresta, sul retro della proprietà, alle spalle della piccola scarpata bordata da sempreverdi gocciolanti. In alcuni punti gli alberi e gli arbusti formano una specie di tunnel sopra il sentiero e il soldato che impugna la mitragliatrice impreca sottovoce abbassandosi di scatto mentre i rami si impigliano nell’arma e tentano di strapparla alla sua presa. Il sentiero si avvicina al torrente che alimenta il fossato. Il ponte è marcio, con le travi sghembe, troppo fragile per reggere il peso della jeep. La luogotenente si volta verso di me e uno sguardo deluso comincia a formarsi sul suo viso.

«Ormai siamo vicini», le dico, tenendo la voce bassa. Accenno con la testa. «Da quella cresta la vista è libera.»

La luogotenente segue il mio sguardo, poi dice al soldato con la mitragliatrice: «Karma, prendi il mitra. Andiamo».

Si direbbe che conti anche me. Abbandoniamo la jeep e noi cinque — io e la luogotenente, l’uomo con il lanciarazzi, il soldato pallido e grasso e quello che ha chiamato Karma, che si carica la mitragliatrice e vari cinturoni di munizioni, direi molto pesanti — attraversiamo il ponte e montiamo sul ripido argine all’altra estremità. Dall’alto, attraverso i cespugli, si vede il castello, insieme ai giardini più vicini. La luogotenente estrae un binocolo da campo e lo punta sulla nostra casa.

Siamo sorpresi da un breve scroscio di pioggia; le gocce brillano negli ultimi raggi di sole che s’infilano sotto le nuvole provenienti da nord. Guardo la mia casa, avvolta da un sudario dorato di vento e pioggia, cercando di vederla come la vedrebbe un estraneo: una modesta fortificazione, nulla di imponente; levigata dal tempo, graziosamente circondata da un anello d’acqua e poi da prati, siepi, sentieri di ghiaia e costruzioni secondarie. Le antiche mura — in origine traforate solo da feritoie, da molto tempo ormai trasformate in finestre più generose — hanno il colore del miele, in quella luce rosata. Ha un’aria pacifica; eppure, nonostante la sua finezza architettonica, è sempre qualcosa di troppo forte per questi tempi brutali e irrispettosi.

In mezzo a tale indiscriminata barbarie, tutto ciò che spicca orgoglioso reclama di essere demolito, come un grido di sfida che non fa altro che attrarre ancor più rapidamente le mani alla gola, quelle mani che strozzano il filo d’aria dal quale dipende la nostra vita. L’unico modo di tirare avanti, in questi tempi sfrenati, è cedere alla banalità e alla svalutazione; nell’uniformità, se non nelle uniformi, come quella schiera di sfollati della quale abbiamo provato a far parte. Talvolta l’inchino più profondo è la protezione più sicura.

Per il momento, tutto è tranquillo al castello; non si leva del fumo, non ci sono figure che pattugliano la merlatura, non sventola nessuna bandiera, non brilla nessuna luce, nulla si muove. C’è ancora qualche tenda sul prato; gente del villaggio che aveva subito le attenzioni di bande armate e aveva pensato che la vicinanza del castello potesse garantire una maggiore protezione. Solo da lì proviene un po’ di fumo.

Credo che il castello non mi sia mai sembrato bello come adesso, nonostante una banda di pirati se ne sia impadronita e io sia obbligato ad aiutare un’altra banda, ancor più decisa, a occuparlo.

Il terreno intorno è un’altra questione; anche prima dei danni inferti dai nostri eterogenei senzatetto — alberi tagliati per far legna, latrine scavate nei prati — i campi, i boschi e il parco erano incolti, abbandonati a se stessi. Abbiamo perso due anni fa il nostro fattore, e io — che mi ero occupato sempre alla lontana dell’amministrazione della tenuta — non sono riuscito a prendere il suo posto. Da allora, uno alla volta, tutti gli altri lavoranti sono stati portati via dalla guerra, in un modo o nell’altro, e la natura, non più dominata, ha rinnovato la sua antica autorità sulle nostre terre.

