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Noi, Pastori delle Chiese della Campania, non intendiamo, però, limitarci a denunciare queste situazioni; ma, nell'ambito delle nostre competenze e possibilità, intendiamo contribuire al loro superamento, anche mediante una revisione e integrazione dei contenuti e dei metodi dell'azione pastorale.
Don Peppino iniziò a mettere in dubbio la fede cristiana dei boss, a negare esplicitamente che ci potesse essere alleanza tra il credo cristiano e il potere imprenditoriale, militare e politico dei clan. In terra di camorra il messaggio cristiano non viene visto in contraddizione con l'attività camorristica: il clan che finalizza la propria attività al vantaggio di tutti gli affiliati considera il bene cristiano rispettato e perseguito dall'organizzazione. La necessità di uccidere i nemici e i traditori viene vista come una trasgressione lecita, il non uccidere inscritto nelle tavole di Mosè può nell'argomentazione dei boss essere sospeso se l'omicidio avviene per un motivo superiore, ovvero la salvaguardia del clan, degli interessi dei suoi dirigenti, del bene del gruppo e quindi di tutti. Ammazzare è un peccato che verrà compreso e perdonato da Cristo in nome della necessità dell'atto.
A San Cipriano d'Aversa Antonio Bardellino affiliava con il rituale della pungitura, usato anche da Cosa Nostra: una modalità che apparteneva a rituali che progressivamente sono andati scomparendo. Il polpastrello destro dell'aspirante veniva punto con uno spillo e il sangue fatto colare sull'immagine della Madonna di Pompei. Poi questa veniva fatta bruciare su una candela e passata di mano in mano a tutti i dirigenti del clan che erano disposti in piedi lungo il perimetro di una tavola. Se tutti gli affiliati baciavano la Madonna, il nuovo presentato diveniva ufficialmente parte del clan. La religione è un riferimento costante per l'organizzazione camorristica, non soltanto come forma scaramantica o residuo culturale ma come forza spirituale che ne determina le scelte più intime. Le famiglie camorristiche, e in particolar modo i boss maggiormente carismatici, spesso considerano il proprio agire come un calvario, un assumersi sulla propria coscienza il dolore e il peso del peccato per il benessere del gruppo e degli uomini su cui regnano.
A Pignataro Maggiore il clan Lubrano fece restaurare a proprie spese un affresco raffigurante una Madonna. È detta la "Madonna della camorra", poiché a lei si sono rivolti per chiedere protezione i più importanti latitanti di Cosa Nostra fuggiti dalla Sicilia a Pignataro Maggiore. Non è difficile infatti immaginarsi Totò Rima, Michele Greco, Luciano Liggio o Bernardo Provenzano, chini sugli scranni dinanzi all'affresco della Madonna, che implorano di essere illuminati nelle loro azioni e protetti nelle loro fughe.
Quando Vincenzo Lubrano venne assolto organizzò un pellegrinaggio con diversi pullman a San Giovanni Rotondo per ringraziare Padre Pio, artefice, secondo lui, dell'assoluzione. Statue a grandezza naturale di Padre Pio, copie di terracotta e bronzo del Cristo che campeggia a braccia aperte sul Pào de Agucar di Rio, sono presenti in moltissime ville di boss della camorra. A Scampia nei laboratori di stoccaggio della droga spesso vengono tagliati trentatré panetti di hashish per volta, come gli anni di Cristo. Poi ci si ferma per trentatré minuti, si fa il segno della croce e si riprende il lavoro. Una sorta di omaggio a Cristo per propiziarsi guadagni e tranquillità. Lo stesso accade con le bustine di coca che spesso, prima della distribuzione ai pusher, il capozona bagna e benedice con l'acqua di Lourdes sperando che le partite non uccidano nessuno, anche perché della cattiva qualità della roba ne risponderebbe lui direttamente.
Il Sistema camorra è un potere che non coinvolge soltanto i corpi, né dispone soltanto della vita di tutti, ma pretende di artigliare anche le anime. Don Peppino volle iniziare a fare chiarezza sulle parole, sui significati, sui perimetri dei valori.
La camorra chiama "famiglia" un clan organizzato per scopi delittuosi, in cui è legge la fedeltà assoluta, è esclusa qualunque espressione di autonomia, è considerata tradimento, degno di morte, non solo la defezione, ma anche la conversione all'onestà; la camorra usa tutti i mezzi per estendere e consolidare tale tipo di "famiglia", strumentalizzando persino i sacramenti. Per il cristiano, formato alla scuola della Parola di Dio, per "famiglia" si intende soltanto un insieme di persone unite tra loro da una comunione di amore, in cui l'amore è servizio disinteressato e premuroso, in cui il servizio esalta chi lo offre e chi lo riceve. La camorra pretende di avere una sua religiosità, riuscendo, a volte, a ingannare, oltre che i fedeli, anche sprovveduti o ingenui pastori di anime.
Il documento tentò addirittura di entrare nel merito dei sacramenti. Tenere lontano ogni sorta di sovrapposizione tra la comunione, il ruolo del padrino, il matrimonio e le strategie camorristiche. Allontanare i patti, le alleanze dei clan dai simboli religiosi. Al solo pensiero di pronunciare una cosa del genere i preti del luogo sarebbero scappati in bagno dalla paura tenendosi lo stomaco in mano. Chi avrebbe cacciato dall'altare un boss pronto a battezzare il figlio di un affiliato? Chi avrebbe rifiutato di celebrare un matrimonio solo perché frutto dell'alleanza tra famiglie? Don Peppino era stato chiaro.
Non permettere che la funzione di "padrino" nei sacramenti che lo richiedono, sia esercitata da persone di cui non sia notoria l'onestà della vita privata e pubblica e la maturità cristiana. Non ammettere ai sacramenti chiunque tenti di esercitare indebite pressioni in carenza della necessaria iniziazione sacramentale.
