37514.fb2 Canto di pietra - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 8

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SETTE

La notte avvolge il castello, e io torno a dormire. I miei sogni, carissima, prendono la stessa direzione dei miei ultimi pensieri coscienti, e si volgono a te, non ancora tornata. Simili fantasticherie sollecitano i vecchi ricordi lascivi della mia mente — evocati, tornati a galla dalle sue profondità ad opera dei crescenti piaceri che richiamano.

Ti cerco nei miei sogni, mentre barcollo in un paesaggio di desideri in cui le nuvole e i mucchi di neve diventano cuscini, una guancia accarezzata, un seno pallido e pesante. Mentre sprofondo in crepacci bordati di felci, mentre cedo alla palude che mi afferra e al suo profumo dolcemente amaro, vedo alberi che crescono, tumescenti, da contorte vene di radici; rocce levigate che si fendono in gole vertiginose; steli che pulsano di linfa e di vita; frutti lanuginosi, caduti e spaccati; crepe aperte nella terra, circondate da creste e corone di roccia; mi rendo conto che ogni tratto del paesaggio nasconde qualcosa che bramo. In adorazione prima e poi infuocato dal desiderio, mi scopro smarrito, come se fossi già stato infettato dalla tua natura.

Vorrei possedere questa terra; voglio prenderla, farla mia, ma non posso. L’acqua rimane acqua, niente di più, gli alberi torreggianti sono solo alberi, i frutti marciscono e le pietre, curve e levigate, sembrano promettere qualcosa, se solo potessero essere sollevate e spostate… Ma non verranno smosse.

L’unica cosa da fare è rivoltarsi in questo letto troppo grande; prima, in simili circostanze, sarei salito al piano di sopra in cerca di una cameriera compiacente con la quale trascorrere la notte, ma in questi giorni sono rimasti solo uomini alle nostre dipendenze; non c’è nulla che mi possa eccitare nel personale.

Alla deriva nella zattera del letto, mi abbandono ai sogni come una nave senza meta, guidata dalle onde lunghe o dai venti. Il tuo corpo è un lontano ricordo, come la vista nebbiosa di un’isola.

Poi, per uno strano capovolgimento, l’immagine crea la realtà. La nostra coraggiosa luogotenente è tornata, e ti ha mandato da me, a strisciare in silenzio nel mio letto e infilarti fra le lenzuola. Mi volto nel sonno e mi scopro perfettamente sveglio. Tu ti inginocchi, poi ti sdrai, sempre in silenzio. Ti stringo, mia cara. Fissi, ancora per metà vestita, lo scuro baldacchino sopra il letto. La luce — duplice, gettata dal fuoco che sta morendo nel camino e dalla luna che splende in una finestra — mette in mostra le tue guance arrossate. La tua pelle ha il profumo inebriante dell’aria aperta, e i tuoi capelli lunghi, neri, sciolti sono ingioiellati di fuscelli e foglie strappate.

I tuoi occhi hanno lo sguardo ferito e distratto della prima volta che ci siamo uniti. Guardandoli di lato, mi sembra di leggere in essi più di quanto vi abbia mai visto finora. Talvolta solo la vista laterale dice la verità; il nostro io, i volti che costruiamo per il mondo, per rendere più agevole il nostro passaggio, sono troppo abituati all’assalto frontale, e credo di vedere adesso in te più verità di quanta sia mai riuscito a cogliere fissandoti negli occhi. Avrei dovuto saperlo: cosa ci hanno insegnato i nostri gusti comuni se non che c’è più interesse quando le cose vengono osservate — e prese — di lato?

«Stai bene?» ti chiedo.

Resti in attesa, poi fai cenno di sì.

Gli uomini della luogotenente fanno rumore in cortile; i motori scoppiettano nel silenzio, cadono fucili, vibrano le luci dietro le tende tirate, echeggiano grida fra le mura del castello come voci delle pietre, e il castello, più di noi, sembra respirarci intorno.

Insisto. «Come è andata la giornata?»

Un’altra esitazione. «Abbastanza bene.»

«C’è qualcosa che vorresti dirmi?»

Pieghi appena la testa e mi guardi. «Cosa vuoi sapere?»

