38253.fb2 Gomorra - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 8

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Pikachu iniziò a smazzare le carte chiedendomi se volevo partecipare, ma a carte sono sempre stato incapace. Così mi alzai dal tavolo. I camerieri della pizzeria avevano la stessa età dei ragazzi di Sistema e li guardavano ammirati, senza neanche avere il coraggio di servirli. Ci pensava direttamente il proprietario. Qui lavorare come garzone, cameriere, o in un cantiere è come un'ignominia. Oltre ai soliti eterni motivi: lavoro nero, ferie e malattie non pagate, dieci ore di media al giorno, non hai speranza di poter migliorare la tua condizione. Il Sistema concede almeno l'illusione che l'impegno sia riconosciuto, che ci sia la possibilità di fare carriera. Un affiliato non verrà mai visto come un garzone, le ragazzine non penseranno mai di essere corteggiate da un fallito. Questi ragazzini imbottiti, queste ridicole vedette simili a marionette da football americano, non avevano in mente di diventare Al Capone, ma Flavio Briatore, non un pistolero, ma un uomo d'affari accompagnato da modelle: volevano diventare imprenditori di successo.

Il 19 gennaio viene ammazzato il quarantacinquenne Pasquale Paladini. Otto colpi. Al petto e alla testa. Dopo poche ore sparano nelle gambe ad Antonio Auletta di diciannove anni. Ma il 21 gennaio sembra esserci una svolta. La voce inizia subito a correre, senza avere bisogno di agenzie di stampa. Cosimo Di Lauro è stato arrestato. Il reggente della cosca, il leader della mattanza, secondo le accuse della Procura Antimafia di Napoli, il comandante del clan secondo i pentiti. Cosimo si nascondeva in un buco di quaranta metri quadri, dormendo su un letto quasi sfondato. L'erede di un sodalizio criminale capace di fatturare solo con il narcotraffico cinquecentomila euro al giorno, e che poteva disporre di una villa da cinque milioni di euro nel cuore di uno dei quartieri più miseri d'Italia, era costretto a rintanarsi in un buco fetente e microscopico non lontano dalla sua presunta reggia.

Una villa spuntata dal nulla in via Cupa dell'Arco, vicino alla casa di famiglia dei Di Lauro. Un'elegante masseria del Settecento, ristrutturata come una villa pompeiana. Impluvium, colonne, stucchi e gessi, controsoffittature e scalinate. Una villa di cui nessuno sospettava l'esistenza. Nessuno conosceva i proprietari formali, i carabinieri stavano indagando ma nel quartiere nessuno aveva dubbi. Era per Cosimo. I carabinieri scoprirono la villa per caso, superando le spesse mura di cinta, trovarono dentro alcuni operai che appena videro le divise scapparono. La guerra non aveva permesso che la villa fosse ultimata, che fosse riempita di mobili e quadri, che divenisse la reggia del reggente, il cuore d'oro del corpo marcescente dell'edilizia di Secondigliano.

