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Sono morti sotto il fuoco del kalashnikov Sadat nel 1981, il generale Dalla Chiesa nel 1982, Ceausescu nel 1989. Nel palazzo della Moneda, Salvador Allende fu trovato con in corpo proiettili di kalashnikov. E queste morti eccellenti sono il vero ufficio stampa storico del mitra. L'AK-47 è persino finito nella bandiera del Mozambico e in centinaia di simboli di gruppi politici, da Al Fatah in Palestina all'MRTA in Perù. Quando compare in video, sulle montagne Osama Bin Laden lo usa come unico simbolo minaccioso. Ha accompagnato ogni ruolo: quello del liberatore, quello dell'oppressore, del guerrigliero dell'esercito regolare, del terrorista, del rapitore, della testa di cuoio che scorta i presidenti. Kalashnikov ha creato un'arma efficientissima capace di crescere negli anni, un'arma che ha avuto diciotto varianti e ventidue nuovi modelli foggiati a partire dal progetto iniziale. È il vero simbolo del liberismo. L'icona assoluta. Potrebbe divenirne l'emblema: non importa chi sei, non importa che pensi, non importa da dove provieni, non importa che religione hai, non importa contro chi e a favore di cosa, basta che quello che fai lo fai con il nostro prodotto. Con cinquanta milioni di dollari è possibile acquistare circa duecentomila mitra. Ossia, con cinquanta milioni di dollari è possibile creare un piccolo esercito. Tutto ciò che distrugge i vincoli politici e di mediazione, tutto ciò che permette un enorme consumo e un esponenziale potere diviene vincente sul mercato; e Michail Kalashnikov, con la sua invenzione, ha permesso a tutti i gruppi di potere e di micropotere di avere uno strumento militare. Nessuno, dopo l'invenzione del kalashnikov, può dire di essere stato sconfitto perché non poteva accedere alle armi. Ha svolto un'operazione d'eguaglianza: armi per tutti, massacri per ognuno. La battaglia non più territorio solo per eserciti. Su scala internazionale il kalashnikov ha fatto ciò che i clan secondiglianesi hanno fatto a livello locale, liberalizzando in maniera totale la cocaina e permettendo a chiunque di diventare narcotrafficante, consumatore, venditore al dettaglio, liberando il mercato dalla mera mediazione criminale e gerarchica. Allo stesso modo il kalashnikov ha permesso di far divenire soldati tutti, anche bambini e ragazzine smilze; e ha trasformato in generali di corpo d'armata persone che non riuscirebbero a guidare un gregge di dieci pecore. Comprare mitra, sparare, consumare persone e cose, e tornare a comprare. Il resto è solo dettaglio. Il viso di Kalashnikov è sereno in ogni foto. Con la fronte spigolosa slava e gli occhi da mongolo che invecchiando divengono sempre più feritoie sottili. Dorme il sonno dei giusti. Va a letto magari non felice ma sereno, le pantofole sotto il letto, in ordine; anche quando è serio ha le labbra tirate ad arco come il viso di Palla di Lardo in Full Metal Jacket. Sorridono le labbra, ma non il viso.
Quando guardo i ritratti di Michail Kalashnikov penso sempre ad Alfred Nobel, famoso per il premio omonimo, ma in realtà padre della dinamite. Le foto di Nobel negli anni successivi alla realizzazione della dinamite — dopo che comprese l'uso che avrebbero fatto della sua miscela di nitroglicerina e argilla — lo ritraggono devastato dall'ansia, con le dita che tormentano la barba. Sarà forse una mia suggestione, ma quando guardo le foto di Nobel, le sopracciglia tirate in alto e gli occhi persi, sembrano dire un'unica cosa: "Non volevo. Intendevo aprire le montagne, sbriciolare massi, creare gallerie. Non volevo tutto quello che è accaduto". Kalashnikov ha invece sempre un'aria serena, di vecchio pensionato russo, con tanti ricordi per la testa. Te lo immagini con l'alito di vodka a raccontarti di qualche amico con cui ha vissuto il tempo della guerra, o mentre a tavola ti bisbiglia che da giovane riusciva a resistere a letto ore senza fermarsi mai. Sempre nel gioco infantile delle suggestioni, la faccia di Michail Kalashnikov sembra dire "Va tutto bene, non sono problemi miei, ho solo inventato un mitra. Come lo usano gli altri non mi riguarda". Una responsabilità tracciata entro i confini della propria carne, circoscritta dal gesto. Quello che la propria mano ha fatto è quello che compete alla propria coscienza. È questo uno degli elementi che credo faccia diventare il vecchio generale l'icona involontaria dei clan dell'intero globo. Michail Kalashnikov non è un trafficante d'armi, non conta nulla nelle mediazioni d'acquisto dei mitra, non ha influenza politica, non possiede personalità carismatica ma porta con sé l'imperativo quotidiano dell'uomo al tempo del mercato: fa' quello che devi fare per vincere, il resto non ti riguarda.
Mariano aveva a tracolla uno zaino e indossava una felpa col cappuccio: tutto firmato Kalashnikov. Il generale aveva diversificato gli investimenti e stava facendo di se stesso un imprenditore di talento. Nessuno più di lui poteva godere di un nome arcinoto. Così un imprenditore tedesco aveva messo su un'azienda di vestiti griffati Kahlashnikov, e il generale aveva preso gusto a distribuire il suo cognome, investendo anche in una ditta di estintori. Mentre Mariano raccontava bloccò il filmato d'improvviso e si catapultò fuori dal bar. Aprì il cofano della sua auto e, cacciata una valigetta militare, la posò sul bancone del bar. Credevo fosse completamente impazzito nella sua mistica da mitra. Temevo avesse attraversato mezza Europa con un mitra nel portabagagli e che lo volesse sfoderare davanti a tutti. Invece da quella valigia militare uscì un piccolo kalashnikov di cristallo pieno di vodka. Era una bottiglia molto kitsch con un tappo in punta di canna. E nell'agro aversano tutti i bar che dovevano rifornirsi da Mariano, dopo il suo viaggio, avevano come proposta commerciale la vodka Kalashnikov. Già immaginavo la riproduzione di cristallo campeggiare alle spalle di tutti i baristi tra Teverola e Mondragone. Il filmino stava finendo, gli occhi — a forza di strizzarli per attenuare i gradi di miopia — mi facevano male. Ma l'ultima immagine era davvero imperdibile. Due vecchietti sull'uscio di casa che, le pantofole ai piedi, salutavano con la mano il giovane ospite con ancora in bocca l'ultimo pezzo di mozzarella. Intorno a me e Mariano intanto s'era accalcato un gruppo di ragazzini che guardava il reduce come un eletto, una sorta di eroe dell'incontro. Uno che aveva conosciuto Michail Kalashnikov. Mariano mi guardò con un'espressione di una complicità finta che non avevo mai avuto con lui. Tolse l'elastico alle fotografie e iniziò a scorrerle. Dopo averne sfogliate decine ne tirò fuori una: "Questa è per te. E non dire che non ti penso".
Sul ritratto del vecchio generale una scritta a pennarello nero: "To Roberto Saviano with Best Regards M. Kalashnikov".
Agli istituti di ricerca economica internazionali servono continuamente dati. Produrli come cibo quotidiano per i giornali, le riviste, i partiti politici. Il celebre indice "big Mac", per esempio, che valuta tanto più florido un paese quanto più il panino costa caro nei McDonald's. Per valutare lo stato dei diritti umani invece gli analisti osservano il prezzo a cui viene venduto il kalashnikov. Meno costoso è il mitra, più i diritti umani sono violati, lo Stato di diritto è in cancrena, l'ossatura degli equilibri sociali è marcia e in disfacimento.