«Dove siete stati. Cosa è successo.»

«Sono stata con Lu» mi dici, con la testa voltata. Cerco di alzare una mano verso di te, ma sono rimasto impigliato fra le coperte aggrovigliate. Devo scivolare per tutto il letto, sbuffando, per liberarmi dal nodo. «Abbiamo attraversato le colline», continui. Adesso ho liberato la mano, ma non riesco ad accumulare abbastanza furia per colpirti. Potrei averti attribuito troppo spirito, in ogni caso. «Sono stata con Lu.» Forse non voleva dire nient’altro che quello che suggerisce l’interpretazione più innocente. In più, mi torna in mente, ho deciso di non essere geloso. Passo la mano ormai libera fra i miei capelli, poi fra i tuoi. Libero fuscelli che cadono sul cuscino.

«È successo qualcosa?» ti chiedo.

«Hanno trovato una capra, legata a un palo in una fattoria. In un’altra c’era una cisterna di gasolio che hanno cercato di svuotare ma non ci sono riusciti. Hanno bucato la cisterna per riempire alcuni bidoni ma hanno scoperto che conteneva solo acqua. C’era un posto che hanno detto doveva essere un orfanotrofio, a ovest. Io non ne avevo mai sentito parlare. I bambini erano stati tutti crocifissi.»

«Crocifissi?» chiedo corrugando la fronte.

«Ai pali del telegrafo. Sulla strada. Venti, anche di più, tutti lungo la strada. Ho perso il conto. Stavo piangendo.»

«Chi può aver fatto una cosa del genere?»

«Hanno detto che non lo sapevano.» Ti volti verso di me. «Subito dopo, hanno incontrato un uomo e gli hanno sparato. Tutti insieme, tutti nello stesso momento. Si stava allontanando e aveva delle scatolette che secondo loro aveva rubato all’orfanotrofio. Lui aveva detto di non aver visto i bambini, ma si capiva benissimo che mentiva.»

«E dopo?»

«Hanno trovato una cava sulle colline, con un deposito di dinamite, ma era vuoto.»

«E poi?»

«Hanno parlato con la gente che c’era sulla strada: profughi. Li hanno minacciati ma non hanno fatto loro del male; hanno detto una cosa che i soldati volevano sapere. Siamo saliti sulle colline, su un camion. Credo che siamo passati dalla casa degli Anders. Alcuni soldati sono andati avanti, sui cavalli che hanno preso in una fattoria vicina, e gli altri hanno continuato a piedi. Io sono rimasta alle jeep con due di loro. Sono tornati tutti dopo un po’ senza aver trovato niente. Ormai era buio. Troppo buio.»

«E dopo?»

«Siamo tornati indietro. Oh, abbiamo attraversato un ponte sul fiume, e c’erano barche con molta gente morta dentro; uno dei loro esploratori le aveva viste già ieri. Hanno tirato in secco le barche e le hanno nascoste, nel caso che ne abbiano bisogno in seguito. I morti li hanno lasciati galleggiare nel fiume. Questo mentre tornavamo a casa.»

«Una giornata piena di avvenimenti.»

Fai cenno di sì. Il fuoco getta ombre tremolanti sul soffitto stuccato e sulle scure pareti ricoperte di legno.

«Una giornata piena di avvenimenti», sussurri.

Non dico niente per un po’. «È andato tutto bene, per te?» ti chiedo alla fine. «La luogotenente ti ha trattata bene?»

Resti a lungo in silenzio. Le ombre del fuoco continuano la loro danza. Poi dici: «Con tutta la deferenza e la stima che sono arrivata ad aspettarmi da lei».

Non so cosa dire. Perciò non dico niente. Osservo invece la nostra situazione. Tu resti sdraiata, immobile, e io ti guardo, e rimaniamo così — in osservazione, immobili — come se quell’istante fosse senza tempo.

Ma non siamo mai così; i miei pensieri contraddicono la loro stessa genesi. Già il tempo non è senza tempo, figuriamoci noi. Siamo vittime volontarie della nostra rapidità e, mentre il comportamento più elegante sarebbe stato quello di voltarmi e ignorarti, non ho fatto così. Invece ho steso una mano, ho fatto uno sforzo, e per un istante ho deciso di non decidere più e poi, guidato nell’azione da un livello di pensiero più rozzo e più semplice, ho afferrato il bordo delle coperte e le ho stese sopra di te.

