37514.fb2 Canto di pietra - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 6

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CINQUE

Nel pomeriggio andiamo a caccia. Per la maggior parte gli uomini della luogotenente si curano le ferite o dormono; alcuni vanno in ricognizione lì vicino. I nostri domestici hanno cominciato a pulire il castello: spolverano sotto l’occasionale foro di proiettile, mettono in ordine dopo il passaggio dei soldati, lavano e asciugano. Solo il trio degli sciacalli impiccati non può godere delle loro attenzioni; la luogotenente vuole che restino dove sono, in qualità di avviso e memento. Intanto l’accampamento di sfollati sui nostri prati è tornato a riempirsi; la gente che proviene da fattorie e villaggi bruciati si ripara fra i gazebo e i padiglioni, pianta tende sul campo da croquet e attinge agli stagni ornamentali; le nostre trote fanno la stessa fine dei pavoni della sera prima. Qualche fuoco in più viene acceso fuori delle tende e delle baracche di fortuna, e all’improvviso, in mezzo alla nostra aristocratica proprietà, spunta un barrio, una favela, il nostro piccolo ghetto. I soldati hanno già perquisito l’accampamento: in cerca di armi, a loro dire, ma per trovare quello che hanno subito stabilito essere un’inaccettabile eccesso di cibo e qualche bottiglia il cui contenuto non sarebbe dovuto finire nelle gole sbagliate.

La giornata è quasi calda, mentre marciamo verso le colline, sotto nuvole calme e lente. La luogotenente ha mandato avanti me; lei mi segue insieme a te. La retroguardia è composta da due suoi uomini che imbracciano le loro carabine e portano la pesante sacca di tela dei fucili da caccia.

La luogotenente continua a chiacchierare: indica specie di alberi, arbusti e uccelli, parla di caccia come se ne sapesse molto, raccoglie impressioni su come tu e io dobbiamo aver vissuto in tempi più pacifici. Tu ascolti; non mi volto, ma immagino di sentire i tuoi cenni di assenso. Il sentiero è ripido; risale attraverso gli alberi e sulla cresta alle loro spalle, poi segue quasi sempre il corso del torrente che alimenta il fossato del castello, attraversandolo più volte su piccoli ponti di legno che valicano burroni profondi e buie fenditure della roccia, dove l’acqua romba luminosa sul fondo e il cielo sopra di noi è uno specchio brillante spezzato dai rami nudi degli alberi. Il fango e lo strato di foglie decomposte rendono incerto ogni appoggio, e spesso ti sento scivolare, ma la luogotenente ti afferra, ti sorregge, ti aiuta a proseguire, ridendo e scherzando senza sosta.

Sempre più in alto. Guido il drappello fuori dai nostri boschi e in quelli di un vicino; se questa farsa deve proprio cominciare, almeno non sarà sulle terre che un tempo erano nostre.

La luogotenente fa una gran scena e insiste perché anche a noi tocchi un fucile: te ne mette uno fra le braccia, ne porge uno a me. Devo aprirlo per controllare che non sia già carico. I due soldati a cui lei aveva fatto portare i fucili restano indietro, con le loro carabine pronte — noto che hanno tolto la sicura. La luogotenente si caricherà da sola la sua doppietta — era delusa del fatto che non avessimo quegli arnesi a pompa — ma noi ci troviamo nella condizione privilegiata di avere ciascuno un aiuto: i soldati ricaricheranno per noi.

Su un’alta cresta di brughiera, la luogotenente si erge statuaria, impugnando un binocolo: scruta la pianura, il fiume, la strada, il castello lontano, si cerca una preda. «Laggiù», dice. Passa il binocolo a te. «Vede il castello? Vede la bandiera?»