Nell'ovest dell'Africa può arrivare a cinquanta dollari. Addirittura in Yemen è possibile rintracciare AK-47 usati di seconda e terza mano anche a sei dollari. Il dominio all'est dei clan, la zampata sui depositi di armi dei paesi socialisti in disfacimento hanno fatto dei clan casertani e napoletani i referenti migliori per i trafficanti di armi, assieme alle cosche calabresi con cui sono in perenne contatto.
La camorra — gestendo una grossa fetta del mercato internazionale di armi — determinerebbe i prezzi dei kalashnikov, divenendo indirettamente il giudice dello stato di salute dei diritti dell'uomo in Occidente. Come se drenasse il livello del diritto, lentamente, come la goccia che casca nel catetere. Mentre i gruppi criminali francesi e americani usavano l'M16 di Eugene Stoner, il fucile d'assalto dei marines grosso, ingombrante, pesante; un fucile che dev'essere oliato, pulito, se non vuoi che ti s'inceppi in mano, in Sicilia e in Campania, da Cinisi a Casal di Principe, i kalashnikov già negli anni '80 passavano di mano in mano. Nel 2003, dalle dichiarazioni di un pentito — Raffaele Spinello del clan Genovese, egemone ad Avellino e nell'avellinese — saltò fuori il rapporto tra i baschi dell'ETA e la camorra. Il clan Genovese è alleato ai Cava di Quindici e alle famiglie del casertano. Non è un clan di prim'ordine, eppure era in grado di fornire armi a uno dei principali gruppi armati europei che, nel corso di una trentennale lotta, aveva battuto strade molteplici per l'approvvigionamento di armi. Ma i clan campani risultavano interlocutori privilegiati. Due etarras, i militanti baschi José Miguel Arreta e Grada Morillo Torres trattarono — secondo indagini della Procura di Napoli del 2003 — per dieci giorni in una suite di un albergo di Milano. Prezzi, percorsi, scambi. Si misero d'accordo. L'ETÀ inviava cocaina attraverso i militanti dell'organizzazione per ricevere in cambio armi. L'ETÀ avrebbe costantemente abbassato il costo della coca che si procurava attraverso i contatti con i gruppi guerriglieri colombiani e si assumeva i costi e le responsabilità dell'arrivo della merce in Italia: tutto pur di mantenere rapporti con i cartelli campani, gli unici forse in grado di fornire interi arsenali. Ma I'ETA non voleva solo kalashnikov. Chiedeva armi pesanti, esplosivi potenti e soprattutto lanciamissili.
I rapporti tra camorra e guerriglieri sono sempre stati prolifici. Persino in Perù, da sempre patria d'elezione dei narcos napoletani. Nel 1994 il Tribunale di Napoli si è rivolto per rogatoria alle autorità peruviane per svolgere indagini dopo che una decina di italiani erano stati fatti fuori a Lima. Indagini indirizzate a svelare i rapporti che i clan napoletani avevano intrattenuto — attraverso i fratelli Rodriguez — con il MRTA. I guerriglieri dal fazzoletto rosso e bianco tirato a triangolo sul volto. Anche loro avevano trattato con i clan, persino loro. Coca in cambio di armi. Nel 2002 venne arrestato un avvocato, Francesco Magliulo, legato secondo le accuse al clan Mazzarella, la potente famiglia di San Giovanni a Teduccio con un pied-à-terre aiminale nella città di Napoli, al quartiere Santa Lucia e Forcella. Lo avevano seguito per oltre due anni, nei suoi affari tra Egitto, Grecia e Inghilterra. Una telefonata intercettata proveniva da Mogadiscio, dalla villa del generale Aidid, il signore della guerra somalo che — contrapponendosi alle bande di Ali Mahdi — aveva ridotto la Somalia a un corpo dilaniato e marcio da seppellire assieme ai rifiuti tossici di mezz'Europa. Le indagini sui rapporti tra il clan Mazzarella e la Somalia proseguirono in ogni direzione, e sicuramente l'elemento del traffico d'armi divenne una pista fondamentale. Anche i signori della guerra divengono signorine davanti alla necessità di approvvigionarsi di armi con i clan campani.
Nel marzo 2005 fu impressionante la potenza di fuoco ritrovata a Sant'Anastasia, paese alle falde del Vesuvio. Una scoperta avvenuta un po' per caso, un po' per indisciplina dei trafficanti che iniziarono a pestarsi per strada perché committenti e trasportatori non si erano accordati sui prezzi. Quando arrivarono i carabinieri smontarono i pannelli all'interno del furgoncino, fermo vicino alla scazzottata, trovando una delle più grandi santabarbare mobili che si siano mai viste. Mitragliatrici Uzi complete di quattro serbatoi, sette caricatori e centododici proiettili calibro 380, mitragliatori di origine russa e ceca capaci di sparare a raffica novecentocinquanta colpi al minuto. Seminuove, ben oliate, la matricola intatta, le mi-tragliette erano appena arrivate da Cracovia. Novecentocinquanta colpi al minuto era il potere di fuoco degli elicotteri americani in Vietnam. Armi che avrebbero sventrato divisioni di uomini e di cingolati, e non batterie di fuoco di famiglie camorriste del vesuviano. La potenza delle armi diviene così l'ennesima possibilità di raccogliere le leve del potere reale del Leviatano che impone l'autorità in nome della sua violenza potenziale. Nelle armerie vengono trovati bazooka, bombe a mano, mine anticarro, mitragliatori, ma risultano essere usati esclusivamente kalashnikov, mitra Uzi e pistole automatiche e semiautomatiche. Il resto fa parte della dotazione da utilizzare nella costruzione della propria potenza militare, da mostrare sul campo. Con queste potenzialità belliche, i clan non si contrappongono alla violenza legittima dello Stato, ma tendono a monopolizzare loro la violenza. In Campania non c'è alcuna ossessione alla tregua, come quella dei vecchi clan di Cosa Nostra. Le armi sono l'estensione diretta delle dinamiche di assestamento dei capitali e dei territori, il mischiarsi di gruppi di potere emergenti e di famiglie concorrenti. È come se possedessero in esclusiva il concetto di violenza, la carne della violenza, gli strumenti della violenza. La violenza diviene un loro territorio, esercitarla significa addestrarsi al loro potere, al potere del Sistema. I clan hanno persino creato nuove armi disegnate, progettate e realizzate direttamente dagli affiliati. A Sant'Antimo — a nord di Napoli — nel 2004 gli agenti di polizia trovarono nascosto in una buca scavata nel terreno e poi coperta da fasci di erbaccia un fucile strano, avvolto in un telo di cotone impregnato d'olio. Una sorta di micidiale fucile fai da te che sul mercato si trova a un prezzo di duecentocinquanta euro: nulla, paragonato a una semiautomatica che ha un prezzo medio di duemilacinquecento euro. H fucile dei clan è formato da un incastro di due tubi che possono viaggiare separati, una volta assemblati però divengono un micidiale fucile a canne mozze caricato a cartucce o a pallettoni. Progettato sul modello di un vecchio fucile giocattolo degli anni '80 che sparava palline da ping pong se si tirava violentemente il calcio e lasciava scattare una molla all'interno. Uno di quei fucili giocattolo come il "pimpamperi" che hanno addestrato migliaia di bambini italiani nelle guerre da salotto. Ma da lì, proprio da quei modelli giocattolo proviene quello che qui chiamano solo "'o tubo". E composto da due tubi, il primo di diametro più grande e lungo una quarantina di centimetri con una impugnatura.
Dentro è saldata una grossa vite metallica, la cui punta funge da otturatore. La seconda parte è costituita da un tubo che ha un diametro inferiore, capace di contenere una cartuccia calibro 20, e una impugnatura laterale. Incredibilmente semplice e terribilmente potente. Questo fucile aveva come vantaggio quello di non creare complicanze dopo l'utilizzo: non è necessario fuggire e distruggere le armi dopo l'agguato. Basta smontarlo e il fucile diviene soltanto un tubo spezzato in due, innocuo a ogni eventuale perquisizione.