Ho sognato l’estate, nel mio nuovo sonno, ho sognato il periodo, molti anni fa, in cui la nostra relazione era nuova e fresca e ancora segreta, o così pensavamo, e tu e io facemmo un picnic, guidando i cavalli verso un lontano prato in mezzo alle colline boscose.

Queste energiche galoppate ti eccitavano sempre, e così proseguimmo, con te di fronte a me, con le gambe a cavalcioni, impalata, con la gonna che copriva la nostra unione, mentre quel vigoroso cavallo, rassegnato, girava in tondo nell’arena nascosta e illuminata dal sole, nella radura coperta di fiori e rumorosa di insetti, e la muscolosa e scattante vigoria dell’animale ci condusse alla fine, nonostante la nostra relativa immobilità (ipnotizzati, dimentichi, perduti in quell’istante prolungato di luce screziata e aria ronzante, dopo aver ceduto ogni controllo ai movimenti pulsanti dell’animale), alla dolce reciprocità della beatitudine.

Benché io abbia sempre preferito l’ingiustizia poetica alla probità prosaica, sarebbe stato un peccato, credo, se ciò che ci ha svegliato la mattina ci avesse all’istante fatto riaddormentare, così da farci giacere per sempre, in un modo o nell’altro.

Il tuo sonno è sempre stato più profondo: ho visto spesso il tuo lento risveglio richiedere più del canto di un gallo. Oggi però la sveglia la suona qualcosa capace di volare che, per fortuna, non trova la sua voce.

Un frastuono improvviso e invadente percorre il tetto del castello, i piani, le mura e la nostra camera e scuote ogni cosa con violenza. Fa vibrare le pietre del castello come bandiere sfilacciate e libera la polvere e noi, che in un tumulto mulinante ci troviamo in mezzo alla sua nuvola, persi nella confusione delle particelle turbinanti.

Una granata, un unico colpo fortunato che ha colto il castello e l’ha colpito in pieno, percorrendolo dall’alto in basso, lasciando una scia violenta di polvere di pietra, legno scheggiato e panico. Ma senza climax: si ferma tra il pianterreno e gli scantinati, inesplosa.

Devo rassicurarti mentre singhiozzi, e mi riduco, a causa di quest’intrusione inaspettata, a batterti dolcemente sulla schiena e a mormorare frasi vuote e scontate. Osservo la foschia secca di polvere soffocante che il passaggio della granata ha diffuso su di noi, mentre una doccia arida di detriti picchietta dal buco nel soffitto sul pavimento, poi mi allontano calmo e sorridente da te e con un fazzoletto premuto sul naso, diradando con la mano la nuvola bianca, vado a ispezionare l’angolo distrutto della mia stanza. C’è un buco in alto, e tra la polvere si intravede la luce del giorno. La parte superiore della parete è stata distrutta per un largo semicerchio, come se fosse stata morsicata da un gigante, e consente la vista di uno spazio buio della camera accanto. Dovrebbe essere un vecchio ripostiglio, pieno di mobili fino al soffitto, se non ricordo male. Al di là c’è la grande suite per gli ospiti, che la luogotenente ha chiesto per sé.

Mi arrampico sul fianco di un elegante armadio — risparmiato per un palmo dal passaggio della granata — e mi chino nelle ombre del lato opposto del muro. Mentre mi allungo in avanti e tendo le mani, oltre il legno infranto e annerito dagli anni, distinguo uno strano odore chimico: un odore dell’infanzia che associo ai vestiti, alle feste, ai nascondigli. Vedo luccicare qualcosa di metallico e allungo la mano. Naftalina: è odore di naftalina, mi viene in mente all’improvviso.

La mia mano si chiude attorno a una gruccia. La levo dalla sbarra nel guardaroba bucherellato che sta nella stanza buia, poi la getto all’indietro e scendo dall’armadio. Ai miei piedi, un altro buco conduce, attraverso il mosaico di legno, travi e gesso del pavimento, nella sala da pranzo piena di polvere. Dal buco vengono grida, e il suono di piedi che corrono.