Quando Cosimo sente il calpestio degli anfibi dei carabinieri che lo stanno per arrestare, quando sente rumoreggiare i fucili, non tenta di scappare, non si arma nemmeno. Si mette davanti allo specchio. Bagna il pettine, tira indietro i capelli dalla fronte e poi li lega in un codino all'altezza della nuca, lasciando la zazzera riccia cascare sul collo. Indossa un dolcevita scuro e un impermeabile nero. Cosimo Di Lauro si abbiglia da pagliaccio del crimine, da guerriero della notte, scende per le scale impettito. È claudicante, qualche anno prima è caduto rovinosamente dalla moto e la gamba zoppa è la dote avuta da quell'incidente. Ma quando scende dalle scale ha pensato anche a questo. Poggiandosi sugli avambracci dei carabinieri che lo scortano riesce a non mostrare il suo handicap, a camminare con passo normale. I nuovi sovrani militari dei sodalizi criminali napoletani non si presentano come guappi di quartiere, non hanno gli occhi sgranati e folli di Cutolo, non pensano di doversi atteggiare come Luciano Liggio o come caricature di Lucky Luciano e Al Capone. Matrix, The Croio, Pulp Fiction riescono con maggiore capacità e velocità a far capire cosa vogliono e chi sono. Sono modelli che tutti conoscono e che non abbisognano di eccessive mediazioni. Lo spettacolo è superiore al codice sibillino deH'ammiccamento o alla circoscritta mitologia del crimine da quartiere malfamato. Cosimo fissa le telecamere e gli obiettivi dei fotografi, abbassa il mento, sporge la fronte. Non si è fatto trovare come Brusca con un jeans liso e una camicia sporca di salsa, non è impaurito come Rima portato di corsa sopra un elicottero, né sorpreso con il volto pieno di sonno come capitò a Misso, boss della Sanità. È un uomo formato nella società dello spettacolo e sa di andare in scena. Si presenta come un guerriero che si è imbattuto nella sua prima sosta. Sembra che stia pagando per il troppo coraggio, l'eccessivo zelo nella guerra che ha condotto. Questo racconta il suo volto. Non sembra che sia tratto in arresto, ma che muti semplicemente il luogo del suo comando. Innescando la guerra sapeva di andare incontro all'arresto. Ma non aveva scelta. O guerra o morte. E l'arresto vuole rappresentarlo come la dimostrazione della sua vittoria, il simbolo del suo coraggio capace di sprezzare ogni sorta di tutela di sé, pur di salvare il sistema della famiglia.

La gente del quartiere al solo guardarlo si sente bruciare lo stomaco. Inizia la rivolta, rovesciano auto, riempiono bottiglie di benzina e le lanciano. La crisi isterica non serve a evitare l'arresto come potrebbe sembrare, ma a scongiurare vendette. Ad annullare ogni possibilità di sospetto. A segnalare a Cosimo che nessuno lo ha tradito. Che nessuno ha spifferato, che il geroglifico della sua latitanza non è stato decifrato grazie ai suoi vicini di casa. È un enorme rito quasi di scusa, una metafisica cappella di espiazione che le persone del quartiere vogliono costruire con le volanti dei carabinieri bruciate, i cassonetti posti a barricate, il fumo nero dei copertoni. Se Cosimo sospetta, non avranno neanche il tempo di fare le valigie, la mannaia militare si abbatterà su di loro come l'ennesima spietata condanna.

Pochi giorni dopo l'arresto del rampollo del clan, il volto arrogante che fissa le telecamere campeggia sugli screen saver dei telefonini di decine di ragazzini e ragazzine delle scuole di Torre Annunziata, Quarto, Marano. Gesti di mera provocazione, di banale balordaggine adolescenziale. Certo. Ma Cosimo sapeva. Così bisogna agire per essere riconosciuti come capi, per raggiungere il cuore degli individui. Bisogna saper usare anche lo schermo, l'inchiostro dei giornali, bisogna sapere annodare il proprio codino. Cosimo rappresenta chiaramente il nuovo imprenditore di Sistema. L'immagine della nuova borghesia svincolata da ogni freno, mossa dall'assoluta volontà di dominare ogni territorio del mercato, di mettere le mani su tutto. Non rinunciare a nulla. Fare una scelta non significa limitare il proprio campo d'azione, privarsi di ogni altra possibilità. Non per chi considera la vita come uno spazio dove poter conquistare tutto al rischio di perdere ogni cosa. Significa mettere in conto di essere arrestati, di finir male, di morire. Ma non significa rinunciare. Volere tutto e subito, e averlo quanto prima. È questa la forza e l'attrattiva che Cosimo Di Lauro impersona.