Don Peppino sfidò il potere della camorra nel momento in cui Francesco Schiavone, Sandokan, era latitante, quando si nascondeva nel bunker sotto la sua villa in paese, mentre le famiglie Casalesi erano in guerra tra loro e i grandi affari del cemento e dei rifiuti divenivano le nuove frontiere dei loro imperi. Don Peppino non voleva fare il prete consolatore, che accompagna le bare dei ragazzini soldato massacrati alla fossa e bisbiglia "fatevi coraggio" alle madri in nero. In un'intervista dichiarò: "Noi dobbiamo fendere la gente per metterla in crisi". Prese anche posizione politica, chiarendo che la priorità sarebbe stata la lotta al potere politico come espressione di quello imprenditorial-criminale, che l'appoggio sarebbe andato ai progetti concreti, alle scelte di rinnovamento, non ci sarebbe stata alcuna imparzialità da parte sua. "Il partito si confonde con il suo rappresentante, spesso i candidati favoriti dalla camorra non hanno né politica né partito, ma solo un ruolo da giocare o un posto da occupare." L'obiettivo non era vincere la camorra. Come lui stesso ricordava "vincitori e vinti sono sulla stessa barca". L'obiettivo era invece comprendere, trasformare, testimoniare, denunciare, fare l'elettrocardiogramma al cuore del potere economico come un modo per comprendere come spaccare il miocardio dell'egemonia dei clan.
Mai per un momento nella mia vita mi sono sentito devoto, eppure la parola di don Peppino aveva un'eco che riusciva ad andare oltre il tracciato religioso. Foggiava un metodo nuovo che andava a rifondare la parola religiosa e politica. Una fiducia nella possibilità di azzannare la realtà, senza lasciarla se non dilaniandola. Una parola capace di inseguire il percorso del danaro seguendone il tanfo.
Si crede che il danaro non abbia odore, ma questo è vero solo nella mano dell'imperatore. Prima che giunga nel suo palmo, pecunia olet. E è un puzzo di latrina. Don Peppino operava in una terra dove il danaro reca traccia del suo odore, ma per un attimo. L'istante in cui viene estratto, prima che diventi altro, prima che possa trovare legittimazione. Simili odori si sanno riconoscere solo quando le narici si strofinano contro ciò che li emana. Don Peppino Diana aveva compreso che doveva tenere la faccia su quella terra, attaccarla sulle schiene, sugli sguardi, non allontanarsi per poter continuare a vedere e denunciare, e capire dove e come le ricchezze delle imprese si accumulano e come si innescano le mattanze e gli arresti, le faide e i silenzi. Tenendo sulla punta della lingua lo strumento, l'unico possibile per tentare di mutare il suo tempo: la parola. E questa parola, incapace al silenzio, fu la sua condanna a morte. I suoi killer non scelsero una data a caso. Il giorno del suo onomastico, il 19 marzo del 1994. Mattina prestissimo. Don Peppino non si era ancora vestito con gli abiti talari. Stava nella sala riunioni della chiesa, vicino allo studio. Non era immediatamente riconoscibile.
"Chi è don Peppino?"
"Sono io…"
L'ultima risposta. Cinque colpi che rimbombarono nelle navate, due pallottole lo colpirono al volto, le altre bucarono la testa, il collo e una mano. Avevano mirato alla faccia, i colpi l'avevano morso da vicino. Un'ogiva del proiettile gli era rimasta addosso, tra il giubbotto e il maglione. Una pallottola gli aveva falciato il mazzo di chiavi agganciato ai pantaloni. Don Peppino si stava preparando per celebrare la prima messa. Aveva trentasei anni.
Uno dei primi che accorse in chiesa e trovò il suo corpo ancora per terra fu Renato Natale, sindaco comunista di Casal di Principe. Era stato eletto da appena quattro mesi. Non fu un caso, quel corpo lo vollero far cadere anche sulla sua breve, brevissima gestione politica. Natale era stato il primo sindaco di Casal di Principe che aveva posto come priorità assoluta la lotta ai clan. Aveva per protesta anche abbandonato il consiglio comunale perché secondo lui si era ridotto a luogo di ratifica di decisioni prese altrove. Un giorno a Casale i carabinieri avevano fatto irruzione nella casa di un assessore, Gaetano Corvino, dove erano riuniti tutti i massimi dirigenti del clan dei Casalesi. Una riunione fatta mentre l'assessore era in municipio per una seduta della giunta comunale. Da un lato gli affari del paese, dall'altra gli affari attraverso il paese. Fare affari è l'unico motivo che ti fa alzare dal letto la mattina, ti tira per il pigiama e ti mette in piedi.
Ho sempre guardato Renato Natale da lontano, come si fa con quelle persone che diventano, senza volerlo, dei simboli di una qualche idea di impegno, resistenza, coraggio. Simboli quasi metafisici, irreali, archetipici. Con un imbarazzo da adolescente, ho sempre osservato il suo adoperarsi nel creare ambulatori per gli immigrati, denunciare negli anni bui delle faide, il potere delle famiglie della camorra casalese e i loro affari di cemento e monnezza. L'avevano avvicinato, minacciato di morte, gli avevano detto che se non avesse smesso la sua scelta si sarebbe ritorta contro i suoi familiari, ma lui continuava a denunciare, con ogni mezzo, persino attacchinando in giro per il paese manifesti che rivelavano cosa i clan stavano decidendo e imponendo. Più agiva con costanza e coraggio, più aumentava la sua protezione metafisica. Bisognerebbe conoscere la storia politica di queste terre per capire che peso specifico hanno i termini impegno e volontà.
Da quando è stata promulgata la legge che scioglie i comuni per infiltrazione mafiosa, sedici sono le amministrazioni comunali sciolte per camorra in provincia di Caserta. Cinque di esse sono state commissariate due volte. Carinola, Casal di Principe, Casapesenna, Castelvolturno, Cesa, Frignano, Grazzanise, Lusciano, Mondragone, Pignataro Maggiore, Recale, San Cipriano, Santa Maria la Fossa, Teverola, Villa di Briano, San Tammaro. I sindaci che si oppongono ai clan in questi paesi, quando riescono a farsi eleggere battendo voto di scambio e strategie economiche che trasversalmente avvinghiano ogni schieramento politico, si trovano a dover fare i conti con i limiti degli amministratori locali, pochi spiccioli e marginalità assoluta. Devono iniziare ad abbattere, smontando mattone per mattone. Con budget da paese devono fronteggiare multinazionali, con caserme di provincia arginare enormi batterie di fuoco. Come nel 1988 quando Antonio Cangiano, assessore di Casapesenna, si oppose alla penetrazione del clan in alcuni appalti. Lo minacciarono, lo pedinarono, gli spararono alla schiena, in piazza, davanti a tutti. Lui non aveva fatto camminare il clan dei Ca-salesi, i Casalesi non avrebbero più fatto camminare lui. Costrinsero Cangiano alla sedia a rotelle. I presunti responsabili dell'agguato sono stati assolti nel 2006.