Raggiungo le finestre e le apro sulla luce del giorno, chiudendomi le tende alle spalle. Fuori regna una curiosa pace: un altro giorno come tanti, con la nebbia e un sole basso e acquoso. Nei boschi cantano gli uccelli. «Cosa stai facendo?» mugoli dal letto. «Ho freddo!»

Mi sporgo a guardare il cielo — sto ancora pensando che potremmo essere stati colpiti da una bomba più che da una granata — e poi verso le colline e la pianura. «Credo che sia più sicuro lasciare le finestre aperte, nel caso che veniamo bombardati», ti spiego. «Se vuoi, forse la cosa migliore sarebbe mettersi sotto il letto.» Cerco i miei vestiti, ma li avevo lasciati su una sedia che stava esattamente nel punto da cui è passato il nostro piccolo ospite. Sul pavimento, accanto al buco, vedo qualche pezzetto carbonizzato della sedia e un paio di bottoni della mia giacca. Mi avvolgo in un lenzuolo bianco, vuoto le scarpe dalla polvere e me le infilo, poi mi vedo allo specchio e mi libero con un calcio delle scarpe. Scendo incontro agli altri, immaginando di seguire il percorso della granata attraverso il castello.

Nel salone al piano di sotto gli uomini della luogotenente corrono e gridano, afferrando un’arma o le mutande. A un sibilo smorzato oltre le mura tutti ci pieghiamo o ci gettiamo a terra. Segue una specie di tonfo equivoco, qualcosa che né le orecchie né i piedi vogliono assumersi la piena responsabilità di percepire, una conclusione a cui sarebbe potuto giungere il cervello da solo. Ci alziamo, e io continuo ad avanzare.

Nella sala da pranzo, le cui generose profondità sono dilatate dalla polvere che la riempie, due soldati agitano le braccia sopra un buco sul pavimento che deve condurre in cucina o in cantina. Sopra, il tetto bucherellato lascia cadere una pioggia granulosa. Da uno squarcio nel soffitto pende un pezzo di tubo, ondeggiando; acqua bollente zampilla come da un geyser, inondando il tavolo e il tappeto centrale, mentre il vapore contende il primato al peso della polvere che cade a spirale. Le tende, travolte da un pezzo del fregio del soffitto, sono stese sul pavimento, lasciando così entrare la luce che si riflette sui granelli di polvere e sul vapore. Mi immobilizzo per un istante, costretto ad ammirare questo fantastico scompiglio.

Mentre mi avvicino ai due soldati e al buco, un rumore lacerante, frammisto a un urlo disumano e morente, squarcia il cielo sopra di noi; i due irregolari si gettano a terra, e dopo il tonfo si solleva altra polvere. Io resto in piedi a guardarli. Questa volta c’è un’esplosione: il suono deflagra in lontananza, fa tremare le assi sotto i piedi e scuote i vetri come le raffiche di una tormenta. Corro alla finestra mentre gli uomini della luogotenente si rimettono in piedi. Guardo fuori ma non riesco a vedere niente: solo il solito cielo calmo.

Do un’occhiata nel buco accanto al quale sono adesso inginocchiati i soldati, poi mi dirigo verso il corridoio, in punta di piedi, attraverso una pozza di acqua calda.

«Già un fantasma?» dice la voce della luogotenente. Mi volto ed eccola lì, spettinata, con gli stivali che rimbombano sulle scale mentre scende i gradini due a due, si infila la giacca, spinge i lembi di una pesante camicia verde dentro i pantaloni della mimetica, si assicura la fondina con la pistola. Ha un’aria stanca, come se si fosse appena risvegliata dalle profondità del sonno, eppure sembra ancora più esperta e padrona delle circostanze, come se tutto questo caos non sia servito ad altro che a far bollire l’acqua in eccesso nel suo spirito, lasciandola ancora più concentrata.