Prima del sequestro, sentii parlare di questo fucile da un povero cristo, un pastore, uno di quegli emaciati contadini italiani che ancora si aggirano, col loro gregge, per le campagne che circoscrivono i viadotti autostradali e i casermoni di periferia. Spesso questo pastore trovava le sue pecore divise in due, spaccate piuttosto che tagliate, questi corpi magrissi-mi di pecore napoletane dal cui manto si vedono persino le costole, che masticano erba pregna di diossina che fa marcire i denti e ingrigire la lana. Il pastore credeva fosse un'avvisaglia, una provocazione dei suoi miserabili concorrenti di greggi malati. Non capiva. In realtà i fabbricanti del tubo provavano su animali leggeri la potenza del colpo. Le pecore erano il bersaglio migliore per capire nell'immediato la forza dei proiettili e la qualità dell'arma. Lo si comprendeva da quanto l'impatto le faceva capovolgere e spezzare in due nell'aria come bersagli di un videogame.
La questione delle armi è tenuta nascosta nel budello dell'economia, chiusa in un pancreas di silenzio. L'Italia spende in armi ventisette miliardi di dollari. Più soldi della Russia, il doppio di Israele. La classifica l'ha stesa l'Istituto internazionale di Stoccolma per la ricerca sulla pace, il SIPRI. Se a questi dati dell'economia legale si aggiunge che secondo I'EURISPES tre miliardi e trecento milioni è il business delle armi in mano a camorra, 'ndrangheta, Cosa Nostra e Sacra Corona Unita gestiscono, significa che seguendo l'odore delle armi che Stato e clan gestiscono si arriva ai tre quarti delle armi che circolano in mezzo mondo. H cartello dei Casalesi è in assoluto il gruppo imprenditorial-criminale capace di fornire sul piano internazionale referenti non solo di gruppi, ma di interi eserciti. Durante la guerra anglo-argentina del 1982, la guerra delle Falkland, l'Argentina visse il suo periodo di isolamento economico più cupo. Così la camorra entrò in affari con la difesa argentina divenendo l'imbuto attraverso cui far discendere le armi che nessuno le avrebbe venduto ufficialmente. I clan si erano equipaggiati per una lunga guerra, invece il conflitto era iniziato a marzo e a giugno già se ne vedeva la conclusione. Pochi colpi, pochi morti, pochi consumi. Una guerra che serviva più ai politici che agli imprenditori, più alla diplomazia che all'economia. Ai clan casertani non conveniva svendere per accaparrarsi un guadagno immediato. Il giorno stesso in cui venne decretata la fine del conflitto fu intercettata dai servizi segreti inglesi, una telefonata intercontinentale tra l'Argentina e San Cipriano d'Aversa. Due sole frasi, sufficienti però a comprendere la potenza delle famiglie casertane e la loro capacità diplomatica:
"Pronto?"
"Sì."
"Qua la guerra è finita, mo che dobbiamo fare?"
"Nun te preoccupa', un'altra guerra ci sarà…"
La saggezza del potere possiede una pazienza che spesso gli imprenditori più abili non hanno. I Casalesi nel 1977 avevano trattato l'acquisto di carri armati, i servizi segreti italiani segnalarono che un Leopard smontato e pronto per essere spedito, si trovava alla stazione di Villa Literno. Il commercio dei carri armati Leopard è stato a lungo mercato gestito dalla camorra. Nel febbraio del 1986 venne intercettata una telefonata dove esponenti del clan dei Nuvoletta trattavano l'acquisto di alcuni Leopard con l'allora Germania dell'Est. Anche con l'avvicendarsi dei capi, i Casalesi rimasero sul piano internazionale referenti non solo di gruppi ma di interi eserciti. Un'informativa del SISMI e del centro di controspionaggio di Verona del 1994 segnala che Zeljco Raznatovie, meglio conosciuto come la "tigre Arkan", ebbe rapporti con Sandokan Schiavone, capo dei Casalesi. Arkan fu fatto fuori nel 2000 in un albergo di Belgrado. È stato uno dei criminali di guerra serbi più spietati, capace con le sue incursioni di radere al suolo i paesi musulmani della Bosnia, fondatore di un gruppo nazionalista, i "Volontari della Guardia Serba". Le due tigri si allearono. Arkan chiese armi per i suoi guerriglieri, e soprattutto la possibilità di aggirare l'embargo imposto alla Serbia, facendo entrare capitali e armi sotto forma di aiuti umanitari: ospedali da campo, medicinali e attrezzature mediche. Secondo il SISMI però le forniture — del valore complessivo di svariate decine di milioni di dollari — erano in realtà pagate dalla Serbia mediante prelievi dai propri depositi presso una banca austriaca, ammontanti a ottantacinque milioni di dollari. Quei soldi venivano poi girati a un ente alleato dei clan serbi e campani, che avrebbe dovuto provvedere a ordinare alle varie industrie interessate i beni da dare come aiuto umanitario, pagando con soldi provenienti da attività illecite, e attuando così il riciclaggio degli stessi capitali. E proprio in questo passaggio entrano in scena i clan Casalesi. Sono loro ad aver messo a disposizione le ditte, i trasporti, i beni per effettuare l'operazione di riciclaggio. Servendosi dei suoi intermediari Arkan, secondo le informative, chiese l'intervento dei Casalesi per mettere a tacere i mafiosi albanesi che avrebbero potuto rovinare la sua guerra finanziaria, attaccando da sud o bloccando il commercio di armi. I Casalesi calmarono i loro alleati albanesi, dando armi e concedendo ad Arkan una serena guerriglia. In cambio aziende, imprese, negozi, masserie, allevamenti furono acquistati dagli imprenditori del clan a ottimo prezzo e l'impresa italiana si disseminò in mezza Serbia. Prima di entrare nel fuoco della guerra, Arkan ha interpellato la camorra. Le guerre, dal Sud America ai Balcani, si fanno con gli artigli delle famiglie campane.
Cemento armato
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Mancavo da Casal di Principe da molto. Se per le arti marziali la patria era considerata il Giappone, per il surf l'Australia, per i diamanti la Repubblica della Sierra Leone, per il potere imprenditoriale della camorra è Casal di Principe la capitale. Nella provincia napoletana e casertana il solo provenire da Casale era come una sorta di garanzia di immunità, significava essere più di se stesso, come direttamente emanato dalla ferocia dei gruppi criminali casertani. Si godeva di un rispetto garantito, di una sorta di timore naturale. Persino Benito Mussolini aveva voluto eliminare questo marchio di provenienza, quest'aura criminale, e aveva ribattezzato i due comuni di San Cipriano d'Aversa e Casal di Principe col nome di Albanova. Per inaugurare una nuova alba di giustizia, mandò anche decine di carabinieri incaricati di risolvere il problema "col ferro e col fuoco". Oggi del nome Albanova non rimane che la stazione rugginosa di Casale.
Puoi aver dato pugni al sacco per ore, aver passato pomeriggi sotto un bilanciere a pressare i pettorali, esserti ingollato blister e blister di pillole che fanno gonfiare i muscoli, ma davanti a un accento giusto, davanti a un gesticolare forte, è come se tutti i corpi a terra coperti dai lenzuoli si materializzassero. Ci sono vecchi modi di dire in questi luoghi che riescono a sintetizzare bene la carica letale di certa mitologia violenta: "Camorristi si diventa, ma casalesi si nasce". Oppure quando si litiga, quando ci si sfida con gli sguardi, un attimo prima di prendersi a cazzotti o a coltellate si rende chiara la propria visione di vita: "Vita e morte per me è 'a stessa cosa!". A volte la propria origine, il proprio paese di provenienza possono fare comodo, si possono usare come elemento di fascino, lasciarsi confondere volentieri con l'immagine di violenza, utilizzarli come intimidazione dissimulata. Puoi avere sconti al cinema e credito presso qualche commessa paurosa. Ma capita anche che il tuo paese d'origine ti dia una carica pregiudiziale troppo forte e non vuoi neanche stare lì a dire che non tutti sono affiliati, non tutti sono criminali, che i camorristi sono una minoranza, e prendi una scorciatoia correndo con la mente a un paese vicino, più anonimo, che possa allontanare accostamenti tra te e i criminali: Secondigliano diviene genericamente Napoli, Casal di Principe, Aversa o Caserta. Ci si vergogna o si è orgogliosi a seconda del gioco, a seconda del momento, della situazione, come un vestito, ma che è lui a decidere quando indossarti.
