38253.fb2 Gomorra - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 10

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"Io lo voglio andare a conoscere, mi hanno detto che è ancora vivo. Ma è vero?"

"Cosa è vero?"

"Ma come ha fatto? Io mi prendo le ferie e lo vado a conoscere…"

"Ma chi? Cosa?"

"Ti rendi conto, è leggero, preciso, poi spari venti, trenta colpi, e non sono passati neanche cinque minuti… è un'invenzione geniale!" Era in estasi. Il barista lo guardò come chi guarda un ragazzino che ha penetrato per la prima volta una donna, e porta sul volto un'espressione inconfondibile, la medesima di Adamo. Poi capì da cosa proveniva l'euforia. Mariano aveva provato per la prima volta un kalashnikov ed era rimasto così favorevolmente impressionato dall'aggeggio che voleva incontrare il suo inventore Michail Kalashnikov. Non aveva mai sparato a nessuno, nel clan era entrato per seguire la distribuzione di alcune marche di caffè in diversi bar del territorio. Giovanissimo, laureato in Economia e Commercio, aveva responsabilità di decine di milioni di euro poiché erano decine i bar e le aziende di caffè che volevano entrare nella rete commerciale del clan. Il capozona però non voleva che i suoi uomini, laureati o no, soldati o dirigenti commerciali, non fossero capaci di sparare e così gli aveva dato il mitra in mano. Di notte Mariano aveva scaricato un po' di pallottole su diverse vetrine, scegliendo i bar a caso. Non era un avvertimento, ma insomma anche se lui non sapeva il reale motivo per cui sparava su quelle vetrine, i proprietari sicuramente un motivo valido l'avrebbero trovato. Una causa per sentirsi in errore c'è sempre. Mariano chiamava il mitra con tono truce e professionale: AK-47. Il nome ufficiale della mitragliatrice più celebre al mondo. Un nome piuttosto semplice, dove AK sta per "avtomat kalashnikova", ovvero "l'automatica di Kalashnikov", e dove 47 si riferisce all'anno della sua selezione come arma per l'esercito sovietico. Le armi spesso hanno nomi cifrati, lettere e numeri che dovrebbero celare la loro potenza letale, simboli di spietatezza. In realtà sono banali nomi dati da qualche sottufficiale incaricato di rubricare in deposito nuove armi come nuovi bulloni. I kalashnikov sono leggeri e facili da usare, richiedono una manutenzione semplice. La loro forza consiste nel munizionamento intermedio: né troppo piccolo come quello delle rivoltelle, per evitare di perdere la potenza di fuoco, né troppo grande per evitare il rinculo e la scarsa maneggevolezza e precisione dell'arma. La manutenzione e il montaggio sono tanto semplici che i ragazzi dell'ex Unione Sovietica lo imparavano sui banchi di scuola, alla presenza di un responsabile militare, in un tempo medio di due minuti.

L'ultima volta che avevo sentito dei colpi di mitra era stato qualche anno prima. Vicino all'università di Santa Maria Capua Vetere, non ricordo bene, era un quadrivio però, ne sono certo. Quattro macchine bloccarono l'auto di Sebastiano Caterino, un camorrista da sempre vicino ad Antonio Bardellino il capo dei capi della camorra casertana negli anni '80 e '90, e lo massacrarono con un'orchestra di kalashnikov. Quando Bardellino scomparve e la dirigenza cambiò, Caterino riuscì a scappare, a sottrarsi alla mattanza. Per tredici anni non era uscito di casa, aveva vissuto nascosto, metteva il naso fuori di notte, camuffandosi, uscendo dal portone della sua masseria in auto blindate, trascorrendo la vita fuori dal suo paese. Pensava di aver trovato una nuova autorevolezza dopo tanti anni di silenzio. Credeva che il clan rivale, ormai dimentico del passato, non avrebbe attaccato un vecchio leader come lui. E così si era messo a tirar su un nuovo clan a Santa Maria Capua Vetere, la vecchia città romana era diventata il suo feudo. Il maresciallo di San Cipriano d'Aversa, il paese di Caterino, quando è arrivato sul luogo dell'agguato, ha avuto un'unica frase: "L'hanno fatto male proprio!". Qui infatti il trattamento che ti riservano è valutato in base ai colpi che ricevi. Se ti ammazzano con delicatezza, un colpo alla testa o alla pancia, viene letta come un'operazione necessaria, chirurgica, senza rancore. Ficcare oltre duecento colpi nell'auto e oltre quaranta nel corpo è invece un modo assoluto di cancellarti dal fegato della terra. La camorra ha una memoria lunghissima e capace di pazienza infinita. Tredici anni, centocinquantasei mesi, quattro kalashnikov, duecento colpi, una pallottola per ogni mese d'attesa. Le armi in certi territori hanno anche la traccia della memoria, conservano in loro stesse con livore, una condanna che poi sputano al momento giusto.