«Mister Taglio!» grida, guardando oltre me, al suo vice appena comparso all’altra estremità del salone. «Fissato è di guardia? Manda su anche Morte e Poppy; vedi un po’ se riescono a capire da dove viene questa roba. Digli di stare giù con la testa e di controllare anche il parco, nel caso sia fuoco di copertura. E chiama Fantasma alla radio; cerca di sapere se riesce a vedere qualcosa dalla portineria.» Sporge la testa attraverso la porta per guardare nella sala da pranzo. «Doppel!» chiama. «Sistema quella perdita; prendi uno dei domestici e fatti dire dove sono i rubinetti generali.» Si fa vento davanti alla faccia per allontanare la polvere, poi starnutisce, e per un brevissimo istante sembra una ragazzina, una figura insieme dura e delicata in questa nebbia caotica, scossa dalla forza del castello.

«Oh, signore!» Rolans, uno dei più giovani tra i nostri domestici, un ragazzo pallido, goffo, grassoccio, viene di corsa da me, dimenandosi per infilarsi la giacca. «Signore, cosa…?»

«Tu andrai benissimo», dice la luogotenente, prendendo il ragazzo per il polso. Lo spinge verso il soldato che sta uscendo dalla sala da pranzo. «Ecco qui, Doppel; avanti con i lavori idraulici.»

Il soldato chiamato Doppel grugnisce. Rolans mi guarda; io gli faccio cenno di sì. I due si allontanano lungo il corridoio, e le loro facce imbiancate spiccano come distintivi nell’oscurità mattutina. Il fumo disseccato che è la polvere della pietra e del gesso si leva attorno a loro, e contamina tutti noi — mentre ci muoviamo e respiriamo all’interno di questa onnipresente superficie — con l’infezione che si spande dal castello assalito, e ci trasforma tutti in quasi-fantasmi, e rende me, con la mia bianca uniforme, maliziosamente archetipico.

La luogotenente si volta verso un uomo che ci zoppica accanto indossando un elmetto d’acciaio e stringendo un fucile. Gli mette un braccio attorno al petto e lo ferma con delicatezza. L’uomo ha un’aria spaventata: il sudore gli ricopre la faccia, tranne che su una lunga cicatrice frastagliata. È il più anziano dei soldati con cui ho parlato ieri. «Vittima», dice con gentilezza la luogotenente (e devo ammettere che almeno lui ha ricevuto un nome appropriato). «Sta’ tranquillo, adesso. Porta i feriti nelle cantine, nella parte orientale del castello, va bene?»

L’uomo inghiotte, annuisce, e zoppica via velocemente.

Lo seguo con lo sguardo. «Non sono sicuro che sia il posto più sicuro», dico alla luogotenente. «Credo che la prima granata sia finita proprio in una cantina.»

«Andiamo a dare un’occhiata, d’accordo?»

«È sicuro?» chiedo mentre la luogotenente fa scattare l’accendino nell’oscurità.

Mi guarda, e il suo viso è illuminato dalla fiammella gialla e tremolante. La bocca si storce appena. «Sì», dice semplicemente. Siamo nelle cantine, acquattati in cima al deposito di carbone, vuoto, e fissiamo un mucchio di detriti caduti dal soffitto e atterrati sopra un cumulo di legna. Quella specie di toga che ho addosso rende scomoda e goffa la mia posizione e devo avere i piedi luridi.

La luogotenente estrae il portasigarette d’argento dal giubbotto, si sceglie una sigaretta e la accende. Credo di essere invitato a un’esibizione di coraggio. Lei aspira languidamente ed emette il fumo.

«Volevo dire», sento la mia voce che parla, «che siamo in un deposito di combustibile.» La mia voce suona così debole. Spero che alla fiamma dell’accendino non si noti il mio imbarazzo.

La luogotenente ha un’aria scettica e dà un’occhiata alla cantina buia. «C’è qualcosa di esplosivo qui dentro?»

«Solo quella, immagino.» Indico il mucchio di detriti in cui crediamo che sia finita la corsa della granata.