Corleone, in confronto a Casal di Principe, è una città progettata da Walt Disney. Casal di Principe, San Cipriano d'A-versa, Casapesenna. Un territorio con meno di centomila abitanti, ma con milleduecento condannati per 416 bis, il reato di associazione mafiosa, e un numero esponenziale di indagati e condannati per concorso esterno in associazione mafiosa. Questa terra subisce da tempo infinito il peso delle famiglie camorriste, una borghesia violenta e feroce che possiede nel clan la sua avanguardia più cruenta e potente. Il clan dei Casalesi — che prende il nome proprio da Casal di Principe — è una confederazione che riunisce in sé in un rapporto di autonomia federativa tutte la famiglie camorristiche del casertano: da Castelvolturno, Villa Literno, Gricignano, San Tammaro, Cesa, sino a Villa di Briano, Mondragone, Carinola, Marcianise, San Nicola La Strada, Calvi Risorta, Lasciano e altre decine e decine di paesi. Ciascuno con il suo capozona, ciascuno inquadrato nella rete dei Casalesi. Il capostipite delle famiglie Casalesi, Antonio Bardellino, era stato il primo in Italia a comprendere che sul lungo termine la cocaina avrebbe di gran lunga soppiantato l'eroina. Eppure per Cosa Nostra e molte famiglie di camorra, l'eroina continuava a essere la merce principale. Gli eroinomani venivano visti come vere e proprie casseforti, mentre la coca negli anni '80 aveva la caratteristica di essere una droga d'elite. Antonio Bardellino aveva compreso però che il grande mercato sarebbe stato di una droga capace di non massacrare in breve tempo, in grado di essere come un aperitivo borghese e non un veleno da reietti. Creò così una ditta di import-export di farina di pesce che esportava dal Sud America e importava nell'aversano. Farina di pesce che nascondeva tonnellate di coca. L'eroina che trattava, Bardellino la smerciava anche in America mandandola a John Gotti, inserendo la droga nei filtri di macchine per il caffè espresso. Una volta sessantasette chili di eroina vennero intercettati dalla narcotici americana, ma per il boss di San Cipriano d'Aversa non fu una disfatta. Fece telefonare a Gotti pochi giorni dopo: "Adesso ne mandiamo il doppio con altri mezzi". Dall'agro aversano nacque il cartello che seppe opporsi a Cutolo e la ferocia di quella guerra è ancora presente nel codice genetico dei clan casertani. Negli anni '80 le famiglie cutoliane vennero eliminate con poche operazioni militari, ma di potenza violentissima. I Di Matteo, quattro uomini e quattro donne, vennero massacrati in pochi giorni. I Casalesi lasciarono vivo solo un bambino di otto anni. I Simeone invece furono uccisi in sette, quasi tutti contemporaneamente. Al mattino la famiglia era viva, presente e potente, la notte stessa era scomparsa. Massacrata. A Ponte Annicchino — nel marzo dell'82 — i Casalesi posizionarono su una collina una mitraglietta da campo, di quelle usate nelle trincee, e spararono massacrando quattro cutoliani.
Antonio Bardellino era affiliato a Cosa Nostra, legato a Ta-no Badalamenti, sodale e amico di Tommaso Buscetta, con cui aveva diviso una villa in Sud America. Quando i Corleo-nesi spazzarono il potere di Badalamenti-Buscetta tentarono di eliminare anche Bardellino, ma senza successo. I siciliani, durante la prima fase di ascesa della Nuova Camorra Organizzata, tentarono di eliminare anche Raffaele Cutolo. Mandarono un killer, Mimmo Bruno, con un traghetto da Palermo, ma questi venne ucciso appena messo piede fuori dal porto. Cosa Nostra ha avuto nei confronti dei Casalesi sempre una sorta di rispetto e soggezione, ma quando, nel 2002, i Casalesi uccisero Raffaele Lubrano — boss di Pignataro Maggiore vicino Capua — uomo affiliato a Cosa Nostra, combinato direttamente da Totò Runa, in molti temevano lo scoppio di una faida. Ricordo che il giorno dopo l'agguato un giornalaio, vendendo il quotidiano locale, si rivolse al cliente biascicando tra i denti i suoi timori:
"Mo se vengono a combattere pure i siciliani perdiamo la pace per tre anni."
"Quali siciliani? I manosi?"
"Sì, i mafiosi."
"Quelli si devono inginocchiare davanti ai Casalesi e succhiare. Solo questo devono fare, zucare tutto e basta."
Una delle dichiarazioni che più mi avevano sconvolto sui mafiosi siciliani l'aveva rilasciata Cannine Schiavone, pentito del clan dei Casalesi, in un'intervista del 2005. Parlava di Cosa Nostra come di un'organizzazione schiava dei politici, incapace di ragionare in termini di affari, come invece facevano i camorristi casertani. Per Schiavone la mafia voleva porsi come anti-Stato, e questo non era un discorso da imprenditori. Non esiste il paradigma Stato-anti Stato. Ma solo un territorio in cui si fanno affari: con, attraverso e senza lo Stato:
Noi vivevamo con lo Stato. Per noi lo Stato doveva esistere e doveva essere quello Stato che c'era, solo che noi avevamo una filosofia diversa dai siciliani. Mentre Runa usciva da un isolamento isolano, da montagna, vecchio pecoraio insomma, noi avevamo superato questi limiti, noi volevamo vivere con lo Stato. Se qualcuno nello Stato ci faceva ostruzionismo, ne trovavamo un altro disposto a favorirci.
Se era un politico non lo votavamo, se era uno delle istituzioni si trovava il metodo per raggirare.
Carmine Schiavone, cugino del boss Sandokan, fu il primo a scoperchiare gli affari del clan dei Casalesi. Quando scelse di collaborare con la giustizia, sua figlia Giuseppina gli lanciò una terribile condanna, forse persino più letale di una condanna a morte. Scrisse infatti parole di fuoco ad alcuni giornali:
"È un grande falso, bugiardo, cattivo e ipocrita che ha venduto i suoi fallimenti. Una bestia. Non è mai stato mio padre. Io non so neanche cosa sia la camorra."