Casal di Principe non è un paese della Sicilia aggredito dalla mafia, dove opporsi all'imprenditoria criminale è cosa dura ma al fianco della propria azione ci sono cortei di telecamere, giornalisti affermati e in via d'affermazione, e stuoli di dirigenti antimafia nazionali che in qualche modo riescono ad amplificare il proprio impegno. Qui tutto ciò che fai rimane nel perimetro degli spazi ristretti, nella condivisione dei pochi. È proprio in questa solitudine credo, che si foggia quello che potrebbe chiamarsi coraggio, una sorta di panoplia a cui non pensi, te la porti addosso senza rendertene conto. Vai avanti, fai quello che devi fare, il resto non vale nulla. Perché la minaccia non è sempre una pallottola tra gli occhi, o i quintali di merda di bufala che ti scaricano fuori alla porta di casa.
lì sfogliano lentamente. Una foglia al giorno, fin quando ti trovi nudo e solo a credere che stai combattendo con qualcosa che non esiste, che è un delirio del tuo cervello. Inizi a credere alle calunnie che ti indicano come un insoddisfatto che se la prende con chi è riuscito e per frustrazione li chiama camorristi. Giocano con te come con lo shangai. Tolgono tutte le bacchette di legno senza mai farti muovere, così alla fine rimani da solo e la solitudine ti trascina per i capelli. È uno stato d'animo che qui non ti puoi permettere. È un rischio, abbassi la guardia, non riesci più a comprendere i meccanismi, i simboli, le scelte. Rischi di non accorgerti più di niente. E allora devi dare fondo a tutte le tue risorse. Devi trovare qualcosa che carburi lo stomaco dell'anima per andare avanti. Cristo, Buddha, l'impegno civile, la morale, il marxismo, l'orgoglio, l'anarchismo, la lotta al crimine, la pulizia, la rabbia costante e perenne, il meridionalismo. Qualcosa. Non un gancio a cui appendersi. Piuttosto una radice sotto terra, inattaccabile. Nell'inutile battaglia in cui sei certo di ricoprire il ruolo di sconfitto, c'è qualcosa che devi preservare e sapere. Devi essere certo che si rafforzerà grazie allo spreco del tuo impegno che ha il sapore della follia e dell'ossessione. Quella radice a fittone che si incunea nel terreno ho imparato a riconoscerla negli sguardi di chi ha deciso di fissare in volto certi poteri.
I sospetti sull'omicidio di don Peppino caddero subito sul gruppo di Giuseppe Quadrano, un affiliato che si era posto al fianco dei nemici di Sandokan. C'erano anche due testimoni: un fotografo che si trovava lì per fare gli auguri a don Peppino e il sagrestano della chiesa di San Nicola. Appena iniziò a circolare la notizia che la polizia aveva orientato i suoi sospetti su Quadrano, il boss Nunzio De Falco detto "'o lupo", che stava a Granada in Andalusia, dote nella spartizione territoriale dei poteri tra Casalesi, telefonò alla Questura di Caserta per chiedere un incontro con dei poliziotti e chiarire le questioni che riguardavano un affiliato al suo gruppo. Due funzionari della Questura di Caserta lo andarono a incontrare nel suo territorio. All'aeroporto la moglie del boss andò a prendere i due e si inoltrò con la macchina nelle bellissime campagne andaluse. Nunzio De Falco li aspettava, non nella sua villa a Santa Fé, ma in un ristorante dove con grande probabilità la maggior parte dei clienti erano figuranti pronti a intervenire in caso i poliziotti avessero commesso qualche imprudenza. Il boss subito chiarì che li aveva chiamati per fornire la sua versione sull'episodio, una sorta di interpretazione di un fatto storico e non una delazione o una denuncia. Una premessa chiara e necessaria per non infangare il nome e l'autorevolezza della famiglia. Non poteva mettersi a collaborare con la polizia. Il boss dichiarò senza perifrasi che a uccidere don Peppino Diana erano stati gli Schiavone, la famiglia rivale. Avevano ucciso il prete per far cadere sui De Falco la responsabilità dell'omicidio. "'O lupo" sostenne che non avrebbe mai potuto dare ordine d'uccidere don Peppino Diana, visto che suo fratello Mario gli era molto legato. Don Diana era infatti riuscito a non farlo diventare un dirigente del clan, a tenere con lui un dialogo capace di sottrarlo dal Sistema camorra. Era uno dei risultati più forti di don Peppino, ma il boss De Falco lo usò come suo alibi. A dare manforte alle tesi di De Falco intervennero altri due affiliati al clan: Mario Santoro e Francesco Piacenti. Anche Giuseppe Quadrano era in Spagna. Prima andò ospite nella villa di De Falco, poi si stabilì in un paese vicino a Valencia. Voleva mettere su un gruppo, aveva tentato di fare affari con dei carichi di droga che avrebbero dovuto fungere da acceleratore economico per edificare l'ennesimo clan im-prenditorial-criminale italiano nel sud della Spagna. Ma non ci riuscì. In fondo Quadrano era sempre stato un comprimario. Si consegnò alla polizia spagnola dichiarandosi disponibile a collaborare con la giustizia. Smentì la versione che Nunzio De Falco aveva raccontato ai poliziotti. Quadrano inserì l'omicidio all'interno della faida che stava avvenendo tra il suo gruppo e gli Schiavone. Quadrano era capozona di Ca-rinaro e i Casalesi di Sandokan gli avevano fatto fuori in poco tempo quattro affiliati, due zii e il marito della sorella. Quadrano raccontò che aveva deciso assieme a Mario Santoro di ammazzare Aldo Schiavone, un cugino di Sandokan, per vendicare l'affronto. Prima dell'operazione chiamarono De Falco in Spagna, nessuna operazione militare può essere compiuta senza il consenso di dirigenti, ma il boss da Grana-da bloccò rutto poiché Schiavone, dopo la morte del cugino, avrebbe ordinato il massacro di tutti i parenti di De Falco rimasti ancora in Campania. Il boss segnalò che avrebbe inviato Francesco Piacenti come messaggero e organizzatore di un suo ordine. Piacenti si fece Granada-Casal di Principe a bordo della sua Mercedes, la macchina negli anni '80 e '90 simbolo di questo territorio. D giornalista Enzo Biagi rimase sconvolto alla fine degli anni '90 quando ebbe per un suo articolo i dati di vendita delle Mercedes in Italia. Casal di Principe risultava tra le prime posizioni in Europa di vetture acquistate. Ma notò anche un altro primato: l'area urbana col più alto tasso di omicidi d'Europa era proprio Casal di Principe. Una relazione quella tra Mercedes e morti ammazzati che potrebbe rimanere una costante d'osservazione per i territori di camorra. Piacenti — secondo la prima rivelazione di Quadrano — comunicò che bisognava uccidere don Giuseppe Diana. Nessuno sapeva il motivo della decisione ma tutti erano sicuri che "il Lupo sapeva quello che stava facendo". Piacenti dichiarò — secondo il pentito — che avrebbe lui stesso commesso l'omicidio, a patto che con lui fosse andato anche Santoro o qualcun altro del clan. Mario Santoro invece titubava, chiamò De Falco dicendo che era contrario all'omicidio, ma alla fine accettò. Per non perdere il ruolo di mediatore nel narcotraffico con la Spagna che gli aveva concesso "'o lupo", non poteva sottrarsi a un ordine così importante. Ma l'omicidio di un prete, e per di più senza un motivo chiaro, non riusciva a essere accettato come un compito analogo ad altri. Nel Sistema camorra l'omicidio risulta necessario, è come un versamento in banca, come l'acquisto di una concessionaria, come interrompere un'amicizia. Non è un gesto che si differenzia dal proprio quotidiano: è parte dell'alba e del tramonto di ogni famiglia, di ogni boss, di ogni affiliato. Ma uccidere un prete, esterno alle dinamiche di potere, faceva galleggiare la coscienza. Secondo la dichiarazione di Quadrano, Francesco Piacenti si ritirò dicendo che a Casale lo conoscevano in troppi e quindi non poteva partecipare all'agguato. Mario Santoro invece accettò, ma con la compagnia di Giuseppe Della Medaglia, affiliato al clan Ranucci di Sant'Antimo, e già compagno di altre operazioni. Secondo il pentito si organizzarono per il giorno dopo, alle sei del mattino. Ma la notte fu tormentosa per l'intero commando. Non prendevano sonno, litigavano con le mogli, si agitavano. Faceva paura più quel prete che le bocche di fuoco dei clan rivali.
