37514.fb2 Canto di pietra - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 4

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TRE

Il castello ha una riserva completa di memorie, e il loro perpetuarsi è un altro modo di morire. La luogotenente perlustra la pianura nera nella notte, gli uomini che ha lasciato qui cadono addormentati uno a uno, i nostri domestici puliscono e raccolgono tutto quello che possono e poi si ritirano nelle loro stanze, e tu, su una sdraio, sotto le coperte, dormi un sonno irrequieto davanti al fuoco che si spegne. Io non riesco a dormire; cammino avanti e indietro per le tre stanze e i due brevi corridoi in cui siamo confinati, reggendo un piccolo candeliere a tre bracci per fare luce; sono ansioso e insicuro, e sposto lo sguardo dal fossato al cortile. Da una parte c’è la luna, per metà velata da nubi sfilacciate, che illumina le fradicie colline boscose dove si sta formando la nebbia. Dall’altra parte vedo la luce vibrante e incerta di una torcia da giardino che si riflette sui ciottoli del cortile e sul pozzo. Mentre la osservo, anche quella torcia manda le ultime scintille e si spegne.

Ho visto così tanti balli, qui. Ogni ballo conduceva al castello chiunque fosse degno di nota dalle contee a monte e da quelle a valle; venivano da ogni palazzo, da ogni ricca fattoria, dalle colline boscose e dalla pianura fertile, come limatura di ferro attratta da un magnete: nobili arteriosclerotici, matrone rigide come manici di scopa, amabili buffoni rubicondi che non facevano che ridacchiare, indulgenti parenti di città venuti a prendere un po’ d’aria buona in campagna o a uccidere per sport o a cercarsi una moglie, ragazzi radiosi con le facce lucide come le loro scarpe, cinici laureati venuti a deridere e a banchettare, posati osservatori della scena sociale che rinforzavano i cocktail con osservazioni taglienti, ragazzi di campagna arricchiti da poco che stringevano in mano l’invito, fanciulle appena sbocciate per metà imbarazzate e per metà fiere delle loro attrattive; politici, sacerdoti e i coraggiosi soldati; il denaro vecchio, il denaro nuovo, quelli che una volta avevano denaro, i titolati e i realizzati, gli adulatori e i timidi cerbiatti, gli assennati e i viziosi… Nel castello c’era posto per tutti.

Il salone delle feste risuonava come un teschio ronzante di pensieri in libertà, dissimili eppure identici. La musica catturava gli ospiti, li teneva nel suo pugno guantato, insieme fusi e confusi, li disperdeva lungo i corridoi illuminati, e le loro risa erano come la melodia di un sogno.

Adesso i corridoi e le stanze sono vuoti. I balconi e la merlatura sono sospesi nel buio, come appigli nel vuoto cupo. Nell’oscurità, di fronte al ricordo, il castello sembra adesso inumano. Le finestre oscurate sono una parodia della vista che non concedono più; qui c’è la spirale di pietra di una scala che scompare in un soffitto vuoto dove molto tempo fa fu abbattuta una torre, e qui stanze minuscole si aprono alla rinfusa una dopo l’altra, lasciando immaginare un camminamento, da secoli abbandonato e rimodellato, un’appendice fra gli intestini del castello.

Mi fermo davanti a un’alta finestra aperta che domina il fossato, e guardo la marea montante della nebbia che risale a inghiottire il castello, una grande e lenta onda di oscurità che spegne le stelle e si dispiega con inerzia geologica dalla foresta e si abbatte su di noi.

Ricordo che danzavamo, molti anni fa, e lasciammo il ballo per vedere la notte, insieme, sugli spalti illuminati dinnanzi all’oscurità ventosa. Il castello era una grande nave di pietra che avanzava splendente in un mare nero; la pianura brillava di luci, che vibravano nell’aria come raggi di stelle.

Noi scappammo lassù, tu e io, e poco alla volta ci trovammo a respirare l’uno il respiro dell’altra.