Quella mattina passavo le dita sulle decorazioni da mitragliatrice con lo zaino indosso. Stavo per partire, dovevo andare da mio cugino a Milano. È strano come con chiunque parli, qualunque sia l'argomento, appena dici che stai per andartene via ricevi auguri, complimenti e giudizi entusiasti: " È così che si fa. Fai benissimo, lo farei anch'io". Non devi aggiungere dettagli, specificare cosa andrai a fare. Qualunque sia il motivo, sarà migliore di quelli che troverai per continuare a vivere in queste zone. Quando mi si chiede di dove sono, non rispondo mai. Vorrei rispondere del sud, ma mi pare troppo retorico. Quando poi me lo si chiede su un treno, mi fisso i piedi e fingo di non aver sentito, poiché mi viene in mente Conversazione in Sicilia di Vittorini, e rischio, se solo apro bocca, di cantilenare la voce di Silvestro Ferrato. E non è il caso. I tempi mutano, le voci sono le stesse. In viaggio però mi capitò di incontrare una signora grassona ficcata in malo modo nel sediolino dell'Eurostar. Era salita a Bologna con una voglia incredibile di parlare per ingolfare anche il tempo, oltre che il suo corpo. Insisteva per sapere da dove venivo, cosa facevo, dove andavo. Avevo voglia di rispondere mostrandole la ferita al polpastrello, e basta. Ma lasciai perdere. Risposi: "Sono di Napoli". Una città che lascia parlare talmente tanto, che basta pronunciarne il nome per emanciparsi da ogni tipo di risposta. Un luogo dove il male diviene tutto il male, e il bene tutto il bene. Mi addormentai.

La mattina dopo, prestissimo Mariano mi chiamò ansioso. Servivano un po' di contabili e organizzatori per un'operazione molto delicata che alcuni imprenditori delle nostre zone stavano facendo a Roma. Giovanni Paolo II stava male, forse era persino morto, ma ancora non avevano ufficializzato la notizia. Mariano mi chiese di accompagnarlo. Scesi alla prima fermata possibile e tornai indietro. Negozi, alberghi, ristoranti, supermercati, avevano bisogno in pochissimi giorni di enormi e straordinari rifornimenti di ogni tipo di prodotto. C'era da guadagnare un mare di danaro, milioni di persone in brevissimo tempo si sarebbero riversati nella capitale, vivendo per strada, trascorrendo ore lungo i marciapiedi, dovendo bere, mangiare, in una parola comprare. Si potevano triplicare i prezzi, vendere a ogni ora, anche di notte, spremere profitto da ogni minuto. Mariano fu chiamato in causa, mi propose di fargli compagnia e per questa gentilezza mi avrebbe passato un po' di soldi. Nulla è gratuito. A Mariano era stato promesso un mese di ferie così da poter realizzare il sogno di andare in Russia a incontrare Michail Kalashnikov; aveva avuto persino garanzie da un uomo delle famiglie russe che aveva giurato di conoscerlo. Mariano avrebbe potuto così incontrarlo, fissarlo negli occhi, toccare le mani che avevano inventato il potente mitra.

Il giorno del funerale del papa, Roma era un carnaio. Impossibile riconoscere i volti delle strade, i percorsi dei marciapiedi. Un'unica pelle di carne aveva rivestito il catrame, le entrate dei palazzi, le finestre, una colata che si incanalava in ogni possibilità di spazio. Una colata che sembrava aumentare il proprio volume, sino a far esplodere i canali in cui confluiva. Ovunque essere umani. Ovunque. Un cane terrorizzato si era nascosto tremante sotto un autobus, aveva visto ogni suo spazio vitale violato da piedi e gambe. Io e Mariano ci fermammo su un gradino di un palazzo. L'unico a riparo da un gruppo che aveva deciso come voto di cantare per sei ore di seguito una canzoncina ispirata a san Francesco. Ci sedemmo a mangiare un panino. Ero esausto. Mariano invece non si stancava mai, ogni energia gli veniva pagata e questo lo faceva sentire perennemente carico.

