38253.fb2 Gomorra - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 12

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Nella primavera del 2005 il figlio più piccolo di Sandokan era andato a una festa a Parete, territorio dei Bidognetti, e qui aveva iniziato — secondo le indagini — a corteggiare una ragazza, nonostante questa fosse già accompagnata. Il rampollo degli Schiavone era senza scorta e credeva che il solo fatto di essere figlio di Sandokan lo avrebbe reso immune da ogni tipo di aggressione. Non andò così. Un gruppetto di persone lo trascinò fuori casa e lo riempì di schiaffi, di pugni e calci nel sedere. Dopo il mazziatone dovette correre in ospedale a farsi suturare la testa. Il giorno dopo una quindicina di persone, in moto e in macchina, si presentarono dinanzi al bar Penelope, dove si ritrovavano solitamente i ragazzi che avevano pestato il rampollo. Entrarono con mazze da baseball e sfasciarono ogni cosa, pestarono a sangue chiunque si trovasse dentro, ma non riuscirono a individuare i responsabili dell'affronto a Schiavone, che molto probabilmente erano riusciti a scappare, forse da un'altra uscita del bar. Allora il commando li aveva rincorsi in strada e aveva iniziato a sparare una decina di colpi, tra la gente, in piazza, colpendo all'addome un passante. Per risposta il giorno dopo tre moto giunsero al caffè Matteotti di Casal di Principe, dove spesso si ritrovano gli affiliati più giovani del clan Schiavone. I motociclisti scesero lentamente, per dare il tempo ai passanti di scappare, e iniziarono anche loro a sfasciare ogni cosa. Vennero segnalate scazzottate e più di sedici accoltellati. L'aria era pesante, una nuova guerra era pronta a partire.

A far aumentare la tensione giunse inaspettata la confessione di un pentito, Luigi Diana, il quale aveva dichiarato, secondo un giornale locale, che Bidognetti era il responsabile del primo arresto di Schiavone, era lui che aveva collaborato con i carabinieri rivelando la latitanza in Francia del boss. Le batterie di fuoco si stavano preparando e i carabinieri erano pronti a raccogliere i cadaveri della mattanza. Tutto fu fermato da Sandokan stesso, con un gesto pubblico. Nonostante il regime di carcere duro riuscì a mandare una lettera aperta a un giornale locale, pubblicata il 21 settembre 2005 direttamente in prima pagina. Il boss, come un manager affermato, risolse il conflitto smentendo ciò che aveva detto il pentito, a cui tra l'altro poche ore dopo il pentimento avevano ucciso un familiare:

"La soffiata, anzi chi mise fiato alle trombe e permise il mio arresto in Francia, fu, come accertato probatoriamente fatta da Carmine Schiavone, e non già Cicciotto Bidognetti. La verità è che tale individuo che risponde al nome del pentito Luigi Diana dice falsità e vuole mettere zizzania per tornaconti personali."

Inoltre "suggerisce" al direttore del giornale di raccontare bene le notizie:

"Vi prego di non farvi strumentalizzare da questo delatore, molto, ma molto prezzolato e di non incorrere nell'errore di trasformare il vostro quotidiano di cronaca in un giornale scandalistico, che inevitabilmente perderebbe di credibilità come un giornale vostro concorrente a cui non ho rinnovato l'abbonamento, cosa che come me molti faranno, non comprando un giornale così strumentalizzato."

Con la lettera, Sandokan delegittima il giornale concorrente del quotidiano a cui ha indirizzato la lettera, e ufficialmente lo elegge a suo nuovo interlocutore.

"Non commento nemmeno il fatto che il giornale vostro concorrente è abituato a scrivere falsità. Il sottoscritto è come l'acqua di fonte: trasparente in tutto!"

Sandokan invitò i suoi uomini a comprare il nuovo giornale e non più il vecchio, da decine di carceri in tutt'Italia arrivarono richieste d'abbonamento per il nuovo giornale prescelto dal boss e disdette d'abbonamento per quello criticato. Il boss chiuse la sua lettera di pace con Bidognetti scrivendo:

"La vita ti chiede sempre ciò che sei capace di affrontare. A questi cosiddetti pentiti la vita gli ha chiesto di affrontare il fango. Come ai porci!"

Il cartello dei Casalesi non era sconfitto. Risultava persino rinvigorito. Secondo le indagini della Procura Antimafia di Napoli, il cartello è attualmente gestito da una diarchia retta da Antonio Iovine, detto "'o ninno" ossia il poppante, perché raggiunse i vertici del clan ancora ragazzino, e Michele Za-garia, il boss manager di Casapesenna, detto "capastorta" per l'irregolarità del suo viso, ma che pare ora si faccia chiamare "Manera". Entrambi i boss sono latitanti da anni e inseriti nell'elenco del Ministero dell'Interno tra i più pericolosi fuggiaschi italiani. Irreperibili, eppure sicuramente sempre presenti nel loro paese. Nessun boss può, per troppo tempo, abbandonare le proprie radici perché è su queste che tutto il potere si edifica e tutto il potere può crollare.

Poche manciate di chilometri, paesi minuscoli, budelli di viottoli, e masserie sperdute per le campagne, eppure impossibile beccarli. Sono in paese. Si muovono su percorsi internazionali ma tornano in paese, per la parte maggiore dell'anno stanno in paese. Lo sanno tutti. Eppure non li beccano. Le strutture di copertura sono così efficienti da impedire l'arresto. Le loro ville continuano a essere abitate da parenti e famiglie. Quella di Antonio Iovine a San Cipriano somiglia a un palazzotto liberty, mentre la villa di Michele Zagaria invece è un vero e proprio complesso edilizio tra San Cipriano e Casapesenna, una casa con al posto del tetto una cupola di vetro per permettere alla luce di entrare e alimentare la crescita di un enorme albero che troneggia al centro del salone. La famiglia Zagaria possiede decine di aziende satellite in tutta Italia ed è — secondo i magistrati della DDA di Napoli — la prima impresa italiana nel movimento terre. La più potente in assoluto. Una supremazia economica che non nasce dalla diretta attività criminosa, ma dalla capacità di equilibrare capitali leciti e illeciti.