«Ma i nostri genitori…» sussurrasti quando quel primo bacio si spense per permetterci di prender fiato, e lo slancio per il seguente. «Ma se qualcuno ci vede…»

Il tuo vestito era qualcosa di nero; velluto e perle se ricordo bene; davanti era di broccato: ti fasciava il petto e si apriva sotto le mie mani. Esposti alla notte e alla mia bocca, i tuoi seni morbidi avevano il pallore della luna; le aureole erano scure come lividi, i capezzoli eretti, spessi e duri come l’ultima falange di un mignolo; li succhiavo e tu ti gettavi all’indietro, aggrappata alle pietre, aspirando con violenza la notte fra i denti. Poi, con un flusso inaspettato e minuscolo, sentii un gusto dolce e denso sulla lingua, come una premonizione, come un’involontaria risonanza dell’attesa emissione di un maschio, e in quella luce pallida brillavano due gocce splendenti del tuo latte, ognuna in cima a quelle piccole torri sollevate dalla pressione del sangue.

Divorai quelle perle, appagando una sete tanto più dolorosa e intensa quanto a me ignota fino a quell’istante. Poi raccogliesti tu stessa la gonna e la sottoveste, insistendo perché chiudessi col catenaccio la porta della scala a chiocciola; ti feci coricare sulle lastre d’ardesia, sotto le stelle.

È stato allora che ti ho amata per la prima volta? Credo di sì, mia dolce addormentata. O forse è accaduto più tardi, in uno stato più calmo… Ma preferirei di no; vorrei che fosse semplicemente la lussuria. Sembra più credibile, per il solo fatto che si è così indifesi davanti alle sue richieste alimentate dal sangue.

L’amore è comune; niente lo è di più, nemmeno l’odio (nemmeno adesso), e — come accade alle madri — ognuno crede che il proprio sia il migliore. Oh, il fascino dell’amore, la produttiva fissazione dell’arte per l’amore! Ah, la sbalordita chiarezza, la forza rivelatrice dell’amore, la pulsante certezza che è tutto, che è perfetto, che ci crea, che ci rende completi… che durerà per sempre.

Il nostro è un po’ particolare, per comune accordo. Siamo diventati, da tutti i punti di vista — e ce n’erano molti, e diversi, e spesso fantasiosi — famigerati; involontari, anche se indomiti, reietti molto prima del nostro fallito tentativo di diventare profughi. È stata una nostra decisione, però. Non era per noi quel fascino pacchiano, la tranquilla comodità della folla, il calore matrimoniale di una separazione condivisa. Vediamo il mondo allo stesso modo, i nostri occhi sono sintonizzati sulla sua ambivalenza, e ciò che blocca lo sguardo di un cervello ottuso, libera la mente di coloro che dispongono di una vista più ampia. Questo castello imprime il suo marchio sulla terra perché non fa più parte del mondo in cui è sorto; queste pietre si impongono sull’aria con un’aspra pretesa che è libera di raggiungere un livello più alto solo non concedendosi alcuna pace. Questo era il nostro principio; quale altro, se no?

Percorro questi corridoi mentre tu dormi accanto al fuoco spento (la cenere è come uno stagno, le pellicce e le coperte che ti scaldano sono dello stesso colore). Le nuvole scorrono in silenzio attorno a noi, umido fumo, di quale fuoco liquido non saprei dire. Una momentanea corrente d’aria porta fin qui il suono di una lontana cascata sulle colline, e solo la notte trova la sua voce finale, un rumore bianco che rimbomba nello spazio nero, privo di senso.

Il mattino trova la luogotenente di nuovo al castello; la nebbia si è diradata come una folla, la rugiada grava sulla foresta e il sole, che si leva tardi sulle colline meridionali, splende con una stanchezza invernale, esitante e provvisorio come la promessa di un politico.