D'improvviso mi sentii chiamare. Avevo capito ancor prima di voltarmi di chi si trattava. Era mio padre. Da due anni non ci vedevamo, avevamo vissuto nella stessa città senza mai incontrarci. Incredibile trovarsi nel labirinto di carne romano. Mio padre era imbarazzatissimo. Non sapeva come salutarmi e forse neanche se poteva farlo come avrebbe voluto. Ma era euforico come in quelle gite dove sai che in poche ore ti capiteranno cose belle, le stesse che non potranno ripetersi per i successivi tre mesi almeno, e quindi vuoi berle tutte, sentirle sino in fondo, velocemente però, per paura di perdere le altre felicità nel poco tempo che ti rimane. Aveva approfittato del fatto che una compagnia rumena aveva abbassato i costi dei voli verso l'Italia, a causa della morte del papa, e così aveva pagato il biglietto a tutta la famiglia della sua compagna. Tutte le donne del gruppo avevano un velo sui capelli e un rosario arrotolato intorno al polso. Impossibile capire in quale strada ci trovavamo, ricordo solo un enorme lenzuolo che campeggiava tra due palazzi. "Undicesimo comandamento: Non spingere e non sarai spinto." Scritto in dodici lingue. Erano contenti i nuovi parenti di mio padre. Contentissimi di partecipare a un evento così importante come la morte del papa. Tutti sognavano sanatorie per gli immigrati. Soffrire per lo stesso motivo, partecipare a una manifestazione così immensa e universale era per questi rumeni il miglior modo di prendere cittadinanza sentimentale e oggettiva con l'Italia, prima ancora di quella legale. Mio padre adorava Giovanni Paolo II, il fascino di quell'uomo che faceva baciare a tutti la sua mano lo esaltava. Come era riuscito senza palesi ricatti e chiare strategie a raggiungere quel potere immenso d'ascolto, lo intrigava. Tutti i potenti si inginocchiavano dinanzi a lui. Per mio padre questo bastava per ammirare un uomo. Lo vidi inginocchiarsi assieme alla madre della sua compagna per recitare un rosario improvvisato per strada. Dal mucchio di parenti rumeni, vidi spuntare un bambino. Capii subito che era il figlio di mio padre e di Micaela. Sapevo che era nato in Italia per poter avere la cittadinanza, ma che per esigenze della madre aveva sempre vissuto in Romania. Cercava di tenersi ancorato alla gonna della mamma. Non l'avevo mai visto, ma conoscevo il suo nome. Stefano Nicolae. Stefano come il padre di mio padre, Nicolae come il padre di Micaela. Mio padre lo chiamava Stefano, sua madre e i suoi zii rumeni Meo. In breve sarebbe stato chiamato Nico, ma mio padre non aveva ancora avuto il tempo d'essere sconfitto. Ovviamente il primo dono che aveva ricevuto dal padre appena sceso dalla scaletta dell'aereo, era un pallone. Mio padre vedeva per la seconda volta il figlioletto ma lo trattava come se fosse sempre stato dinanzi ai suoi occhi. Lo prese in braccio e mi si avvicinò.

"Nico adesso viene a vivere qui. In questa terra. Nella terra del padre."

Non so perché ma il bambino si intristì nell'espressione, lasciò cadere il pallone per terra, riuscii a fermarlo con un piede prima che si perdesse irrimediabilmente tra la folla.

Mi venne d'improvviso in mente l'odore mischiato di salsedine e polvere, di cemento e spazzatura. Un odore umido. Mi ricordai di quando avevo dodici anni sulla spiaggia di Pi-netamare. Mio padre venne nella mia stanza, mi ero appena svegliato. Forse di domenica: "Ti rendi conto che tuo cugino già sa sparare, e tu? Sei meno di lui?".

