37514.fb2 Canto di pietra - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 7

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SEI

Giunge splendente il mattino; l’aurora dalle dita insanguinate incendia mari d’aria con la sua luce zelante e costringe la terra a un’altra falsa partenza. I miei occhi si schiudono come fiordalisi, pungono, incrostati della loro impura rugiada, e poi si imbevono di quella luce.

Mi alzo, mi trascino fino a inginocchiarmi a una delle strette finestre della torre, mi strofino il sonno dagli occhi e guardo fuori per essere testimone dell’aurora.

Brandita come una spada di fuoco, la luce del sole colpisce questa grigia pianura e ne fa un calderone dove i vapori si moltiplicano e si radunano per scomparire poi nell’aria limpida, dissolti nella distesa oceanica del cielo.

Osservo tutto ciò mentre mi libero delle mie scorie: con una lenta parabola, il mio personale contributo al fossato zampilla dorato nella foschia luminosa del nuovo giorno e tocca schiumando le scure acque più sotto, e ogni goccia colpita dal sole, nettamente delineata, è la maglia lucente di una catena d’oro, è una curva matematica, è una metafora della luce.

Torno alleggerito al mio letto di fortuna accanto al caminetto freddo, pieno di pagine bruciate; vorrei semplicemente riposare, ma mi riaddormento di nuovo, e mi risveglio solo al rumore di una chiave che gira e a una serie di colpi alla porta.

«Signore?»

Mi siedo sul letto, disorientato dalla vacuità del sonno, ripreso senza bisogno e poi bruscamente interrotto.

«Buon giorno, signore. Le ho portato un po’ di colazione.» Il vecchio Arthur, senza fiato dopo la faticosa ascesa sulla scala a chiocciola, apre col corpo la porta e deposita un vassoio su una cassa. Mi guarda con un’aria di scusa. «Posso sedermi, signore?»

«Certo, Arthur.»

Crolla riconoscente su una sedia carica di giornali e provoca una nube di polvere che si solleva pigra nelle lame di luce che penetrano dalle finestre. Il suo petto si alza e si abbassa, lui allarga le gambe ed estrae dalla tasca un fazzoletto per asciugarsi la fronte.

«Chiedo scusa, signore. Non sono più giovane come una volta.»

Ci sono circostanze in cui, semplicemente, non c’è nulla da dire; se qualcuno della mia condizione avesse pronunciato una frase del genere, avrei scelto una replica con la ghiotta e giudiziosa esultanza di un cacciatore alla posta che ha appena identificato un perfetto e ignaro esemplare della sua preda, e deve decidere quale fucile usare. Con un vecchio e apprezzato domestico, un diletto del genere sarebbe fuori luogo, avvilente per me e per lui. Ne ho conosciuti alcuni, di quelli che appartengono per nascita al nostro rango ma non lo meritano, che sfruttano simili occasioni per umiliare coloro che li servono, e a quanto pare ricavano immense soddisfazioni da quell’ignobile commedia, ma il loro spirito, ritengo, è figlio della debolezza. Dovremmo incrociare la spada solo con i nostri pari, altrimenti la contesa non ci direbbe nulla di più di ciò che è ovvio in misura perfino imbarazzante; e senza volerlo confermano questa verità coloro che, inclini come sono a colpire chi non ha la possibilità di rispondere in maniera diretta, si espongono senza difesa agli attacchi di quanti quella possibilità ce l’hanno.

Inoltre, so che i nostri inferiori hanno il loro orgoglio; sono la nostra immagine, in circostanze differenti, e i membri del nostro ceto assecondano fin troppo l’uno nell’altro il sentimento dell’amor proprio. Tutti noi siamo il nostro sistema legale, quando ne sentiamo il bisogno e ne vediamo l’opportunità; arrestiamo, giudichiamo, emaniamo la sentenza e, quando possiamo, facciamo rispettare tutto ciò che, secondo la nostra personale filosofia, consideriamo legittimo. Il sarcasmo nei confronti di un cameriere verrà probabilmente seguito — oltre la porta a vento della cucina — dallo stesso favore ricambiato, non metaforicamente, sotto forma di una salsa aggiunta di nascosto al piatto seguente, e di certo molti servitori disprezzati hanno nutrito a lungo un rancore, finché non sono riusciti a restituire l’offesa grazie a un pettegolezzo diffuso al momento opportuno o — agendo in base all’intima conoscenza di ciò che è più prezioso al loro tormentatore — con il danneggiamento, la ferita, la rovina o la perdita di quel tesoro. C’è in queste relazioni ineguali un equilibrio calcolato con cura, che chi sta sopra può ignorare molto più facilmente di chi sta sotto; ma lo fa a proprio rischio e pericolo.