Il tuo sguardo vola sul paesaggio e si ferma; annuisci lentamente. Indossi una giacca da caccia, una gonna pantalone scura, un comodo cappello e gli stivali; la luogotenente sfoggia la sua mimetica, ma con un cappello da cacciatore. Io ho pensato di mettere un vestito più adatto a un informale ricevimento da pomeriggio che a una battuta di caccia sulle colline, ma la nostra brava luogotenente non sembra aver notato la mia leggera stravaganza. In questo punto sopraelevato la nostra assurdità viene messa a nudo; facciamo una tal fatica per trovare piccole stupide creature da ammazzare, quando tutt’intorno — nella pianura, entro le colline più basse, nei paesi e nelle città più lontane, in ogni luogo in cui la carta indica un insediamento umano — ci sono le prove più evidenti di atrocità e di una smisurata moltiplicazione di macellai imbrattati di sangue: bersagli più adatti, avrei pensato, dato che non richiedono scuse, nessun elaborato e artificiale surrogato dell’ira per trasformarli in prede.

«Shhh!» fa la nostra luogotenente, toccandosi appena la testa. Ci mettiamo tutti ad ascoltare, e sentiamo, sopra il vento che cambia direzione, trasportati in sordina attraverso le cime degli alberi, i borborigmi, i rumori cupi e per metà avvertiti attraverso le vibrazioni del terreno, di una lontana artiglieria pesante.

«Lo sentite?» dice la luogotenente.

Tu annuisci. Lo stesso fa lei, pensosa. Quel lento battito ci cade addosso: due immense mani che applaudono, la terra cava e l’aria sonora che rimbombano insieme. La luogotenente si riprende il binocolo e interroga con quegli occhi grigi e freddi le terre distese sotto di noi, facendo scorrere lo sguardo su di esse, cambiando di continuo direzione, cercando invano l’origine di quello spettrale bombardamento.

«Oltre le colline, molto distante» dice sottovoce. Alla fine il rumore svanisce, sospinto su qualche invisibile superficie entro la portata del vento. La luogotenente scrolla le spalle e ritorna alle sue intenzioni originarie, punta il margine di una fitta foresta lungo il fianco della collina e ci ordina di puntare tutti in quella direzione. Ben presto ci troviamo davanti al bosco: un muro verde scuro a metà del pendio.

Non riesco a immaginare che possiamo trovare proprio lì qualcosa a cui sparare; avevo cercato di rimanere il più possibile sul vago, mentre la luogotenente pianificava questa spedizione. Non mi ero pronunciato su cosa c’era da cacciare e dove, sostenendo di essermi sempre affidato ai fedeli servigi di un dipendente che da tempo ci aveva lasciati perché mi mostrasse dove appostarmi per puntare il fucile, anche se avevo buttato lì che questa non fosse la stagione migliore per ciò che aveva in mente la luogotenente. Avrebbe preferito cervo, cinghiale o pecora?

Eppure, quando arriviamo a una piega fra le colline dove la foresta fa una V poco profonda, ci imbattiamo in uno stagno e in un intero stormo di piccoli uccelli che si abbeverano; un qualche tipo di fringuelli, penso. La luogotenente ci invita a stare pronti, controlla che i suoi uomini guardino noi e non la preda, poi spara i primi colpi quando le creature sono ancora troppo lontane e a terra. Gli uccelli si alzano in volo e roteano, si disperdono e poi si raggruppano mentre lo stormo si leva nel cielo. La luogotenente urla e scavalca una siepe, ricaricando in corsa. Tu e io ci guardiamo negli occhi. Anche le nostre scorte si scambiano un’occhiata, senza sapere cosa fare. Gli uccelli volano in cerchio, e ci sorpassano, mentre la luogotenente, ormai sotto di loro, spara di nuovo. Anche tu alzi il fucile e spari. Io no. Due nuvole di piume nell’aria e due corpi che precipitano a spirale segnalano un certo successo.

«Venite!» grida la luogotenente mulinando le braccia. I suoi battitori si fanno avanti; uno mi tocca sulla schiena col fucile. Procediamo, mentre lo stormo fugge seguendo la discesa del pendio; la luogotenente spara ancora e un altro corpicino sussultante cade sull’erba a ciuffi. Ricominciano intanto i colpi sordi di quella lontana artiglieria pesante, mentre la luogotenente scorge alcuni scoiattoli che si arrampicano su un albero vicino; apre il fuoco contro quei bersagli minuscoli e mette fine al loro comico zampettio con una piccola esplosione di rami, foglie, aghi, pelo e sangue. Quando la raggiungiamo ai margini di un boschetto lei sta scalciando un arbusto spinoso e ricarica la doppietta; è rossa in viso, il suo respiro è veloce.