Della Medaglia non si presentò all'appuntamento, ma riuscì nella notte a contattare un'altra persona da mandare, Vincenzo Verde. Gli altri componenti del gruppo non furono particolarmente felici della scelta, Verde aveva spesso crisi epilettiche. Rischiava, dopo aver sparato, di sciogliersi a terra in convulsioni, crisi, lingua tagliata dai denti e bava alla bocca. Avevano tentato così di coinvolgere al suo posto Nicola Gaglione, ma lui aveva categoricamente rifiutato. Santoro iniziò ad avere crisi di labirintite. Non riusciva a tenere a mente nessun percorso, così Quadrano mandò suo fratello Armando ad accompagnare Santoro. Un'operazione semplice, un auto davanti alla chiesa che aspetta e i killer che tornano a passo lento dopo aver fatto il servizio. Come una preghiera a prima mattina. Dopo l'esecuzione il gruppo di fuoco non ebbe fretta di fuggire. Quadrano fu invitato la sera stessa ad andare in Spagna, ma rifiutò. Si sentiva tutelato dal fatto che l'assassinio di don Peppino era un'azione del tutto slegata dalla prassi militare sino ad allora seguita. E come non era noto a loro il motivo di quell'uccisione non sarebbe stata nota neanche ai carabinieri. Appena però le indagini di polizia iniziarono a orientarsi in ogni direzione, Quadrano si trasferì in Spagna. Lui stesso dichiarò che Francesco Piacenti gli aveva rivelato che Nunzio De Falco, Sebastiano Caterino e Mario Santoro dovevano farlo fuori, forse perché nutrivano il sospetto che volesse pentirsi ma il giorno dell'agguato lo videro in macchina assieme al figlio piccolo e lo risparmiarono.
A Casal di Principe, Sandokan sentiva sempre più spesso il suo nome associato aU'eliminazione del sacerdote. Così fece sapere ai familiari di don Peppino che se i suoi uomini avessero messo le mani su Quadrano prima della polizia, l'avrebbero tagliato in tre pezzi e gettato sul sagrato della chiesa. Più che una vendetta era un chiaro messaggio di non responsabilità nell'agguato a don Diana. Poco dopo, per reagire alle dichiarazioni di estraneità di Francesco Schiavone, in Spagna avvenne un incontro tra gli uomini del clan De Falco, in cui Giuseppe Quadrano propose di ammazzare un parente di Schiavone, tagliarlo a pezzi e lasciarlo in un sacco fuori alla chiesa di don Peppino. Un modo per far cadere la responsabilità su Sandokan. Entrambe le fazioni, pur non conoscendo l'una le intenzioni dell'altra, erano giunte alla medesima soluzione. Tagliare cadaveri e spargerne i pezzi è il miglior modo per rendere indelebile un messaggio. Mentre i suoi assassini parlavano di tagliare la carne per suggellare una posizione, pensavo ancora una volta alla battaglia di don Peppino, alla priorità della parola. A quanto fosse davvero incredibilmente nuova e potente la volontà di porre la parola al centro di una lotta contro i meccanismi di potere. Parole davanti a betoniere e fucili. E non metaforicamente. Realmente. Lì a denunciare, testimoniare, esserci. La parola con l'unica sua armatura: pronunciarsi. Una parola che è sentinella, testimone: vera a patto di non smettere mai di tracciare. Una parola orientata in tal senso la puoi eliminare solo ammazzando.
Il tribunale di Santa Maria Capua Vetere nel 2001 condannò con sentenza di primo grado all'ergastolo Vincenzo Verde, Francesco Piacenti, Giuseppe Della Medaglia. Giuseppe Quadrano aveva iniziato da tempo un'opera finalizzata a screditare la figura di don Peppino. Durante gli interrogatori almanaccava su una serie di moventi dell'omicidio volti a strozzare l'impegno di don Peppino dentro un cappio di interpretazioni criminali. Raccontò che Nunzio De Falco aveva dato a don Diana delle armi, poi girate senza autorizzazione a Walter Schiavone: e per questo grave sgarro era stato punito. Inoltre si raccontò di un delitto passionale, cioè che l'avevano ammazzato perché aveva insidiato la cugina di un boss. Come per interrompere ogni tipo di riflessione su una donna è sufficiente definirla "mignotta", così accusare un prete di essere mignottaro è il modo più veloce per chiudere un giudizio. Alla fine uscì fuori la storia che don Peppi-no era stato ucciso per non aver fatto il suo dovere di prete, per non aver voluto celebrare in chiesa i funerali di un parente di Quadrano. Moventi inverosimili, risibili, finalizzati al tentativo di evitare di fare di don Peppino un martire, a non voler far diffondere i suoi scritti, a non considerarlo una vittima di camorra ma un soldato dei clan. Chi non conosce le dinamiche di potere della camorra spesso crede che uccidere un innocente sia un gesto di terribile ingenuità da parte dei clan perché legittima e amplifica il suo esempio, le sue parole. Come una conferma alle sue verità. Errore. Non è mai così. Appena muori in terra di camorra, vieni avvolto da molteplici sospetti, e l'innocenza è un'ipotesi lontana, l'ultima possibile. Sei colpevole sino a prova contraria. La teoria del diritto moderno nella terra dei clan è capovolta.