È forse possibile cogliere un tale errore, riflesso ed esagerato, nello specchio deformante delle nostre presenti difficoltà. Oggi posso solo rammaricarmene, ma non mi è mai importato molto della politica, che ho sempre considerato una materia da disprezzare a ragion veduta, ed è probabile dunque che qui possa parlare con minore autorità che in altri campi, ma mi sembra che il conflitto che adesso ci circonda sia almeno in parte sorto a causa di una simile mancanza di considerazione.

Ci sono tensioni fra gli stati, i popoli, le razze, le caste e le classi che ogni singolo attore — sia esso un individuo o un gruppo — semplicemente trascura, o dà per scontate, o cerca di manipolare a proprio vantaggio, mettendo però in tal modo a repentaglio la propria esistenza e tutto ciò che ha di più caro. Farlo con cognizione di causa significa essere temerari; farlo inconsapevolmente equivale a proclamare apertamente la propria assoluta idiozia.

Quante tragedie senza scopo, quante lotte mortali e guerre sanguinose sono cominciate per la ricerca di un minimo profitto, per una minima acquisizione territoriale, per minime concessioni e ammissioni, per diventare poi — a causa di impuntature, di un orgoglio traboccante e di azioni imposte da un ipocrita senso della giustizia — un orrore generalizzato che in breve tempo rade al suolo l’edificio che i contendenti volevano solo ritoccare?

Il vecchio Arthur se ne sta seduto ad ansimare nella nube di polvere che lui stesso ha sollevato. Noto all’improvviso che è straordinariamente invecchiato nel corso degli ultimi mesi. Certo, è comunque vecchio; è di gran lunga il più venerabile dei nostri dipendenti, e immagino che quando ci avviciniamo alla tomba i gradini diventino sempre più ripidi. È stato l’unico a scegliere di fermarsi al castello invece di venire con noi e confidare nelle strade e nel supposto anonimato dei profughi. Noi capivamo le sue ragioni, e non abbiamo fatto troppi sforzi per fargli cambiare idea; la strada prometteva solo lunghe privazioni, mentre il castello, occupato da altri, gli offriva sempre la possibilità di trarre vantaggio dagli ultimi residui di rispetto che i giovani guerrieri potevano ancora dimostrare a vecchi innocenti; alla peggio, poteva contare forse su una rapida fine.

Arthur starnutisce. «Chiedo scusa, signore.»

«I nostri ospiti vi trattano bene?»

«Me, signore?» Il vecchio sembra confuso.

«Te e gli altri domestici; i soldati vi trattano in maniera decorosa?»

«Ah.» Fissa il fazzoletto, poi si soffia il naso. «Sì, signore, abbastanza. Anche se, in effetti, tendono a fare un gran disordine.»

«Credo che abbiano vissuto all’aperto, o in posti in rovina, per troppo tempo.»

«Dal momento che sono stati loro e quelli come loro a mandare in rovina tutto quanto, signore», dice sporgendosi in avanti e abbassando la voce, «può darsi che la rovina sia il loro ambiente naturale!» Si appoggia di nuovo allo schienale, annuendo, ma con un’aria preoccupata, come se non volesse prendersi tutta la responsabilità di ciò che le sue labbra avevano appena detto.

«Un’osservazione acuta, Arthur», gli dico divertito. Appoggio i piedi sul pavimento e mi metto a sedere sul letto. Prendo un bicchiere di latte tiepido dal vassoio. C’è pane tostato, un uovo, una mela, qualche marmellata e una caraffa di caffè, che ha un sapore stantio (è molto tempo che è ospitato nella dispensa) ma è sempre ben accetto.

