38253.fb2
Non è il cinema a scrutare il mondo criminale per raccoglierne i comportamenti più interessanti. Accade esattamente il contrario. Le nuove generazioni di boss non hanno un percorso squisitamente criminale, non trascorrono le giornate per strada avendo come riferimento il guappo di zona, non hanno il coltello in tasca, né sfregi sul volto. Guardano la tv, studiano, frequentano le università, si laureano, vanno all'estero e soprattutto sono impegnati nello studio dei meccanismi d'investimento. Il caso del film JZ Padrino è eloquente. Nessuno all'interno delle organizzazioni criminali, siciliane come campane, aveva mai usato il termine padrino, frutto invece di una traduzione poco filologica del termine inglese godfather. Il termine usato per indicare un capofamiglia o un affiliato è sempre stato compare. Dopo il film però le famiglie mafiose d'origine italiana negli Stati Uniti iniziarono a usare la parola padrino, sostituendo quella ormai poco alla moda di compare e compariello. Molti giovani italoamericani legati alle organizzazioni mafiose imitarono gli occhiali scuri, i gessati, le parole ieratiche. Lo stesso boss John Gotti si volle trasformare in una versione in carne e ossa di don Vito Corleone. Anche Luciano Liggio, boss di Cosa Nostra, si faceva fotografare sporgendo la mascella come il capofamiglia de II Padrino.
Mario Puzo non si era ispirato a un boss siciliano, ma alla storia e all'aspetto di un boss della Pignasecca, il mercato del centro storico di Napoli, Alfonso Tieri che prese posto — dopo la morte di Charles Gambino — al vertice delle famiglie mafiose italiane egemoni negli Stati Uniti. Antonio Spavone "'o ma-lommo", il boss napoletano legato a Tieri, aveva dichiarato in un'intervista a un giornale americano che "se i siciliani aveva-vo insegnato a stare zitti e muti, i napoletani avevano fatto capire al mondo come ci si comporta quando si comanda. Fare capire con un gesto che comandare è meglio che fottere". La maggior parte degli archetipi criminali, l'acme del carisma mafioso proveniva da una manciata di chilometri in Campania. Anche Al Capone era campano d'origine. La sua famiglia proveniva da Castellammare di Stabia. Fu il primo boss a misurarsi col cinema. Il suo soprannome, Scarface, lo sfregiato, dovuto a una cicatrice sulla guancia, poi ripreso nel 1983 da
Brian De Palma per il film sul boss cubano, era già stato il titolo di un film di Howard Hawks nel 1932. Al Capone si faceva vedere sul set, arrivava con la sua scorta ogni volta che c'era qualche scena d'azione e qualche esterna a cui poteva assistere. Il boss voleva controllare che Tony Camonte, il personaggio di Scarface a lui ispirato, non venisse banalizzato. E voleva somigliare il più possibile a Tony Camonte, certo che dopo l'uscita del film, sarebbe diventato lui l'emblema di Capone, e non più Capone il suo modello.
Il cinema è un modello da cui decrittare modi d'espressione. A Napoli, Cosimo Di Lauro è esemplare. Guardando la sua tenuta, a tutti doveva venire in mente The Crow di Brandon Lee. I camorristi debbono formarsi un'immagine criminale che spesso non hanno, e che trovano nel cinema. Articolando la propria figura su una maschera hollywoodiana riconoscibile, percorrono una sorta di scorciatoia per farsi riconoscere come personaggi da temere. L'ispirazione cinematografica arriva a condizionare anche le scelte tecniche come l'impugnatura della pistola e il modo di sparare. Una volta un veterano della Scientifica di Napoli mi raccontò come i killer di camorra imitassero quelli dei film:
Ormai dopo Tarantino questi hanno smesso di saper sparare come Cristo comanda! Non sparano più con la canna dritta. La tengono sempre sbilenca, messa di piatto. Sparano con la pistola storta, come nei film, e questa abitudine crea disastri. Sparano al basso ventre, all'inguine, alle gambe, feriscono gravemente senza uccidere. Così sono sempre costretti a finire la vittima sparando alla nuca. Un lago di sangue gratuito, una barbarie del tutto superflua ai fini dell'esecuzione.
Le guardaspalle delle donne boss sono vestite come Urna Thurman in Kill Bill: caschetto biondo e tute giallo fosforescente. Una donna dei Quartieri Spagnoli, Vincenza Di Domenico, per un breve periodo collaboratrice di giustizia, aveva un soprannome eloquente, Nikita, come l'eroina killer del film di Lue Besson. Il cinema, soprattutto quello americano, non è visto come il territorio lontano dove l'aberrazione accade, non come il luogo dove l'impossibile si realizza, ma anzi come la vicinanza più prossima.
Me ne uscii dalla villa piano, liberando i piedi dal ginepraio di rovi ed erbaccia che si era impadronito del Giardino Inglese tanto voluto dal boss. Lasciai il cancello aperto. Soltanto qualche anno prima avvicinarsi a questo luogo avrebbe significato essere identificato da decine di sentinelle. Invece ero uscito, camminando con le mani in tasca e la testa appesa al mento, come quando si esce dal cinema ancora frastornati da quel che
Siè ViStO.
A Napoli non è complicato comprendere quanto il film II camorrista di Giuseppe Tornatore sia in assoluto il film che più di ogni altro ha marchiato l'immaginario. Basta ascoltare le battute delle persone, sempre le stesse da anni.
"Dicitancello 'o professore che nun l'aggio tradito."
"Io so bene chi è lui, ma so pure chi sono io!"
"'O Malacarne è nu guappo 'e cartone!"
"Chi ti manda?"
"Mi manda chi a vita va po' ddà e va po' pure llevà!"