Mi portò al Villaggio Coppola, sul litorale domizio. La spiaggia era una miniera abbandonata di utensili divorati dalla salsedine e avvolti in croste di calce. Sarei stato a scavare per giorni interi, trovando cazzuole, guanti, scarponi sfondati, zappe spaccate, picconi sbeccati ma non venivo portato lì per giocare nella spazzatura. Mio padre passeggiava cercando i bersagli, quelli che preferiva erano le bottiglie. Quelle Peroni, le predilette. Mise le bottiglie sul tetto di una 127 bruciata, ce n'erano molti di scheletri d'auto. Le spiagge di Pinetamare erano usate anche per raccogliere tutte le macchine bruciate usate per rapine o agguati. La Beretta 92 Fs di mio padre me la ricordo ancora. Era tutta graffiata, sembrava brizzolata, una vecchia signora pistola. Tutti la conoscono come M9 non so perché. La sento sempre citare con questo nome: "Ti metto un M9 tra gli occhi, devo cacciare 1' M9? Cavolo, mi devo prendere un M9". Mio padre mi mise in mano la Beretta. La sentii pesantissima. Il calcio della pistola è ruvido, sembra di carta vetrata, ti si appiccica nel palmo e quando ti sfili la pistola di mano sembra quasi che ti graffi con i suoi microdenti. Mio padre mi indicava come togliere la sicura, armare la pistola, stendere il braccio, chiudere l'occhio destro se il bersaglio era a sinistra e puntare.

"Robbe', il braccio morbido ma tosto. Insomma tranquillo, ma non flaccido… usa le due mani."

Prima di tirare il grilletto con tutta la forza dei due indici che si spingevano a vicenda, chiudevo gli occhi, alzavo le spalle come se volessi tapparmi le orecchie con le scapole. Il rumore degli spari ancora oggi mi dà un fastidio terribile. Devo avere qualche problema ai timpani. Resto stordito per mezz'ora dopo uno sparo.

A Pinetamare i Coppola, famiglia di imprenditori molto potenti, costruì il più grande agglomerato urbano abusivo d'Occidente. Ottocentosessantatremila metri quadrati occupati col cemento, il Villaggio Coppola, appunto. Non fu chiesta autorizzazione, non serviva, in questi territori le gare d'appalto e i permessi sono modi per aumentare vertiginosamente i costi di produzione poiché bisogna oliare troppi passaggi burocratici. Così i Coppola sono andati direttamente con le betonerie. Quintali di cemento armato hanno preso il posto di una delle pinete marittime più belle del Mediterraneo. Furono edificati palazzi dai cui citofoni si sentiva il mare.

Quando centrai finalmente il primo bersaglio della mia vita provai una sensazione mista di orgoglio e senso di colpa.

Ero stato capace di sparare, finalmente ero capace. Nessuno poteva più farmi del male. Ma ormai avevo imparato a usare un arnese orrendo. Uno di quelli che una volta che lo sai usare non puoi più smettere di usarlo. Come imparare ad andare in bicicletta. La bottiglia non era esplosa completamente. Anzi era persino rimasta in piedi. Sventrata a metà. La metà destra. Mio padre si allontanò verso la macchina. Rimasi lì con la pistola, ma è strano non mi sentii solo, nonostante fossi circondato da spettri di spazzatura e metallo. Tesi il braccio verso il mare e tirai altri due colpi nell'acqua. Non li vidi schizzare, né forse raggiunsero l'acqua. Ma colpire il mare mi sembrava una cosa coraggiosa. Mio padre arrivò con un pallone di cuoio, con sopra l'effigie di Maradona. Il premio per la mira. Poi si avvicinò come sempre alla mia faccia. Sentivo il suo alito di caffè. Era soddisfatto, ora quantomeno suo figlio non era da meno del figlio di suo fratello. Facemmo la solita cantilena, il suo catechismo:

"Robbe', cos'è un uomo senza laurea e con la pistola?"

"Uno stronzo con la pistola."

"Bravo. Cos'è un uomo con la laurea senza pistola?"

"Uno stronzo con la laurea…"

"Bravo. Cos'è uomo con la laurea e con la pistola?"

"Un uomo, papà!"

"Bravo, Robertino!"

Nico camminava ancora incerto. Mio padre gli parlava a raffica. Non capiva il piccolo. Per la prima volta sentiva parlare in italiano, anche se la mamma era stata abbastanza furba da farlo nascere qui.

"Ti somiglia, Roberto?"

Lo guardai a fondo. E fui felice, per lui. Non mi somigliava per nulla.

"Per fortuna non mi somiglia!"