L'attenzione è talmente poca che basta un sospetto, e le agenzie di stampa non battono la notizia della morte di un innocente. E poi, se non ci sono più morti nessuno tornerà sul caso. E così distruggere l'immagine di don Peppino Diana è stata una strategia fondamentale per alleggerire le pressioni sui clan, l'assillo di un interesse nazionale che avrebbe gravato troppo.
Un quotidiano locale fece da cassa di risonanza alla campagna di screditamento di don Peppino. Con titoli così carichi di grassetto che le lettere ti rimanevano stampate sui polpastrelli quando sfogliavi il giornale: "Don Diana era un camorrista" e pochi giorni dopo: "Don Diana a letto con due donne". Il messaggio era chiaro: nessuno può schierarsi contro la camorra. Chi lo fa ha sempre un interesse personale, una bega, una questione privata che rotola nello stesso lerciume.
A difenderne la memoria c'erano gli amici di sempre, i familiari e le persone che lo seguivano, come il giornalista Raffaele Sardo che ha custodito la sua memoria in articoli e libri, e la giornalista Rosaria Capacchione che ha monitorato le strategie dei clan, le furbizie dei pentiti, il loro potere complicato e bestiale.
La sentenza di secondo grado del 2003 mise in discussione alcuni passaggi della prima versione di Giuseppe Quadrano scagionando Vincenzo Verde e Giuseppe Della Medaglia. Quadrano aveva confessato verità parziali pianificando — fin dal primo momento — la strategia di non dichiarare la propria responsabilità. Ma il killer è stato lui, riconosciuto da alcuni testimoni e confermato dalle perizie balistiche. Giuseppe Quadrano è il killer di don Peppino Diana. La sentenza di secondo grado prosciolse Vecde e Della Medaglia. Il commando era composto da Quadrano e Santoro, che aveva funzioni da autista. Francesco Piacenti aveva fornito diverse informazioni su don Diana ed era il supervisore direttamente mandato dalla Spagna da De Falco per dirigere l'operazione. L'ergastolo a Piacenti e Santoro fu confermato anche dal secondo grado d'appello. Quadrano aveva persino registrato delle telefonate con diversi affiliati, dove più volte ripeteva che non c'entrava con l'omicidio. Registrazioni che poi consegnò alla polizia. Quadrano capiva che l'ordine di morte era stato deciso da De Falco, e non voleva essere scoperto come mero braccio armato dell'operazione. Molto probabilmente tutti i personaggi coinvolti nella prima versione di Quadrano se l'erano fatta sotto e non avevano voluto partecipare in nessun modo all'agguato. A volte mitra e pistole non sono sufficienti per affrontare un viso disarmato e parole chiare.
Nunzio De Falco fu arrestato ad Albacete mentre viaggiava sull'intercity Valencia-Madrid. Aveva messo su un potente cartello criminale assieme a uomini della 'ndrangheta e alcuni sbandati di Cosa Nostra. Tentò anche — secondo le indagini della polizia spagnola — di dare una struttura da gruppo criminale ai gitani presenti nel sud della Spagna. Aveva costruito un impero. Villaggi turistici, case da gioco, negozi, alberghi. La Costa del Sol aveva conosciuto un salto di qualità nelle infrastrutture turistiche da quando clan Casalesi e napoletani avevano deciso di farne una perla del turismo di massa.
De Falco venne condannato nel gennaio 2003 all'ergastolo come mandante dell'omicidio di don Peppino Diana. Mentre la sentenza veniva letta in tribunale mi venne da ridere. Una risata che riuscii a contenere lasciando gonfiare le guance. Non potevo resistere all'assurdità che in quell'aula si materializzava. Nunzio De Falco era difeso dall'avvocato Gaetano Pecorella, che era allo stesso tempo presidente della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati e difensore di uno dei massimi boss del cartello camorristico casalese. Ridevo perché i clan erano così forti da aver persino ribaltato gli assiomi della natura e delle fiabe. Un lupo si faceva difendere da una pecorella. Ma il mio, forse, fu un delirio di stanchezza e un crollo di nervi.
Nunzio De Falco ha il suo soprannome stampato in faccia. Ha davvero la faccia del lupo. La foto segnaletica è riempita verticalmente dal viso lungo coperto da una barba rada e ispida come un tappeto d'aghi, e orecchie a punta. Capelli crespi, pelle scura e bocca triangolare. Sembra proprio uno di quei licantropi da iconografia horror. Eppure un giornale locale, lo stesso che aveva millantato i rapporti tra don Peppino e il clan, dedicò prime pagine alla sua qualità di amatore, ardentemente desiderato da donne e ragazze. Il titolo in prima pagina del 17 gennaio 2005 era eloquente: "Nunzio De Falco re degli sciupafemmine".
Casal di Principe (Ce)
Non sono belli ma piacciono perché sono boss; è così. Se si dovesse fare una classifica tra i boss playboy della provincia a detenere il primato sono due pluripregiudicati di Casal di Principe non certamente belli come poteva esserlo quello che invece è sempre stato il più affascinante di tutti cioè don Antonio Bardellino. Si tratta di Francesco Piacenti alias Nasone e Nunzio De Falco alias 'o Lupo. Secondo quello che si racconta ha avuto 5 mogli e il secondo 7. Naturalmente ci riferiamo non a rapporti matrimoniali veri e propri ma anche a rapporti duraturi da cui hanno avuto figli. Nunzio De Falco infatti, sembra che avrebbe oltre dodici figli avuti da diverse donne. Ma particolare interessante è un altro quello che le donne in questione non sono tutte italiane. Una spagnola un'altra inglese un'altra è portoghese. Ogni luogo dove si rifugiavano anche in periodo di latitanza mettevano su famiglia. Come marinai? Quasi […] Non a caso nei loro processi sono state chieste le testimonianze anche di alcune loro donne tutte belle e molto eleganti. È spesso anche il gentil sesso la causa dei tramonti dei tanti boss. Spesso sono state loro che indirettamente anche loro hanno condotto alla cattura dei boss più pericolosi. Gli investigatori pedinandole hanno permesso la cattura di boss del calibro di Francesco Schiavone Cicciariello […] Insomma le donne croce e delizia anche di boss.