La musica del film è diventata una sorta di colonna sonora della camorra, fischiettata quando passa un capozona, o spesso solo per far inquietare qualche negoziante. Ma il film è arrivato persino nelle discoteche dove si ballano ben tre versioni mixate delle più celebri frasi del boss Raffaele Cuto-lo, pronunciate nel film da Ben Gazzarra.
In maniera mnemonica ripetevano mimando tra loro i dialoghi de II camorrista anche due ragazzini di Casal di Principe, Giuseppe M. e Romeo P. Facevano vere e proprie scenette tratte dal film:
"Quanto pesa un picciotto? Quanto una piuma al vento." Non avevano ancora la patente quando iniziarono a assediare le comitive di coetanei di Casale e San Cipriano d'Aver-sa. Non ce l'avevano perché nessuno dei due aveva diciotto anni. Erano due bulli. Spacconi, buffoni, mangiavano lasciando come mancia il doppio del conto. Camicia aperta sul petto con pochi peli, una camminata declamata ad alta voce, come se ogni passo dovesse essere rivendicato. Mento alto, un'ostentazione di sicurezza e potere, reali solo nella mente dei due. Giravano sempre in coppia. Giuseppe faceva il boss, sempre un passo avanti rispetto al compare. Romeo faceva il suo guardiaspalle, la parte del braccio destro, l'uomo fedele. Spesso Giuseppe lo chiamava Donnie, come Donnie Brasco. Anche se era un poliziotto infiltrato, il fatto che diventi un mafioso vero, nell'anima, lo salva, agli occhi degli ammiratori da questo peccato originale. Ad Aversa facevano tremare i neopatentati. Preferivano le coppiette, tamponavano l'auto con il motorino, e quando scendevano per raccogliere i dati per l'assicurazione, uno dei due si avvicinava alla ragazza, le sputava in faccia e aspettavano che il fidanzato reagisse per poterlo pestare a sangue. I due sfidavano però anche gli adulti, anche quelli che contavano davvero. Andavano nelle loro zone d'influenza e facevano ciò che volevano. Provenivano da Casal di Principe e nell'immaginario questo bastava. Volevano far capire che erano davvero persone temibili e da rispettare, chiunque si avvicinava loro doveva fissare i propri piedi e non trovare neanche il coraggio di guardarli in faccia. Un giorno però alzarono troppo il tiro della loro spacconeria. Scesero in strada con una mitraglietta, racimolata chissà in quale armeria dei clan, e si presentarono dinanzi a un gruppetto di ragazzi. Dovevano essersi addestrati bene perché spararono contro il gruppetto curandosi di non colpire nessuno, ma solo di far sentire il puzzo della polvere da sparo e il sibilare dei proiettili. Prima di sparare però uno dei due aveva recitato qualcosa. Nessuno aveva capito cosa blaterava, ma un testimone aveva detto che gli sembrava la Bibbia, e aveva ipotizzato che i ragazzini stessero preparandosi alla cresima. Ma smozzicando un po' di frasi era evidente che non era un brano da cresima. Era la Bibbia, in effetti, appresa non dal catechismo, ma da Quentin Tarantino. Era il brano pronunciato da Jules Winnfield in Pulp Fiction prima di ammazzare il ragazzotto che aveva fatto sparire la preziosissima valigetta di Marcellus Wallace:
Ezechiele 25,17. Il cammino dell'uomo timorato è minaccia to da ogni parte dall'iniquità degli esseri egoisti e dalla tirannia degli uomini malvagi. Benedetto sia colui che nel nome della carità e della buona volontà conduce i deboli attraverso la valle delle tenebre perché egli è in verità il pastore di suo fratello e il ricercatore dei figli smarriti e la mia giustizia calerà sopra di loro con grandissima vendetta e furiosissimo sdegno su coloro che si proveranno ad ammorbare e distruggere i miei fratelli e tu saprai che il mio nome è quello del Signore quando farò calare la mia vendetta sopra di te.
Giuseppe e Romeo la ripetevano come nel film, e poi sparavano. Giuseppe aveva un padre camorrista, prima pentito, poi nuovamente rientrato nell'organizzazione di Quadrano-De Falco sconfitta dagli Schiavone. Un perdente quindi. Ma aveva pensato che recitando la parte giusta, il film della sua vita forse poteva cambiare. I due conoscevano a memoria le battute, le parti salienti di ogni film criminale. La maggior parte delle volte picchiavano per uno sguardo. Nelleterre di camorra lo sguardo è parte di territorio, è come un'invasione nelle proprie stanze, come sfondare la porta di casa di qualcuno ed entrare con violenza. Uno sguardo è persino qualcosa in più di un insulto. Attardarsi a fissare il viso di qualcuno è già in qualche modo un'aperta sfida:
"Ehi, ce l'hai con me? No, dico, ce l'hai con me?"
E dopo il famoso monologo di Taxi Driver partivano gli schiaffi e i pugni sullo sterno, quelli che rimbombano nella cassa toracica e si sentono anche a parecchia distanza.