Queste ditte riescono a proporsi in modo profondamente concorrenziale. Hanno vere e proprie colonie criminali in Emilia, Toscana, Umbria e Veneto, dove certificazioni e controlli antimafia sono più blandi e permettono il trasferimento di interi rami d'azienda. I Casalesi prima imponevano il pizzo agli imprenditori campani al nord adesso gestiscono direttamente il mercato. Nel modenese e nell'aretino i Casalesi hanno in mano la maggior parte degli affari edilizi e si portano dietro manodopera essenzialmente casertana.

Le indagini in corso mostrano che le imprese edili legate al clan dei Casalesi si sono infiltrate nei lavori dell'alta velocità al nord, dopo averlo fatto al sud. Come dimostra un'inchiesta coordinata dal giudice Franco Imposimato del luglio 1995, le grandi imprese vincitrici dell'appalto della TAV Napoli-Roma avevano subappaltato i lavori a Edilsud, legata proprio a Michele Zagaria, ma anche ad altre decine di imprese legate al cartello casalese. Un affare, quello dell'alta velocità Napoli-Roma, che ha fruttato circa diecimila miliardi di lire.

Le inchieste dimostrarono che il clan Zagaria aveva già fatto accordi con le 'ndrine calabresi per partecipare con le proprie aziende agli appalti, qualora le linee dell'alta velocità avessero raggiunto Reggio Calabria. Erano pronti i Casa-lesi, come lo sono ora. La costola di Casapesenna del sodalizio casalese è riuscita a penetrare — secondo le indagini della Procura Antimafia di Napoli degli ultimi anni — in una serie di lavori pubblici al centro-nord partecipando alla ricostruzione dell'Umbria dopo il terremoto del 1997. Ogni grande appalto e cantiere le ditte di camorra dell'agro aversano lo possono dominare in ogni passaggio. Noli a freddo, movimento terre, trasporti, inerti, manodopera.

Le ditte dell'agro aversano sono pronte per intervenire: organizzate, economiche, veloci, efficienti. Le imprese edili a Casal di Principe sono ufficialmente cinquecentodiciassette. Moltissime sono diretta emanazione dei clan, altre centinaia si trovano in tutti i paesi dell'agro aversano, un esercito pronto a cementificare ogni cosa. I clan non sembrano aver bloccato lo sviluppo del territorio, quanto piuttosto dirottato nelle loro casse i vantaggi. In un fazzoletto di pochissimi chilometri negli ultimi cinque anni sono stati edificati dei veri e propri troni commerciali di cemento: uno dei più grandi cinemamultisala d'Italia, a Marcianise, il più grande centro commerciale del sud Italia a Teverola, il più grande centro commerciale d'Europa sempre a Marcianise, tutto in una regione con altissimi tassi di disoccupazione e con un'emorragia continua di emigrazione. Enormi agglomerati commerciali che piuttosto che nonluoghi — come li avrebbe definiti l'etnologo Marc Auge — parevano degli inizioluoghi. Supermercati dove tutto ciò che poteva essere comprato e consumato deve permettere alla cartamoneta di far battezzare capitali e danari che altrimenti non avrebbero trovato precisa origine legittima. Luoghi da dove deve iniziare l'origine legale del danaro, il battesimo ufficiale. Più centri commerciali si edificano, più cantieri si innalzano, più merci giungono, più fornitori lavorano, più trasporti avvengono, più velocemente il danaro riuscirà a oltrepassare i perimetri frastagliati dei territori illegali in quelli legali.

I clan hanno beneficiato dallo sviluppo strutturale della provincia e sono pronti a prendere parte al bottino. Attendono con ansia l'inizio delle grandi opere sul territorio: la metropolitana di Aversa e l'aeroporto di Grazzanise, che sarà uno dei più grandi d'Europa, costruito a poca distanza dalle masserie che furono di Cicciariello e di Sandokan.

I Casalesi hanno disseminato la provincia di loro beni. Soltanto i beni immobili sequestrati dalla DDA di Napoli nell'ultima manciata di anni ammontano a settecentocinquanta milioni di euro. Gli elenchi sono spaventosi. Solo per il procedimento del processo "Spartacus" avevano sequestrato centonovantanove fabbricati, cinquantadue terreni, quattordici società, dodici autovetture e tre imbarcazioni. Nel corso degli anni erano stati sequestrati a Schiavone e ai suoi fiduciari, in un procedimento del 1996, beni per quattrocentocinquanta miliardi, aziende, villini, terreni, fabbricati e automobili di grossa cilindrata (tra cui la Jaguar su cui trovarono Sandokan all'epoca del primo arresto). Sequestri che avrebbero distrutto qualsiasi azienda, perdite che avrebbero messo sul lastrico ogni imprenditore, vere e proprie mazzate economiche che avrebbero ingolfato qualsiasi gruppo economico. Qualsiasi, ma non il cartello dei Casalesi. Ogni volta che leggevo dei sequestri di immobili, ogni volta che avevo dinanzi agli occhi gli elenchi di beni che la DDA sequestrava ai boss, mi saliva una sensazione di sconforto e stanchezza, ovunque mi girassi sembrava che tutto fosse loro. Tutto. Terre, bufale, masserie, cave, rimessaggi d'auto e caseifici, alberghi e ristoranti. Una sorta di onnipotenza camorrista, non riuscivo a vedere altro che non fosse loro proprietà.