Tutti, anche i più premurosi verso la propria incolumità, finiscono nella gabbia della pensione, tutti prima o poi si scoprono cornuti, tutti finiscono con una badante polacca. Perché crepare di depressione cercando un lavoro che fa boccheggiare, perché finire in un part-time a rispondere al telefono? Diventare imprenditore. Ma vero. Capace di commerciare con tutto e di fare affari anche col nulla. Ernst Jùnger direbbe che la grandezza è esposta alla tempesta. Lo stesso ripeterebbero i boss, gli imprenditori di camorra. Essere il centro di ogni azione, il centro del potere. Usare tutto come mezzo e se stessi come fine. Chi dice che è amorale, che non può esserci vita senza etica, che l'economia possiede dei limiti e delle regole da seguire, è soltanto colui che non è riuscito a comandare, che è stato sconfitto dal mercato. L'etica è il limite del perdente, la protezione dello sconfitto, la giustificazione morale per coloro che non sono riusciti a giocarsi tutto e vincere ogni cosa. La legge ha i suoi codici stabiliti, ma non la giustizia che è altro. La giustizia è un principio astratto che coinvolge tutti, passabile a seconda di come lo si interpreta di assolvere o condannare ogni essere umano: colpevoli i ministri, colpevoli i papi, colpevoli i santi e gli eretici, colpevoli i rivoluzionari e i reazionari. Colpevoli tutti di aver tradito, ucciso, sbagliato. Colpevoli d'essere invecchiati e morti. Colpevoli di essere stati superati e sconfitti. Colpevoli tutti dinanzi al tribunale universale della morale storica e assolti da quello della necessità. Giustizia e ingiustizia hanno un significato solo se considerate nel concreto. Di vittoria o sconfitta, di atto fatto o subito. Se qualcuno ti offende, se ti tratta male, sta commettendo un'ingiustizia, se invece ti riserva un trattamento di favore ti fa giustizia. Osservando i poteri del clan bisogna fermarsi a questi calibri. A queste maglie di giudizio. Bastano. Devono bastare. È questa l'unica forma reale di valutazione della giustizia. Il resto è solo religione e confessionale. L'imperativo economico è foggiato da questa logica. Non sono gli affari che i camorristi inseguono, sono gli affari che inseguono i camorristi. La logica dell'imprenditoria criminale, il pensiero dei boss coincide col più spinto neoliberismo. Le regole dettate, le regole imposte, sono quelle degli affari, del profitto, della vittoria su ogni concorrente. H resto vale zero. Il resto non esiste. Poter decidere della vita e della morte di tutti, poter promuovere un prodotto, monopolizzare una fetta di mercato, investire in settori d'avanguardia, è un potere che si paga con il carcere o con la vita. Avere potere per dieci anni, per un anno, per un'ora. Non importa la durata: vivere, comandare per davvero, questo conta. Vincere nell'arena del mercato e arrivare a fissare il sole con gli occhi come faceva in carcere Raffaele Giuliano, boss di Forcella, sfidandolo, mostrando che il suo sguardo non si accecava neanche dinanzi alla luce prima. Raffaele Giuliano che aveva avuto la spietata volontà di cospargere di peperoncino la lama di un coltello prima di accoltellare un parente di un suo nemico, così da fargli sentire bruciori lancinanti mentre la lama entrava nella carne, centimetro per centimetro. In carcere veniva temuto non per questa sua acribia sanguinaria, ma per la sfida dello sguardo capace di mantenersi alto anche fissando il sole. Avere la coscienza di essere dei business man destinati alla fine — morte o ergastolo — ma con volontà spietata dominare economie potenti e illimitate. Il boss viene ammazzato o arrestato, ma il sistema economico che ha generato rimane: non smettendo di mutare, trasformarsi, migliorare e innescare profitto. Questa coscienza da samurai liberisti, i quali sanno che il potere, quello assoluto, per averlo si paga, la trovai sintetizzata in una lettera di un ragazzino rinchiuso in un carcere minorile, una lettera che consegnò a un prete e che fu letta durante un convegno. La ricordo ancora. A memoria:

Tutti quelli che conosco o sono morti o sono in galera. Io voglio diventare un boss. Voglio avere supermercati, negozi, fabbriche, voglio avere donne. Voglio tre macchine, voglio che quando entro in un negozio mi devono rispettare, voglio avere magazzini in tutto il mondo. E poi voglio morire. Ma come muore uno vero, uno che comanda veramente. Voglio morire ammazzato.

Questo è il nuovo tempo scandito dagli imprenditori criminali. Questa è la nuova potenza dell'economia. Dominarla, a costo d'ogni cosa. Il potere prima d'ogni cosa. La vittoria economica più preziosa della vita. Della vita di chiunque e persino della propria.