La brava luogotenente si fa servire la colazione nelle nostre stanze; una vecchia bandiera — immagino non sappia che è lo stendardo della nostra famiglia — è stata stesa sul tavolo di quercia a mo’ di tovaglia. La luogotenente ha un’aria stanca ma animata, gli occhi rossi e la faccia accaldata. Puzza appena di fumo e ha intenzione di dormire per qualche ora dopo aver mangiato. La sua colazione (pano tostato, qualcosa di arrostito) viene servita sulla migliore argenteria; tiene in mano e usa le posate affilate e splendenti con la destrezza di chi è abituato a maneggiare le armi. Anche l’anello d’oro e rubino sul mignolo luccica come si deve.

«Abbiamo trovato qualcosa», risponde la luogotenente alla mia domanda su come era andata la notte. «È altrettanto importante quello che non abbiamo trovato.» Beve d’un fiato il latte, si appoggia allo schienale e scalcia lontano gli stivali. Si posa il piatto sul grembo e mette i piedi con le calze sporche sul tavolo, selezionando e infilzando i bocconi dall’alto.

«Che cosa non avete trovato?»

«Molta altra gente», ci spiega la luogotenente. «C’erano alcuni profughi accampati, ma niente… di minaccioso; nessuno armato, niente di organizzato.» Inghiotte altri bocconi dal suo piatto di carne e uova. Tiene lo sguardo sul soffitto, come se ammirasse i pannelli di legno dipinto e gli scudi con gli stemmi. «Crediamo che possa esserci in giro un altro gruppo. Da qualche parte», fa, poi stringe gli occhi mentre mi fissa. «Concorrenza», dice, facendo il suo solito sorriso freddo. «Non amici nostri.»

Un morbido rosso d’uovo, isolato chirurgicamente dal bianco che lo circonda e dalla fetta di pane dove era stato posato mediante precedenti incisioni, viene sollevato — intatto, giallo, tremolante — sulla forchetta della luogotenente e le finisce in bocca. Le labbra sottili si chiudono attorno a quella curva dorata. La luogotenente estrae la forchetta dalla bocca e la tiene dritta, facendola roteare mentre muove la mandibola e chiude gli occhi. Inghiotte. «Mmm», dice, tornando in sé e facendo schioccare le labbra. «L’ultima notizia su quell’allegra brigata li dava sulle colline più a nord.» Scrolla le spalle. «Non siamo riusciti a trovare nessuna traccia di loro; può darsi benissimo che siano andati a est con tutti gli altri.»

«Pensate sempre di fermarvi qui?»

«Oh, sì.» Posa il piatto, si asciuga le labbra su un tovagliolo e lo getta sulla tavola. «Mi piace molto la vostra casa; credo che io e i ragazzi potremo essere felici qui.»

«Intendete fermarvi a lungo?»

La luogotenente corruga la fronte e fa un respiro profondo. «Da quanto tempo», chiede, «abita qui la vostra famiglia?»

Esito. «Qualche centinaio di anni.»

Apre le braccia. «Be’, allora, che differenza fa se ci fermiamo qualche giorno, qualche settimana, qualche mese?» Scava fra due denti con un’unghia rovinata, rivolgendo a te un sorriso furbo. «Qualche anno, magari?»

«Dipende da come trattate questo posto», dico. «Questo castello resiste da più di quattrocento anni, ma per la maggior parte del tempo è stato vulnerabile ai cannoni e, adesso, potrebbe essere distrutto in un’ora con un grosso mortaio e in un secondo con una bomba ben piazzata o con un missile; dall’interno, tutto quello che occorre potrebbe essere semplicemente un fiammifero al posto giusto. Gli effetti della nostra permanenza in quanto famiglia non hanno purtroppo alcuna relazione con quelli della vostra in quanto occupanti, specialmente considerando il mondo e le circostanze al di fuori di queste mura.»