C'era un imprenditore che più d'ogni altro aveva avuto questo potere totale, quello di divenire padrone d'ogni cosa: Dante Passarelli di Casal di Principe. Venne arrestato anni fa per associazione camorristica, accusato di essere il cassiere del clan dei Casalesi, l'accusa propose la condanna a otto anni di reclusione per 416 bis. Non era semplicemente uno dei moltissimi imprenditori che facevano affari con e per mezzo dei clan. Passarelli era l'Imprenditore in assoluto, il numero uno, il più vicino, il più fidato. Era un ex salumiere con grandi capacità commerciali e queste qualità gli erano bastate, poiché venne prescelto — secondo le accuse — per divenire l'investitore di una parte dei capitali del clan. Divenne grossista e poi industriale. Da imprenditore della pasta era diventato anche imprenditore edile e poi dallo zucchero era passato al catering, fino al calcio. Il patrimonio di Dante Passarelli, secondo una stima della DIA, valeva tra i trecento e i quattrocento milioni di euro. Buona parte di quella ricchezza era frutto di partecipazioni azionarie e cospicue quote di mercato nel settore agro-alimentare. Era di sua proprietà riparti, uno dei più importanti zuccherifici italiani. Era leader nella distribuzione dei pasti con la Passarelli Dante e figli, che si era aggiudicata l'appalto per le mense degli ospedali di Santa Maria Capua Vetere, Capua e Sessa Aurunca, era proprietario di centinaia di appartamenti, sedi commerciali e industriali. Al momento del suo arresto, il 5 dicembre 1995, quei beni furono sottoposti a sequestro: nove fabbricati a Villa Literno; un appartamento a Santa Maria Capua Vetere; un altro a Pinetamare; un fabbricato a Casal di Principe. E poi: terreni a Castelvolturno, a Casal di Principe, a Villa Literno, a Cancello Arnone, il complesso agricolo La Balzana, a Santa Maria la Fossa, composto da duecentonove ettari di terreno e quaranta fabbricati rurali. E poi il suo fiore all'occhiello, An-fra III, un lussuosissimo yacht con decine di stanze, parquet, e vasca idromassaggio a bordo, tenuto in rimessaggio a Gallipoli. Su Anfra III Sandokan e consorte avevano fatto una crociera nelle isole greche. Le indagini stavano procedendo alla progressiva confisca dei beni quando Dante Passarelli venne trovato morto, nel novembre 2004, caduto dal balcone di una delle sue case. Fu la moglie a trovare il corpo. La testa spaccata, la spina dorsale frantumata. Le indagini sono tuttora in corso. Non si comprende ancora se è stata fatalità, o una notissima mano anonima a far cadere l'imprenditore dal balcone in costruzione. Con la sua morte tutti i beni, che sarebbero dovuti passare alla disponibilità dello Stato, sono tornati alla famiglia. H destino di Passarelli è stato quello di un commerciante che per la sua qualità imprenditoriale aveva ricevuto capitali che mai avrebbe potuto gestire, e li ha fatti levitare in maniera egregia. Poi è arrivato l'intoppo, le inchieste giudiziarie, e lo stesso patrimonio non è riuscito a difenderlo dal sequestro. Come la qualità d'aziendalista gli aveva dato un impero, così la sconfitta dei sequestri gli aveva dato la morte. I clan non permettono errori. Quando segnalarono a Sandokan, durante un processo, che Dante Passarelli era morto, il boss serenamente disse: "Pace aH'anima sua".

Il potere dei clan rimaneva il potere del cemento. Era sui cantieri che sentivo fisicamente, nelle budella, tutta la loro potenza. Per diverse estati ero andato a lavorare nei cantieri, per farmi impastare cemento non mi bastava altro che comunicare al capomastro la mia origine e nessuno mi rifiutava il lavoro. La Campania forniva i migliori edili d'Italia, i più bravi, i più veloci, i più economici, i meno rompicoglioni. Un lavoro bestiale che non sono mai riuscito a imparare particolarmente bene, un mestiere che ti può fruttare un gruzzolo cospicuo solo se sei disposto a giocarti ogni forza, ogni muscolo, ogni energia. Lavorare in ogni condizione climatica, con il passamontagna in viso così come in mutande. Avvicinarmi al cemento, con le mani e col naso, è stato l'unico modo per capire su cosa si fondava il potere, quello vero.

Fu quando morì Francesco Iacomino però che compresi sino in fondo i meccanismi dell'edilizia. Aveva trentatré anni quando lo trovarono con la tuta da lavoro sul selciato, all'incrocio tra via Quattro Orologi e via Gabriele D'Annunzio a Ercolano. Era caduto da un'impalcatura. Dopo l'incidente erano scappati tutti, geometra compreso. Nessuno ha chiamato l'autoambulanza, temendo potesse arrivare prima della loro fuga. Allora, mentre scappavano, avevano lasciato il corpo a metà strada, ancora vivo, mentre sputava sangue dai polmoni. Quest'ennesima notizia di morte, uno dei trecento edili che crepavano ogni anno nei cantieri in Italia si era come ficcata in qualche parte del mio corpo. Con la morte di Iacomino mi si innescò una rabbia di quelle che somigliano più a un attacco d'asma piuttosto che a una smania nervosa.

Avrei voluto fare come il protagonista de La vita agra di Luciano Bianciardi che arriva a Milano con la volontà di far saltare in aria il Pirellone per vendicare i quarantotto minatori di Ribolla, massacrati da un'esplosione in miniera, nel maggio 1954, nel pozzo Camorra. Chiamato così per le infami condizioni di lavoro. Dovevo forse anch'io scegliermi un palazzo, il Palazzo, da far saltare in aria, ma ancor prima di infilarmi nella schizofrenia dell'attentatore, appena entrai nella crisi asmatica di rabbia mi rimbombò nelle orecchie l'Io so di Pasolini come un jingle musicale che si ripeteva sino all'assillo. E così invece di setacciare palazzi da far saltare in aria,

sono andato a Casarsa, sulla tomba di Pasolini. Ci sono andato da solo, anche se queste cose per renderle meno patetiche bisognerebbe farle in compagnia. In banda. Un gruppo di fedeli lettori, una fidanzata. Ma io ostinatamente sono andato da solo.