«Verbale, raccogli gli uccelli che prendiamo, d’accordo?» Uno dei soldati torna indietro arrancando per recuperare i trofei conquistati dalla luogotenente. «Ma come…?» comincia, poi si calma e alza una mano. «Verbale, giù!» sibila. Il soldato che sta raccogliendo gli uccelli morti si abbassa, obbediente come un vero cane da caccia. Un altro stormo di uccelli sta volando in cerchio, piegando verso la discesa da un passo sulle montagne; rotea e picchia sopra lo stagno, un’unica entità di ronzanti puntolini bruno-nerastri, come uno sciame racchiuso in un’immensa sacca invisibile, dai bordi elastici, che si espande e cambia forma, si fende, si fende un’altra volta e infine, con un ultimo slancio, si posa. La luogotenente getta un’occhiata verso di noi, annuisce e poi spara.

I pallini esplodono sull’acqua dello stagno, sollevando migliaia di piccoli spruzzi in mezzo al disperato battito d’ali dello stormo terrorizzato.

La luogotenente mi fissa, corruga per un attimo la fronte e poi sorride. «Cattiva forma, eh, Abel?» grida. Apre il fucile, e saltano fuori le cartucce fumanti. «Ma un gran divertimento!» conclude, e scoppia a ridere. Aspetto finché gli uccelli sono in volo, poi sparo per mancarli, troppo basso. Tu ne prendi un altro paio. La luogotenente, sempre ridendo, ha il tempo di ricaricare prima che lo stormo riesca a fuggire; i suoi bersagli volano sopra di noi, e i colpi di fucile fanno cadere una grandinata di foglie e rametti che picchiettano su se stessi. Fra di loro cadono anche gli uccelli moribondi, un minuscolo detrito di morte in mezzo agli echi e ai rimbombi — anche se penso che la luogotenente non li senta — del più grande conflitto nel mondo sotto di noi.

Un’attesa eccitata, nascosti al limitare del bosco, poi appare un altro volo d’uccelli. Comincio a chiedermi se non è la stessa massa di idioti a ritornare ogni volta, con la memoria troppo corta per ricordare le recenti perdite, ma questo stormo è più grosso di quelli che abbiamo visto finora e credo che la luogotenente si sia imbattuta nella rotta seguita da questa specie nella loro migrazione verso sud all’inizio dell’inverno, lungo queste alte vallate.

La luogotenente si alza in piedi, spara, avanza e spara di nuovo, abbattendo altri uccelli; tu ne colpisci un altro prima che lo stormo si disperda. Imbraccio il fucile aperto; nessuno pare accorgersene.

Gli uomini della luogotenente raccolgono i corpicini e li infilano in una vecchia sacca per le cartucce. Tu chiedi permesso, e ti inoltri nella foresta scura alle nostre spalle. La luogotenente, senza fiato per l’eccitazione, ti guarda sorridendo, poi si volta verso di me.

«Cerchi di partecipare, Abel», dice con un sorriso a labbra strette, fissando il mio fucile. «Non bisogna fare i pesi morti, in queste uscite, no?»

«Mi sembrava che stesse facendo così bene lei», le dico, in malafede. «Mi sento completamente superfluo.»

Le sue labbra si increspano per un istante. «Certo. Ma non sta bene, non è vero? Bisogna fare uno sforzo.»

«Davvero?»

Lei dà un’altra occhiata nella tua direzione. «Morgan sta facendo del suo meglio; mi sembra che si diverta, per quello che posso capire.» Corruga la fronte.

«È docile di natura.»

«Mmm», fa la luogotenente, annuendo, sempre cercandoti con gli occhi. «È molto silenziosa, vero?»

«Quando pensa ad alta voce», dico alla luogotenente, con un sorriso educato.

Penso proprio di averla presa alla sprovvista. Poi esce in una risata leggera. «Be’, accidenti», dice sottovoce, «lei è molto aspro.»

Fisso anch’io le cupe profondità marine degli alti tronchi dove sei scomparsa tu. «Qualcuno apprezza un po’ di asprezza», le dico.