La luogotenente annuisce con gravità. «Ha ragione, Abel», dice, strofinandosi un indice sotto il naso e fissandosi le calze grigie e macchiate. «Siamo qui come occupanti, non come ospiti, e voi siete nostri prigionieri, non i padroni di casa. E questo posto corrisponde alle nostre esigenze; è comodo, facile da difendere, ma per il resto non ha nessun significato per noi.» Afferra di nuovo la forchetta e la esamina con attenzione. «Ma i miei uomini non sono vandali. Ho detto loro di non distruggere assolutamente niente, e se dovesse accadere qualcosa del genere sarebbe per goffaggine più che per insubordinazione. Oh, c’è qualche buco di pallottola qua e là, ma la maggior parte dei danni che troverete sono stati causati dai saccheggiatori, non da noi.» Pulisce qualcosa dai rebbi della forchetta. «E gliel’abbiamo fatta pagare cara, la loro… disgustosa profanazione.» Mi sorride.

Io fisso te, mia cara, ma adesso tieni lo sguardo a terra. «E noi?» chiedo alla nostra luogotenente. «Come intendete trattare noi?»

«Lei e sua moglie?» dice, poi osserva con attenzione. Io non mostro, lo spero, nessun segno di reazione. Tu guardi lontano, verso la finestra. «Oh, con rispetto», continua la luogotenente, annuendo seria. «Anzi, con onore.»

«Ma non al punto di onorare il nostro desiderio di partire.»

«Giusto!» dice. «Voi siete i miei esperti del luogo, Abel. Sapete come muovervi da queste parti.» Fa girare la mano, comprendendo nel gesto l’intero castello. «E io ho sempre avuto un debole per i castelli; potete offrirmi una visita guidata, se ne avete voglia. Be’, siamo sinceri: se io ne ho voglia. E ne ho voglia. Non le dispiace, vero, Abel? No, naturalmente no. Sono sicura che anche per lei sarà un piacere. Sono sicura che lei conosce chissà quante storie interessanti su questo castello: antenati affascinanti, famosi visitatori, episodi emozionanti, cimeli esotici di terre lontane… Ah! Per quanto ne so io, il castello potrebbe avere persino un fantasma!» Si sporge in avanti, agitando la forchetta come una bacchetta. «Ce l’ha, Abel? C’è un fantasma in questo posto?»

Io cerco di allontanarmi, appoggiandomi allo schienale. «Non ancora.»

Questo la fa ridere. «Appunto. I vostri veri tesori sono cose a cui i ladri non erano interessati: la casa in sé, la sua storia, la biblioteca, gli arazzi, antiche casse, vecchi abiti, statue, grandi quadri cupi… tutto ancora intatto, quasi tutto. Magari mentre stiamo qui lei potrebbe educare i miei soldati, trasmettergli il gusto della cultura. Sono sicura che il mio senso artistico è già cresciuto, semplicemente stando qui a parlare con lei.» Sbatte la forchetta contro il vassoio. «È questo il punto, capisce: gente come me ha così poche possibilità di parlare con una persona come lei e stare in un posto simile.»

Annuisco lentamente. «Sì, e lei sa chi sono io, chi siamo noi; ci sono libri nella biblioteca che elencano le generazioni della mia famiglia, e ritratti di quasi tutti gli antenati alle pareti; ma noi non sappiamo chi è lei. Possiamo chiederglielo?» Do un’occhiata dalla tua parte; hai di nuovo gli occhi fissi sulla luogotenente. «Basterebbe anche solo un nome», le dico.

La luogotenente si strofina contro lo schienale, stirandosi le spalle, inarcando la schiena e reprimendo gran parte di uno sbadiglio. «Naturalmente», dice, unendo le mani e premendole una contro l’altra. «Quello che non è facile da capire, finché non si entra a farne parte, è l’importanza che le unità di prima linea — le bande, le squadre — danno ai soprannomi. Ci lasciamo alle spalle il nostro nome da civili, insieme alla nostra vecchia personalità; diventiamo un’altra persona, dopo l’addestramento. Magari è una cosa sciamanica, una specie di incantesimo, di portafortuna.» Sorride. «Mi spiego: la pallottola con il proprio nome avrebbe scritto sopra il nome da civile, non quello vero, quello con cui ci chiamano i compagni.» Sbuffa. «Sa che ho dimenticato i veri nomi di tutti gli uomini di questa squadra? Con alcuni di loro sono insieme da due anni, e sembra un sacco di tempo, date le circostanze, no?» Annuisce. «Ma, i loro nomi… Be’, c’è Mister Taglio…»

«In che senso?» dico.