«Improbabile», dice lei, dando un altro tiro alla sigaretta. «Tenga questo», mi dice. Mi passa l’accendino. La luce è fioca. È strano, sono così tante le cose di cui si sente la mancanza. Sto cercando di ricordare l’ultima volta che ho visto una torcia elettrica. La luogotenente si piega in avanti, con la sigaretta incastrata in un angolo della bocca, e gratta via con cura un po’ dei detriti, mandando piccole cascate di polvere biancastra sul pavimento del deposito del carbone. Quindi seguono alcuni cocci, poi lei si mette a tirare e spingere, grugnendo, un pezzo più riluttante. C’è uno schiocco allarmante e un po’ di pietra polverosa e di legno spezzato crolla dalle scaffalature del vino, trascinando qualche ceppo.

«Avvicini la luce», mi dice. Eseguo. «Ah», dice, sostenendosi al soffitto mentre si cala in avanti per afferrare e spingere qualcosa. «Eccola qui.» Abbasso gli occhi e vedo il lato gonfio di una lucente custodia di metallo. Lei rimuove con la mano la polvere che copre l’oggetto e la tiene con delicatezza, come una madre con la testa del figlioletto. «Due e dieci», sospira. Un tremito scuote la cantina attorno a noi, e attraverso il buco che dà sulla sala da pranzo giunge il rumore di un’esplosione lontana. La luogotenente torna a sedersi e batte le mani per liberarle dalla polvere, senza badare all’esplosione, si direbbe. «Meglio tentare di estrarla dal pianterreno.»

La luogotenente osserva i due uomini che frugano la tomba momentanea della granata, inginocchiati sul pavimento scheggiato della sala da pranzo; si allungano per liberarla dai frammenti di pietra e di legno. Il flusso del tubo spezzato, sospeso sopra il tavolo, è stato ridotto a uno sgocciolio; l’acqua si è raccolta vicino al muro esterno, formando una pozzanghera allungata e fumante. Di sopra, uno dei domestici sta cercando di riparare il vuoto che si è aperto nel pavimento della mia stanza, coprendo il buco con legna e un vecchio materasso; i suoi sforzi producono altre nubi di polvere. Ogni tanto dal buco cadono pezzi di gesso, e colpiscono il pavimento attorno a noi come piccole bombe polverose.

Un rumore alle nostre spalle è il soldato con i capelli rossi, che avanza con comica circospezione sulla pellicola di polvere che ricopre il pavimento e regge qualcosa di lungo e scuro. Si avvicina alla luogotenente, fa una sorta di mezzo inchino e mormora poche parole, porgendole l’indumento. È una cappa lunga e nera, da sera all’opera, foderata di rosso. Credo che fosse di mio padre. La luogotenente sorride al soldato, fa un passo indietro, lo ringrazia. Guarda me con uno sguardo di divertita tolleranza, poi la indossa, aprendola e facendosela ricadere sulle spalle come un’ombra.

Un’altra bomba di gesso piomba dal soffitto, schiantandosi sul pavimento accanto ai due uomini che stanno ripulendo la granata e facendoli sussultare. Si danno un’occhiata intorno e poi continuano. La luogotenente manda uno sguardo di fuoco all’insù, agitando una mano davanti alla faccia.

«Quanta polvere», dice.

Anch’io alzo gli occhi. «Davvero. D’altronde questo castello ha avuto quattro secoli di tempo per asciugarsi.»

Lei si limita a grugnire, poi batte le mani, sollevando altra polvere, ed esce turbinando in una tempesta di minuscole particelle, sbattendo la cappa, e le sue impronte sul lurido pavimento sembrano quelle di un animale sulla neve.

Sempre avvolto nel mio lenzuolo mi ritrovo sulla merlatura insieme alla luogotenente e ai suoi uomini, sforzandomi di non tremare di freddo. Lei abbassa il binocolo. «Nessun segno», dice. Le sue dita tozze tamburellano sulla pietra e gli occhi si stringono mentre guarda in lontananza.