Ci pensa un attimo, poi trae un sospiro profondo. «Davvero? Un debole per l’asprezza?» Alza gli occhi e scruta il cielo. «Allora ci sarà in giro un sacco di gente soddisfatta, di questi tempi.»

Apre il suo fucile, fa saltar fuori le cartucce, ne inserisce con cura altre due. «Bene», dice, richiudendo di scatto il fucile con una mano sola. Io sbatto le palpebre. «Voi due siete sposati? È sua moglie?»

«Non esattamente.»

Sempre tenendo il fucile con una mano sola, mira lungo la canna puntando al suolo. «Ma in pratica.»

«Già. Anzi, è una relazione più intima di qualunque altra.»

Credo che la luogotenente vorrebbe continuare con le domande, ma in quel momento ritorni tu, con un sorriso timido e gli occhi bassi, e imbracci di nuovo il tuo fucile. In alto appare uno stormo più piccolo, del tutto ignaro.

Spariamo ancora un po’. Io continuo a puntare per sbagliare, tu hai qualche successo ma non sei mai stata una buona doppietta, mentre la luogotenente sembra essersi scoperta un talento particolare, e fa cadere uccelli morti e moribondi sulle rive dello stagno.

«Come tiratore mi sembra molto scarso, Abel», mi dice con la faccia severa, mentre i suoi uomini recuperano il suo bottino. «Davo per scontato che fosse molto meglio.» Brandisce la sua doppietta. «Tutti questi fucili erano per gli altri? Lei non andava mai a caccia?»

«Sono abituato a bersagli più grossi», le dico, e in effetti è la verità.

«Anche Eros.» Sorride a uno dei soldati. «Facciamo provare anche a lui.»

Devo cedere il mio fucile. Il soldato — un giovane rigido, dall’aria goffa, con una faccia dieci anni più vecchia della sua corporatura — ha bisogno di un po’ di istruzioni, ma poi si abbandona al divertimento. Il suo compagno continua a ricaricarti il fucile. Il sacco pieno di cadaveri piumati mi viene ficcato in mano e sono costretto a occuparmi della raccolta dopo la loro caccia.

«Bene, Eros!» La luogotenente dà istruzioni mentre siamo in attesa tra due ondate di uccelli. «Eros si sta comportando molto bene, non le pare, Morgan?» Il tuo breve sorriso potrebbe essere assente. «Molto bene per un uomo ferito. Mostrale le tue cicatrici, Eros.»

Il giovane soldato ha un’aria esitante mentre scopre una spalla — per fortuna non quella che subiva il rinculo del fucile — e ti mostra un bendaggio sudicio. «E il resto? Non essere timido, su!» ringhia la luogotenente, quasi sprezzante, dando una sculacciata al ragazzo.

Il soldato deve sbottonarsi i pantaloni, se li cala fino alle ginocchia e arrossisce. Un altro voluminoso bendaggio attorno a una coscia (non avevo nemmeno notato che zoppicasse, anche se, adesso che ci penso, mi rendo conto che sì, zoppicava). Le mutande sono anche più grigie delle bende, e adesso la sua faccia è più scura delle une e delle altre. Comincio a provare pietà per lui.

«A un pelo da qualcosa d’altro là sotto, eh, Eros?» dice la luogotenente strizzando l’occhio. Il giovane fa una risata nervosa e si riveste velocemente. Tu hai guardato da un’altra parte. «Eros se l’è cavata per un soffio», ti dice la luogotenente, scrutando il cielo in cerca di nuovi divertimenti. «Shrapnel, vero, Eros?» Il ragazzo soldato grugnisce, sempre imbarazzato. «Granata», ci informa la luogotenente. «Magari è stata sparata da uno di quei cannoni che sentiamo adesso», dice stringendo gli occhi, con il naso levato nella direzione del vento. I due soldati sembrano confusi e tu non hai nessuna reazione. Io mi concentro, e c’è infatti, lo sto sentendo di nuovo, quel rullio distante, quasi impercettibile, dell’artiglieria lontana. «Ah…» sospira la luogotenente, mentre un’altra macchia confusa di minuscoli uccelli si precipita incontro a noi dalle montagne e rotea sopra lo stagno.