Casarsa è un bel posto, uno di quei posti dove ti viene facile pensare a qualcuno che voglia campare di scrittura, e invece ti è difficile pensare a qualcuno che se ne va dal paese per scendere più giù, oltre la linea dell'inferno. Andai sulla tomba di Pasolini non per un omaggio, neanche per una celebrazione. Pier Paolo Pasolini. Il nome uno e trino, come diceva Caproni, non è il mio santino laico, né un Cristo letterario. Mi andava di trovare un posto. Un posto dove fosse ancora possibile riflettere senza vergogna sulla possibilità della parola. La possibilità di scrivere dei meccanismi del potere, al di là delle storie, oltre i dettagli. Riflettere se era ancora possibile fare i nomi, a uno a uno, indicare i visi, spogliare i corpi dei reati e renderli elementi dell'architettura dell'autorità. Se era ancora possibile inseguire come porci da tartufo le dinamiche del reale, l'affermazione dei poteri, senza metafore, senza mediazioni, con la sola lama della scrittura.

Presi il treno da Napoli per Pordenone, un treno lentissimo dal nome assai eloquente sulla distanza che doveva percorrere: Marco Polo. Una distanza enorme sembra separare il Friuli dalla Campania. Partito alle otto meno dieci arrivai in Friuli alle sette e venti del giorno dopo, attraversando una notte freddissima che non mi diede tregua per dormire neanche un po'. Da Pordenone con un bus arrivai a Casarsa e scesi camminando a testa bassa come chi sa già dove andare e la strada può anche riconoscerla guardandosi la punta delle scarpe. Mi persi, ovviamente. Ma dopo aver vagato inutilmente riuscii a raggiungere via Valvasone, il cimitero dove è sepolto Pasolini e tutta la sua famiglia. Sulla sinistra, poco dopo l'ingresso, c'era un'aiuola di terra nuda. Mi avvicinai a questo quadrato con al centro due lastre di marmo bianco, piccole, e vidi la tomba. "Pier Paolo Pasolini (1922–1975)." Al fianco, poco più in là, quella della madre. Mi sembrò d'essere meno solo, e lì iniziai a biascicare la mia rabbia, con i pugni stretti sino a far entrare le unghie nella carne del palmo. Iniziai a articolare il mio io so, l'io so del mio tempo.

Io so e ho le prove. Io so come hanno origine le economie e dove prendono l'odore. L'odore dell'affermazione e della vittoria. Io so cosa trasuda il profitto. Io so. E la verità della parola non fa prigionieri perché tutto divora e di tutto fa prova. E non deve trascinare controprove e imbastire istruttorie. Osserva, soppesa, guarda, ascolta. Sa. Non condanna in nessun gabbio e i testimoni non ritrattano. Nessuno si pente. Io so e ho le prove. Io so dove le pagine dei manuali d'economia si dileguano mutando i loro frattali in materia, cose, ferro, tempo e contratti. Io so. Le prove non sono nascoste in nessuna pen-drive celata in buche sotto terra. Non ho video compromettenti in garage nascosti in inaccessibili paesi di montagna. Né possiedo documenti ciclostilati dei servizi segreti. Le prove sono inconfutabili perché parziali, riprese con le iridi, raccontate con le parole e temprate con le emozioni rimbalzate su ferri e legni. Io vedo, trasento, guardo, parlo, e così testimonio, brutta parola che ancora può valere quando sussurra: "È falso" all'orecchio di chi ascolta le cantilene a rima baciata dei meccanismi di potere. La verità è parziale, in fondo se fosse riducibile a formula oggettiva sarebbe chimica. Io so e ho le prove. E quindi racconto. Di queste verità.