«Lo sa, signore», dice Arthur scuotendo la testa. «Uno di loro dorme ogni notte fuori dalla porta della luogotenente, come un cane! È quello con i capelli rossi, Karma ho sentito che lo chiamano, o un nome buffo del genere. L’ho visto stanotte, sdraiato sull’entrata con addosso una coperta e basta. A quanto pare fa sempre così, in qualunque posto lei decide di dormire; ai suoi piedi se sono accampati all’aperto, signore; ai suoi piedi, proprio come un cane!»

«Encomiabile», dico, finendo il latte. «E poi dicono che al giorno d’oggi non si trovano più servitori affidabili, eh?»

«Devo andare a prenderle dei vestiti puliti, signore?» chiede Arthur, che ha ripreso il suo solito tono professionale. «Ce ne sono ancora in lavanderia.»

«Dovrei prima lavarmi», gli dico mentre scelgo una fetta di pane; alcune sono quasi bianche, altre troppo tostate, ma bisognerà abituarsi a simili privazioni, immagino. «C’è acqua calda?»

«Farò in modo di sì, signore. Vuole fare un bagno nelle sue stanze?»

Mi strofino la faccia, ancora unta dopo la giornata di ieri e la notte. «Ne ho il permesso?» gli chiedo. «La nostra brava luogotenente considera scontata la mia pena?»

«Credo di sì, signore; prima di andarsene mi ha detto di portarle la colazione e di lasciarla uscire.» I suoi occhi si spalancano non appena si rende conto di quello che ho appena detto. «Punirla, signore? Punire lei? Che diritto ha di fare una cosa del genere?» Sembra indignato. È da quando ero bambino, e lo tormentavo, che non lo sentivo alzare la voce in quel modo. «Che… ma… che diritto…? E come ha fatto lei, in… in… in… casa sua, lasciare che quella donna…?»

«Ho lasciato cadere una sacca piena di cose che non si potevano mangiare», gli dico, nel tentativo di calmarlo. «Ma hai detto ‘prima di andarsene’. Dov’è andata?»

Arthur rimane seduto ancora per qualche secondo con una smorfia di disapprovazione, poi si scuote. «Io… Oh, non so, signore; se ne sono andati. Credo che qui ce ne siano ancora una mezza dozzina, mentre gli altri, quelli che si è portata dietro la luogotenente, sono usciti all’alba. Ne sono rimasti pochi. In cerca di materiale, quelli che se ne sono andati, cioè, ha detto uno, mi pare, ma mi potrei sbagliare, signore; il mio udito…» Arthur scuote la testa, e si porta vicino a un orecchio le dita secche e tremanti.

«E la signora? È fuori anche lei?» gli chiedo sorridendo.

«Fuori, con loro, signore», dice il vecchio domestico, con un’espressione preoccupata. «La luogotenente… si è portata dietro anche lei, come guida, a quanto pare.»

Uso il coltellino da frutta per la mela, e resto in silenzio per un po’. «Davvero?» dico alla fine, premendomi le labbra con un tovagliolo, pulito ma, ahimè, non stirato. «E hanno detto quando pensavano di tornare?»

«Gliel’ho chiesto, signore», dice Arthur scuotendo la testa. «La luogotenente ha detto solo ‘Per tempo’. È tutto quello che sono riuscito a tirarle fuori.»

«Già», borbotto. «E probabilmente non più di quello che si potrebbe metterle dentro.»

«Chiedo scusa, signore?»

«Niente, Arthur», gli dico, lasciando che mi versi una tazza di caffè. «Preparami il bagno, d’accordo? E se riuscissi a procurarmi dei vestiti…»

«Certo, signore.» Se ne va e mi lascia immerso nei miei pensieri.

Fuori, con te. Una guida; bella guida, non c’è che dire. Tu, che ti perderesti fra due stanze affiancate, tu, che scambieresti due siepi per un labirinto. Se la luogotenente non ha carte geografiche — o qualcuno dei suoi uomini un po’ di senso dell’orientamento — può darsi benissimo che non riveda più né te né loro. La luogotenente voleva scherzare, credo. Tu potresti essere una mascotte o un trofeo per compensarla delle inutili prede che ieri ho consegnato alle acque, ma non certo, ne sono convinto, una vera guida.

Ma ti ha portato via da me. Provo una sorta di gelosia, direi. Che strano sentimento, considerando tutto quello che abbiamo condiviso, o disseminato, si potrebbe anche dire. Potrei perfino aver voglia di assaporare questo aroma così poco familiare, o quanto meno sciacquarmene la bocca prima di sputarlo fuori, ma l’ho sempre considerata un’emozione ignobile, una confessione di debolezza morale.