Il fuoco d’artiglieria si è interrotto e sembra aver lasciato la mattinata stesa ad asciugarsi, con la rugiada che pende dalle creste levigate e dagli aghi degli abeti come un velo pudico di cui la terra si è ricoperta dopo l’assalto violento di quel lontano cannone. Da una decina di minuti non sono piovute altre granate. L’ultima è stata la più vicina — a parte la prima che ha perforato il castello — ed è atterrata sul bosco in collina a un centinaio di metri da qui. Un debole sbuffo di fumo si leva dal punto in cui è caduta, anche se non sembra ci siano altri danni alla foresta. Gli uomini che la luogotenente aveva spedito sul tetto non sono stati capaci di capire da dove venivano le granate. Si mettono a discutere, tentando di mettersi d’accordo almeno sul numero dei colpi sparati. Stabiliscono che sono stati sei, dei quali almeno due inesplosi. Parlano un po’ di chi potrebbe averci sparato, e della loro posizione. La luogotenente manda due uomini di sotto e si appoggia al parapetto, fissando le colline.

«Sa chi ci ha sparato?» le chiedo. I miei piedi sono ormai intirizziti, ma voglio scoprire tutto quello che posso.

Lei fa cenno di sì, senza guardarmi. «Vecchi amici.» Si prende un’altra sigaretta e l’accende. «Una o due settimane fa abbiamo cercato di prendere quel cannone, ma adesso l’hanno portato sulle colline.» Aspira il fumo della sigaretta.

«E a quanto pare siamo finiti sotto il loro tiro», dico sorridendo.

Mi guarda impassibile. «Credo che anche ieri li abbiamo quasi trovati», dice scrollando le spalle. «Pensavo che se ne fossero andati. A quanto pare, le cose non stanno così. Devono sapere dove siamo. Cercano di costringerci ad abbandonare questo posto.»

Lascio che il silenzio duri altre due boccate di fumo, poi le chiedo: «Cosa farete?»

Un altro tiro. Lascia cadere un po’ di cenere nel fossato ed esamina con attenzione la punta fumante della sigaretta. C’è qualcosa, nel modo in cui lo fa, che mi agghiaccia, come se la nostra luogotenente fosse abituata a controllare che quell’incandescenza abbia la temperatura adatta per bruciare le carni dell’uomo che deve essere interrogato. «Penso», dice con aria contemplativa, «che potrebbe essere necessario andare a prenderci quel cannone.»

«Ah. Capisco.»

«Quel cannone ci serve: o distrutto, o per poterlo usare noi. Dobbiamo prendergli quell’arnese o andarcene di qui.» Si volta verso di me con quel suo sorriso sottile. «E io non voglio andarmene.» Distoglie di nuovo lo sguardo. «Abbiamo una vaga idea di dove potrebbero essere; sto per mandare qualcuno dei miei in ricognizione.» Si appoggia ai gomiti, con gli avambracci distesi di fronte a sé e le mani unite. Esamina l’anello d’oro col rubino che porta al mignolo, poi sposta di nuovo lo sguardo su di me. «Vorrei che più tardi dessimo insieme un’occhiata ad alcune mappe», dice stringendo gli occhi. Non ho nessuna reazione. «Ne ho trovate alcune nella biblioteca», continua. «Ma ci sono strade che nella nostra spedizione di ieri, verso ovest, mi sembravano diverse.»

«Sono mappe piuttosto vecchie», le confermo. «Se si tratta della proprietà degli Anders, hanno modificato la maggior parte dei sentieri nella foresta, nel corso degli anni. Hanno costruito nuovi ponti, hanno sbarrato con una diga uno dei fiumi. Svariate cose.»

«Lei conosce bene quelle zone, Abel?» mi chiede, cercando di avere un’aria noncurante, quando invece si sta grattando la testa.

«Abbastanza per farvi da guida, vuole dire?»

«Mmm.» Dà un ultimo tiro alla sigaretta e poi la getta nel fossato. Ci sono ancora dei fringuelli che galleggiano presso l’argine. Non so se li abbia notati.

«Credo di sì», dico.

«Lo farà? Ci farà da guida?»

«Perché no?» dico scrollando le spalle.

«Sarà pericoloso.»

«Tanto come restare qui.»

«Sì, giusta considerazione.» Fa scorrere lo sguardo su di me, dall’alto verso il basso. «È meglio che vada a vestirsi. Troviamoci nella biblioteca fra dieci minuti.»

Dieci minuti, per la toilette e per vestirsi? La mia espressione, immagino, mi tradisce.