Cerco sempre di calmare quest'ansia che mi prende ogni volta che cammino, ogni volta che salgo scale, prendo ascensori, quando struscio le suole su zerbini e supero soglie. Non posso fermare un rimuginio d'anima perenne su come sono stati costruiti palazzi e case. E se poi ho qualcuno a portata di parola riesco con difficoltà a trattenermi dal raccontare come si tirano su piani e balconi sino al tetto. Non è un senso di colpa universale che mi pervade, né un riscatto morale verso chi è stato cassato dalla memoria storica. Piuttosto cerco di dismettere quel meccanismo brechtiano che invece ho connaturato, di pensare alle mani e ai piedi della storia. Insomma più alle ciotole perennemente vuote che portarono alla presa della Bastiglia che ai proclami della Gironda e dei Giacobini. Non riesco a non pensarci. Ho sempre questo vizio. Come qualcuno che guardando Vermeer pensasse a chi ha mescolato i colori, tirato la tela coi legni, assemblato gli orecchini di perle, piuttosto che contemplare il ritratto. Una vera perversione. Non riesco proprio a scordarmi come funziona il ciclo del cemento quando vedo una rampa di scale, e non mi distrae da come si mettono in torre le impalcature il vedere una verticale di finestre. Non riesco a far finta di nulla. Non riesco proprio a vedere solo il parato e penso alla malta e alla cazzuola. Sarà forse che chi nasce in certi meridiani ha rapporto con alcune sostanze in modo singolare, unico. Non tutta la materia viene recepita allo stesso modo in ogni luogo. Credo che in Qatar l'odore di petrolio e benzina rimandi a sensazioni e sapori che sanno di residenze immense, occhiali da sole e limousine. Lo stesso odore acido del carbonfossile, a Minsk, credo rimandi a facce scure, fughe di gas, e città affumicate mentre in Belgio rimanda all'odore d'aglio degli italiani e alla cipolla dei magh-rebini. Lo stesso accade col cemento per l'Italia, per il mezzogiorno. Il cemento. Petrolio del sud. Tutto nasce dal cemento. Non esiste impero economico nato nel mezzogiorno che non veda il passaggio nelle costruzioni: gare d'appalto, appalti, cave, cemento, inerti, malta, mattoni, impalcature, operai. L'armamentario dell'imprenditore italiano è questo. L'imprenditore italiano che non ha i piedi del suo impero nel cemento non ha speranza alcuna. È il mestiere più semplice per far soldi nel più breve tempo possibile, conquistare fiducia, assumere persone nel tempo adatto di un'elezione, distribuire salari, accaparrarsi finanziamenti, moltiplicare il proprio volto sulle facciate dei palazzi che si edificano. Il talento del costruttore è quello del mediatore e del rapace. Possiede la pazienza del certosino compilatore di documentazioni burocratiche, di attese interminabili, di autorizzazioni sedimentate come lente gocce di stalattiti. E poi il talento di rapace, capace di planare su terreni insospettabili sottrarli per pochi quattrini e poi serbarli sino a quando ogni loro centimetro e ogni buco divengono rivendibili a prezzi esponenziali. L'imprenditore rapace sa come usare becco e artigli. Le banche italiane sanno accordare ai costruttori il massimo credito, diciamo che le banche italiane sembrano edificate per i costruttori. E quando proprio non ha meriti e le case che costruirà non bastano come garanzie, ci sarà sempre qualche buon amico che garantirà per lui. La concretezza del cemento e dei mattoni è l'unica vera materialità che le banche italiane conoscono. Ricerca, laboratorio, agricoltura, artigianato, i direttori di banca li immaginano come territori vaporosi, iperurani senza presenza di gravità. Stanze, piani, piastrelle, prese del telefono e della corrente, queste le uniche concretezze che riconoscono. Io so e ho le prove. So come è stata costruita mezz'Italia. E più di mezza. Conosco le mani, le dita, i progetti. E la sabbia. La sabbia che ha tirato su palazzi e grattacieli. Quartieri, parchi, ville. A Castelvolturno nessuno dimentica le file infinite dei camion che depredavano il Volturno della sua sabbia. Camion in fila, che attraversavano le terre costeggiate da contadini che mai avevano visto questi mammut di ferro e gomma. Erano riusciti a rimanere, a resistere senza emigrare e sotto i loro occhi gli portavano via tutto. Ora quella sabbia è nelle pareti dei condomini abruzzesi, nei palazzi di Varese, Asiago, Genova. Ora non è più il fiume che va al mare, ma il mare che entra nel fiume. Ora nel Volturno si pescano le spigole, e i contadini non ci sono più. Senza terra hanno iniziato ad allevare le bufale, dopo le bufale hanno messo su piccole imprese edili assumendo giovani nigeriani e sudafricani sottratti ai lavori stagionali, e quando non si sono consorziati con le imprese dei clan hanno incontrato la morte precoce. Io so e ho le prove. Le ditte d'estrazione vengono autorizzate a sottrarre quantità minime, e in realtà mordono e divorano intere montagne. Montagne e colline sbriciolate e impastate nel cemento finiscono ovunque. Da Tenerife a Sassuolo. La deportazione delle cose ha seguito quella degli uomini. In una trattoria di San Felice a Cancello, ho incontrato don Salvatore, vecchio mastro. Una specie di salma ambulante, non aveva più di cinquantanni, ma ne dimostrava ottanta. Mi ha raccontato che per dieci anni ha avuto il compito di smistare nelle impastatrici le polveri di smaltimento fumi. Con la mediazione delle ditte dei clan lo smaltimento occultato nel cemento è divenuta la forza che permette alle imprese di presentarsi alle gare d'appalto con prezzi da manodopera cinese. Ora garage, pareti e pianerottoli hanno nel loro petto i veleni. Non accadrà nulla sin quando qualche operaio, magari maghrebino, inalerà le polveri crepando qualche anno dopo e incolperà la malasorte per il suo cancro.

Io so e ho le prove. Gli imprenditori italiani vincenti provengono dal cemento. Loro stessi sono parte del ciclo del cemento. Io so che prima di trasformarsi in uomini di fotomodelle, in manager da barca, in assalitori di gruppi finanziari, in acquirenti di quotidiani, prima di tutto questo e dietro tutto questo c'è il cemento, le ditte in subappalto, la sabbia, il pietrisco, i camioncini zeppi di operai che lavorano di notte e scompaiono al mattino, le impalcature marce, le assicurazioni fasulle. Lo spessore delle pareti è ciò su cui poggiano i trascinatori dell'economia italiana. La costituzione dovrebbe mutare. Scrivere che si fonda sul cemento e sui costruttori. Sono loro i padri. Non Ferruccio Parri, non Luigi Einaudi, non Pietro Nenni, non il comandante Valerio. Furono i palazzinari a tirare per lo scalpo l'Italia affossata dal crac Sindona e dalla condanna senza appello del Fondo Monetario Internazionale. Cementifici, appalti, palazzi e quotidiani.