I ragazzini di Sistema avevano iniziato a chiamarli persino "morti parlanti". In un'intercettazione telefonica presente nel decreto di fermo emesso dalla Procura Antimafia nel febbraio 2006, un ragazzo spiega al telefono chi sono i capizona di Se-condigliano:

"Sono guagliuncelli, morti parlanti, morti viventi, morti che si muovono… Bello e buono prendono e ti uccidono, ma tanto la vita è già persa…"

Capi ragazzini, kamikaze dei clan che non vanno a morire per nessuna religione, ma per danaro e potere, a ogni costo, come unico modo di vivere che valga la pena.

La notte del 21 gennaio, la stessa notte dell'arresto di Cosimo Di Lauro, venne ritrovato il corpo di Giulio Ruggiero. Trovarono un'auto bruciata, un corpo al posto di guida. Un corpo decollato. La testa era sui sedili posteriori. Gliel'aveva-no tagliata. Non con il colpo di netto dell'accetta, ma col flex: la sega circolare dentellata usata dai fabbri per limare le saldature. Lo strumento peggiore in assoluto, ma proprio per questo il più plateale. Prima tagliare la carne e poi scheggiare l'osso del collo. Dovevano aver fatto il servizio proprio lì, visto che per terra c'erano d'intorno scaglie di carne come se fosse trippa. Le indagini non erano neanche state avviate che in zona tutti sembravano essere sicuri che fosse un messaggio. Un simbolo. Cosimo Di Lauro non poteva essere stato arrestato senza una soffiata. Quel corpo mozzato era nell'immaginario di tutti il traditore. Solo chi si è venduto un capo può essere dilaniato in quel modo. La sentenza è decretata prima che le indagini abbiano inizio. Poco importa se dica il vero o rincorra una suggestione. Quella macchina e quella testa abbandonate in via Hugo Pratt le fissai senza scendere dalla Vespa. Mi arrivavano ai timpani i dettagli di come avevano bruciato il corpo e la testa mozzata, di come avevano riempito la bocca di benzina, messo uno stoppino tra i denti cosicché dopo avergli dato fuoco avevano aspettato che l'intera faccia esplodesse. Accesi la Vespa e me ne andai.

Il 24 gennaio 2005 quando sono arrivato era a terra sulle mattonelle, morto. Un nugolo di carabinieri camminava nervoso dinanzi al negozio dove era avvenuto l'agguato. L'ennesimo. "Ormai un morto al giorno è la cantilena di Napoli" dice un ragazzo nervosissimo che passa di là. Si ferma, si scappella dinanzi al morto che non vede, e va via. Quando i killer sono entrati nel negozio stringevano già i calci delle pistole. Era chiaro che non volevano rapinare ma uccidere, punire. Attilio ha tentato di nascondersi dietro al bancone. Sapeva che non serviva a nulla, ma magari ha sperato segnalasse che era disarmato che non c'entrava nulla, che non aveva fatto niente. Aveva capito forse che quei due erano soldati della camorra, della guerra voluta dai Di Lauro. Gli hanno sparato, hanno scaricato i loro caricatori e dopo il "servizio" sono usciti, qualcuno dice con calma, come se avessero acquistato un telefonino, non massacrato un individuo. Attilio Romano è lì. Sangue ovunque. Sembra quasi che l'anima gli sia scolata via da quei fori di proiettile che lo hanno marchiato in tutto il corpo. Quando vedi tanto sangue per terra inizi a tastarti, controlli che non sia ferito tu, che in quel sangue non ci sia anche il tuo, inizi a entrare in un'ansia psicotica, cerchi di assicurarti che non ci siano ferite sul tuo corpo, che per caso, senza che te ne sia accorto, ti sei ferito. E comunque non credi che in un uomo solo possa esserci tanto sangue, sei certo che in te ce n'è sicuramente molto meno. Quando ti accerti che quel sangue non l'hai perso tu, non basta: ti senti svuotato anche se l'emorragia non è tua. Tu stesso diventi emorragia, senti le gambe che ti mancano, la lingua impastata, senti le mani sciolte in quel lago denso, vorresti che qualcuno ti guardasse l'interno degli occhi per controllare il livello di anemia. Vorresti fermare un infermiere e chiedere una trasfusione, vorresti avere lo stomaco meno chiuso e mangiare una bistecca, se riesci a non vomitare. Devi chiudere gli occhi, ma non respirare. L'odore di sangue rappreso che ormai ha impregnato anche l'intonaco della stanza sa di ferro rugginoso. Devi uscire, andare fuori, andare all'aria prima che gettino la segatura sul sangue perché l'impasto genera un odore terribile che fa crollare ogni resistenza al vomito.