I boss Casalesi presero seriamente in considerazione il problema di questi due ragazzini. Risse, alterchi, minacce, non erano facilmente tollerati: troppe madri nervose, troppe denunce. Così li fanno "avvertire" da qualche capozona che gli fa una sorta di richiamo all'ordine. Li raggiunge al bar e dice che stanno facendo perdere la pazienza ai capi. Ma Giuseppe e Romeo continuano il loro film immaginario, picchiano chi vogliono, pisciano nei serbatoi delle moto dei ragazzi del paese. Una seconda volta li "mandano a chiamare". I boss vogliono parlare direttamente con loro, il clan non può sopportare più questi atteggiamenti in paese, la tolleranza paternalistica, solita in questi territori, si muta in dovere di punizione, e così un "mazziatone" devono averlo, una violenta sculacciata pubblica per farli rigare dritto. Loro snobbano l'invito, continuano a stare al bar stravaccati, attaccati ai videopoker, i pomeriggi incollati davanti alla televisione a vedere i dvd dei loro film, ore passate a imparare a memoria frasi e posture, modi di dire e scarpe da indossare. I due credono di potere tener testa a chiunque. Anche a chi conta. Anzi sentono che proprio tenendo testa a chi conta davvero potranno divenire realmente temuti. Senza porsi limite alcuno, come Tony e Manny in Scarface. Non mediano con nessuno, continuano le loro scorribande, le loro intimidazioni, lentamente sembrano diventare i viceré del casertano. I due ragazzini non avevano scelto di entrare nel clan. Non ci tentavano neanche. Era un percorso troppo lento e disciplinato, una gavetta silenziosa che non volevano fare. Da anni poi i Casalesi inserivano quelli che valevano veramente nei settori economici dell'organizzazione, e non certo nella struttura militare. Giuseppe e Romeo erano in completa antitesi con la figura del nuovo soldato di camorra. Si sentivano capaci di cavalcare l'onda della peggior fama dei loro paesi. Non erano affiliati, ma volevano godere dei privilegi dei camorristi. Pretendevano che i bar li servissero gratuitamente, la benzina per i loro motorini era un dazio dovuto, le loro madri dovevano avere la spesa pagata, e quando qualcuno osava ribellarsi arrivavano subito sfasciando vetri, tirando schiaffi a fruttivendoli e commesse. Nella primavera del 2004 così alcuni emissari del clan gli danno appuntamento alla periferia di Castelvolturno, zona Parco Mare. Un territorio di sabbia, mare e spazzatura, tutto mischiato. Forse una proposta allettante, qualche affare o addirittura la partecipazione a un agguato. Il primo vero agguato della loro vita. Se non erano riusciti a coinvolgerli con le cattive, i boss tentarono di incontrarli con qualche buona proposta. Me li immaginavo sui motorini tirati al massimo, ripassarsi i passaggi salienti dei film, i momenti in cui quelli che contano devono piegarsi all'ostinazione dei nuovi eroi. Come i giovani spartani andavano in guerra con in mente le gesta di Achille ed Ettore, in queste terre si va ad ammazzare e farsi ammazzare con in mente Scarface, Quei bravi ragazzi, Donnie Brusco, Il Padrino. Ogni volta che mi capita di passare per Parco Mare, immagino la scena che hanno raccontato i giornali, che hanno ricostruito i poliziotti. Giuseppe e Romeo arrivarono con i motorini, molto in anticipo rispetto all'orario stabilito. Infuocati dall'ansia. Erano lì ad attendere l'auto. Scese un gruppo di persone. I due ragazzini gli andarono incontro per salutarli, ma immediatamente, bloccarono Romeo e iniziarono a pestare Giuseppe. Poi poggiando la canna di un'automatica al petto, fecero fuoco. Sono certo che Romeo avrà visto dinanzi a sé la scena di Quei bravi ragazzi quando Tommy De Vito viene invitato a sedere nella dirigenza di Cosa Nostra in America, e invece di accoglierlo in una sala con tutti i boss lo portano in una stanza vuota e gli sparano alla testa. Non è vero che il cinema è menzogna, non è vero che non si può vivere come nei film e non è vero che ti accorgi mettendo la testa fuori dallo schermo che le cose sono diverse. C'è un momento solo che è diverso, il momento in cui Al Pacino si alzerà dalla fontana in cui i colpi di mitra hanno fatto cascare la sua controfigura, e si asciugherà il viso pulendosi dal colore del sangue, Joe Pesci si laverà i capelli e farà cessare la finta emorragia. Ma questo non ti interessa saperlo, e quindi non lo comprendi. Quando Romeo vide Giuseppe per terra, sono sicuro di una certezza che non potrà mai avere alcun tipò di conferma, che comprese l'esatta differenza tra cinema e realtà, tra costruzione scenografica e il puzzo dell'aria, tra la propria vita e una sceneggiatura. Venne il suo turno. Gli spararono alla gola e lo finirono con un colpo alla testa. Sommando la loro età raggiungevano a stento trent'anni. Il clan dei Casalesi così aveva risolto quest'escrescenza microcriminale alimentata dal cinema. Non chiamarono neanche anonimamente la polizia o un'ambulanza. Lasciarono che le mani dei cadaveri dei ragazzini fossero beccate dai gabbiani e le labbra e i nasi mangiucchiati dai randagi che circolavano sulle spiagge di spazzatura. Ma questo i film non lo raccontano, si fermano un attimo prima.
Non c'è una reale differenza tra gli spettatori dei film in terra di camorra e qualsiasi altro spettatore. Ovunque i riferimenti cinematografici sono seguiti come mitologie d'imitazione. Se altrove ti può piacere Scarface e puoi sentirti come lui in cuor tuo, qui puoi essere Scarface, però ti tocca esserlo fino in fondo.