La morte di don Peppino fu il prezzo pagato alla pace tra i clan. Anche la sentenza fa riferimento a questa ipotesi. Tra i due gruppi in lotta si doveva trovare un accordo, e questo forse è stato siglato sulla carne di don Peppino. Come un capro espiatorio sacrificato. Eliminarlo significava risolvere un problema per tutte le famiglie e al contempo distogliere l'attenzione delle indagini dai loro affari.
Avevo sentito parlare di un amico di gioventù di don Peppino, Cipriano, che aveva scritto un'arringa da leggere al funerale, un'invettiva ispirata a un discorso di don Peppino, ma non aveva avuto neanche la forza di muoversi quella mattina. Era andato via dal paese molti anni prima, viveva nei dintorni di Roma, aveva deciso di non mettere più piede in Campania. Mi avevano detto che il dolore per la morte di don Peppino l'aveva cucito a letto per mesi. Quando chiedevo di lui a una sua zia, lei rispondeva sistematicamente e con lo stesso tono funereo: "S'è chiuso. Ormai Cipriano s'è chiuso!".
Ogni tanto qualcuno si chiude. Da queste parti poi non è raro sentirsi dire una cosa del genere. Ogni volta che ascolto quest'espressione mi viene in mente Giustino Fortunato, che nei primi anni del '900 — per conoscere la situazione dei paesi della dorsale dell'Appennino meridionale — aveva camminato a piedi per mesi, raggiungendoli tutti, soggiornando nelle case dei braccianti, ascoltando le testimonianze dei contadini più rabbiosi, imparando che voce e che odore avesse la questione meridionale. Quando poi era diventato senatore, gli capitava di tornare in questi paesi e chiedeva delle persone che aveva incontrato anni prima, quelle più combattive che avrebbe voluto coinvolgere nei suoi progetti politici di riforma. Spesso però i parenti gli rispondevano: "Quello s'è chiuso!". Chiudersi, diventare silenzioso, quasi muto, una volontà di scappare dentro di sé e smettere di sapere, di capire, di fare. Smettere di resistere, una scelta di eremitaggio presa un momento prima di sciogliersi nei compromessi dell'esistente. Anche Cipriano s'era chiuso. Mi raccontavano in paese che aveva iniziato a chiudersi da quando una volta si era presentato a un colloquio di lavoro, per essere assunto come responsabile delle risorse umane in un'azienda di spedizioni di Frosinone. Leggendo il suo curriculum ad alta voce, l'esaminatore si fermò sul paese di residenza.
"Ah sì, ho capito da dove viene! È il paese di quel boss famoso… Sandokan, no?"
"No, è il paese di Peppino Diana!"
"Chi?"
Cipriano si era alzato dalla sedia e se n'era andato. Per vivere aveva preso in gestione un'edicola a Roma. Ero riuscito a sapere l'indirizzo da sua madre, l'avevo incontrata per caso, mi ero trovato dietro di lei in fila al supermercato. Doveva averlo avvertito del mio arrivo perché Cipriano non rispondeva al citofono. Sapeva forse di cosa gli volevo parlare. Ma avevo aspettato sotto casa sua per ore, ero pronto a dormire sul suo pianerottolo. Si decise a scendere. A stento mi salutò. Entrammo in un piccolo parco vicino a casa sua. Mi fece prendere posto su una panchina, aprì un quaderno a righe, uno di quelli delle elementari con le righe striminzite e su quelle pagine, scritte a mano, c'era l'arringa. Chissà se tra quei fogli c'era anche la grafia di don Peppino. Non osai chiederlo. Un discorso che avrebbero voluto firmare insieme.
Ma poi erano arrivati i killer, la morte, le calunnie, la solitudine abissale. Iniziò a leggere con un tono da frate eretico, con dei gesti da dolciniano in giro per le strade ad annunciare l'Apocalisse:
Non permettiamo uomini che le nostre terre diventino luoghi di camorra, diventino un'unica grande Gomorra da distruggere! Non permettiamo uomini di camorra, e non bestie, uomini come tutti, che quello che altrove diventa lecito trovi qui la sua energia illecita, non permettiamo che altrove si edifichi ciò che qui viene distrutto. Create il deserto attorno alle vostre ville, non frapponete tra ciò che siete e ciò che volete solo la vostra assoluta volontà. Ricordate. Allora il SIGNORE fece piovere dal cielo su Sodoma e Gomorra zolfo e fuoco; egli distrusse quelle città, tutta la pianura, tutti gli abitanti delle città e quanto cresceva sul suolo. Ma la moglie di Lot si volse a guardare indietro e diventò una statua di sale. (Genesi 19,12–29). Dobbiamo rischiare di divenire di sale, dobbiamo girarci a guardare cosa sta accadendo, cosa si accanisce su Gomorra, la distruzione totale dove la vita è sommata o sottratta alle vostre operazioni economiche. Non vedete che questa terra è Gomorra, non lo vedete? Ricordate. Quando vedranno che tutto il suo suolo sarà zolfo, sale, arsura e non vi sarà più sementa, né prodotto, né erba di sorta che vi cresca, come dopo la rovina di Sodoma, di Gomorra, di Adma e di Se-boim che il SIGNORE distrusse nella sua ira e nel suo furore, (Deuteronomio 29,22). Si muore per un sì e per un no, si dà la vita per un ordine e una scelta di qualcuno, fate decenni di carcere per raggiungere un potere di morte, guadagnate montagne di danaro che investirete in case che non abiterete, in banche dove non entrerete mai, in ristoranti che non gestirete, in aziende che non dirigerete, comandate un potere di morte cercando di dominare una vita che consumate nascosti sotto terra, circondati da guardaspalle. Uccidete e venite uccisi in una partita di scacchi il cui re non siete voi ma coloro che da voi prendono ricchezza facendovi mangiare l'uno con l'altro fin quando nessuno potrà fare scacco e ci sarà una solo pedina sulla scacchiera. E non sarete voi. Quello che divorate qui lo sputate altrove, lontano, facendo come le uccelle che vomitano il cibo nella bocca dei loro pulcini. Ma non sono pulcini quelli che imbeccate ma avvoltoi e voi non siete uccelle ma bufali pronti a distruggersi in un luogo dove sangue e potere sono i termini della vittoria. È giunto il tempo che smettiamo di essere una Gomorra…
Cipriano smise di leggere. Sembrava che in mente avesse immaginato tutte le facce a cui avrebbe voluto sbattere sul grugno quelle parole. Respirava con un affanno strozzato, da asmatico. Chiuse il quaderno e se ne andò senza salutarmi.