Mi sento ridimensionato da lei, così vicina a te. Ho paura di considerare la mia stessa seduzione con il moralismo volgare e facile che ho sommamente disprezzato negli altri.

Mi alzo e mi dirigo verso le nostre stanze; i cuscini sono ammucchiati in una strana maniera sul tuo letto, e quando li sposto, trovo due fori di proiettile nella testiera. Risistemo i cuscini e passo in camera mia. Sento un odore di bruciato; forse vecchi crini di cavallo. Non riesco a trovare la possibile fonte di quell’odore, anche se forse il materasso mi sembra diverso, quando mi ci siedo sopra per togliermi le scarpe. Guardo all’insù; le nappe che formano la frangia del baldacchino sembrano scure e sporche di fuliggine proprio sopra il punto in cui sono seduto. Be’, si direbbe che non ci siano altri danni.

Arthur ha fatto portare agli altri domestici brocche e catini di acqua bollente, prodotta dall’onnivora stufa della cucina. Il camino della camera da letto viene riempito di legna, e mi accendono il fuoco. Faccio il bagno, da solo, finisco la mia toilette e poi mi vesto davanti al fuoco scoppiettante.

Dalla finestra, do un’occhiata agli altri nostri ospiti, fuggiti, scacciati dai campi e ammassati sul nostro prato con tende e animali; la semplice scelta del luogo dove accamparsi è una muta richiesta di protezione. C’era una cattedrale, in una città non molto distante, ma credo sia stata abbattuta a colpi di cannone qualche mese fa. Sarebbe stata un centro di attrazione più adatto, ma forse per coloro che si sono radunati qui il castello svolge la stessa funzione; la sua pietrosa esistenza nel corso degli anni è forse in sé un augurio di buona fortuna, un talismano che garantisce vita e pietà a chi gli sta vicino. Penso che sia un ottimo esempio di ciò che viene chiamato pio desiderio.

Procedo alla mia ispezione del castello. Tra gli uomini della luogotenente, si sono fermati qui quelli che hanno più bisogno di riposo: quelli che hanno subito ferite più gravi, e i due sotto shock bellico. Credo di dover parlare con qualcuno, e così provo a fare conversazione con un paio dei feriti, in quell’infermeria di fortuna che è diventato il nostro salone delle feste.

Uno è un uomo robusto, precocemente ingrigito, con una cicatrice che sembra vecchia di un anno, dentellata e non ancora guarita del tutto, sulla faccia; saltella su due grucce improvvisate, con una gamba ferita dalla mina che, una settimana fa, ha ucciso l’uomo che lo precedeva. L’altro è un giovane timido, con i capelli color sabbia, una carnagione pallida, una pelle bellissima. Ha un proiettile in una spalla, tutta fasciata e bendata; il suo petto è liscio e privo di peli. Sembra dolce, perfino seducente, anche per quest’aria di vulnerabilità ferita. Credo che, in altre circostanze, tutti e due avremmo potuto affezionarci a lui.

Faccio del mio meglio, ma in entrambi i casi c’è molta goffaggine, in me e in loro; l’uomo robusto è di volta in volta taciturno e garrulo — c’è in lui della rabbia, mi pare di capire, nei confronti di ciò che ai suoi occhi rappresento — mentre il ragazzo è semplicemente schivo e diffidente, e distoglie gli occhi ombreggiati da lunghe sopracciglia. Mi trovo più a mio agio con i domestici, nel condividere il loro tranquillo orrore e sincero divertimento davanti alla rozzezza dei soldati. Sembrano contenti del semplice fatto di essere di nuovo indaffarati, di essere tornati ai propri compiti: trovano sollievo nel servizio e nei doveri familiari. Osservo qualcosa sull’importanza di essere occupati che ottiene un’educata risposta di circostanza, più che un sincero apprezzamento.