Ma le terre di camorra sono prolifiche anche di appassionati d'arte e letteratura. Sandokan aveva nella villa bunker un'enorme libreria con decine di testi incentrati su due esclusivi argomenti, la storia del Regno delle due Sicilie e Napoleone Bonaparte. Schiavone era attratto dal valore dello stato borbonico dove millanta avi tra i funzionari in Terra di Lavoro, affascinato dal genio di Bonaparte capace di conquistare mezza Europa, partendo da un misero grado militare quasi come lui stesso, generalissimo di un clan tra i più potenti d'Europa in cui era entrato come gregario. Sandokan, con un passato di studente in medicina, prediligeva trascorrere il tempo di latitanza dipingendo icone religiose e ritratti di Bonaparte e Mussolini. Ci sono in vendita ancora oggi, in botteghe insospettabili di Caserta, rarissimi volti santi ritratti da Schiavone, dove al posto del volto del Cristo, Sandokan ha messo il suo. Schiavone era un frequentatore della letteratura epica. Omero, il ciclo di Re Artù, Walter Scott le sue letture preferite. Proprio l'amore per Scott l'ha spinto a battezzare uno dei suoi numerosi figli con il nome altisonante e fiero di Ivanhoe.
Ma i nomi dei discendenti divengono sempre traccia della passione dei padri. Giuseppe Misso, boss napoletano del clan del quartiere della Sanità, ha tre nipoti: Ben Hur, Gesù ed Emiliano Zapata. Misso, che durante i processi ha assunto sempre atteggiamenti da leader politico, da pensatore conservatore e ribelle ha recentemente scritto un romanzo, I leoni di marmo. Centinaia e centinaia di copie vendute a Napoli in pochissime settimane, il racconto in un libro dalla sintassi smozzicata ma dallo stile rabbioso, della Napoli degli anni '80 e '90 dove il boss si è formato e dove emerge la sua figura, descritta come quella di un solitario combattente contro la camorra del racket e della droga a favore di un non ben identificato codice cavalleresco della rapina e del furto. Durante i vari arresti nella sua lunghissima carriera criminale, Misso è sempre stato trovato in compagnia dei libri di Julius Evola ed Ezra Pound.
Augusto La Torre, boss di Mondragone, è studioso di psicologia e vorace lettore di Cari Gustav Jung e conoscitore dell'opera di Sigmund Freud. Dando un'occhiata ai titoli che il boss ha chiesto di ricevere in carcere emergono lunghe bibliografie di studiosi di psicoanalisi, mentre sempre più nel suo eloquio durante i processi citazioni di Lacan si intrecciano a riflessioni sulla scuola della Gestalt. Una conoscenza che il boss ha utilizzato durante il suo percorso di potere, come una inaspettata arma manageriale e militare.
Anche un fedelissimo di Paolo Di Lauro è tra i camorristi amanti di arte e cultura: Tommaso Prestieri è il produttore della maggior parte dei cantanti neomelodici, nonché un raffinato conoscitore d'arte contemporanea. Ma i boss collezionisti sono molti. Pasquale Galasso aveva nella sua villa un museo privato di circa trecento pezzi d'antiquariato, il cui gioiello era il trono di Francesco I di Borbone, mentre Luigi Vollaro, detto "'o califfo", possedeva una tela del suo prediletto Botticelli.
La polizia arrestò Prestieri, sfruttando il suo amore per la musica. Venne infatti beccato al Teatro Bellini a Napoli mentre assisteva, da latitante, a un concerto. Prestieri, dopo una condanna ha dichiarato: "Sono libero nell'arte, non ho necessità di essere scarcerato". Un equilibrio fatto di quadri e canzoni che concede un'impossibile serenità a un boss in disgrazia come lui, che ha perso sul campo ben due fratelli ammazzati a sangue freddo.
Aberdeen, Mondragone
Il boss psicanalista Augusto La Torre era stato tra i prediletti di Antonio Bardellino: aveva da ragazzo preso il posto del padre divenendo il leader assoluto del clan dei "Chiuovi", come li chiamavano a Mondragone. Un clan egemone nell'alto casertano, nel basso Lazio e lungo tutta la costa domi-zia. Si erano schierati con i nemici di Sandokan Schiavone, ma poi col tempo il clan aveva dimostrato abilità imprenditoriale e capacità di gestione del territorio, unici elementi che possono far mutare i rapporti di conflittualità tra famiglie di camorra. La capacità di fare affari riawicinò i La Torre ai Ca-salesi che gli diedero possibilità di agire in relazione con loro, ma anche in autonomia. Augusto non era un nome a caso. Ai primogeniti della famiglia, La Torre usava dare i nomi degli imperatori romani. Avevano invertito l'ordine storico, la storia romana vedeva avvicendarsi prima Augusto e successivamente Tiberio, invece il padre di Augusto La Torre portava il nome di Tiberio.
Neirimmaginario delle famiglie di queste terre la villa di Scipione l'Africano costruita nei pressi del Lago Patria, le battaglie capuane di Annibale, la forza inattaccabile dei Sanniti, i primi guerriglieri europei che colpivano le legioni Tornane e fuggivano sulle montagne, sono presenti come storie di paese, racconti di un passato anteriore di cui però tutti si sentono parte. Al delirio storico dei clan si contrapponeva l'immaginario diffuso che riconosceva in Mondragone la capitale della mozzarella. Mio padre mi mandava a fare scorpacciate di mozzarelle mondragonesi, ma quale territorio aveva il primato della mozzarella più buona era impossibile stabilirlo. I sapori erano troppo diversi, quello dolciastro e leggero della mozzarella di Battipaglia, quello salato e corposo della mozzarella aversana e poi quello puro della mozzarella di Mondragone. Una prova però della bontà della mozzarella i mastri caseari mondragonesi ce l'avevano. La mozzarella per essere buona deve lasciare in bocca un retrogusto, quello che i contadini chiamano "'o ciato 'e bbufala" ossia il fiato di bufala. Se dopo aver buttato giù il boccone non rimane in bocca quel sapore di bufala, allora la mozzarella non è buona. Quando andavo a Mondragone mi piaceva passeggiare sul pontile. Avanti e indietro, prima che venisse abbattuto era una delle mie mete preferite d'estate. Una lingua di cemento armato costruita sul mare per far attraccare le barche. Una struttura inutile e mai utilizzata.