«Là, vicino alle stalle», sussurra la luogotenente, appena sopra il rumore delle gocce che picchiettano sulle foglie attorno a noi. «Quei due fuoristrada.»

«Sono nostri», le dico. Li abbiamo lasciati lì, senza nemmeno chiudere a chiave le stalle, sapendo che ogni tentativo di proteggere qualcosa non avrebbe portato che a danni peggiori. «Però le porte spalancate non le abbiamo lasciate noi.»

«Quella costruzione con le assicelle sui lati, dietro i garage», dice la luogotenente. «È la cabina del generatore?»

«Sì.»

«C’è combustibile per alimentarlo?» Mi rivolge uno sguardo carico di speranza.

Solo sotto la carrozza. «Il serbatoio è a secco dal mese scorso», le dico, ed è quasi vero. Per risparmiare gli ultimi fusti di gasolio, abbiamo usato candele per l’illuminazione e il fuoco nei camini per scaldarci; anche le stufe delle cucine funzionano a legna. C’erano anche lampade e fornelli a propano, ma abbiamo consumato l’ultima ricarica ieri sera, prima di partire.

«Mmm», dice la nostra luogotenente, mentre il soldato accanto a lei la tocca con il gomito e indica qualcosa. Vediamo un uomo — un altro irregolare, per quello che vedo — che esce dalle stalle, mette un bidone sul cassone di uno dei fuoristrada e poi lo mette in moto, portandolo davanti al castello, lontano dalla nostra vista.

«C’è molto carburante in quelle macchine?» chiede la luogotenente sottovoce.

«Solo quello che non siamo riusciti ad aspirare», le rispondo.

«Si può portare un veicolo all’interno del castello?»

«Non uno di quelli», le dico. «Sono troppo alti. C’è un piccolo cortile, dove può manovrare solo qualcosa di non più grande di una jeep.»

«Non c’è un ponte levatoio?» dice lei guardandomi. Scuoto la testa. Lei sorride appena. «Però mi pare che abbia parlato di un cancello, vero, Abel?»

«È una cancellata leggera, e poi c’è una saracinesca di ferro battuto. Non credo che riuscirebbe a fermare…»

La radio della luogotenente squittisce. Lei leva una mano verso di me e risponde alla radio; ascolta e poi soffia attraverso il naso. «Sì, se riuscite a farlo in un modo pulito. Noi siamo sulla cresta proprio dietro il castello.»

Mette via la trasmittente. «Dilettanti», dice con un sogghigno, e scuote la testa. «Non hanno messo nessuno alla portineria.» Si rivolge all’uomo accanto a sé. «Psycho è tra gli alberi accanto al viale, laggiù», gli spiega. «Dice che sono solo in due a caricare la macchina. Non si vede niente di grosso. Sta per mettersi a sparare, poi uno dei camion e l’altra jeep arriveranno a tutta velocità dal viale. Copriteli.» Si rivolge a me. «Non sono soldati», dice con apparente disgusto, «sono solo sciacalli.» Scuote la testa, poi mette via il binocolo e prepara il fucile, lo fissa e punta. «Morte», dice al soldato con il lanciarazzi. «Non sparare. Almeno finché non te lo dico io, d’accordo?»

Il tizio sembra deluso.

Da dietro il castello vengono degli spari, dal punto in cui il viale lascia gli alberi e risale per il leggero pendio fino al grande prato. Per un istante non si vede niente, poi il fuoristrada riappare accelerando sul vialetto di ghiaia che conduce dall’entrata del castello alle stalle. L’auto sbanda sulla ghiaia, e lo sportello posteriore, aperto, ondeggia con violenza. Il parabrezza è tempestato di crepe bianche e qualcuno lo sta prendendo a pugni dall’interno. Il fucile della luogotenente abbaia all’improvviso, facendomi sobbalzare. La mitragliatrice che hanno trasportato dalla jeep apre il fuoco e io mi tappo le orecchie con le mani. Il fuoristrada trema mentre vola via qualche pezzo, poi sterza bruscamente, le ruote anteriori sembrano spiccare un salto e per poco non precipita nel fossato (per un istante i colpi della mitragliatrice sollevano minuscoli spruzzi nell’acqua); l’auto svolta dalla parte opposta e perde velocità; raddrizza per un attimo e si schianta contro il muro delle stalle.