Faccio una passeggiata nel prato. La gente dell’accampamento sembra taciturna come i soldati. Molti di loro sono malati; mi dicono che ieri è morto un bambino. Incontro la moglie del fattore del villaggio che alimenta un fuoco vicino a una tenda; abbiamo visto suo marito l’altro ieri sulla strada, quando la luogotenente ci ha intercettati. Vivono entrambi qui, adesso. Lui se n’è andato con gli uomini abili dell’accampamento in cerca di altro cibo, nella speranza di saccheggiare fattorie già depredate molte volte.

Sento di dover fare qualcosa di positivo, di dinamico; dovrei organizzare la mia fuga, cercare di corrompere i soldati ancora al castello, adoperarmi per suscitare la resistenza dei domestici o far sollevare la gente dell’accampamento… Ma credo di non avere il carattere richiesto da tali atti eroici. Le mie doti vanno in altre direzioni. Se per lottare e mantenere il comando bastassero pochi commenti acuminati, mi getterei subito nell’azione e ne uscirei vittorioso. In verità, vedo troppe opzioni e possibilità, deduzioni e controdeduzioni, obiezioni e alternative. Perso nel labirinto di specchi del potenziale tattico, vedo tutto e nulla, e perdo la strada fra i riflessi. Uomini d’acciaio scoprono che la propria anima è contaminata, la determinazione corrosa in presenza di un eccesso di ironia.

Mi ritiro nel castello, mi arrampico sulla merlatura, accanto alla torre — la stessa in cui sono stato imprigionato la notte scorsa — ed esamino il trio impiccato lassù. Ondeggiano nella brezza umida, con le uniformi che sbattono. I cappucci scuri che coprono le loro teste, me ne accorgo adesso, sono federe di seta nera su cui spesso abbiamo posato il capo. Il tessuto bagnato aderisce ai loro tratti, trasformando i volti in sculture d’ebano. Due di loro, con le mani legate dietro la schiena, hanno il mento puntato sul petto, come se guardassero incupiti il fossato. La testa del terzo uomo è gettata all’indietro, e le sue mani stringono la corda all’altezza del collo, con le dita premute fra la corda e la pelle illividita; una gamba è tirata all’insù verso il dorso, la schiena è inarcata e l’intero corpo è immobilizzato nell’ultima, disperata tensione dell’agonia. Dietro la seta nera, i suoi occhi sembrano aperti, fissi sul cielo, accusatori.

Sembra tutto così ingiusto: il loro delitto è stato quello di saccheggiare brevemente un edificio abbandonato dai suoi proprietari, senza immaginarsi di incorrere nella furia vendicatrice della luogotenente. Lei sostiene che è una questione di principio, che lo scopo è quello di dare l’esempio, che la spietatezza iniziale ha il fine di rendere possibile un regime più moderato.

Sopra di loro, sul pennone, la vecchia pelle della tigre artica si increspa nel vento. Le due zampe posteriori sono state crudelmente legate alla corda, e la pelle logora sembra assottigliarsi in alcuni punti, è intrisa della pioggia che ci ha visitato negli ultimi giorni e che ancora flagella in lontananza la pianura, e comunque è troppo pesante per l’uso a cui gli uomini della luogotenente hanno voluto assoggettarla. Una brezza più sostenuta la solleverebbe a fatica, un vento deciso la farebbe sbattere e veleggiare, ma basterebbe qualcosa di più potente — una raffica come si deve — e ho il sospetto che abbatterebbe anche il pennone.

È una fine ignominiosa per questo antico cimelio di famiglia, ma come avrebbe altrimenti finito i suoi giorni? Gettata in un letamaio, bruciata in un falò? Forse questa è una morte più appropriata.

Si torce nella brezza, e lascia cadere qualche goccia della pioggia che l’ha intrisa sui corpi appesi sotto di lei.

Il freddo ha fatto sì che i trofei della luogotenente non abbiano ancora cominciato a puzzare. Li lascio insieme alla bandiera di pelliccia alla loro fissa contemplazione di tutte le cose pendule e incombenti e cammino sulla compatta sommità del castello.