Mondragone divenne d'improvviso una meta per tutti i ragazzi del casertano e dell'agro pontino che volevano emigrare in Inghilterra. Emigrare come occasione di vita, andare finalmente via, ma non come cameriere, sguattero in un McDonald's, o barista pagato con pinte di birra scura. Si andava a Mondragone per cercare di avere contatti con le persone giuste, per avere fitti agevolati, la possibilità di essere ricevuti con garbo e interesse dai proprietari dei locali. A Mondragone si potevano incontrare le persone adatte per farti assumere in un'assicurazione, in un ufficio immobiliare e se proprio si presentavano braccianti disperati, disoccupati cronici, i contatti giusti li avrebbero fatti assumere con contratti decenti e lavoro dignitoso. Mondragone era la porta per la Gran Bretagna. D'improvviso dalla fine degli anni '90 avere un amico a Mondragone significava poter essere valutato per quanto valevi, senza necessità di presentazione o di raccomandazione. Cosa rara, rarissima, impossibile in Italia e ancor più al sud. Per essere considerato e vagliato solo per ciò che sei, da queste parti hai bisogno sempre di qualcuno che ti protegga e che la sua protezione possa, se non favorirti, farti almeno prendere in considerazione. Presentarti senza protettore è come andare senza braccia e senza gambe. Insomma hai qualcosa in meno. A Mondragone invece prendevano i curricula e vedevano a chi inviarli in Inghilterra. Valeva in qualche modo il talento e ancor più come avevi deciso d'esprimerlo. Ma solo a Londra o Aberdeen, non in Campania, non nella provincia della provincia d'Europa.
Una volta Matteo, un mio amico, aveva deciso di provarci: andare via una volta per tutte. Aveva messo dei soldi da parte, una laurea con lode era riuscito a raggiungerla e si era stancato di lavorare tra stage e cantieri per sopravvivere. Aveva avuto il nome di un ragazzo di Mondragone che l'avrebbe fatto partire per l'Inghilterra e una volta lì, avrebbe avuto modo di presentarsi a diversi colloqui di lavoro. Lo accompagnai. Aspettammo ore fuori a un lido dove questo contatto ci aveva dato appuntamento. Era estate. Le spiagge di Mondragone sono assalite dai villeggianti di tutta la Campania, quelli che non possono permettersi la costiera amalfitana, quelli che non possono affittarsi una casa al mare per l'estate e allora pendolano, avanti e indietro, tra l'entroterra e la costa. Sino a metà degli anni '80 si vendeva la mozzarella in astucci di legno colmi di latte di bufala bollente. I bagnanti la mangiavano con le mani lasciando sbrodolare il latte e i ragazzetti prima di dare il morso alla pasta bianca davano una leccata alla mano, insaporita dalla salsedine. Poi nessuno più ha continuato a vendere mozzarelle e sono arrivati i taralli e le fette di cocco. Quel giorno il nostro contatto ritardò due ore. Quando finalmente ci raggiunse si presentò abbronzato e coperto solo da uno striminzito costume, ci spiegò che aveva fatto colazione con ritardo, quindi si era bagnato con ritardo e si era asciugato con ritardo. Questa fu la sua scusa, colpa del sole insomma. Il nostro contatto ci portò in un'agenzia turistica. Tutto qui. Credevamo d'essere ricevuti da chissà quale mediatore, invece bisognava soltanto essere presentati a un'agenzia neanche particolarmente elegante. Non una di quelle con centinaia di dépliant, ma un bugigattolo qualsiasi. Si poteva però accedere ai suoi servizi se presentati da un contatto mondragonese. Se entrava una persona qualsiasi avrebbe svolto le normali pratiche di qualsiasi agenzia turistica. Una ragazza giovanissima chiese a Matteo il curriculum e ci segnalò il primo volo disponibile. Aberdeen era la città dove lo avrebbero spedito. Gli diedero un foglietto con l'elenco di una serie di aziende a cui avrebbe potuto rivolgersi per un colloquio di lavoro. Anzi l'agenzia stessa, in cambio di pochi spiccioli, prenotò appuntamenti con le segreterie degli addetti alla selezione del personale. Mai agenzia interinale era stata così efficiente. Ci imbarcammo per la Scozia due giorni dopo, un viaggio veloce ed economico per chi proveniva da Mondragone.
Ad Abeerden c'era aria di casa. Eppure non esisteva nulla di più lontano da Mondragone che questa città scozzese. Il terzo centro urbano della Scozia, una città scura, grigiastra anche se non pioveva spesso come a Londra. Prima dell'arrivo dei clan italiani la città non sapeva valorizzare le risorse di tempo libero e turismo e tutto ciò che riguardava ristoranti, alberghi e vita sociale era organizzato al triste modo inglese. Abitudini identiche, locali gonfi di persone intorno ai banconi un solo giorno a settimana. È stato — secondo le indagini della Procura Antimafia di Napoli — Antonio La Torre, fratello del boss Augusto, ad attivare in Scozia una serie di attività commerciali in grado, in una manciata di anni, di imporsi come fiore all'occhiello dell'imprenditoria scozzese. La gran parte delle attività in Inghilterra del clan La Torre sono perfettamente lecite, acquisto e gestione di beni immobiliari e di esercizi commerciali, commercio di prodotti alimentari con l'Italia. Un giro d'affari enorme difficile da rendere in cifre. Matteo ad Aberdeen cercava tutto quello che non gli era stato riconosciuto in Italia, camminavamo per le strade con soddisfazione, come se per la prima volta nella nostra vita l'essere campani fosse condizione sufficiente a procurarci un'area di affermazione. Al 27 e al 29 di Union Terrace, mi trovai dinanzi a un ristorante del clan, il Pavarotti's, intestato proprio ad Antonio La Torre e segnalato anche dalle guide turistiche on line della città scozzese. Per Aberdeen era il salotto elegante, il ritrovo chic, il posto dove poter cenare nel migliore dei modi e il luogo idoneo per parlare di affari importanti. Le aziende del clan sono state pubblicizzate anche a Parigi come massima espressione del made in Italy presso la fiera gastronomica della capitale francese Italissima. Antonio La Torre vi ha infatti presentato le sue attività di ristorazione ed esposto il proprio marchio. Un successo che fa di La Torre uno dei primi imprenditori scozzesi in Europa. La Torre è stato proprietario anche del Sorrento Italy Restaurant in Bridge Street. Questo stesso ristorante ha d'improvviso chiuso, riaprendo con un'altra proprietà con il nome di Sopranos. Come la popolarissima serie televisiva americana incentrata su una famiglia di mafiosi italoamericani.