«Stop!» grida la nostra luogotenente, e il fuoco s’interrompe.

Spirali di vapore si levano dal cofano deformato della macchina. Si apre la portiera del guidatore e qualcuno cade giù, striscia a quattro zampe sul terreno e poi crolla.

Si sente il rumore di un altro motore, altri spari sul davanti del castello, e poi sul viale d’ingresso appare uno dei camion della luogotenente, diretto all’entrata. Il fuoco s’interrompe; il camion scompare alla vista, coperto dal castello. Sentiamo il motore che s’imballa, e poi si ferma.

Ha smesso di piovere. Per qualche istante il silenzio è assoluto, e l’unico movimento è quello del vapore che esce dal motore del fuoristrada. Poi sentiamo delle grida, e altri spari. La luogotenente tira fuori la radio. «Mister T.?» dice. In risposta viene un crepitio.

«Ah, Doppel, cosa sta succedendo?»

La luogotenente ascolta. «D’accordo. Abbiamo preso il fuoristrada. È fuori combattimento. Scendiamo anche noi, dalla cresta dietro il castello. Tre minuti.» Mette via la radio. «Psycho ne ha preso uno sul ponte», ci spiega. «Ce ne sono altri due o tre dentro il castello, ma il camion è arrivato in tempo al cancello. È tutto sotto controllo.» Si mette a tracolla il fucile. «Stecco», dice al soldato grasso che era seduto con me sul sedile posteriore della jeep. «Fermati qui; spara a tutti quelli che scappano via, se non sono dei nostri.» Il soldato grasso fa lentamente cenno di sì.

Scendiamo di corsa, accucciati, tra i cespugli e gli alberi fino al giardino dietro il castello. Dall’interno provengono spari isolati. Prima raggiungiamo l’uomo caduto accanto al fuoristrada fumante. Sul sedile del passeggero c’è un uomo morto, con l’uniforme intrisa di sangue e la mandibola quasi del tutto staccata. A terra, il guidatore geme ancora; il sangue filtra sulla ghiaia sotto il suo corpo. È un giovane alto e sgraziato con la carnagione chiazzata dell’adolescenza. La nostra luogotenente si accovaccia per dargli uno schiaffo sulla faccia, nel tentativo di fargli riprendere conoscenza, ma ottiene solo gemiti. Alla fine si rialza e scuote la testa, esasperata.

Stacca lo sguardo dal ferito e si rivolge al soldato con la mitragliatrice. Karma si è tolto l’elmetto per asciugarsi la fronte; ha i capelli rossi. «Tocca a te» mormora la luogotenente. «Avanti», dice a me, mentre Karma si rimette l’elmetto, schiaccia qualcosa sulla mitragliatrice e punta la canna alla testa del giovane steso a terra. La luogotenente si allontana, e i suoi stivali stridono sulla ghiaia.

Mi volto di scatto e seguo lei e il soldato con il lanciarazzi. Avverto una strana tensione in mezzo alle scapole, come se mi stessi preparando a ricevere il colpo di grazia al posto del moribondo. L’esplosione, singola, violenta, mi fa ugualmente sussultare.

Ci troviamo, tu e io, al centro del cortile del castello, accanto al pozzo. Guardiamo in alto e d’intorno. Gli sciacalli hanno fatto pochi danni. La luogotenente ha interrogato il vecchio Arthur — che aveva deciso di restare al castello invece di venire con noi — e ha scoperto che erano arrivati solo un’ora prima; non hanno avuto il tempo materiale di cominciare il saccheggio di casa nostra prima che la nostra valorosa luogotenente giungesse a proteggerla. Adesso è sua.