Alcuni, solo feriti, cadono sbattendo un’ala, intrappolati in una confusione di foglie cadute ed esplose fino ad atterrare ai tuoi piedi: quando colpiscono il suolo cinguettano e si agitano con eccentrica preoccupazione di sé, solo per essere calpestati.

Quando eri più giovane, ti saresti messa a piangere a sentire un simile scricchiolio di minuscoli crani. Ma hai imparato a distogliere lo sguardo e a controllare il tuo fucile o, in mezzo ai fili di fumo che si arricciano grigi attorno ai tuoi capelli raccolti a crocchia, ad aprirlo e ricaricare.

Ah, quanto ti ho desiderata in quel momento; ti volevo per la notte, senza aspettare che ti lavassi, per metà vestita, in un viluppo di abiti e tappeti e stivali e cinture, divorato da un fuoco impaziente mentre l’odore di quel fumo di cartuccia indugiava cupo sulla tua pelle e nei tuoi capelli scomposti.

Non sarebbe stato così. Dopo avermi assegnato la dignità di cane per il resto di quella battuta di caccia, e avermi fatto riempire due sacche di bottino, la luogotenente mi avrebbe ordinato di andare a letto presto come un bambino ribelle, appena arrivati al castello.

Doveva essere a causa della mia trasgressione, ritengo. Tra cane da caccia e bambino, sono diventato per un po’ una bestia da soma: mi viene ordinato di portare le pesanti sacche, calde di uccelli morti, e un fucile aperto, per tutta la ripida discesa fino al castello.

Dietro di me, la luogotenente continua a parlare, intrattenendoti con la sua vita; un’altra famiglia a pezzi. Un misero avvio, in tempi meno tormentati, modeste vittorie a scuola e nello sport su cui si fonda un barlume di considerazione di sé e che conducono a una lotta lenta e determinata per innalzarsi dal resto del gregge. Poi un periodo in qualche università e poi — grazie alla timida spinta di una delusione d’amore — la decisione di arruolarsi, qualche tempo prima dello scoppio delle presenti ostilità.

Insomma, una di quelle persone per le quali simili disordini sono in verità una liberazione, dato che portano a edificare un carattere individuale nel teatro di questa più vasta rovina; un piccolo vortice di creazione in questi tempi così ferocemente corrosivi. La nostra luogotenente è uno spirito liberato dal riordino implicito in questo generale disordine; una beneficiaria, almeno fin qui, del conflitto. Ciò che ha trascinato al fondo noi ha fatto emergere lei e, nel castello, ci incontriamo, specchiandoci gli uni nell’altra, e forse ci diamo il cambio.

Mi piacerebbe ascoltare qualcos’altro della storia di colei che ci ha fatti prigionieri, ma cogliendo l’occasione faccio cadere il mio prezioso carico. Sul primo ponte che attraversa il torrente scivolo e mi afferro al parapetto sguisciante, e lascio che le sacche rigonfie mi sfuggano, insieme al fucile, così che tutto il bottino della luogotenente se ne vola verso le rapide più sotto. Il fucile sparisce in silenzio, il suo tonfo si perde nell’infinito flusso schiumante del ripido torrente. Le sacche cadono più lentamente, finiscono in un gorgo e lasciano uscire i loro morti. Gli uccelli nuotano fuori, la schiuma si riempie di penne e piume, piombo e carne, e gli uccelli, fradici, fluttuano e girano in cerchio e si allontanano e fuggono via nel torrente, quasi fosse una corrente d’aria.

Mi alzo con lentezza, e mi asciugo la melma verde che ho sulle mani. La luogotenente mi raggiunge, con una faccia torva. Dà un’occhiata, oltre la balaustra del ponte, al torrente rombante e vorticoso che sta portando via tutto il suo bottino. «Che sbadataggine, Abel», mi dice attraverso labbra simili a una ferita grigio-rosa e denti poco inclini a separarsi.

«Probabilmente ho messo le scarpe sbagliate», le spiego, con aria di scusa. Lei abbassa gli occhi sulle mie grosse scarpe marroni; hanno a prima vista un’aria ragionevolmente rustica, ma le suole sono poco adatte a questo terreno.