Nell'edilizia finiscono gli affiliati al giro di boa. Dopo che si fa una carriera da killer, da estorsore o da palo, §i finisce nell'edilizia o a raccogliere spazzatura. Piuttosto che filmati e conferenze a scuola, potrebbe essere interessante prendere i nuovi affiliati e portarli a fare un giro per cantieri mostrando il destino che li attende. Se galera e morte dovessero risparmiarli staranno su un cantiere, invecchiando e scatarrando sangue e calce. Mentre imprenditori e affaristi che i boss credevano di gestire avranno committenze milionarie. Di lavoro si muore. In continuazione. La velocità di costruzioni, la necessità di risparmiare su ogni tipo di sicurezza e su ogni rispetto d'orario. Turni disumani nove-dodici ore al giorno compreso sabato e domenica. Cento euro a settimana la paga con lo straordinario notturno e domenicale di cinquanta euro ogni dieci ore. I più giovani se ne fanno anche quindici. Magari tirando coca. Quando si muore nei cantieri, si avvia un meccanismo collaudato. Il corpo senza vita viene portato via e viene simulato un incidente stradale. Lo mettono in un'auto che poi fanno cadere in scarpate o dirupi, non dimenticando di incendiarla prima. La somma che l'assicurazione pagherà verrà girata alla famiglia come liquidazione. Non è raro che per simulare l'incidente si feriscano anche i simulatori in modo grave, soprattutto quando c'è da ammaccare un'auto contro il muro, prima di darle fuoco con il cadavere dentro. Quando il mastro è presente il meccanismo funziona bene. Quando è assente spesso il panico attanaglia gli operai. E allora si prende il ferito grave, il quasi cadavere e lo si lascia quasi sempre vicino a una strada che porta all'ospedale. Si passa con la macchina si adagia il corpo e si fugge. Quando proprio lo scrupolo è all'eccesso si avverte un'autoambulanza. Chiunque prende parte alla scomparsa o all'abbandono del corpo quasi cadavere sa che lo stesso faranno i colleghi qualora dovesse accadere al suo corpo di sfracellarsi o infilzarsi. Sai per certo che chi ti è a fianco in caso di pericolo ti soccorrerà nell'immediato per sbarazzarsi di te, ti darà il colpo di grazia. E così si ha una specie di diffidenza nei cantieri. Chi ti è a fianco potrebbe essere il tuo boia, o tu il suo. Non ti farà soffrire, ma sarà colui che ti lascerà crepare da solo su un marciapiede o ti darà fuoco in un'auto. Tutti i costruttori sanno che funziona in questo modo. E le ditte del sud danno garanzie migliori. Lavorano e scompaiono e ogni guaio se lo risolvono senza clamore. Io so e ho le prove. E le prove hanno un nome. In sette mesi nei cantieri a nord di Napoli sono morti quindici operai edili. Caduti, finiti sotto pale meccaniche, o spiaccicati da gru gestite da operai stremati dalle ore di lavoro. Bisogna far presto. Anche se i cantieri durano anni, le ditte in subappalto devono lasciar posto subito ad altre. Guadagnare, battere cassa e andare altrove. Oltre il 40 per cento delle ditte che operano in Italia sono del sud. Agro aversano, napoletano, salernitano. A sud possono ancora nascere gli imperi, le maglie dell'economia si possono forzare e l'equilibrio dell'accumulazione originaria non è stato ancora completato. A sud bisognerebbe appendere, dalla Puglia alla Calabria, dei cartelloni con il BENVENUTO per gli imprenditori che vogliono lanciarsi nell'agone del cemento e in pochi anni entrare nei salotti romani e milanesi. Un BENVENUTO che sa di buona fortuna dato che la ressa è molta e pochissimi galleggiano sulle sabbie mobili. Io so. E ho le prove. E i nuovi costruttori, proprietari di banche e di panfili, principi del gossip e maestà di nuove baldracche celano il loro profitto. Forse hanno ancora un'anima. Hanno vergogna di dichiarare da dove vengono i propri guadagni. Nel loro paese modello, negli USA, quando un imprenditore riesce a divenire riferimento finanziario, quando raggiunge fama e successo accade che convoca analisti e giovani economisti per mostrare la propria qualità economica, e svelare le strade battute per la vittoria sul mercato. Qui silenzio. E il danaro è solo danaro. E gli imprenditori vincenti che vengono dall'aversano, da una terra malata di camorra, rispondono senza vergogna a chi li interroga sul loro successo: "Ho comprato a dieci e venduto a trecento". Qualcuno ha detto che a sud si può vivere come in un paradiso. Basta fissare il cielo e mai, mai osare guardare in basso. Ma non è possibile. L'esproprio d'ogni prospettiva ha sottratto anche gli spazi della vista. Ogni prospettiva si imbatte in balconi, soffitte, mansarde, condomini, palazzi abbracciati, quartieri annodati. Qui non pensi che qualcosa possa cascare dal cielo. Qui scendi giù. Ti inabissi. Perché c'è sempre un abisso nell'abisso. Così quando calpesto scale e stanze, quando salgo negli ascensori, non riesco a non sentire. Perché io so. Ed è una perversione. E così quando mi trovo tra i migliori e vincenti imprenditori non mi sento bene. Anche se questi signori sono eleganti, parlano con toni pacati, e votano a sinistra. Io sento l'odore della calce e del cemento, che esce dai calzini, dai gemelli di Bulgari, dalle loro librerie. Io so. Io so chi ha costruito il mio paese e chi lo costruisce anche adesso. So che stanotte parte un treno da Reggio Calabria che si fermerà a Napoli a mezzanotte e un quarto e sarà diretto a Milano. Sarà colmo. E alla stazione i furgoncini e le Punto polverose preleveranno i ragazzi per nuovi cantieri. Un'emigrazione senza residenza che nessuno studierà e valuterà poiché rimarrà nelle orme della polvere di calce e solo lì. Io so qual è la vera Costituzione del mio tempo, qual è la ricchezza delle imprese. Io so in che misura ogni pilastro è il sangue degli altri. Io so e ho le prove. Non faccio prigionieri.