Hollywood
A Casal di Principe, a don Peppino Diana hanno dedicato un "Centro di pronta e temporanea accoglienza per minori in affido". Un centro organizzato in una villa sequestrata a un affiliato al clan dei Casalesi, Egidio Coppola. Una villa fastosa, da cui è stato possibile ricavare moltissime stanze. L'Agenzia per l'innovazione, lo sviluppo e la sicurezza sul territorio, la AGRORINASCE che riunisce i comuni di Casapesenna, Casal di Principe, San Cipriano d'Aversa e Villa Literno è riuscita a trasformare alcuni beni dei camorristi in strutture utili alla gente del paese. Le ville dei boss sequestrate, sino a quando non verranno realmente riutilizzate, continueranno ad avere il marchio di chi le ha edificate e abitate. Anche se abbandonate conservano il simbolo del dominio. Attraversando l'agro aversano sembra di avere sotto gli occhi una sorta di catalogo di sintesi di tutti gli stili architettonici degli ultimi trent'anni. Le ville più imponenti dei costruttori e dei proprietari terrieri tracciano il modello per i villini degli impiegati e commercianti. Se le prime troneggiano su quattro colonnati dorici di cemento armato, le seconde ne avranno due e le colonne saranno alte la metà. Il gioco all'imitazione fa sì che il territorio si dissemini di agglomerati di ville che gareggiano in imponenza, complessità e inviolabilità in una ricerca di stranezze e singolarità, come per esempio farsi riprodurre le linee di un quadro di Mondrian sulla cancellata esterna.
Le ville dei camorristi sono le perle di cemento nascoste nelle strade dei paesi del casertano, protette da mura e telecamere. Sono decine e decine. Marmi e parquet, colonnati e scale, camini con le iniziali dei boss incise nel granito. Ma ce n'è una particolarmente celebre, la più fastosa di tutte o semplicemente quella che intorno a sé ha creato più leggende. Per tutti in paese è "Hollywood". Basta pronunciare il nome per capire. Hollywood è la villa di Walter Schiavone, fratello di Sandokan, per molti anni responsabile del ciclo del cemento per conto del clan. Intuire la causa del nome non è complesso. Facile immaginarsi gli spazi e il fasto. Ma non è questo il motivo reale. Con Hollywood la villa di Walter Schiavone c'entra davvero. Si racconta a Casal di Principe che il boss aveva chiesto al suo architetto di costruirgli una villa identica a quella del gangster cubano di Miami, Tony Montana, in Scarface. Il film l'aveva visto e rivisto. L'aveva colpito sin nel profondo, al punto tale da identificarsi nel personaggio interpretato da Al Pacino. E effettivamente il suo volto scavato poteva sovrapporsi, con qualche fantasia, al viso dell'attore. Tutto ha il tono di leggenda. Al suo architetto, raccontano in paese, il boss consegnò direttamente il VHS del film. Il progetto doveva essere quello del film Scarface e nient'altro. Questa mi pareva una di quelle storie che addobbano l'ascesa al potere di ogni boss, un'aura che si impasta di leggenda, di veri e propri miti metropolitani. Ogni volta che qualcuno nominava Hollywood c'era sempre qualcun altro che da ragazzino era riuscito a vedere i lavori di costruzione, tutti in fila sulle biciclette a contemplare la villa di Tony Montana che lentamente spuntava in mezzo alle strade, direttamente da uno schermo. Una cosa rara del resto, perché a Casale i cantieri delle ville vengono tirati su soltanto dopo aver alzato alte mura. Alla storia di Hollywood non ci ho mai creduto. Vista da fuori la villa di Schiavone è un bunker, circondata da spesse mura sormontate da cancellate minacciose. Ogni accesso è protetto da cancelli blindati. Non si intuisce cosa ci sia al di là delle mura, ma pensi a qualcosa di prezioso, vista l'armatura della difesa.
Esiste un unico cenno esterno, un messaggio silenzioso, ed è proprio celebrato all'entrata principale. Ai lati della cancellata, che sembrerebbe d'una masseria di campagna, ci sono due colonnine doriche sormontate da un timpano. Non c'entrano nulla con la disciplinata sobrietà delle casette d'intorno, con le mura spesse, con il cancellacelo rosso. In realtà è il marchio di famiglia: il timpano neopagano, come messaggio destinato a chi già conosceva la villa. Solo vederla mi avrebbe dato certezza che quella costruzione di cui si favoleggiava da anni esisteva veramente. Avevo pensato di entrarci decine di volte per fissare Hollywood con i miei occhi. Pareva impossibile. Anche dopo il sequestro era presidiata dai pali del clan. Una mattina, prima che fosse decisa la destinazione d'uso, mi feci coraggio e riuscii a entrare. Passai da un accesso secondario, al riparo da sguardi indiscreti che avrebbero potuto innervosirsi per l'intrusione. La villa appariva imponente, luminosa, la facciata incuteva la stessa soggezione che si prova dinanzi a un monumento. Le colonne sorreggevano due piani con timpani di diversa grandezza organizzati in struttura verticale decrescente, con al centro un semicerchio mozzato. L'entrata era un delirio architettonico, due enormi scalinate si arrampicavano come due ali di marmo al primo piano che si affacciava a balconata sul salone sottostante. L'atrio era identico a quello di Tony Montana. C'era anche il ballatoio con un'entrata centrale allo studio, lo stesso dove si conclude tra piogge di proiettili Scarface. La villa è un tripudio di colonne doriche intonacate di rosa all'interno e di verde acquamarina all'esterno. I lati dell'edificio sono formati da doppi colonnati attraversati da preziose rifiniture in ferro battuto. L'intera proprietà è tremilaquattrocento metri quadri con una costruzione di ottocentocinquanta metri quadri disposta su tre livelli, il valore dell'immobile alla fine degli anni '90 era di circa cinque miliardi di lire, ora la stessa costruzione avrebbe un valore commerciale di quattro milioni di euro. Al primo piano vi sono stanze enormi, in ognuna c'è, inutilmente, almeno un bagno. Alcuni lussuosi ed enormi, altri invece piccoli e raccolti. C'è la stanza dei figli, con ancora i poster di cantanti e calciatori attaccati alle pareti, un quadretto annerito con due piccoli angioletti, forse messo alla testa del letto. Il ritaglio di un giornale: "L'Albanova affila le armi". L'Albanova era la squadra di Casal di Principe e San Cipriano d'Aversa, sciolta dall'Antimafia nel 1997, costruita con i soldi del clan, una squadra-giocattolo per i boss. Quei ritagli bruciacchiati attaccati all'intonaco marcio era ciò che rimaneva del figlio di Walter, morto in un incidente stradale ancora adolescente. Dal balcone si aveva la vista del giardino antistante, disseminato di palme, c'era anche un laghetto artificiale con un ponticello in legno che conduceva su un piccolo isolotto di piante e alberi contenuto da un muro a secco. In questa zona della casa, quando ancora la famiglia Schiavone ci abitava, scorazzavano i cani, i molossi, ennesime tracce della messa in scena del potere. Alle spalle della villa si stendeva un prato con una piscina elegante disegnata come un'ellisse sghemba, per permettere alle palme di fare ombra durante le giornate estive. Questa parte della villa era copiata dal bagno di Venere, vera perla del Giardino Inglese della Reggia di Caserta. La statua della dea si adagiava sul pelo dell'acqua con la stessa grazia di quella vanvitelHana. La villa è stata abbandonata dopo l'arresto del boss, avvenuto nel 1996 proprio in queste stanze. Walter non ha fatto come il fratello Sandokan che — latitante — si era fatto costruire sotto la sua enorme villa al centro di Casal di Principe un rifugio profondo e principesco. Sandokan, da latitante, si rifugiava in un fortino senza porte e finestre, con cunicoli e grotte naturali in grado di fornire vie di fuga di emergenza, ma anche un appartamento di cento metri quadri perfettamente organizzato.