I suoi uomini si stanno arrampicando dappertutto; sono come bambini alle prese con un giocattolo nuovo. Hanno messo una vedetta sulla merlatura, e un’altra sentinella alla portineria. Hanno preso possesso del cancello principale e della saracinesca — un rimpiazzo recente in ferro battuto, forse più decorativo che efficace, ma sembra che a loro piaccia lo stesso — e adesso stanno perlustrando le cantine, i depositi e le stanze; i nostri domestici — sorpresi, confusi — hanno ricevuto l’ordine di lasciargli fare quello che desiderano; sono state aperte tutte le porte. Gli uomini — ma per la maggior parte sono ancora ragazzi — si stanno scegliendo le camere; a quanto pare saranno nostri ospiti per più di un fine settimana.

Le due jeep sono parcheggiate qui nel cortile, mentre i camion stanno fuori, oltre il fossato, vicino al piccolo ponte di pietra; la nostra carrozza è stata riportata nelle stalle, e i cavalli al loro recinto. Alcuni degli abitanti del villaggio, fuggiti all’arrivo dei saccheggiatori, stanno tornando, con circospezione, alle loro tende.

All’ingresso del corpo principale del castello compare la luogotenente, avanzando con lentezza verso di noi; indossa una giacca di un rosso vivo con fili dorati e nastri di medaglie. Tiene in mano una delle nostre migliori bottiglie di champagne, già aperta.

«Ecco», dice guardando le mura del cortile. «Non hanno fatto troppi danni.» Sorride a te. «Come mi sta?» Ruota su se stessa a nostro beneficio; la giacca rossa ondeggia.

La luogotenente si allaccia un paio di bottoni. «Era di suo nonno o qualcosa del genere?» domanda.

«Di qualche parente; non ricordo chi», le dico con calma, mentre il vecchio Arthur, il più venerabile dei nostri domestici, appare alla porta con un vassoio e si dirige verso di noi.

La luogotenente sorride con indulgenza al vecchio e gli fa segno di posare il vassoio sul cofano di una delle jeep. Ci sono tre bicchieri. «Grazie… Arthur, non è vero?» dice.

Il vecchio domestico — tondo, occhialuto, rosso in viso, con radi capelli gialli sulla testa — è in preda all’incertezza; fa un cenno alla luogotenente, poi si inchina e mormora qualcosa a noi, poi esita e si allontana. «Champagne», dice la luogotenente, ridendo, mentre riempie i bicchieri; il tuo anello, che adesso circonda il suo mignolo sinistro, tintinna contro il vetro verde e spesso della bottiglia e gli steli delicati dei calici.

Prendiamo i bicchieri. «A un piacevole soggiorno», dice la luogotenente brindammo. Noi sorseggiamo; lei tracanna.

«Quanto tempo pensate di stare qui da noi, più o meno?» le domando.

«Per un po’», risponde. «È da troppo tempo che siamo in giro, nei campi e nei fienili, a dormire in case mezzo bruciate e in tende umide. Abbiamo bisogno di una licenza da questa vita militare; alla lunga ti pesa.» Agita il bicchiere, e fissa il liquido. «Capisco perché avete deciso di andarvene, ma noi possiamo difendere questo posto.»

«Noi no», dico. «È proprio per questo che abbiamo scelto di partire. Possiamo farlo adesso?»

«Siete più al sicuro qui, adesso», ci spiega.

Io getto un’occhiata a te. «Però preferiremmo partire. Possiamo?»

«No», dice la luogotenente, e sospira. «Vorrei che vi fermaste.» Scrolla le spalle, si mette a esaminare la sua bella giacca. «È il mio desiderio.» Si sistema un polsino. «E il grado ha i suoi privilegi.» Mentre si guarda intorno il suo sorriso è per un attimo abbagliante. «Noi siamo vostri ospiti, e voi nostri. Noi siamo di nostra volontà vostri ospiti; se di voi si potrà dire lo stesso, dipende solo da voi.» Un’altra scrollata di spalle. «Comunque sia, intendiamo fermarci qui.»

«E se arriva qualcuno con un carro armato?»