Non capivo davvero perché avevo ancora una volta scelto di andare sul posto dell'agguato. Di una cosa ero certo: non è importante mappare ciò che è finito, ricostruire il dramma terribile che è accaduto. È inutile osservare i cerchi di gesso intorno ai rimasugli dei bossoli che quasi sembrano un gioco infantile di biglie. Bisogna invece riuscire a capire se qualcosa è rimasto. Questo forse vado a rintracciare. Cerco di capire cosa galleggia ancora d'umano; se c'è un sentiero, un cunicolo scavato dal verme dell'esistenza che possa sbucare in una soluzione, in una risposta che dia il senso reale di ciò che sta accadendo.

Il corpo di Attilio è ancora per terra quando arrivano i familiari. Due donne, forse la madre e la moglie, non so. Nel percorso si stringono, camminano avvinghiate, spalla incollata all'altra spalla, ormai sono le uniche a sperare che non sia come hanno già capito e sanno benissimo. Ma sono allacciate, si sostengono l'una con l'altra, un attimo prima di trovarsi dinanzi alla tragedia. È in quegli attimi, nei passi delle mogli e delle madri verso l'incontro con il corpo crivellato, che si intuisce un'irrazionale, folle, balorda fiducia nel desiderio umano. Sperano, sperano, sperano e sperano ancora che ci sia stato un errore, una bugia nel passaparola, un fraintendimento del maresciallo dei carabinieri che annunciava l'agguato e l'assassinio. Come se ostinarsi maggiormente nel credere qualcosa possa davvero mutare il corso degli eventi. In quel momento la pressione arteriosa della speranza raggiunge una massima assoluta senza minima alcuna. Ma non c'è nulla da fare. Le urla, i pianti mostrano la forza di gravità del reale. Attilio è lì per terra. Lavorava in un negozio di telefonia e poi per arrotondare in un cali center. Lui e sua moglie Natalia non avevano ancora un bambino. Non c'era ancora il tempo, non c'era forse la possibilità economica di mantenerlo e magari aspettavano la possibilità di farlo crescere altrove. Le giornate si consumavano in ore di lavoro e quando c'è stata la possibilità e qualche risparmio, Attilio ha creduto buona cosa poter diventare azionista di quel negozio dove ha trovato la morte. L'altro socio però ha una lontana parentela con Pariante, il boss di Bacoli, un colonnello di Di Lauro, uno di quelli che gli si sono messi contro. Attilio non sa o quantomeno sottovaluta, si fida del suo socio, gli basta sapere che è una persona che vive del suo mestiere, faticando molto, troppo. Insomma in questi luoghi non si decide della propria sorte, il lavoro sembra essere un privilegio, qualcosa che una volta raggiunto, si tiene stretto, quasi come una fortuna che ti è capitata, un destino benevolo che ha voluto centrarti, anche se questo lavoro ti porta fuori casa per tredici ore al giorno, ti lascia mezza domenica libera e mille euro al mese che a stento ti bastano per pagare un mutuo. Comunque sia arrivato il lavoro, bisogna ringraziare e non fare troppe domande a sé e al destino.

Ma qualcuno fa cadere il sospetto. E allora il corpo di Atti lio Romano rischia di venire sommato a quello dei soldati di camorra ammazzati in questi mesi. I corpi sono gli stessi, le ragioni della morte sono però diverse anche se si cade sullo stesso fronte di guerra. Sono i clan che decidono chi sei, quale parte occupi nel risiko del conflitto. Le parti sono determinate indipendentemente dalle volontà. Quando gli eserciti scendono per strada non è possibile tracciare una dinamica esterna alla loro strategia, il senso lo concedono loro, i motivi, le cause. In quell'istante, quel negozio dove Attilio lavorava era espressione di un'economia legata al gruppo degli Spagnoli e quell'economia andava sconfitta.