«Forse», dice. Credo proprio di aver paura di lei, solo per un istante. Potrei credere che sia capace di farmi un buco nella pancia con la doppietta, o di ficcarmi in testa una pallottola della sua pistola, o semplicemente di ordinare ai due soldati di gettarmi oltre il parapetto di legno. Invece lancia un’ultima occhiata al punto in cui gli uccelli spariscono fra le rocce e, quando li ha persi di vista in quelle rapide, ordina ai soldati di darmi la sacca dei fucili. «Questi non li perderei, Abel», dice con un tono quasi triste. «Sul serio.» Si volta. «Stai attento al nostro amico», dice al soldato dietro di me. «Non vorremo certo che scivoli di nuovo. Sarebbe una cosa proprio terribile. Vero, cara signora?» ti chiede mentre ti oltrepassa. Andiamo avanti, e lasciamo il rombo del fiume sepolto nel suo abisso.

Sono rinchiuso in una camera alta e mai usata, una palude interrata nel piano più alto della torre orientale. È ingombra di tutta la schiuma della nostra vita, come la soffitta dalle dolci memorie. Le finestrelle sono quasi tutte infrante, e i davanzali ricoperti di guano. I vetri rotti lasciano entrare la pioggia gelata; cerco di tappare i buchi con vecchie tende. Accendo nel caminetto un fuoco intermittente con volumi rilegati di vecchie riviste dalle pagine ingiallite, alcune delle quali trattano di caccia e di altre materie rurali; mi sembra molto appropriato. Il tema continua. Non posso credere che la brava luogotenente abbia memorizzato in un solo giro tutte le stanze del castello, perciò concludo che è un caso che mi abbia confinato qui, con queste vecchie raccolte di giornali e — in bacheche di vetro — trofei di antiche cacce. Mammiferi, uccelli e pesci guardano fuori, con occhi vitrei, in pose irrigidite, come goffi antenati nei ritratti. Le bacheche sono serrate, e non trovo le chiavi; per questo forzo alcuni di questi sarcofagi trasparenti, scheggiando il legno e incrinando il vetro.

Guardando l’uccello impagliato, il pesce sventrato, la volpe e la lepre con gli occhi di vetro, picchietto i loro occhi duri e morti, annuso il piumaggio che non conosce polvere e accarezzo le loro strane pelli secche. Penne e squame resistono alla mia mano. Li tengo davanti alla luce della candela per tentare di scorgere il legame che li unisce, il loro lentissimo trapasso dal mare all’aria, dalle squame alle penne, da coda a coda, da iridescenza a iridescenza; a quel legame, a quel trapasso tali estremità rimandano, esprimendo la glaciale ed erratica continuità dell’evoluzione.

Apro una finestrella che dà sul fossato e lancio gli uccelli: cadono. Spingo fuori i pesci, verso le acque: stanno a galla. Suppongo che questo riveli l’elemento aggiuntivo: l’animazione presente nelle cose viventi che sovrasta tutto il resto e fa sì che fuoco, aria, terra e acqua sembrino più simili l’uno all’altro di quanto possano mai essere affini a essa.

Proprio così: l’uccello e il pesce, distinti per elemento vitale, sono più simili l’uno all’altro di quanto entrambi lo siano a noi. (Distendo le ali non infilzate — stridono contro la loro carena. Il corpo flessuoso della trota, un unico muscolo avvolto in un tessuto color arcobaleno, rimane rigido come un osso.) Ma la loro è la bellezza degli estremi, e ricordo di aver scorto una volta il profilo di un pipistrello contro il fascio di luce di un proiettore: la sua pelle era come carta traslucida, ogni osso, lungo e sottilissimo, era distinto in quella radiografia di un volo. La creatura era aggraziata, ma il profilo di un arto allungato, la forma dell’artiglio, tesa e contorta fino a diventare metà di tutta l’ala, sembravano un’assurda distorsione, una forma folle ed esagerata di cui la natura dovrebbe in verità sentirsi colpevole. La grazia e l’equilibrio conferiti all’animale da quell’esagerata correzione delle sue parti ereditate, da mano ad ala, è qualcosa che ha bisogno di tempo e di una mente che lo plasmi con tale decisione.