Mio padre mi guardò con la solita delusa espressione, come dire che ormai neanche scherzando mi avrebbe sentito dire ciò che avrebbe voluto ascoltare. Avevo sempre l'impressione che mio padre fosse in guerra con qualcuno. Come se dovesse svolgere una battaglia con alleanze, precauzioni, macchinoni. Andare in un albergo due stelle per mio padre era come perdere prestigio verso qualcuno. Come se dovesse rendere conto a un'entità che l'avrebbe punito con violenza se non avesse vissuto nella ricchezza e con un atteggiamento autoritario e buffonesco.

"Il migliore, Robbe', non deve avere bisogno di nessuno, deve sapere certo, ma deve anche fare paura. Se non fai paura a nessuno, se nessuno guardandoti non si mette soggezione, allora in fondo non sei riuscito a essere veramente capace."

Quando andavamo a mangiare fuori, nei ristoranti si sentiva infastidito dal fatto che spesso i camerieri servivano, anche se entravano un'ora dopo di noi, alcuni personaggi della zona. I boss si sedevano e dopo pochi minuti ricevevano tutto il pranzo. Mio padre li salutava. Ma tra i denti strideva la voglia di avere il loro medesimo rispetto. Rispetto che consisteva nel generare eguale invidia di potenza, eguale timore, medesima ricchezza.

"Li vedi quelli. Sono loro che comandano veramente. Sono loro che decidono tutto! C'è chi comanda le parole e chi comanda le cose. Tu devi capire chi comanda le cose, e fingere di credere a chi comanda le parole. Ma devi sempre sapere la verità in corpo a te. Comanda veramente solo chi comanda le cose." I comandanti delle cose, come li chiamava mio padre erano seduti al tavolo. Avevano deciso della sorte di queste terre da sempre. Mangiavano assieme, sorridevano. Negli anni poi si sono scannati tra loro, lasciando scie di migliaia di morti, come ideogrammi dei loro investimenti finanziari. I boss sapevano come rimediare allo sgarbo d'essere serviti per primi. Offrivano il pranzo a tutti i presenti nel locale. Ma solo dopo essersene andati, temendo di ricevere ringraziamenti e piaggerie. Tutti ebbero il pranzo pagato, tranne due persone. Il professore lannotto e sua moglie. Non li avevano salutati, e loro non avevano osato offrirgli il pranzo. Ma gli avevano fatto dono, attraverso un cameriere, di una bottiglia di limoncello. Un camorrista sa che deve curarsi anche dei nemici leali poiché sono sempre più preziosi di quelli nascosti. Quando dovevo ricevere un esempio negativo mio padre mi additava il professor Iannotto. Erano stati a scuola insieme. Iannotto viveva in fitto, cacciato dal suo partito, senza figli, sempre incavolato e mal vestito. Insegnava al biennio di un liceo, lo ricordo sempre a litigare con i genitori che gli chiedevano a quale suo amico mandare i figli a ripetizione privata per farli promuovere. Mio padre lo considerava un uomo condannato. Un morto che camminava.

"È come chi decide di fare il filosofo e chi il medico, secondo te chi dei due decide della vita di una persona?"

"Il medico!"

"Bravo. Il medico. Perché puoi decidere della vita delle persone. Decidere. Salvarli o non salvarli. È così che si fa il bene, solo quando puoi fare il male. Se invece sei un fallito, un buffone, uno che non fa nulla. Allora puoi fare solo il bene, ma quello è volontariato, uno scarto di bene. Il bene vero è quando scegli di farlo perché puoi fare il male."