Imprenditori. Così si definiscono i camorristi del casertano: null'altro che imprenditori. Un clan formato da azienda-listi violenti, manager killer, da edili e proprietari terrieri. Ognuno con le proprie bande armate, consorziati tra loro con interessi in ogni ambito economico. La forza del cartello dei Casalesi è sempre stata quella di trattare grandi partite di droga senza avere necessità di alimentare un mercato interno. La grande piazza romana è il loro riferimento di spaccio, ma molta più rilevanza ha assunto il carattere di mediazione nella compravendita di grosse partite. Gli atti della Commissione Antimafia del 2006 segnalano che i Casalesi rifornivano di droga le famiglie palermitane. L'alleanza con i clan nigeriani e albanesi gli ha permesso di emanciparsi dalla gestione diretta dello spaccio e del narcotraffico. I patti con i clan nigeriani di Lagos e Benin City, le alleanze con le famiglie mafiose di Pristina e Tirana, gli accordi con i mafiosi ucraini di Leopo-li e Kiev avevano emancipato i clan Casalesi dalle attività criminali di primo livello. Allo stesso tempo i Casalesi ricevevano un trattamento privilegiato negli investimenti compiuti nei paesi dell'est e nell'acquisto di coca dai trafficanti internazionali con basi in Nigeria. I nuovi leader, le nuove guerre, tutto era avvenuto dopo l'esplosione del clan Bardellino, origine del potere imprenditoriale della camorra di queste terre. Antonio Bardellino, dopo aver raggiunto un dominio totale in ogni ambito economico legale e illegale, dal narcotraffico all'edilizia, si era stabilito a Santo Domingo con una nuova famiglia. Aveva dato ai figli sudamericani gli stessi nomi di quelli di San Cipriano, un modo semplice e comodo per non confondersi. I suoi uomini più fedeli avevano in mano le redini del clan sul territorio. Erano usciti indenni dalla guerra con Cutolo, avevano sviluppato aziende e autorevolezza, si erano espansi ovunque, in Italia settentrionale e all'estero. Mario Iovine, Vincenzo De Falco, Francesco Schiavone "San-dokan", Francesco Bidognetti "Cicciotto di Mezzanotte", Vincenzo Zagaria erano i capi della confederazione Casalese. All'inizio degli anni '8 °Cicciotto di Mezzanotte e Sandokan erano responsabili militari, ma anche imprenditori con interessi in ogni ambito, avevano ormai maturato la possibilità di dirigere l'enorme multicefalo della confederazione. Trovavano però in Mario Iovine, un boss troppo legato a Bardelli-no, un capo restio a una scelta d'autonomia. Attuarono così una strategia sibillina, ma politicamente efficace. Usarono le spigolosità della diplomazia camorristica nell'unico modo che poteva permettere di realizzare i loro scopi: fare scoppiare una guerra interna al sodalizio.
Come racconta il pentito Carmine Schiavone, i due boss pressarono Antonio Bardellino per farlo ritornare in Italia e spingerlo a eliminare Mimi Iovine, fratello di Mario, che aveva un mobilificio ed era formalmente estraneo alle dinamiche di camorra, ma che secondo i due boss aveva per troppe volte svolto il ruolo di confidente dei carabinieri. Per convincere il boss gli avevano raccontato che persino Mario era disposto a sacrificare suo fratello, pur di mantenere ben saldo il potere del clan. Bardellino si lasciò convincere e fece ammazzare Mimi mentre stava andando al lavoro nel suo mobilificio. Subito dopo l'agguato Cicciotto di Mezzanotte e Sandokan fecero pressione su Mario Iovine perché eliminasse Bardellino, dicendogli che aveva osato uccidere suo fratello per un pretesto, soltanto per una voce. Un doppio gioco che sarebbe riuscito a mettere l'uno contro l'altro. Iniziarono a organizzarsi. I delfini di Bardellino erano tutti d'accordo per eliminare il capo dei capi, l'uomo che più di tutti in Campania aveva creato un sistema di potere criminal-imprendito-riale. Il boss fu convinto a spostarsi da Santo Domingo nella villa brasiliana. Gli raccontarono che aveva l'Interpol alle costole. In Brasile, nel 1988, lo andò a trovare Mario Iovine con il pretesto di mettere a punto i loro affari circa l'impresa di import-export di farina di pesce-coca. Un pomeriggio Iovine — non trovandosi più nei calzoni la pistola — prese una mazzuola e sfondò il cranio di Bardellino. Seppellì il corpo in una buca scavata sulla spiaggia brasiliana, dove però non fu mai trovato, e così nacque la leggenda che Antonio Bardellino fosse in realtà ancora vivo a godersi le sue ricchezze in qualche isola sudamericana. Eseguita l'operazione, il boss telefonò immediatamente a Vincenzo De Falco per comunicare la notizia e dare inizio alla mattanza di tutti i bardelliniani. Paride Salzillo, nipote di Bardellino e suo vero erede sul territorio, venne invitato a un summit tra tutti i dirigenti del cartello casalese. Racconta il pentito Carmine Schiavone che lo fecero sedere a capotavola, in rappresentanza dello zio. Poi d'improvviso Sandokan lo aggredì e iniziò a strangolarlo, mentre suo cugino, suo omonimo conosciuto come "Cicciariello", e altri due affiliati Raffaele Diana e Giuseppe Caterino, gli tenevano gambe e braccia. Avrebbe potuto ammazzarlo con una pistolettata o una coltellata allo stomaco come facevano i vecchi boss. Era invece con le mani che doveva ucciderlo, come si ammazzano i vecchi sovrani scalzati dai nuovi. Da quando, nel 1345, Andrea d'Ungheria venne strangolato ad Aversa in una congiura organizzata da sua moglie Giovanna I e dai nobili napoletani comandati da Carlo di Durazzo che ambiva al trono di Napoli, nell'agro aversa-no lo strangolamento era divenuto il simbolo della successione al trono, dell'avvicendarsi violento dei sovrani. Sandokan doveva mostrare a tutti i boss che lui era l'erede, che lui per diritto di ferocia era il nuovo leader dei Casalesi.
Antonio Bardellino aveva creato un sistema complesso di dominio e tutte le cellule imprenditoriali che si erano generate nel suo seno non potevano restare ancora per lungo tempo compattate negli scompartimenti da lui diretti. Erano giunte a maturazione, dovevano esprimere tutto il loro potere, senza più vincoli di gerarchia. Sandokan Schiavone divenne così il leader. Aveva messo su un sistema efficientissimo legato tutto alla sua famiglia. Il fratello Walter coordinava le batterie di fuoco, il cugino Carmine gestiva l'aspetto economico e finanziario, il cugino Francesco fu eletto sindaco di Casal di Principe e l'altro cugino Nicola assessore alle Finanze. Passaggi importanti per riuscire ad affermarsi in paese, che nella fase d'ascesa significa molto. Il potere di Sandokan si affermò nei primi anni del suo dominio anche attraverso stretti legami politici. Per un conflitto con la vecchia Democrazia Cristiana, a Casal di Principe i clan appoggiarono nel 1992 il Partito Liberale Italiano che ebbe la più grande impennata della sua storia: da un risicato 1 per cento balzò, dopo il sostegno del clan, al 30 per cento. Ma tutti gli altri uomini di primo piano del clan erano ostili alla leadership assoluta di Sandokan. Soprattutto i De Falco, gruppo capace di avere dalla propria carabinieri e poliziotti, alleanze imprenditoriali e politiche. Nel 1990 ci furono diverse riunioni dei dirigenti Casalesi. A una fu invitato anche Vincenzo De Falco, soprannominato *"o fuggiasco". I boss avrebbero voluto eliminarlo. Lui non arrivò. Arrivarono invece i carabinieri che arrestarono i convitati. Nel 1991 Vincenzo De Falco venne ucciso, lo crivellarono di colpi nella sua macchina. La polizia lo trovò accasciato su se stesso con lo stereo a palla e una cassetta di Modugno che ancora girava. Dopo questa morte ci fu una spaccatura tra tutte le famiglie della confederazione dei Casalesi. Da un lato le famiglie vicine a Sandokan-Iovine: Zaga-ria, Reccia, Bidognetti, e Caterino; dall'altra le famiglie vicine ai De Falco: Quadrano, La Torre, Luise, Salzillo. I De Falco risposero alla morte del "fuggiasco" ammazzando Mario Iovi-ne a Cascais, in Portogallo nel 1991. Lo crivellarono di colpi mentre era in una cabina telefonica. Con la morte di Iovine fu terreno aperto per Sandokan Schiavone. Ci furono quattro anni di guerre, massacri, quattro anni di mattanze continue tra le famiglie vicine a Schiavone e quelle dei De Falco. Anni di stravolgimenti di alleanze, di clan che passavano da una parte all'altra dello schieramento, non ci fu una vera e propria soluzione, ma una spartizione di territori e poteri. Sandokan divenne l'emblema della vittoria del suo cartello sulle altre famiglie. Dopo, tutti i suoi nemici si riconvertirono in suoi alleati. Cemento e narcotraffico, racket, trasporti, rifiuti e monopolio nel commercio e nelle imposizioni di forniture. Questo era il territorio aziendale dei Casalesi di Sandokan. I consorzi del cemento divennero un'arma fondamentale per i clan Casalesi.