Natalia, Nata come la chiamava Attilio, è una ragazza stordita dalla tragedia. Si era sposata appena quattro mesi prima, ma non viene consolata, al funerale non c'è Presidente della Repubblica, ministro, sindaco che le tiene la mano. Meglio così forse, si risparmia la messa in scena istituzionale. Ma ciò che aleggia sulla morte di Attilio è un'ingiusta diffidenza. E la diffidenza è l'assenso silenzioso che viene concesso all'ordine della camorra. L'ennesimo consenso all'agire dei clan. Ma i colleghi del cali center di Attila, come lo chiamavano per la sua violenta voglia di vivere, organizzano fiaccolate e si ostinano a camminare anche se sul percorso della manifestazione avvengono ancora agguati, il sangue ancora traccia la strada. Procedono, accendono luci, fanno capire, tolgono ogni onta, cassano ogni sospetto. Attila è morto sul lavoro e con la camorra non aveva rapporto alcuno.

In realtà dopo ogni agguato il sospetto grava su tutti. Troppo perfetta è la macchina dei clan. Non c'è errore. C'è punizione. E così è al clan che viene data fiducia, non ai familiari che non capiscono, non ai colleghi di lavoro che lo conoscono, non alla biografia di un individuo. In questa guerra le persone vengono stritolate senza colpa alcuna, vengono rubricate negli effetti collaterali o nei probabili colpevoli.

Un ragazzo, Dario Scherillo, ventisei anni, ucciso il 26 dicembre 2004, mentre camminava in motocicletta viene colpito in faccia, al petto, lasciato morire a terra nel suo sangue che ha il tempo di impregnare completamente la camicia. Un ragazzo innocente. Gli è bastato essere di Casavatore, un paese martoriato da questo conflitto. Per lui ancora silenzio, incomprensione. Nessuna epigrafe, né targa, né ricordo. "Quando si è uccisi dalla camorra, non si sa mai" mi dice un vecchio che si fa il segno della croce nei pressi del luogo dove Dario è caduto. Il sangue a terra è di un rosso vivo. Non tutto il sangue ha lo stesso colore. Quello di Dario è porpora, sembra ancora scorrere. I mucchi di segatura stentano ad assorbirlo. Un'auto dopo un po', approfittando dello spazio vuoto, parcheggia sulla macchia di sangue. E tutto finisce. Tutto si copre. È stato ammazzato per dare un messaggio al paese, un messaggio di carne chiuso in una busta di sangue. Come in Bosnia, come in Algeria, come in Somalia, come in qualsiasi confusa guerra interna, quando è difficile capire a che parte appartieni, basta uccidere il tuo vicino, il cane, l'amico, o un tuo familiare. Una voce di parentela, una somiglianza è condizione sufficiente per diventare bersaglio. Basta che passi per una strada per ricevere subito un'identità di piombo. L'importante è concentrare il più possibile dolore, tragedia e terrore. Con l'unico obiettivo di mostrare la forza assoluta, il dominio incontrastato, l'impossibilità di opporsi al potere vero, reale, imperante. Sino ad abituarsi a pensare come coloro che potrebbero risentirsi di un gesto o di una parola. Stare attenti, guardinghi, silenziosi, per salvarsi la vita, per non toccare il filo ad alta tensione della vendetta. Mentre mi allontanavo, mentre portavano via Attilio Romano, iniziai a capire. A capire perché non c'è momento in cui mia madre non mi guardi con preoccupazione, non comprendendo perché non me ne vado, perché non fuggo via, perché continuo a vivere in questi luoghi d'inferno. Cercavo di ricordare da quando sono nato quanti sono i caduti, gli ammazzati, i colpiti.

Non bisognerebbe contare i morti per comprendere le economie della camorra, anzi sono l'elemento meno indicativo del potere reale, ma sono la traccia più visibile e quella che riesce d'immediato a far ragionare con lo stomaco. Inizio la conta: nel 1979 cento morti, nel 1980 centoquaranta, nel 1981 centodieci, nel 1982 duecentosessantaquattro, nel 1983 duecentoquattro, nel 1984 centocinquantacinque, nel 1986 centosette, nel 1987 centoventisette, nel 1988 centosessantotto, nel 1989 duecentoventotto, nel 1990 duecentoventidue, nel 1991 duecentoventitré, nel 1992 centosessanta, nel 1993 centoventi, nel 1994 centoquindici, nel 1995 centoquarantotto, nel 1996 cento-quarantasette, nel 1997 centotrenta, nel 1998 centotrentadue, nel 1999 novantuno, nel 2000 centodiciotto, nel 2001 ottanta, nel 2002 sessantatré, nel 2003 ottantatré, nel 2004 centoquaran-tadue, nel 2005 novanta.