Don Peppino Diana

Quando penso alla lotta ai clan di Casal di Principe, di San Cipriano, di Casapesenna e in tutti i territori egemonizzati da loro, da Parete a Formia, penso sempre ai lenzuoli bianchi. Ai lenzuoli bianchi che pendono da ogni balcone, legati a ogni ringhiera, annodati a tutte le finestre. Bianco, tutto bianco, una pioggia di stoffe candide. Furono il rabbioso lutto issato quando si svolsero i funerali di don Peppino Diana. Avevo sedici anni, era il marzo 1994. Mi svegliò mia zia, come sempre, ma con una violenza strana, mi svegliò tirandomi il lenzuolo in cui ero rannicchiato, come si fa quando si srotola un salame dalla carta. Quasi cascai giù dal letto. Mia zia non disse niente e camminava facendo un rumore fortissimo, come se sfogasse tutto il nervosismo sui talloni. Annodava questi lenzuoli alle ringhiere di casa, stretti, neanche un tornado avrebbe potuto scioglierli. Spalancava le finestre, faceva entrare le voci, uscire i rumori di casa, persino gli stipi dei mobili erano aperti. Ricordo il fiume di scout che avevano dismesso la loro aria scanzonata da bravi figli di famiglia e sembravano portare annodata ai loro bizzarri foulard gialli e verdi una rabbia forte, perché don Peppino era uno di loro. Mai più mi è capitato di rivedere scout così nervosi e così poco attenti a tutte quelle forme di ordine e compostezza che invece li accompagnano sempre nelle loro lunghe marce. Di quel giorno ho solo ricordi a chiazze, una memoria a pelle di dalmata. Don Peppino Diana ha avuto una storia strana, una di quelle che una volta conosciuta, bisogna poi conservarla da qualche parte del proprio corpo. In fondo alla gola, stretta nel pugno, vicino al muscolo del petto, sulle coronarie. Una storia rara, sconosciuta ai più.

Don Peppino aveva studiato a Roma e lì doveva rimanere a fare carriera lontano dal paese, lontano dalla terra di provincia, lontano dagli affari sporchi. Una carriera clericale, da buon figlio borghese. Ma aveva d'improvviso deciso di tornare a Casal di Principe come chi non riesce a togliersi di dosso un ricordo, un'abitudine, un odore. Forse come chi ha perennemente la sensazione smaniosa di dover fare qualcosa e di non riuscire a trovare pace fin quando non la realizza o almeno tenta di farlo. Don Peppino divenne giovanissimo sacerdote della chiesa di San Nicola di Bari, una chiesa dalla struttura moderna che sembrava, anche nell'estetica, perfetta per la sua idea di impegno. Girava per il paese in jeans e non in tonaca come era accaduto sino ad allora ai preti che si portavano addosso un'autorità cupa come l'abito talare. Don Peppino non orecchiava le beghe delle famiglie, non disciplinava le scappatelle dei maschi, né andava confortando donne cornute, aveva cambiato con naturalezza il ruolo del prete di provincia. Aveva deciso di interessarsi delle dinamiche di potere: non solo dei corollari della miseria, non voleva soltanto nettare la ferita, ma comprendere i meccanismi della metastasi, bloccare la cancrena, fermare l'origine di ciò che rendeva la sua terra una miniera di capitali e un tracciato di cadaveri. Fumava anche il sigaro ogni tanto in pubblico, altrove poteva sembrare un gesto innocuo. Da queste parti i preti tendevano ad avere atteggiamenti di finta privazione del superfluo e nelle loro stanze davano sfogo alle pigre debolezze. Don Peppino aveva deciso di lasciare somigliare la sua faccia sempre più a se stesso, come una garanzia di trasparenza in una terra dove i volti invece devono orientarsi in smorfie pronte a mimare ciò che si rappresenta, aiutati dai soprannomi che caricano il proprio corpo del potere che si vuole suturare alla propria epidermide. Aveva l'ossessione del fare, aveva iniziato a realizzare un centro di accoglienza dove offrire vitto e alloggio ai primi immigrati africani. Era necessario accoglierli, evitare — come poi accadrà — che i clan potessero iniziare a farne dei perfetti soldati. Per realizzare il progetto aveva devoluto anche alcuni risparmi personali accumulati con l'insegnamento. Attendere aiuti istituzionali può essere cosa così lenta e complicata da divenire il più reale dei motivi per l'immobilità. Da quando era sacerdote aveva visto l'avvicendarsi dei boss, l'eliminazione di Bardellino e il potere di Sandokan e di Cicciotto di Mezzanotte, i massacri tra bardelliniani e Casalesi poi tra i dirigenti vincenti.

Un episodio rimasto famoso nelle cronache di quel periodo fu un corteo di diverse automobili che sfilò per le strade del paese. Erano circa le sei del pomeriggio quando una decina di auto fecero una sorta di carosello sotto le case dei nemici. I gruppi vincenti di Schiavone andarono a sfidare sotto le loro case gli avversari. Ero un ragazzino, ma i miei cugini giurano di averlo visto con i propri occhi. Le auto procedevano lentamente per le strade di San Cipriano, Casapesenna e Casal di Principe, e gli uomini sedevano cavalcioni sui finestrini con una gamba dentro l'auto e l'altra penzoloni. Tutti con i mitra in mano e il volto scoperto. Procedendo a passo lento, il corteo raccoglieva progressivamente altri affiliati che scendevano di casa con fucili e semiautomatiche, e proseguivano a piedi dietro le auto. Una vera e propria manifestazione pubblica armata di affiliati contro altri. Si fermavano sotto le case degli avversari. Di chi aveva osato opporsi al loro predominio.

"Scendete uomini di merda! Scendete di casa… se avete le palle!"

Durò almeno un'ora questo corteo. Girò indisturbato mentre le saracinesche dei negozi, dei bar, si abbassavano all'istante. Per due giorni ci fu un coprifuoco totale. Nessuno uscì di casa, neanche per comprare il pane. Don Peppino comprese che era necessario programmare un piano di lotta.