Ogni impresa edile deve rifornirsi di cemento dai consorzi, e così questo meccanismo diventava fondamentale per mettere in relazione i clan con tutti gli imprenditori edili esistenti sul territorio e con tutti gli affari possibili. Il prezzo del cemento dei consorzi gestiti dai clan, come dichiarato spesso da Carmine Schiavone, riusciva ad avere vantaggi esponenziali perché, oltre al cemento, le navi dei consorzi distribuivano armi ai paesi mediorientali con embargo. Questo secondo livello di commercio permetteva di abbattere i costi del livello legale. I clan Casalesi guadagnavano in ogni passaggio dell'economia dell'edilizia. Fornendo cemento, fornendo ditte in subappalto per la costruzione e ricevendo una tangente sui grossi affari. Tangente che risultava essere il punto di partenza, poiché senza versarla, le loro ditte economiche ed efficienti non avrebbero lavorato, e nessun'altra ditta avrebbe potuto farlo senza danno alcuno e a buon mercato. Il giro d'affari che la famiglia Schiavone gestisce è quantificabile in cinque miliardi di euro. L'intera potenza economica del cartello delle famiglie Casalesi tra beni immobili, masserie, azioni, liquidità, ditte edili, zuccherifici, cementifici, usura, traffico di droga e di armi, si aggira intorno ai trenta miliardi di euro. La camorra casalese è diventata un'impresa polivalente; la più affidabile della Campania, in grado di partecipare a tutti gli affari. La quantità di capitali accumulati illegalmente le consente di avere spesso un credito agevolato che permette alle sue imprese di sbaragliare la concorrenza con prezzi bassi o con intimidazioni. La nuova borghesia camorrista casalese ha trasformato il rapporto estorsivo in una sorta di servizio aggiuntivo, il racket in una partecipazione all'impresa di camorra. Pagare un mensile al clan può significare concedergli esclusivamente danaro per i suoi affari, ma al contempo può significare anche ricevere protezione economica con le banche, camion in orario, agenti commerciali rispettati. Il racket come un acquisto imposto di servizi. Questa nuova concezione del racket emerge da un'indagine del 2004 della Questura di Caserta, conclusasi con l'arresto di diciotto persone. Francesco Schiavone San-dokan, Michele Zagaria e il clan Moccia erano i più importanti soci di Cirio e Parmalat in Campania. In tutto il casertano, in parte consistente del napoletano, in tutto il basso Lazio, in parte delle Marche e dell'Abruzzo, in parte della Lucania, il latte distribuito dalla Cirio e poi dalla Parmalat aveva conquistato il 90 per cento del mercato. Un risultato ottenuto grazie all'alleanza stretta con la camorra casalese e alle tangenti che le aziende pagavano ai clan per mantenere una posizione di preminenza. Diversi i marchi coinvolti tutti riconducibili all'impero Eurolat, l'azienda passata nel 1999 dalla Cirio di Cragnotti alla Parmalat di Tanzi.
I magistrati avevano disposto il sequestro di tre concessionarie e diverse aziende per la distribuzione e la vendita del latte, tutte, secondo l'accusa, controllate dalla camorra casalese. Le aziende del latte erano intestate a prestanome che agivano per conto dei Casalesi. Prima Cirio, e poi Parmalat, per ottenere il ruolo di cliente speciale, avevano trattato direttamente con il cognato di Michele Zagaria, latitante da un decennio e reggente del clan dei Casalesi. Il trattamento di favore era conquistato innanzitutto attraverso politiche commerciali. I marchi della Cirio e della Parmalat concedevano ai distributori uno sconto speciale — dal 4 al 6,5 per cento, invece del consueto 3 per cento circa — oltre a vari premi di produzione, così anche i supermercati e i dettaglianti potevano strappare buoni sconti sui prezzi: i Casalesi costruivano in questo modo un consenso diffuso nei confronti del loro predominio commerciale. Dove poi non arrivavano il pacifico convincimento e l'interesse comune, entrava in azione la violenza: minacce, estorsioni, distruzione dei camion per il trasporto delle merci. Pestavano i camionisti, rapinavano i Tir delle aziende concorrenti, bruciavano i depositi. Un clima di paura diffusa, tanto che nelle zone controllate dai clan era impossibile non solo distribuire, ma anche trovare qualcuno che fosse disposto a vendere marchi diversi da quelli imposti dai Casalesi. A pagare, alla fine, erano i consumatori: perché in una situazione di monopolio e di mercato bloccato, i prezzi finali erano fuori da ogni controllo per mancanza di una vera concorrenza.
Il grande accordo tra le aziende nazionali del latte e la camorra era venuto fuori nell'autunno del 2000, quando un affiliato dei Casalesi, Cuono Lettiero, aveva cominciato a collaborare con i magistrati e a raccontare i rapporti commerciali stretti dai clan. La certezza di avere una vendita costante era il modo più diretto e automatico per avere garanzie con le banche, era il sogno di ogni grande impresa. In una situazione del genere Cirio e Parmalat risultavano ufficialmente "parti offese" cioè vittime delle estorsioni, ma gli investigatori si sono convinti che il clima degli affari era relativamente disteso e le due parti, le imprese nazionali e i camorristi locali agivano con reciproca soddisfazione.
Mai Cirio e Parmalat avevano denunciato di subire in Campania le imposizioni dei clan, seppure nel 1998 un funzionario della Cirio era stato vittima di un'aggressione nella sua abitazione nel casertano, dov'era stato selvaggiamente picchiato con un bastone sotto gli occhi della moglie e della figlia di nove anni perché non aveva obbedito a ordini dei clan. Nessuna ribellione, nessuna denuncia: la sicurezza del monopolio era meglio dell'incertezza del mercato. I soldi distribuiti per mantenere il monopolio e occupare il mercato campano dovevano essere giustificati nei bilanci delle aziende: nessun problema, nel Paese della finanza creativa e della depenalizzazione del falso in bilancio. False fatturazioni, false sponsorizzazioni, falsi premi di fine anno sui volumi di latte venduto risolvevano ogni problema contabile. Dal 1997 risultano finanziate, a questo proposito, manifestazioni inesistenti: la Sagra della mozzarella, Musica in piazza, persino la festa di San Tammaro, patrono di Villa Literno. La Cirio finanziava, come attestato di stima per il lavoro svolto, anche una società sportiva gestita di fatto dal clan Moccia, la Polisportiva Afragolese, oltre a una fitta rete di club sportivi, musicali, ricreativi: la "società civile" dei Casalesi nel territorio.