La stampa inglese aveva infatti da poco iniziato a occuparsi dei boss mondragonesi leader imprenditoriali in Scozia. "The Times" aveva pubblicato un articolo sulla storia del "don" di Mondragone, "The Guardian" invece aveva titolato: "The Aberdeen Job", facendo riferimento a un film statunitense, The Italian Job, a sua volta remake dell'omonima pellicola del 1969 che in Italia uscì col titolo Colpo all'italiana. Articoli in cui si parlava dei business criminali fatti ad Aberdeen dai boss provenienti da "mozzarella country". Inchieste che davano notizie su Antonio La Torre, sulla moglie scozzese Gillian Fraser, i tre figli e l'attività di imprenditore nel ramo della ristorazione e dell'import-export di prodotti alimentari italiani in tutta la Scozia. Così i proprietari del ristorante in Bridge Street invece di ripiegarsi sul marchio infamante dell'appellativo mafioso di "don", avevano dato al ristorante il nome di Sopranos. Ogni immaginario collettivo dev'essere sfruttato. Se i giornali inglesi più letti avevano definito mafiosi i proprietari del ristorante in Bridge Street, questa definizione doveva essere utilizzata per un lancio d'attività, una grande operazione di marketing. La curiosità non doveva più essere fatta tacere, ma poteva venir sfruttata a proprio vantaggio.
Antonio La Torre è stato arrestato ad Aberdeen nel marzo 2005, su di lui pendeva un mandato d'arresto italiano per associazione a delinquere di stampo camorristico ed estorsione. Per anni aveva evitato sia l'arresto che l'estradizione, facendosi scudo della sua cittadinanza scozzese e del mancato riconoscimento da parte delle autorità britanniche dei reati associativi che gli sono contestati. La Scozia non voleva perdere uno dei suoi imprenditori più brillanti.
Nel 2002 il Tribunale di Napoli emise un'ordinanza di custodia cautelare nei confronti di trenta persone legate al clan La Torre. Dall'ordinanza emergeva che il consorzio criminale guadagnava ingenti somme di danaro attraverso le estorsioni, il controllo delle attività economiche e degli appalti nella sua zona di competenza, per poi reinvestire all'estero, in particolare in Gran Bretagna, dove si era creata una vera e propria colonia del clan. Una colonia che non aveva invaso, non aveva portato concorrenza al ribasso nella manodopera, ma aveva immesso linfa economica, rivitalizzando il comparto turistico, attivando un'attività di importazione ed esportazione prima sconosciuta alla città e dando nuovo vigore al settore immobiliare.
Ma la potenza internazionale partita da Mondragone era personificata anche da Rockefeller. Lo chiamano così in paese per l'evidente talento negli affari e per la mole di liquidità che possiede. Rockefeller è Raffaele Barbato, sessantadue anni, nato a Mondragone. E suo vero nome forse l'ha dimenticato persino lui. Moglie olandese, fino alla fine degli anni '80 gestiva affari in Olanda dove possedeva due casinò frequentati da clienti di calibro internazionale, dal fratello di Bob Cellino, fondatore delle case da gioco di Las Vegas, a importanti mafiosi slavi con basi a Miami. I suoi soci erano un tal Liborio, siciliano con entrature in Cosa Nostra, e un altro, Emi, olandese poi trasferitosi in Spagna dove ha aperto hotel, residence e discoteche. Ed è stato Rockefeller una delle menti — secondo le dichiarazioni dei pentiti Mario Sperlongaro, Stefano Piccirillo e Girolamo Rozzera — che progettò assieme ad Augusto La Torre di andare a Caracas per cercare di incontrare gruppi di narcotrafficanti venezuelani che vendevano coca a un prezzo concorrenziale rispetto ai colombiani, fornitori dei napoletani e Casalesi. Molto probabilmente sulla questione droga Augusto era riuscito ad avere un'autonomia, raramente concessa dai Casalesi. Sempre Rockefeller aveva trovato un posto dove far dormire e stare comodo Augusto durante la sua latitanza in Olanda. Lo aveva sistemato al circolo di tiro a volo. Così seppur lontano dalle campagne mondragonesi il boss poteva sparare ai piattelli volanti per tenersi in esercizio. Rockefeller aveva una rete di relazioni enorme, era uno dei business man più noti non solo in Europa, ma anche negli USA per il suo essere gestore di case da gioco che l'aveva messo in contatto con mafiosi italoamericani che sempre di più guardavano all'Europa come mercato per investire, scacciati com'erano lentamente e progressivamente dai clan albanesi sempre più egemoni a New York, e sempre più alleati alle famiglie camorriste campane. Persone capaci di trafficare droga e di investire il loro danaro in ristoranti e alberghi, attraverso la porta aperta dei mondragonesi. Rockefeller è il titolare del lido Adamo ed Eva, ribattezzato La Playa, un bel villaggio turistico sulla costa mondragonese dove — secondo le accuse della magistratura — molti affiliati amavano trascorrere la latitanza. Più comodo è il rifugio, meno sopraggiungeranno le tentazioni di pentimento per sottrarsi alla continua fuga. E con i pentiti, i La Torre erano stati feroci. Francesco Tiberio, il cugino di Augusto, aveva telefonato a Domenico Pensa che aveva testimoniato contro il clan Stolder e chiaramente l'aveva invitato ad andare via dal paese.