Un appartamento surreale, illuminato da luci al neon e pavimenti di maiolica bianca. Il bunker era munito di videocitofono, aveva due accessi, impossibili da identificare dall'esterno. Praticamente quando si arrivava non si trovavano porte, poiché in realtà queste si aprivano solo lasciando scorrere pareti di cemento armato su binari. Quando c'era pericolo di perquisizioni il boss, dalla sala da pranzo, attraverso una botola nascosta raggiungeva una serie di cunicoli, ben undici, collegati tra loro, che sottoterra costituivano una specie di "ridotta", l'ultimo rifugio, dove Sandokan aveva fatto sistemare delle tende da campo. Un bunker nel bunker. Per beccarlo, nel 1998 la DIA aveva fatto appostamenti per un anno e sette mesi, arrivando a sfondare il muro con una sega elettrica per accedere al nascondiglio. Solo dopo, quando Francesco Schiavone si era arreso, è stato possibile individuare l'accesso principale nel deposito di una villa in via Salerno, tra cassette di plastica vuote e attrezzi da giardinaggio. Nel bunker non mancava nulla. C'erano due frigoriferi che contenevano generi alimentari sufficienti a sfamare almeno sei persone per una dozzina di giorni. Un'intera parete era occupata da un sofisticato impianto stereo, con videoregistratori e proiettori. La Scientifica della Questura di Napoli aveva impiegato dieci ore per controllare gli impianti di allarme e i sistemi di chiusura dei due accessi. Nel bagno non mancava la vasca con idromassaggio. Tutto sottoterra, vivendo come in una tana, tra botole e cunicoli.
Walter invece non si nascondeva sotto terra. Quando era latitante arrivava in paese per le riunioni più importanti. Tornava a casa alla luce del sole, con il suo corteo di guardaspalle certo della inaccessibilità della villa. La polizia lo arrestò quasi per caso. Stavano facendo i soliti controlli. Otto, dieci, dodici volte al giorno poliziotti e carabinieri solitamente vanno a casa delle famiglie dei latitanti, controllano, visitano, perquisiscono, ma soprattutto cercano di sfiancare i nervi e rendere sempre meno solidale la famiglia alla scelta di latitanza del proprio congiunto. La signora Schiavone riceveva i poliziotti sempre con gentilezza e spavalderia. Sempre serena nell'offrire tè e biscotti sistematicamente rifiutati. Un pomeriggio però la moglie di Walter era tesa già al citofono, dalla lentezza con cui aveva aperto il cancello i poliziotti avevano intuito subito che quella giornata aveva qualcosa di anomalo. Mentre giravano per la villa, la signora Schiavone li seguiva attaccata ai talloni e non gli parlava dal basso della scalinata lasciando rimbombare le parole per tutta la villa, come solitamente accadeva. Trovarono camicie maschili appena stirate raccolte in pila sul letto, di misura troppo grande per essere indossate dal figlio. Walter era lì. Era tornato a casa. I poliziotti capirono e iniziarono a disperdersi nelle stanze della villa per cercarlo. Lo beccarono mentre tentava di scavalcare il muro. Lo stesso che aveva fatto costruire per rendere impenetrabile la sua villa gli impedì di scappare con agilità. Acciuffato come un ladruncolo che sgambetta cercando appigli su una parete liscia. La villa venne subito sequestrata, ma per circa sei anni nessuno ne ha mai realmente preso possesso. Walter ordinò di sottrarre tutto il possibile. Se non poteva più essere a sua disposizione non doveva più esistere. O sua o di nessuno. Fece scardinare le porte, staccare gli infissi, togliere il parquet, divellere i marmi dalle scale, smantellare i preziosi camini, togliere persino le ceramiche dai bagni, estirpare i passamani in legno massello, i lampadari, la cucina, portare via i mobili ottocenteschi, le vetrine, i quadri. Diede ordine di disseminare la casa di copertoni e gli fece dare fuoco così da rovinare le pareti, gli intonaci, compromettere le colonne. Anche in questo caso però sembra aver lasciato un messaggio. L'unica cosa inalterata, lasciata intatta, è la vasca costruita al secondo piano, il vero vezzo del boss. Una vasca principesca costruita nel salone al secondo piano. Adagiata su tre gradoni con un volto di leone dorato da cui ruggiva l'acqua. Una vasca posizionata dietro una finestra con arco a botte che dava direttamente sul panorama del giardino della villa. Una traccia della sua potenza di costruttore e di camorrista, come un pittore che ha cancellato il suo dipinto, risparmiando però la sua firma sulla tela. Passeggiando lentamente per Hollywood, quelle che credevo fossero voci di esagerata leggenda mi paiono invece corrispondere al vero. I capitelli dorici, l'imponenza delle strutture dell'edificio, il doppio timpano, la vasca in camera, e soprattutto le scalinate all'entrata, sono i calchi della villa di Scarface.