Il potere del clan negli ultimi anni è cresciuto enormemente riuscendo ad arrivare nell'est Europa: Polonia, Romania, Ungheria. Proprio in Polonia, nel marzo 2004, era stato arrestato Francesco Schiavone, Cicciariello, il cugino di San-dokan, il boss baffuto e tracagnotto, una delle personalità principali del sodalizio camorristico. Era ricercato per dieci omicidi, tre sequestri di persona, nove tentativi di omicidio e numerose violazioni delle leggi in materia di armi, oltre che per estorsione. Lo beccarono mentre era andato a fare la spesa con la sua compagna romena, Luiza Boetz di venticinque anni. Cicciariello si faceva chiamare Antonio e risultava un semplice imprenditore italiano di cinquantuno anni. Ma che qualcosa non andasse nella sua vita, la compagna doveva averlo intuito, visto che Luiza, per raggiungerlo a Kro-sno, vicino a Cracovia, in Polonia, aveva fatto un giro tortuoso in treno, per depistare eventuali segugi di polizia. Un viaggio con varie tappe, l'avevano pedinata attraverso tre frontiere e poi l'inseguimento in auto fino alla periferia della città polacca. Cicciariello l'avevano fermato alla cassa del supermercato, si era tagliato i baffi, stirato i capelli crespi, era dimagrito. Si era trasferito in Ungheria ma continuava a incontrare la sua compagna in Polonia. Aveva enormi affari, allevamenti, terre edificabili acquistate, mediazioni con imprenditori del luogo. Il rappresentante italiano del SECI, il centro dell'Europa sudorientale contro la criminalità transfrontaliera, aveva denunciato che Schiavone e i suoi uomini andavano spesso in Romania e avevano avviato affari importanti nelle città di Barlad (est del paese), Sinaia (centro), Cluj (ovest) e anche sul litorale del Mar Nero. Cicciariello Schiavone aveva due amanti: oltre a Luiza Boetz anche Cristina Coremanciau, anche lei romena. A Casale la notizia del suo arresto, "per mezzo di una donna", sembrò giungere come uno sberleffo al boss. Un giornale locale titolò, quasi come per sbeffeggiarlo, "Cicciariello arrestato con l'amante". In realtà le due amanti erano vere e proprie manager che avevano curato per lui gli investimenti in Polonia e Romania, divenendo fondamentali per i suoi affari. Cicciariello era uno degli ultimi boss della famiglia Schiavone a essere arrestato. Molti dirigenti e gregari del clan dei Casalesi erano finiti dentro in vent'anni di potere e faide. Il maxiprocesso "Spartacus", chiamato come il gladiatore ribelle che proprio da queste terre tentò la più grande insurrezione che Roma avesse conosciuto, raccoglieva la summa delle indagini contro il cartello dei Casalesi e tutte le sue diramazioni.
Il giorno della sentenza andai al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Infilai la mia Vespa in un interstizio tra due auto, e riuscii a entrare in tribunale. Mi aspettavo telecamere, macchine fotografiche. Ce n'erano pochissime, e solo di giornali e tv locali. Carabinieri e poliziotti invece erano dappertutto. Circa duecento. Due elicotteri sorvolavano il tribunale a bassa quota, lasciando entrare il rumore delle pale nelle orecchie di tutti. Cani antibomba, volanti. Una tensione altissima. Eppure la stampa nazionale e le tv erano assenti. Il più grande processo contro un cartello criminale per numerodi imputati e condanne proposte era stato completamente
ignorato dai media. Gli addetti ai lavori conoscono il processo "Spartacus" per un numero: 3615, che è il numero del registro generale attribuito all'inchiesta con circa milletrecento inquisiti avviata dalla DDA nel 1993, partendo dalle dichiarazioni di Carmine Schiavone.
Un processo durato sette anni e ventuno giorni, per seicen-toventisei udienze complessive, n processo di mafia più complesso in Italia negli ultimi quindici anni. Cinquecento testimoni sentiti, oltre ai ventiquattro collaboratori di giustìzia, di cui sei imputati. Acquisiti novanta faldoni di atti, sentenze di altri processi, documenti, intercettazioni. Dopo quasi un anno dal blitz del 1995, arrivarono anche le inchieste-figlie di "Spartacus". "Spartacus 2" e "Regi Lagni", ossia il recupero dei canali borbonici che risalivano al diciottesimo secolo, che da allora non ricevevano ristrutturazione adeguata. H recupero dei Regi Lagni fu per anni pilotato dai clan che generarono — secondo le accuse — appalti miliardari inutilizzati per ristrutturare le vecchie strutture borboniche, e invece fatti defluire verso le loro imprese edili che sarebbero divenute vincenti in tutt'Italia negli anni successivi. E poi il processo "Aima", le truffe che i clan Casalesi avevano fatto nei famosi centri dello scamazzo, ossia dove la Comunità europea raccoglieva, scamazzandola, la fratta prodotta in eccesso dando in cambio un indennizzo ai contadini. Nei grandi crateri dove veniva sversata la frutta, i clan ci gettavano monnezza, ferro, rimasugli di lavori edili. Prima però tutta la schifezza se la facevano pesare come se fosse stata frutta. E ricevevano ovviamente i soldi di indennizzo, mentre la frutta dei loro appezzamenti continuava a essere venduta ovunque. Furono emessi centotrentuno decreti di sequestro riguardanti imprese, terreni, aziende agricole, per un valore complessivo di centinaia di milioni di euro. Destinatarie dei sequestri anche due società di calcio, l'Albanova, che militava nel campionato C2, e il Casal di Principe.
L'inchiesta prese in esame anche l'imposizione da parte del clan dell'affidamento di subappalti per opere pubbliche a imprese vicine all'organizzazione, con la conseguente gestione di forniture di calcestruzzo e le attività di movimentazione terra. Un altro rilevante capitolo dell'inchiesta concerneva le truffe ai danni della CEE, in particolare riguardo ai contributi ottenuti illecitamente nel comparto agro-alimentare. E poi centinaia di omicidi, alleanze imprenditoriali. Mentre ero lì in attesa della sentenza come tutti, pensavo che quello non era un processo come altri, non un semplice e ordinario processo contro famiglie camorriste della provincia meridionale. Quello sembrava una sorta di processo alla storia, come una Norimberga di una generazione di camorra, ma a differenza dei generalissimi del Reich, molti dei camorristi che erano lì continuavano a comandare, a essere i riferimenti dei loro imperi. Una Norimberga senza vincitori. Gli imputati nelle gabbie, in silenzio. Sandokan era in videoconferenza, immobile nel carcere di Viterbo. Sarebbe stato troppo rischioso spostarlo. In aula si sentiva solo il vociare degli avvocati: oltre venti studi legali coinvolti e più di cinquanta tra avvocati e assistenti avevano studiato, seguito, osservato, difeso. I parenti degli imputati erano tutti ammucchiati in una saletta di fianco all'aula bunker, fissavano tutti il monitor. Quando il presidente della corte Catello Marano prese le trenta pagine del dispositivo del processo, calò il silenzio. I respiri pesanti, il deglutire di centinaia di gole, il ticchettìo di centinaia di orologi, il vibrare silenzioso di decine di cellulari privati della suoneria. Il silenzio era nervoso, accompagnato da un'orchestra di suoni d'ansia di contorno. Il presidente iniziò a leggere prima l'elenco dei condannati, poi quello degli assolti. Ventuno ergastoli, oltre settecentocinquanta anni di galera inflitti. Per ventuno volte il presidente ripetè la condanna di carcere a vita, e spesso ripeteva anche i nomi dei condannati. E altre settanta volte diede lettura degli anni che altri uomini, i gregari e i manager, dovevano trascorrere in carcere per pagare il prezzo delle loro alleanze con il terribile potere casalese. All'una e mezzo tutto stava per concludersi. Sandokan chiese di parlare. Si agitava, voleva reagire alla sentenza, ribadire la sua tesi, quella del suo collegio difensivo: che lui era un imprenditore vincente, che un complotto di magistrati invidiosi e marxisti aveva considerato la potenza della borghesia dell'agro aversano una forza criminale e non il frutto di capacità imprenditoriali ed economiche. Voleva sbraitare che la sentenza era un'ingiustizia. Tutti i morti del casertano, nel suo solito ragionamento, venivano ascritti a faide dovute alla cultura contadina del posto e non a conflitti di camorra. Ma a Sandokan quella volta non fu permesso di parlare. Venne zittito come uno scolaro rumoroso. Iniziò a sbraitare e i giudici fecero togliere l'audio. Si continuò a vedere un omone barbuto che si dimenava sino a quando anche il video si spense. L'aula si svuotò immediatamente, i poliziotti e i carabinieri andarono lentamente via, mentre l'elicottero continuava a sorvolare l'aula bunker. È strano, ma non avevo la sensazione che il clan dei Casalesi fosse stato sconfitto. Molti uomini erano stati sbattuti per un po' di anni in carcere, dei boss non sarebbero più usciti di galera per tutta la loro vita, qualcuno magari avrebbe col tempo deciso di pentirsi e riprendersi così un po' di esistenza fuori dalle sbarre. La rabbia di Sandokan doveva essere quella asfissiante dell'uomo di potere che possiede nella testa l'intera mappa del suo impero, ma non può controllarla direttamente.