"Ho saputo dagli Stolder che tu hai collaborato contro di loro e di conseguenza visto che noi in paese non vogliamo collaboratori di giustizia, te ne devi andare da Mondragone altrimenti qualcuno verrà e ti taglierà la testa."
Il cugino di Augusto aveva talento nel terrorizzare telefonicamente chi osava collaborare, lasciare trapelare notizie. Con un altro, Vittorio Di Telia fu esplicito, lo invitò a comprarsi l'abito da morto.
"Comprati le camicie nere che devi parlare, neh cornuto, io ti devo ammazzare."
Prima che arrivassero i pentiti nel clan, nessuno poteva immaginare il perimetro illimitato d'affari dei mondragone-si. Tra gli amici di Rockefeller c'era anche un tale Raffaele Acconcia, mondragonese di nascita e pure lui trapiantato in Olanda, titolare di una catena di ristoranti, che secondo il pentito Stefano Piccirillo sarebbe un importante narcotrafficante di caratura internazionale. Proprio in Olanda continua a nascondersi, forse in qualche banca, la cassa del clan La Torre, milioni di euro fatturati attraverso mediazioni e commerci che gli inquirenti non hanno mai trovato. In paese è divenuta una sorta di simbolo di ricchezza assoluta questa presunta cassaforte della banca olandese, che ha sostituito tutti i riferimenti della ricchezza internazionale. Non si dice più "m'hai preso per la Banca d'Italia" ma "mi hai preso per la Banca d'Olanda".
JQ clan La Torre con appoggi in Sudamerica e basi in Olanda aveva in mente di dominare un traffico di coca sulla piazza romana. Roma, per tutte le famiglie imprenditorial-camor-ristiche casertane, è il riferimento primo per il narcotraffico e per gli investimenti in beni immobili. Roma diviene un'estensione della provincia casertana. I La Torre potevano contare su rotte d'approvvigionamento che avevano la loro base sulla costa domizia. Le ville sulla costa erano fondamentali per il traffico prima di contrabbando di sigarette, poi di tutto quanto fosse merce. Da quelle parti c'era la villa di Nino Manfredi. Andarono da lui esponenti del clan a chiedergli di vendere la villa. Manfredi cercò in tutti i modi di opporsi, ma la sua casa si trovava in un punto strategico per far attraccare i motoscafi, e le pressioni del clan aumentavano. Non gli chiesero più di vendere, ma gli imposero di cedere a un prezzo stabilito da loro. Manfredi si rivolse persino a un boss di Cosa Nostra, divulgando la notizia, nel gennaio 1994, al Grl, ma i mon-dragonesi erano potenti e nessun siciliano tentò di mediare con loro. Soltanto esponendosi in tv e attirando l'attenzione dei media nazionali, l'attore riuscì a mostrare la pressione cui era stato sottoposto a causa degli interessi strategici della camorra.
Il traffico di droga si accodava a tutti gli altri canali di commercio. Enzo Boccolato, un cugino dei La Torre proprietario di un ristorante in Germania, aveva deciso di investire nell'export di abbigliamento. Assieme ad Antonio La Torre e un imprenditore libanese acquistavano vestiti in Puglia — essendo la produzione tessile campana già monopolizzata dai clan di Secondigliano — e li rivendevano in Venezuela tramite un mediatore, tal Alfredo, segnalato nelle indagini come uno dei più importanti trafficanti di diamanti in Germania. Grazie ai clan camorristici campani i diamanti divennero in poco tempo, per la loro alta variabilità di prezzo e al contempo per il valore nominale che perennemente mantengono, il bene preferito per il riciclaggio del danaro sporco. Enzo Boccolato era conosciuto negli aeroporti in Venezuela e a Francoforte, aveva appoggi tra gli operatori del controllo merci, che con grande probabilità non curavano soltanto l'invio e l'arrivo di vestiti, ma si preparavano anche a tessere una grande rete di traffico di cocaina. Può sembrare che i clan, una volta completata l'accumulazione di grandi capitali, interrompano la propria attività criminale, disfacendo in qualche modo il proprio codice genetico, riconvertendolo sul piano legale. Proprio come la famiglia Kennedy in America che nel periodo del proibizionismo aveva guadagnato capitali enormi con la vendita degli alcolici e aveva poi interrotto ogni rapporto col crimine. Ma in realtà la forza dell'imprenditoria criminale italiana sta proprio nel continuare ad avere il doppio binario, non rinunciare mai all'estrazione criminale. Ad Abeerden chiamano questo sistema "scratch". Come i rapper, come i dj, che bloccano con le dita il normale girare del disco sul piatto, allo stesso modo gli imprenditori di camorra bloccano per un attimo l'andatura del disco del mercato legale. Lo bloccano, scratchano, per poi farlo ripartire più velocemente di prima.