Non rispondevo. Non riuscivo mai a capire cose volesse realmente dimostrarmi. E in fondo non riesco nemmeno ora a capirlo. Sarà anche per questo che mi sono laureato in filosofia, per non decidere al posto di nessuno. Mio padre aveva fatto servizio nelle ambulanze, come giovane medico, negli anni '80. Quattrocento morti l'anno. In zone dove si ammazzavano anche cinque persone al giorno. Arrivava con l'autoambulanza, quando però il ferito era per terra e la polizia non ancora arrivata non si poteva caricarlo. Perché se la voce si spargeva, i killer tornavano indietro, inseguivano l'autoambulanza, la bloccavano, entravano nel veicolo e finivano di portare a termine il lavoro. Era capitato decine di volte, e sia i medici che gli infermieri sapevano di dover star fermi dinanzi a un ferito e attendere che i killer tornassero per finire l'operazione. Una volta mio padre però arrivò a Giugliano, un paesone tra il napoletano e il casertano, feudo dei Mallardo. Il ragazzo aveva diciotto anni, o forse meno. Gli avevano sparato al torace, ma una costola aveva deviato il colpo. L'autoambulanza arrivò subito. Era in zona. Il ragazzo rantolava, urlava, perdeva sangue. Mio padre lo caricò. Gli infermieri erano terrorizzati. Tentarono di dissuaderlo, era evidente che i killer avevano sparato senza mirare e erano stati messi in fuga da qualche pattuglia, ma sicuramente sarebbero ritornati. Gli infermieri provarono a rassicurare mio padre: "Aspettiamo. Vengono, finiscono il servizio e ce lo portiamo".

Mio padre non ce la faceva. Insomma, anche la morte ha i suoi tempi. E diciotto anni non gli sembrava il tempo per morire, neanche per un soldato di camorra. Lo caricò, lo portò all'ospedale e fu salvato. La notte, andarono a casa sua i killer che non avevano centrato il bersaglio come si doveva. A casa di mio padre. Io non c'ero, abitavo con mia madre. Ma mi fu raccontata talmente tante volte questa storia, troncata sempre nel medesimo punto, che io la ricordo come se a casa ci fossi stato anche io e avessi assistito a tutto. Mio padre, credo, fu picchiato a sangue, per almeno due mesi non si fece vedere in giro. Per i successivi quattro non riuscì a guardare in faccia nessuno. Scegliere di salvare chi deve morire significa voler condividerne la sorte, perché qui con la volontà non si muta nulla. Non è una decisione che riesce a portarti via da un problema, non è una presa di coscienza, un pensiero, una scelta, che davvero riescono a darti la sensazione di star agendo nel migliore dei modi. Qualunque sia la cosa da fare, sarà quella sbagliata per qualche motivo. Questa è la vera solitudine.

Il piccolo Nico era tornato a ridere. Micaela ha più o meno la stessa mia età. Anche a lei, quando confessava di andare in Italia, di andarsene via, avranno fatto gli auguri senza chiederle nulla, senza sapere se andava a far la puttana, la sposa, la colf, o l'impiegata. Non sapendo altro che andava via. Condizione sufficiente di fortuna. Nico però ovviamente non pensava a nulla. Serrava la bocca all'ennesimo frullato che la madre gli dava per ingozzarlo. Mio padre per farlo mangiare gli pose il pallone vicino ai piedi, Meo lo calciò con tutta la forza. La palla rimbalzò su ginocchia, tibie, punte di scarpe, di decine di persone. Mio padre iniziò a rincorrerla. Sapendo che Nico lo guardava, finse goffamente di dribblare una suora, ma la palla gli scappò nuovamente dai piedi. Il piccolo rideva, le centinaia di caviglie che vedeva distendersi dinanzi agli occhi lo facevano sentire in una foresta di gambe e sandali. Gli piaceva vedere il padre, nostro padre, affaticare la sua pancia per prendere quel pallone. Cercai di alzare la mano per salutarlo, ormai un muro di carne l'aveva bloccato. Sarebbe rimasto ingorgato per una buona mezz'ora. Inutile aspettare. Era davvero tardi. La sagoma non si intuiva neanche più, ormai era stata inghiottita sin nello stomaco della folla.

Mariano era riuscito a incontrare Michail Kalashnikov. Era stato un mese in giro per l'est Europa. Russia, Romania, Moldavia: una vacanza premio regalata dai clan. Lo rividi proprio in un bar a Casal di Principe. Lo stesso bar di sempre. Mariano aveva un grosso pacco di fotografie legate con l'elastico come fossero figurine Panini pronte allo scambio. Erano ritratti di Michail Kalashnikov autografati con dediche. Prima di ripartire, si era fatto stampare decine e decine di copie di una foto di Kalashnikov ritratto nella divisa di generale dell'Armata Rossa, con al petto una cascata di medaglie: l'ordine di Lenin, la medaglia d'onore della Grande guerra patriottica, la medaglia dell'Ordine della Stella Rossa, quella dell'Ordine della Bandiera Rossa del Lavoro. Mariano era riuscito a raggiungerlo grazie alle indicazioni di alcuni russi che facevano affari con i gruppi del casertano, e proprio da questi era stato presentato al generale.