I boss che decidono di non pentirsi vivono di un potere metafisico, quasi immaginario, e devono fare di tutto per dimenticare gli imprenditori che loro stessi hanno sostenuto e lanciato e che, non essendo membri del clan, riescono a farla franca. I boss, se ne avessero voglia, potrebbero far finire in galera anche loro, ma dovrebbero pentirsi, e questo interromperebbe immediatamente la loro autorità massima e metterebbe a rischio tutti i loro familiari. E poi, cosa ancora più tragica per un boss, molte volte i percorsi dei loro danari, i loro investimenti legali, non riuscirebbero neanche a map-parli. Pur confessando, pur svelando il loro potere non saprebbero mai sino in fondo dove sono finiti i loro soldi. I boss pagano sempre, non possono non pagare. Ammazzano, gestiscono batterie militari, sono il primo anello dell'estrazione di capitale illegale e questo renderà i loro crimini sempre identificabili e non diafani come i crimini economici dei loro colletti bianchi. Del resto i boss non possono essere eterni. Cutolo lascia a Bardellino, Bardellino a Sandokan, San-dokan a Zagaria, La Monica a Di Lauro, Di Lauro agli Spagnoli e loro a chissà quali altri. La forza economica del Sistema camorra è proprio nel continuo ricambio di leader e di scelte criminali. La dittatura di un uomo nei clan è sempre a breve termine, se il potere di un boss durasse a lungo farebbe levitare i prezzi, inizierebbe a monopolizzare i mercati irrigidendoli, investirebbe sempre negli stessi spazi di mercato non esplorandone di nuovi. Invece che divenire un valore aggiunto all'economia criminale diverrebbe ostacolo agli affari. E allora appena un boss raggiunge il potere, dopo poco emergeranno nuove figure pronte a prenderne il posto con la volontà di espandersi e camminare sulle spalle dei giganti che loro stessi hanno contribuito a creare. Lo ricordava sempre uno dei più attenti osservatori delle dinamiche di potere, il giornalista Riccardo Orioles: "La criminalità non è il potere, ma uno dei poteri". Non ci sarà mai un boss che vuole sedere al governo. Se la camorra fosse tutto il potere non ci sarebbe il suo business che risulta essenziale nel meccanismo dello scalino legale e illegale. In questo senso ogni arresto, ogni maxiprocesso, sembra piuttosto un modo per avvicendare capi, per interrompere fasi, piuttosto che un'azione capace di distruggere un sistema di cose.
I visi pubblicati in successione il giorno dopo dai giornali, uno a fianco all'altro, i visi dei boss, dei gregari, dei ragazzini affiliati e di vecchi avanzi di galera, rappresentavano non un girone infernale di criminali, ma tasselli di un mosaico di potere che nessuno per vent'anni aveva potuto ignorare o sfidare. Dopo la sentenza "Spartacus", i boss in carcere iniziarono a lanciare minacce implicite ed esplicite ai giudici, ai magistrati, ai giornalisti, a tutti coloro che ritenevano responsabili di aver fatto di un manipolo di manager del cemento e delle bufale dei killer agli occhi della legge. II senatore Lorenzo Diana continuava a essere il bersaglio privilegiato del loro odio. Con lettere inviate a giornali locali, esplicite minacce lanciate durante i processi. Subito dopo la
sentenza "Spartacus" alcune persone erano entrate nell'allevamento di trote del fratello del senatore, le avevano sparse d'intorno, e fatte morire lentamente, lasciandole dimenare in terra, asfissiate dall'aria. Alcuni pentiti avevano addirittura segnalato tentativi di agguato da parte di "falchi" dell'organizzazione contro il senatore. Operazioni poi fermate dalla mediazione dei settori più diplomatici del clan. Ad averli dissuasi era stata anche la scorta. La scorta armata non è mai un limite per i clan. Non hanno paura di auto blindate e poliziotti, ma è un segnale, il segnale che quell'uomo che vogliono eliminare non è solo, non potranno facilmente sbarazzarsene come se si trattasse di un individuo la cui morte non interesserebbe che la propria cerchia di familiari. Lorenzo Diana è uno di quei politici che ha deciso di mostrare la complessità del potere casalese e non di denunciare genericamente dei criminali. È nato a San Cipriano d'Aversa, ha vissuto osservando da vicino l'emergere del potere di Bardellino e di Sandokan, le faide, i massacri, gli affari. Può, più di ogni altro, raccontare quel potere, e i clan temono la sua conoscenza e la sua memoria. Temono che da un momento all'altro possa risvegliarsi l'attenzione dei media nazionali sul potere casale-se, temono che in Commissione Antimafia il senatore possa denunciare ciò che ormai la stampa ignora, relegando tutto a crimine di provincia. Lorenzo Diana è uno di quei rari uomini che sa che combattere il potere della camorra comporta una pazienza certosina, quella di ricominciare ogni volta da capo, dall'inizio, tirare a uno a uno i fili della matassa economica e raggiungerne il capo criminale. Lentamente ma con costanza, con rabbia, anche quando ogni attenzione si dilegua, anche quando tutto sembra davvero inutile e perso in una metamorfosi che lascia alternare poteri criminali a poteri criminali, senza sconfiggerli mai.
Con il processo giunto a sentenza tra i Bidognetti e gli Schiavone poteva scoppiare un conflitto aperto. Per anni si erano fronteggiati attraverso vari clan a loro confederati, poi gli affari comuni avevano sempre prevalso sui contrasti.
I Bidognetti dispongono di potenti batterie di fuoco, il loro territorio è il nord del casertano, un dominio che giunge sino alla costa domizia. Ferocissimi, a Castelvolturno avevano bruciato vivo un barista, Francesco Salvo, titolare del locale in cui lavorava, il Tropicana, punito per aver osato sostituire i videopoker dei Bidognetti con quelli gestiti da un clan rivale. I Mezzanotte erano arrivati a lanciare una bomba al fosforo contro l'auto di Gabriele Spenuso, mentre camminava sulla Nola-Villa Literno. Domenico Bidognetti aveva ordinato l'eliminazione di Antonio Magliulo nel 2001, perché aveva osato fare avances, nonostante fosse un uomo sposato, a una ragazza, cugina di un boss. L'avevano legato a una sedia, su una spiaggia, e dinanzi al mare avevano iniziato a imbottirgli la bocca e le narici di sabbia. Per respirare Magliulo inghiottiva e sputava sabbia e cercava di soffiarla fuori dal naso. Vomitava, masticava, agitava il collo, impastava con la saliva la rena creando una specie di primitivo cemento, una materia collosa che lentamente lo affogò. La ferocia dei Mezzanotte era direttamente proporzionale al potere imprenditoriale. Legati al ciclo dei rifiuti, i Bidognetti avevano stretto — secondo diverse indagini della DDA di Napoli del 1993 e del 2006 — alleanze con la massoneria deviata della P2. Smaltivano illegalmente, e a prezzi molto convenienti, i rifiuti tossici di imprenditori legati alla loggia. Un nipote di Cicciotto di Mezzanotte, Gaetano Cerci, arrestato nell'ambito dell'operazione "Adelphi" sulle ecomafie, era il contatto tra la camorra casalese e alcuni massoni, e si incontrava molto spesso per affari direttamente con Licio Gelli. Affare che gli inquirenti sono riusciti a scoprire nel volume finanziario di una sola impresa coinvolta e che è stato quantificato in oltre trentacinque milioni di euro. I due boss, Bidognetti e Schiavone, entrambi in galera, entrambi con ergastoli sulle spalle, avrebbero potuto tentare di sfruttare ognuno la condanna dell'altro per sguinzagliare i propri uomini e tentare di eliminare il clan rivale. Ci fu un momento in cui tutto sembrò crollare in un enorme conflitto, di quelli che portano morti a grappolo ogni giorno.