Da queste valorose merlature, in compagnia di un falcone scelto con cura, un tempo lasciavo volare liberamente il mio spirito. Appollaiato su questa gruccia di pietra, io, come le prede che i rapaci afferravano, venivo artigliato da loro e per mezzo di quei lucenti carnivori, rapidi artigiani della morte, sentivo di condividere la loro feroce e alata destrezza e vedevo, nel vertiginoso istante di mortalità al termine della picchiata, una sorta di effimera persistenza. Ecco le antiche regole, scritte nel cielo con scura determinazione, in linee curve di volo planato, negli scarti terrorizzati e nelle picchiate, nei disperati allunghi, tuffi, scatti del bersaglio, a cui rispondono all’istante gli strappi e le virate del falco che insegue, sempre più vicino. Ecco la violenta, improvvisa congiunzione — talvolta, se erano abbastanza vicini, si sentiva il colpo sordo degli artigli che affondano nella carne — la nuvoletta di piume sospesa nell’aria, poi la lunga caduta a spirale, mentre le ali del predatore cercano di riacquistare portanza, mentre la preda, che si dimena appena o è ormai abbandonata, sbatte anch’essa le ali, e l’insieme, questa binaria creatura alata — una morta o moribonda, l’altra più viva che mai, quasi trasfusa dall’altrui vita — quei gemelli uniti dalla morte, nella presa di tendini e artigli, roteano attorno all’asse comune precipitando insieme, con le piume gocciolanti, e mentre la preda esala gli ultimi lamenti, cadono finalmente al suolo, sul prato, nel bosco.

I cani erano addestrati a spaventare i falchi, poi con la preda ancora calda tornavano correndo al castello, attraversavano il ponte di pietra e il cortile interno, salivano per la scala a chiocciola, sbucavano sulla merlatura, lasciando sui gradini una traccia di sangue e piume.

Con questi cacciatori vicari pensavo di partecipare alla lotta, impietosamente elegante, fra morte e vita, evoluzione e selezione, predatore e preda. Credevo di contrastare, per mezzo loro, il duro assedio dell’aria e la lenta corrosione del tempo e la faticosa avanzata dell’età, andando incontro a tutto ciò non col metodo della nuvola — cedendo, rinunciando — ma fendendo l’aria: una fissità di visione e di presa che mi avrebbe consentito — per delega ma non per questo sminuito — di resistere, connesso alla natura e da essa definito.

I cani sono morti l’anno scorso; una malattia quando non c’erano più veterinari in giro. Generazioni di devozione e di meticoloso allevamento sono sparite con loro.

Ho liberato quei maledetti uccelli quando abbiamo deciso di lasciare il castello, perché fuggissero quel destino che invece ha colto noi, e dove volteggino adesso, cosa vedano e catturino, non lo posso sapere.

Il vento mi avvolge, il vento mi viene incontro dalla pianura sferzata. Sottili schegge di sole premono sotto le nuvole e, riflettendosi, sembra che si impadroniscano delle cose invece di illuminarle, confondono il paesaggio come una mimetizzazione, per via dello stridente contrasto, chiaro su scuro, spezzano le poche forme sopravvissute e i segni della civiltà umana ancora evidenti — in una luce migliore (come quella che fornisce la memoria) — all’interno del caos assoluto che domina il paesaggio a perdita d’occhio.

Nei campi, sulle colline sporgenti e nelle macchie d’alberi, gli stagnanti tratti di fiume brillano di una grazia gialla e contaminata: sono vivi allo sguardo solo da questa prospettiva. Gli alberi, colorati fino a poco fa per il freddo cambio di stagione, adesso sono sagome nere e spoglie, rami nudi pronti ad accogliere il peso della neve e la forza delle tempeste invernali. Più in alto, le foreste scintillano al passaggio delle nubi che scorrono sopra di loro, restando impigliate nelle cime degli alberi con la loro lenta grazia.

Ascolto i colpi dell’artiglieria, ma il vento, più freddo, ha cambiato direzione, e trattiene gli spari. Quel tuono lontano e artificiale è diventato quasi un compagno rassicurante nel corso delle ultime settimane. È come se fossimo ricaduti in un sistema di credenze più primitivo, come se nell’agitazione delle nostre storie di sopravvissuti avessimo risvegliato un antico dio: un dio delle tempeste, che percorre la terra con martelli al posto dei piedi e una testa a forma d’incudine, una creatura amorfa, adirata e onnipresente, mentre il tuono, simile al rumore di teschi frantumati, si schianta sulle nostre terre oscurate e l’aria trasporta l’alito del lampo sulla terra.