Era necessario tracciare apertamente un percorso da seguire, non più testimoniare singolarmente, ma organizzare la testimonianza e coordinare un nuovo impegno delle chiese del territorio. Scrisse, firmandolo assieme a tutti i preti della fo-ranìa di Casal di Principe, un documento inaspettato, un testo religioso, cristiano, con una traccia di disperata dignità umana, che rese quelle parole universali, capaci di superare i perimetri religiosi e di far tremare sin nella voce le sicurezze dei boss, che arrivarono a temere quelle parole più di un blitz dell'Antimafia, più del sequestro delle cave e delle betoniere, più delle intercettazioni telefoniche che tracciano un ordine di morte. Era un documento vivo con un titolo romanticamente forte: "Per amore del mio popolo non tacerò". Distribuì lo scritto il giorno di Natale, non appese le pagine alle porte della sua chiesa, non doveva come Lutero riformare nessuna chiesa romana, aveva altro cui pensare don Pep-pino. Tentare di comprendere come poter creare una strada trasversale ai poteri, l'unica in grado di mettere in crisi l'autorità economica e criminale delle famiglie di camorra.

Don Peppino scavò un percorso nella crosta della parola, erose dalle cave della sintassi quella potenza che la parola pubblica, pronunciata chiaramente, poteva ancora concedere. Non ebbe l'indolenza intellettuale di chi crede che la parola ormai abbia esaurito ogni sua risorsa che risulta capace solo di riempire gli spazi tra un timpano e l'altro. La parola come concretezza, materia aggregata di atomi per intervenire nei meccanismi delle cose, come malta per costruire, come punta di piccone. Don Peppino cercava una parola necessaria come secchiata d'acqua sugli sguardi imbrattati. Il tacere in queste terre non è la banale omertà silenziosa che si rappresenta di coppole e sguardo abbassato. Ha molto più a che fare col "non mi riguarda". L'atteggiamento solito in questi luoghi, e non solo, una scelta di chiusura che è il vero voto messo nel seggio dello stato di cose. La parola diviene un urlo. Controllato e lanciato acuto e alto contro un vetro blindato: con la volontà di farlo esplodere.

Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della camorra. […] La camorra oggi è ima forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana. I camorristi impongono con violenza, armi in pugno, regole inaccettabili: estorsioni che hanno visto le nostre zone diventare sempre più aree sussidiate, assistite senza alcuna autonoma capacità di sviluppo; tangenti al venti per cento e oltre sui lavori edili, che scoraggerebbero l'imprenditore più temerario, traffici illeciti per l'acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti il cui uso produce schiere di giovani emarginati, e manovalanza a disposizione delle organizzazioni criminali; scontri tra diverse fazioni che si abbattono come veri flagelli devastatori sulle famiglie delle nostre zone; esempi negativi per tutta la fascia adolescenziale della popolazione, veri e propri laboratori di violenza e del crimine organizzato […]

Don Peppino aveva come priorità ricordare che bisognava, dinanzi all'ondata del potere dei clan, non più contenere l'attività nel silenzio del confessionale. Setacciò così la voce dei profeti per sostenere la necessità prioritaria di scendere per le strade, di denunciare, di agire come condizione assoluta per dare ancora un senso al proprio essere.

II nostro impegno profetico di denuncia non deve le non può venire meno, Dio ci chiama a essere profeti.

Il Profeta fa da sentinella: vede l'ingiustizia, la denuncia e richiama il progetto originario di Dio (Ezechiele 3,16–18);

Il Profeta ricorda il passato e se ne serve per cogliere nel presente il nuovo (Isaia 43);

Il Profeta invita a vivere e lui stesso vive la solidarietà nella sofferenza (Genesi 8,18–23);

Il Profeta indica come prioritaria la via della giustizia (Geremia 22,3 — Isaia 58).

Ai preti nostri pastori e confratelli chiediamo di parlare chiaro nelle omelie e in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa. Alla chiesa che non rinunci al suo ruolo "profetico" affinché gli strumenti della denuncia e dell'annuncio si concretizzino nella capacità di produrre nuova coscienza nel segno della giustizia, della solidarietà dei valori etici e civili.

Il documento non aveva la volontà di risultare corretto verso il potere politico, che non considerava soltanto sostenuto dai clan ma anzi persino determinato da scopi comuni, né accondiscendente verso la realtà sociale. Don Peppino non voleva credere che il clan fosse la scelta del male fatta da qualcuno, ma era invece il risultato di condizioni precise, di meccanismi determinati, di cause identificabili e incancrenite. Mai la Chiesa, mai nessuno in questi territori aveva avuto un tale impegno chiarificatore.

La diffidenza e la sfiducia dell'uomo del sud nei confronti delle istituzioni per la secolare insufficienza di una politica atta a risolvere i pesanti problemi che travagliano il Mezzogiorno, particolarmente quelli relativi al lavoro, alla casa, alla sanità e all'istruzione;

il sospetto, non sempre infondato, di una complicità con la camorra da parte di uomini politici che, in cambio del sostegno elettorale, o addirittura per scopi comuni, assicurano copertura e favori;

il diffuso senso di insicurezza personale e di rischio permanente, derivante dalla insufficiente tutela giuridica delle persone e dei beni, dalla lentezza della macchina giudiziaria, dalle ambiguità degli strumenti legislativi.[…] il che determina, non di rado, il ricorso alla difesa organizzata per clan o all'accettazione della protezione camorristica;

la mancanza di chiarezza nel mercato del lavoro, per cui trovare una occupazione è più una operazione di tipo ca-morristico-clientelare che il perseguimento di un diritto fondato sulla legge del collocamento;

la carenza o l'insufficienza, anche nell'azione pastorale, di una vera educazione sociale, quasi che si possa formare un cristiano maturo senza formare l'uomo e il cittadino maturo.