Nelle diverse inchieste della Procura Antimafia di Napoli sui La Torre emergeva che quando il percorso legale subiva una crisi, si innescava subito il binario criminale. Se mancava liquidità, si facevano stampare monete false, se erano necessari capitali in breve tempo, si truffava vendendo titoli di Stato fasulli. La concorrenza veniva annichilita dalle estorsioni, la merce importata esentasse. Scratchare sul disco dell'economia legale permette che i clienti possano avere uno standard di prezzi costante e non schizofrenico, che i crediti bancari siano sempre soddisfatti, che il danaro continui a circolare e i prodotti a essere consumati. Scratchare assottiglia il diaframma che spunta tra la legge e l'imperativo economico, tra ciò che la norma vieta e ciò che il guadagno impone.
Gli affari dei La Torre all'estero rendevano indispensabile la partecipazione a vari livelli nella struttura del clan di esponenti inglesi che arrivavano addirittura al grado di affiliati. Uno di questi è Brandon Queen, detenuto in Inghilterra, che riceve puntualmente la sua mesata, tredicesima compresa, da Mondragone. Nell'ordinanza di custodia cautelare del giugno 2002, si legge anche che "Brandon Queen è sistematicamente inserito nel libro paga del clan per espresso volere di Augusto La Torre". Agli affiliati è normalmente garantita, oltre alla protezione fisica, la retribuzione, l'assistenza legale e la copertura dell'organizzazione in caso di necessità. Tuttavia, per ricevere queste assicurazioni direttamente dal boss, Queen doveva ricoprire un ruolo vitale nella macchina d'affari del clan, risultando in assoluto il primo camorrista di nazionalità inglese della storia criminale italiana e britannica.
Erano molti anni che sentivo parlare di Brandon Queen. Mai visto, neanche in foto. Una volta giunto ad Aberdeen non potevo non chiedere di Brandon, dell'uomo fidato di Augusto La Torre, del camorrista scozzese, dell'uomo che senza trovarsi in difficoltà alcuna e conoscendo bene soltanto la sintassi dell'azienda e la grammatica del potere, aveva sciolto residui legami con gli antichissimi clan delle Highlands per entrare in quello di Mondragone. Intorno ai locali dei La Torre c'erano sempre gruppetti di ragazzi del luogo; non erano criminalotti impigriti, ammutinati davanti alle pinte di birra in attesa di qualche scazzottata o scippo. Erano ragazzoni svegli, inseriti a diverso livello nell'attività delle imprese legali. Trasporti, pubblicità, marketing. Chiedendo di Brandon non ricevevo sguardi ostili o risposte vaghe, come se avessi chiesto di un affiliato in un paese del napoletano. Brandon Queen pareva lo conoscessero da sempre, o molto probabilmente era soltanto divenuto una sorta di mito di cui tutte le lingue parlano. Queen era l'uomo che c'era riuscito. Non soltanto un dipendente come loro di ristoranti, ditte, negozi, agenzie immobiliari, un impiegato con stipendio sicuro. Brandon Queen era qualcosa di più, aveva realizzato il sogno di molti ragazzi scozzesi; non semplicemente prendere parte agli indotti legali, ma divenire parti del Sistema, parti operative del clan. Divenire camorristi a tutti gli effetti, nonostante lo svantaggio d'essere nati in Scozia e quindi credere che l'economia abbia un'unica strada, quella banale, di tutti, quella che tratta di regole e sconfitte, di mera concorrenza e di prezzi. Mi impressionava che nel mio inglese ingrassato di pronuncia italiana loro vedessero non l'emigrante, non la deformazione smilza di Jake La Motta, non il conterraneo di invasori criminali venuti a tirare danaro dalla loro terra, ma la traccia di una grammatica che conosce il potere assoluto dell'economia, quello in grado di decidere d'ogni cosa e su ogni cosa, capace di non darsi limiti a costo anche dell'ergastolo e della morte. Sembrava impossibile, eppure mentre parlavano mostravano di conoscere benissimo Mondragone, Secondigliano, Marano, Casal di Principe, territori che gli erano stati raccontati come un'epica di un paese lontano da tutti i boss imprenditori transitati per quelle zone e per i ristoranti dove lavoravano.
Nascere in terra di camorra per quei miei coetanei scozzesi significava avere un vantaggio, portare su di sé un marchio impresso a fuoco che ti orientava a considerare l'esistenza un'arena dove l'imprenditoria, le armi, e persino la propria vita sono solo e esclusivamente un mezzo per raggiungere danaro e potere: ciò per cui vale la pena di esistere e respirare, ciò che permette di vivere al centro del proprio tempo, senza dover badare ad altro. Brandon Queen c'era riuscito anche non nascendo in Italia, anche non avendo mai visto la Campania, anche senza percorrere chilometri in auto costeggiando cantieri, discariche e masserie di bufale. Era riuscito a divenire un uomo di potere vero, un camorrista.
Eppure questa grande organizzazione commerciale e finanziaria internazionale non aveva concesso flessibilità al clan nel controllo del territorio primo. A Mondragone, Augusto La Torre aveva gestito il potere con grande severità. Per far diventare il cartello così potente era stato spietato. Le armi, a centinaia, se le faceva arrivare dalla Svizzera. Politicamente aveva alternato diverse fasi, grande presenza nella gestione degli appalti poi soltanto alleanze, contatti sporadici, lasciando che si affermassero i suoi affari e che fosse quindi la politica ad accodarsi alle sue imprese. Mondragone fu il primo comune italiano a essere sciolto per infiltrazione camorristica negli anni '90. Nel corso degli anni, politica e clan non si sono mai realmente slegate. Un latitante napoletano aveva trovato ospitalità nel 2005 a casa di un candidato presente nella lista civica del sindaco uscente. Nel consiglio comunale per lungo tempo è stata presente, nel gruppo di maggioranza, la figlia un vigile urbano accusato di riscuotere tangenti per conto dei La Torre.