La luogotenente scrolla di nuovo le spalle. «Allora dovremo andarcene.» Beve un altro sorso, e si sciacqua la bocca con il vino prima di inghiottirlo. «Ma non ci sono più molti carri armati in giro, di questi tempi, Abel; non c’è più molto di organizzato, dell’opposizione o del resto. Adesso la situazione è molto fluida, dopo tutta questa mobilitazione, questi arruolamenti, accuse, frizioni e…» agita in aria una mano «…questo crollo generale, direi.» Piega la testa di lato. «Quando ha visto per l’ultima volta un carro armato, Abel? O un aereo, o un elicottero?»

Rifletto per un istante, poi faccio un cenno d’assenso.

Sento che tu guardi all’insù. Mi afferri un braccio.

I saccheggiatori: i tre che i nostri irregolari hanno scoperto dentro il castello. Si sono arresi dopo pochi spari e a quanto pare la luogotenente li ha interrogati. Adesso compaiono sul tetto sopra di noi, legati, mentre avanzano verso il camminamento della torre, sulla scala a chiocciola, spinti da una mezza dozzina di uomini della luogotenente. Hanno sacchi o cappucci in testa e corde attorno al collo; inciampano e dal modo in cui camminano si direbbe che siano stati picchiati; sento singhiozzi e implorazioni che provengono da sotto i cappucci scuri. Vengono condotti verso le due torri meridionali del castello, le cui basi fiancheggiano il cancello principale, sopra il ponte e il fossato nella direzione del prato e del viale.

Hai gli occhi spalancati, il tuo volto è pallido; la mano guantata che mi afferra stringe sempre di più. La luogotenente beve, ti osserva con attenzione; nel suo sguardo c’è qualcosa di freddo e calcolatore. Poi, mentre tu tieni gli occhi fissi sulla fila di uomini al di sopra della linea di pietra che delimita il cielo, la sua faccia si anima, si distende, si rallegra perfino. «Andiamo dentro, volete?» Prende il vassoio. «Comincia a far freddo qui, e mi sembra che stia per piovere.»

Sopra di noi, mentre rientriamo, un giovane uomo grida e invoca sua madre.

La luogotenente ci confina in un’ala del castello, per impedirci di fuggire. Ceniamo dietro porte chiuse a chiave: pane e carne sotto sale. Nel salone, la nostra carceriera allieta la truppa con tutto ciò che la nostra fiorente cucina può offrire. Come era prevedibile, hanno ucciso i pavoni. Mi aspettavo dai nuovi ospiti una notte di selvaggi bagordi, ma la luogotenente — a quanto ci hanno sussurrato i nostri domestici, quando vengono, sotto scorta, a portarci la cena e a sparecchiare — ha ordinato un doppio turno di guardia, ha concesso una sola bottiglia di vino per ciascun uomo, e ha stabilito che la nostra servitù e gli accampati sul prato non vengano molestati. Forse è preoccupata di un attacco, in questa prima notte, e in più gli uomini sono esausti, non hanno la forza di festeggiare, sono animati solo da uno stanco sollievo.

Il fuoco brucia nei camini, bruciano le candele davanti agli specchi, in candelabri a molte braccia, e torce da giardino, dissotterrate da una delle costruzioni esterne, bruciano fumando appese ai muri o infilate nei vasi, in una caricatura priva di grazia del medioevo.

Nel frattempo gli sciacalli — dopo che le loro vite sono state stroncate da un nodo, e abbreviate di quella lunghezza — pendono al vento dalle torri, arenati nell’aria della sera, atroce segnale per il mondo esterno; forse la brava luogotenente spera che il loro oscillare faccia vacillare le velleità degli altri. Per tener loro compagnia, la luogotenente e i suoi uomini hanno alzato sul pennone una bandiera adatta; un piccolo scherzo, dicono. È la pelle di un carnivoro morto da molto tempo: avvistato in un corridoio abbandonato da anni, cacciato in un ripostiglio polveroso, poi messo all’angolo in un baule cigolante. Così la pelle della vecchia tigre artica sventola nell’aria agitata dalla pioggia.

Più tardi, ricaricati dal banchetto, la luogotenente e i suoi uomini più fidati scendono in quelle campagne bruciate che abbiamo lasciato, in cerca del bottino, armamenti o uomini, che riusciranno a trovare nella notte illuminata dalle torce.