Michail Timofeevic Kalashnikov viveva in un appartamento in fitto in un piccolo paese ai piedi degli Urali, Izhevsk-Ustinov, che sino al 1991 non era neanche registrato sulla carta geografica. Era uno dei numerosi territori tenuti segreti dall'URSS. Kalashnikov era la vera attrazione della città. Avevano fatto per lui un collegamento diretto con Mosca, ormai era divenuto una sorta di attrazione turistica per turisti d'elite. Un albergo vicino a casa sua, dove aveva dormito Mariano, faceva affari d'oro ospitando tutti gli ammiratori del generale che attendevano in città il suo ritorno da qualche tour in giro per la Russia, o semplicemente aspettavano di essere ricevuti. Mariano era entrato con la telecamera raccolta nel palmo della mano nella casa del generale Kalashnikov e di sua moglie. Il generale gliel'aveva consentito, chiedendogli solo di non rendere pubblico il filmato, e Mariano ovviamente aveva annuito sapendo soprattutto che colui che aveva mediato tra lui e Kalashnikov conosceva il suo indirizzo, il numero di telefono e la sua faccia. Mariano si presentò dal generale con un cubo di polistirolo chiuso da uno scotch pieno di facce di bufala stampate sopra. Era riuscito a conservare nel cofano della macchina questa scatolona con delle mozzarelle di bufala dell'agro aversano immerse nel latte.

Mariano mi mostrava il filmino della sua visita a casa Kalashnikov nel piccolo monitor che si apriva al lato della telecamera. Il video saltava, le immagini si agitavano, i volti ballavano, le zoomate deformavano occhi e oggetti, l'obiettivo sbatacchiava contro pollici e polsi. Pareva il video di una gita scolastica girato mentre si salta e corre. La casa di Kalashnikov somigliava alla dacia di Gennaro Marino Marino, o forse era semplicemente una classica dacia, ma l'unica che avessi mai visto era appunto quella del boss scissionista ad Arzano, e quindi mi pareva una costruzione gemella. La casa della famiglia Kalashnikov aveva le pareti tappezzate di riproduzioni di Vermeer, e i mobili erano stracolmi di gingilli in cristallo e legno. Il pavimento era completamente rivestito di tappeti. A un certo punto del filmato il generale mise la mano davanti all'obiettivo. Mariano mi raccontò che zompet-tando con la telecamera, e munito di una buona dose di maleducazione, era finito per entrare in una stanza che Kalashnikov non voleva in nessun modo fosse ripresa nel video. In uno stipo di metallo appeso alla parete, ben visibile oltre il vetro blindato, era conservato il primo modello di kalashnikov, il prototipo costruito dai disegni che — secondo la leggenda — il vecchio generale (allora sconosciuto sottufficiale) aveva tracciato su fogliacci di carta mentre era in ospedale, ferito da una pallottola e voglioso di creare un'arma che avrebbe reso invincibili i soldati infreddoliti e affamati dell'Armata Rossa. Il primo AK-47 della storia, tenuto nascosto come il primo cent guadagnato da zio Paperone, la famosa number otte sotto la teca blindata, la Numero Uno tenuta lontano in maniera ossessiva dalle grinfie dei Bassotti. Non aveva prezzo, quel modello. Per avere quella sorta di reliquia militare molti avrebbero davvero dato ogni cosa. Appena Kalashnikov morirà, finirà con l'essere battuta all'asta da Christie's, come le tele di Tiziano e i disegni di Michelangelo.

Mariano quel giorno stazionò rutta la mattinata a casa dei vecchi Kalashnikov. Il suo presentatore russo doveva essere davvero influente, se il generale gli diede tanta confidenza. La telecamera filmò mentre si sedevano a tavola e una vecchietta minuta apriva il polistirolo della scatola di mozzarella. Mangiarono con gusto. Vodka e mozzarella. Non volle perdere neanche questa scena, Mariano, e infatti piazzò la telecamera a capotavola riprendendo tutto. Voleva una prova certa del generale Kalashnikov che mangiava le mozzarelle del caseificio del boss per cui lavorava. L'obiettivo posato sulla tavola riprendeva in lontananza un mobiletto con le foto incorniciate di bambini. Anche se volevo che quel video terminasse il prima possibile avendo già un insopportabile mal di mare, non riuscii a trattenere la curiosità:

"Mariano, ma tutti quei figli e nipoti ha Kalashnikov?"