«D’accordo», dice lei con un sospiro. «Venti minuti.»

Ci metto qualcosa di più, anche se mi pare di non essermi mai vestito così velocemente, a parte le volte in cui c’era qualche incentivo particolarmente efficace, come i rumori che rivelavano il ritorno inaspettato di un marito geloso.

È colpa tua, al principio, mia cara. Quando torno alle nostre stanze sei in camera tua, boccheggiante, a frugare nei cassetti in cerca di un inalatore. Tossisci e hai il respiro affannoso, mentre ti dibatti per ogni singola boccata d’aria. È un vecchio problema: l’asma ti tormenta fin dall’infanzia. La polvere o lo spavento, entrambi potrebbero essere la causa di questo attacco. Faccio del mio meglio per confortarti, ma poi c’è un altro strepito, e qualcuno bussa freneticamente alla porta.

«Signore, oh, signore!» Lucius, un altro dei domestici, si precipita dentro non appena gli do il permesso. «Signore, signore: Arthur!»

Seguo i tacchi di Lucius su per la scala a chiocciola fino alla soffitta. Avrei dovuto pensarci: la stanza del vecchio Arthur è sopra la nostra, sulla traiettoria della granata. Ho un po’ di tempo per immaginare ciò che potremmo trovare.

È una piccola stanza, a filo della grondaia; una tappezzeria chiara, per metà nascosta dalla polvere che si è posata. Mobili da poco prezzo. Non credo di esserci mai entrato prima: è sempre stata la camera del nostro vecchio domestico. Doveva essere piuttosto tetra. C’è un lucernario, ma gran parte dell’illuminazione proviene dal buco frastagliato nel soffitto inclinato, non lontano dalla porta, dove è passata la granata; ho davanti ai piedi lo squarcio che si apre sulla mia stanza.

Arthur è sdraiato su un fianco nel letto all’estremità opposta della stanza, a prima vista incolume. È voltato verso di noi, appena sollevato da un braccio e dal cuscino, eppure allo stesso tempo sembra accasciato. Indossa un pigiama. In un barattolo sul comodino c’è la dentiera, accanto a un libro su cui sono posati gli occhiali. La faccia è grigia, ed esprime una seccata concentrazione, come se stesse guardando il pavimento nel tentativo di ricordare dove ha messo il libro, o cosa ne ha fatto degli occhiali. Lucius e io siamo fermi sull’entrata. Alla fine vado avanti io, oltrepassando il buco e camminando sul tappeto.

Il polso del vecchio Arthur è freddo e non batte più. Sulla pelle ha uno strato di qualcosa che sembra talco. Gli soffio sul viso, sollevando una patina di polvere bianca. Sotto, la pelle è sempre grigia. Rivolgo a Lucius un’occhiata di scusa e faccio scivolare una mano sotto le coperte, con una smorfia. Anche il ventre è freddo.

Attorno al collo ha una catenina d’oro. Invece di un emblema religioso o di un portafortuna, porta solo una piccola chiave. Gli faccio scorrere la catena sopra la testa e la prendo nel palmo della mano. La infilo in una tasca della giacca.

Gli occhi di Arthur sono ancora parzialmente aperti; gli metto le dita sulle palpebre e glieli chiudo, e poi faccio forza su una spalla per farlo cadere sulla schiena, in una posa ritenuta di solito più appropriata per una persona appena defunta.

Mi alzo e scuoto la testa. «Un attacco di cuore, immagino», dico a Lucius, guardando lo squarcio nel soffitto. «Oserei dire che deve essere stato un brusco risveglio.» Mi sembra che il gesto sia in un certo senso richiesto, perciò tiro il lenzuolo fino a coprire la faccia grigia di Arthur. «Dormi», mi sento mormorare.

Lucius fa uno strano rumore, e quando mi volto sta singhiozzando.

Ritorno da te, mia cara, sulla strada dell’appuntamento con la luogotenente, quasi aspettandomi di trovarti stesa sul pavimento, ansante, con la faccia blu, con le mani strette alla gola, ma — allo stesso modo, eppure diverso, del nostro rapido ospite e del nostro vecchio domestico — adesso ti sei addormentata.