Lei mi guarda con un’aria strana, poi continua. «È una specie di vice; era sergente, nel suo vecchio reparto. Poi c’è Ricciolo, Morte, Vittima, Karma, Stecco, Rotula, Verbale, Fantasma… ah!» sorride all’improvviso. «Vede, ce l’abbiamo già un fantasma!» Si sporge in avanti, elencando i nomi mentre conta sulle dita. «…Fantasma, Eros, Paraurti, Discarica, Grugnito, Foglialarga, Poppy, Fissato, Doppel, Psycho… e… e… sono tutti qui», dice appoggiandosi allo schienale, silenziosa, incrociando le braccia e le gambe. «C’era Mezzacasta, ma ormai è morto.»

«Era il ragazzo di ieri, sulla strada?»

«Sì», dice velocemente. Poi tace per un istante. «Sa qual è la cosa strana?» Mi fissa. Io la osservo. «Mi è venuto in mente il vero nome di Mezzacasta, il suo vecchio nome, il nome da civile, quando l’ho baciato.» Un altro momento di pausa. «Si chiamava… Be’, adesso non ha più importanza.»

«E poi l’ha ammazzato.»

La luogotenente mi fissa a lungo. Ho costretto molti uomini ad abbassare lo sguardo, ma quei freddi globi grigi stanno per farmi cedere. Alla fine dice: «Lei crede in Dio, Abel?»

«No.»

La luogotenente si produce in uno dei suoi sorrisi di minor calibro. «Allora si limiti a desiderare di non trovarsi a morire di una ferita alla pancia quando non c’è nessuno vicino armato di qualcosa di meglio di un cerotto e di analgesici per una media emicrania. O nessuno disposto a mettere fine alla sua agonia.»

«Non avete un medico?»

«L’avevamo. È stato colpito da una scheggia di shrapnel di mortaio due settimane fa. Si chiamava Vet», dice, sbadigliando di nuovo. «Vet», ripete, e si mette le braccia dietro la testa, come per arrendersi (la sua giacca colorata si apre e, all’interno della camicia militare, i seni premono per un istante all’infuori; sospetto che siano, come lei, fermissimi). «Vet non nel senso di veterano. Nel senso di veterinario. D’altra parte, si prende quello che c’è, no?»

«Allora, per finire, come dovremmo chiamarla?» le chiedo, tentando di approfittare di quest’istante di terribile sentimentalismo.

«Davvero vuole saperlo?»

Faccio cenno di sì con la testa.

«Lu», mi dice, quasi timida. Scrolla di nuovo le spalle. «Dopo un po’, Abel, uno diventa la propria funzione. Io sono la luogotenente, così mi chiamano Lu. Sono diventata Lu. È a questo nome che rispondo.»

«E prima?»

«Prima?»

«Come la chiamavano prima?»

Lei scrolla la testa, sbuffa. «Facile.»

«Facile?»

«Già. Ripetevo sempre ‘Facile, adesso’. Poi è stato abbreviato.» Si osserva le unghie. «Le sarò grata se non userà questo nome.»

«Certo. Le battute che suggerisce sarebbero… be’, eponime.»

La luogotenente mi osserva stringendo per un momento gli occhi, poi dice «Proprio così». Sbadiglia, quindi si alza in piedi. «E adesso vado a dormire», annuncia, stirandosi le braccia. Si curva a raccogliere gli stivali. «Pensavo che potremmo — tutti e tre — fare una passeggiata, più tardi, sulle colline», dice. «Magari andare un po’ a caccia, questo pomeriggio.» Mi passa accanto e mi batte una mano sulla spalla. «Voi due, consideratevi a casa vostra.»