"Macché figli! Sono tutti figli di gente che gli manda le foto dei bambini che si chiamano come lui, gente magari che si è salvata grazie a un suo mitra o che semplicemente lo ammira…"

Come i chirurghi che ricevono le foto dei bambini che hanno salvato, guarito, operato e le incorniciano posandole sulle mensole dei loro studi a memento dei successi della loro professione, così il generale Kalashnikov aveva nel salotto di casa le foto dei bambini che portavano il nome della sua creatura. Del resto, un cronista italiano in Angola aveva intervistato un noto guerrigliero del Movimento di Liberazione che aveva dichiarato: "Ho chiamato mio figlio Kalsh perché è sinonimo di libertà".

Kalashnikov è un vecchio di ottantaquattro anni arzillo e ben conservato. Lo invitano ovunque, una sorta di icona mobile sostitutiva del fucile mitragliatore più celebre al mondo. Prima di andare in pensione come generale di corpo d'armata percepiva uno stipendio fisso di cinquecento rubli, all'epoca più o meno un mensile di cinquecento dollari. Se Kalashnikov avesse avuto la possibilità di brevettare il suo mitra in Occidente, ora sarebbe sicuramente tra i più ricchi al mondo. Si calcola — con cifre approssimate per difetto — che oltre centocinquanta milioni di mitra della famiglia del kalashnikov siano stati prodotti, tutti partendo dal progetto originario del generale. Sarebbe bastato che per ogni mitra avesse ricevuto un dollaro e ora galleggerebbe nel danaro. Ma questa tragica mancanza di soldi non lo turbava affatto, lui aveva generato la creatura, le aveva impresso il suo soffio, e questo sembrava essere condizione sufficiente di appagamento. O forse un profitto economico lo aveva, in realtà. Mariano mi aveva raccontato che gli ammiratori gli versavano danaro ogni tanto: omaggi di capitale, migliaia di dollari sul suo conto, doni preziosi dall'Africa, si parlava di una maschera tribale d'oro regalatagli da Mobutu e di un baldacchino d'avorio intarsiato inviatogli da Bokassa; dalla Cina invece si diceva gli fosse arrivato addirittura un treno, con tanto di locomotore e vagoni, donatogli da Deng Xiaoping che sapeva delle difficoltà del generale a salire su un aereo. Ma queste erano soltanto leggende, voci circolanti sui taccuini dei giornalisti che — non riuscendo a intervistare il generale, che senza presentazioni importanti non riceveva nessuno — intervistavano gli operai della fabbrica di armi di Izhevsk.

Michail Kalashnikov rispondeva automaticamente, sempre le stesse risposte qualunque fosse la domanda, servendosi di un inglese liscio, imparato da adulto, usato come un cacciavite per svitare un bullone. Mariano gli faceva domande inutili e generiche — un modo per abbassare il suo livello di ansia — sul mitra: "Non ho inventato quell'arma perché venisse venduta a scopo di lucro, ma solo ed esclusivamente per difendere la madre patria all'epoca in cui ne aveva bisogno. Se potessi tornare indietro rifarei le stesse cose e vivrei nello stesso modo. Ho lavorato tutta la vita e la mia vita è il mio lavoro". Una risposta che ripete a ogni domanda sul suo mitra.

Al mondo non esiste cosa, organica o disorganica, oggetto metallico, elemento chimico, che abbia fatto più morti del-l'AK-47. Il kalashnikov ha ucciso più della bomba atomica di Hiroshima e Nagasaki, più del virus dell'HIV, più della peste bubbonica, più della malaria, più di tutti gli attentati dei fondamentalisti islamici, più della somma dei morti di tutti i terremoti che hanno agitato la crosta terrestre. Un numero esponenziale di carne umana impossibile persino da immaginare. Solo un pubblicitario riuscì, a un convegno, a dare una descrizione convincente: consigliava che per immaginare i morti uccisi dal mitra si sarebbe dovuto riempire una bottiglia con lo zucchero, facendo cascare i granelli dal foro sulla punta del pacco. Ogni grano di zucchero è un morto ucciso dal kalashnikov.