Butto via quelle cose inutili, le brucio sul letto delle pagine. Prima di coricarmi, su una piattaforma di scatole, tappeti e mantelli, mangio il piatto di pavone arrosto che hai convinto la luogotenente a mandarmi.

La notte ho sognato, e nel naufragio ambrato dei tuoi occhi, come un vetro infranto che contiene il tuo spirito gelido, nuotavano lente immagini confuse di un fato più luminoso. Era, alla fine, la solita cosa, l’usuale specialità della casa della nostra mente, una spiacevole lotta combattuta fra le pieghe imbottite del cervello; desiderio espresso con l’intento di impressionare. Eppure, come un libro antico da fuoco o umidità contorto, ai bordi di questa fantasia si acquattava il mio pensiero sommerso (o il sogno è il fuoco, che consuma, la mente è il centro, il frammento intatto, la prosa ridotta, promossa a fortuita poesia).

E io ti ho scritta, mia cara; ho lasciato il mio segno, l’inchiostro è colato dalla mia penna, sei rimasta macchiata, e non solo la mia lingua ha sferzato, cadendo. Tagliata, ferita, legata, presa, lasciata, vuoi ciò che non vuoi e lo ottieni; un destino più benevolo, mi fa comodo pensare, che volere davvero ciò che fai, e non averlo.

Ma per essere all’occasione meno che tenero, ti ho resa più rara, e ciò che abbiamo in comune non viene spesso condiviso. Ho osservato domestici, contadini, artigiani, segretari diventare quella timida bestia, ho notato la loro insulsa uguaglianza con il nostro stato, e di quell’intima ordinarietà, di quella normalità compiaciuta e inconsapevole, sono rimasto perversamente disgustato.

Ho stabilito, per quanto a freddo, che perché qualcosa in questa vita, questo pensiero fuggevole, questo filo di senso in tutto il caos universale che ci circonda abbiano valore, siano in qualche modo degni, io, noi, dobbiamo sottrarci a tali obiettivi terreni, distaccarci sia nella messa in scena di quell’atto abituale sia nei vestiti, nell’abitazione, nel parlare e nelle maniere accessorie. Pertanto ho degradato entrambi allo scopo di distaccarci dal volgo fin dove riesce a spingersi la mia immaginazione, sperando — in virtù di una simile imprudenza — di rendere entrambi prudentemente separati.

E tu, mia meschina adorata, non mi hai mai biasimato. Nonostante tutto quell’estatico dolore e la necessaria malvagità; con tutto quello che è passato dalle tue labbra, non una parola di abiura ti è affiorata alla bocca.

Oh, tu eri sempre perduta nelle profondità di qualche calmo giudizio, sempre rapita, sempre ammantata del semplice ma entusiasmante impegno di essere te stessa; ho visto la scelta dell’abito da mattino che ti occupava quasi fino al pranzo, sono stato testimone della ricerca dell’unico perfetto profumo, ti ho osservata mentre dedicavi un pomeriggio o anche più all’operazione delicata e impegnativa di spalmarti un unguento sulla pelle, strofinartela con lentezza e annusarti con cura, ho visto che un semplice sonetto ti assorbiva per una sera di tormentati sospiri, ti ho scoperta intenta e seria, l’immagine stessa della sincerità assoluta, a soppesare per tutta una sera ogni parola di qualche insopportabile pedante, e sapevo che dormendo, l’avrei giurato, ti eccitavi fino all’orgasmo e poi ripiombavi nel più profondo dei sonni senza nemmeno svegliarti davvero.

Eppure credo ancora che tu la pensi come me, nonostante le differenze.

Noi soli siamo completi, noi soli siamo ordinati, mentre gli altri — distribuiti, ammassati come granelli di sabbia, questi profughi — non sono che luce casuale, un sibilo bianco, una pagina vuota, uno schermo sfarfallante, il rinnovato decadimento da uno stato di grazia al quale noi possiamo almeno aspirare con tutte le nostre forze.

Sbatte, azzanna — credo di sentirla — nell’aria sopra la mia mente che mulina — la pelle della vecchia tigre artica, come se, agitando una zampa e battendo l’altra, salutasse la notte.