Quella divinità risvegliata sta marciando su di noi, adesso, verso le porte del castello. Il rumore è quello dei borborigmi della terra, di un vecchio pugno che si abbatte su assi vuote in un paradiso abbandonato sopra di noi, e anche se il vento ha formato un fronte contro quell’esplosione, e il movimento dell’aria ha disperso quel rumore, sappiamo che è sempre lì; ciò che il vento nasconde, il vento insiste a rivelare, fornendoci il ricordo di quel suono.

L’aria e le rocce, e anche i mari, dimenticano più rapidamente di noi.

Un grido sulle montagne si spegne in pochi secondi, la terra stessa risuona come una campana quando i suoi continenti che scivolano e si scontrano hanno uno spasmo, ma anche quel segnale svanisce nel giro di qualche giorno, e nonostante le gigantesche onde di una tempesta o di un maremoto possano girare attorno al globo per settimane e mesi, quella modesta massa di materia, quel fiore attaccato a uno stelo che chiamiamo cervello supera di gran lunga questi ricordi brutalmente meccanici, e ciò che echeggia in un cranio umano può risuonare di gioia, paura e rimpianto per un’intera vita, e decadere lentamente solo dopo qualche decennio.

Stringo gli occhi per vedere attraverso la barriera della luce: in lontananza credo di distinguere alcune forme in movimento, sagome rese più magre, più allungate dalla riverberante luminosità dell’acqua. Non ho più binocolo né cannocchiali — sono stati tutti requisiti — ma sarebbe peggio che inutile fissare questa luce, dolorosa anche a occhio nudo. Sono profughi quelli che vedo, impliciti nel luccichio delle ombre contro la luce? Potrebbero essere anche soldati, immagino; potresti essere anche tu, mia cara, che guidi la nostra luogotenente e i suoi uomini in un’involontaria impresa disperata. Ma credo di no. Fino a qualche mese fa, avrebbe potuto essere anche una mandria di buoi, ma ormai quasi tutte le bestie dei dintorni sono state abbattute e mangiate, e le poche che restano vengono sorvegliate con tutte le cure e non hanno più il permesso di vagabondare.

Profughi, allora; un’eco anticipata del fronte che si avvicina, l’immagine stessa del profondo avvallamento prima che si abbatta l’onda gigantesca, un sospiro trattenuto prima dell’urlo; un flusso di cellule morte in un’arteria, una ventata di foglie secche prima dell’arrivo della tempesta. Alberi spogli e spezzati sono allineati sul loro sentiero, con i monconi scheggiati, il pallido cuore dell’albero messo a nudo; tagliati, abbattuti per il fuoco degli accampamenti o dai colpi dell’artiglieria. Sono ancora lì, cresciuti ma spezzati, a imitazione di coloro che li hanno nervosamente mutilati.

La luce cambia, e i lampeggi corruschi si spengono. Il fiume, gli affluenti, i canali di scolo, le anse, gli stagni e i campi allagati si oscurano a mano a mano che le nuvole coprono la loro diretta fonte di luce. Adesso vedo fili sottili di fumo levarsi nella pianura, dove sorgevano villaggi, case, fattorie, abitazioni costruite e cresciute sulla terra, che la includevano con tutti i suoi distinti prodotti e che adesso si combinano con l’aria infruttuosa.

Cerco di vedere te, mia cara, la nostra luogotenente e i suoi uomini, ma tutto è perduto nella superficie spezzata della vista, tutto è sprofondato nella sua afflitta complessità, e la terra, solidificandosi, ha assorbito anche te.

E così cammino su queste pietre, percorro questo cammino sopraelevato, mi strofino le mani e osservo il vapore che mi esce dalla bocca come se fosse un avviso che si materializza davanti a me, e posso solo aspettare.

Ho freddo; sputo catarro verso il fossato, poi sorrido a quei cerchi che si dipartono nell’acqua. E lì sotto, come foglie sparse nel vento d’autunno — di nuovo come cellule eliminate, e come gli sfollati che si ammucchiano sulle nostre strade -, dopo aver seguito la corrente, dopo un lungo viaggio, sono arrivati i fringuelli, gli uccelli che abbiamo ucciso e che io avevo perduto, tutti morti e bagnati, sudici, freddi, che girano nell’anello d’acqua che circonda il castello. I nostri poveri pennuti morti, venuti finalmente a casa, per farsi arrostire.