Tremilaseicento morti da quando sono nato. La camorra ha ucciso più della mafia siciliana, più della 'ndrangheta, più della mafia russa, più delle famiglie albanesi, più della somma dei morti fatti dall'ETA in Spagna e dell'iRA in Irlanda, più delle Brigate Rosse, dei NAR e più di tutte le stragi di Stato avvenute in Italia. La camorra ha ucciso più di tutti. Mi viene in mente un'immagine. Quella della cartina del mondo che spesso compare sui giornali. Campeggia sempre in qualche numero di "Le Monde Diplomatique", quella mappa che indica con un bagliore di fiamma tutti i luoghi della terra dove c'è un conflitto. Kurdistan, Sudan, Kosovo, Timor Est. Viene di gettare l'occhio sull'Italia del sud. Di sommare i cumuli di carne che si accatastano in ogni guerra che riguardi la camorra, la mafia, la 'ndrangheta, i Sacristi in Puglia o i Basilischi in Lucania. Ma non c'è traccia di lampo, non v'è disegnato alcun fuocherello. Qui è il cuore d'Europa. Qui si foggia la parte maggiore dell'economia della nazione. Quali ne siano le strategie d'estrazione, poco importa. Necessario è che la carne da macello rimanga impantanata nelle periferie, schiattata nei grovigli di cemento e monnezza, nelle fabbriche in nero e nei magazzini di coca. E che nessuno ne faccia cenno, che tutto sembri una guerra di bande, una guerra tra straccioni. E allora comprendi anche il ghigno dei tuoi amici che sono emigrati, che tornano da Milano o da Padova e non sanno tu chi sia diventato. TI squadrano dall'alluce alla fronte per cercare di soppesare il tuo peso specifico e intuire se sei un chiachiello o uno bbuono. Un fallito o un camorrista. E dinanzi alla biforcazione delle strade sai quale stai già percorrendo e non vedi nulla di buono al termine del percorso.

Tornai a casa, ma non riuscii a stare fermo. Scesi e iniziai a correre, forte, sempre più forte, le ginocchia si torcevano, i talloni tamburellavano i glutei, le braccia sembravano snodate e si agitavano come quelle di un burattino. Correre, correre, correre ancora. Il cuore pompava, in bocca la saliva annegava la lingua e sommergeva i denti. Sentivo il sangue che gonfiava la carotide, tracimava nel petto, non avevo più fiato, dal naso presi tutta l'aria possibile che subito rigettai come un toro. Ripresi a correre, sentendo le mani gelide, il viso bollente, chiudendo gli occhi. Sentivo che tutto quel sangue visto a terra, perso come rubinetto aperto sino a spanare la manopola, l'avevo ripreso, lo risentivo nel corpo.

Arrivai finalmente al mare. Saltai sugli scogli, il buio era impastato di foschia, non si vedevano neanche i fari delle navi che incrociano nel golfo. Il mare si increspava, alcune onde iniziarono ad alzarsi, sembravano non voler toccare la fanghiglia della battigia ma non tornavano neanche nel gorgo lontano dell'alto mare. Rimangono immobili nell'andirivieni dell'acqua, resistono ostinate in un'impossibile fissità aggrappandosi alla loro cresta di schiuma. Ferme, non sapendo più dove il mare è ancora mare.

Dopo qualche settimana iniziarono ad arrivare giornalisti. Da ogni luogo, d'improvviso la camorra era tornata a esistere nella regione dove si credeva esistessero ormai solo bande e scippatori. Secondigliano divenne in poche ore il centro dell'attenzione. Inviati speciali, fotoreporter delle più importanti agenzie, persino un presidio perenne della BBC, qualche ragazzino si fa fotografare accanto a un cameraman che tiene in spalla una telecamera con ben in evidenza il logo della CNN. "Gli stessi che stanno da Saddam" ridacchiano a Scampia. Ripresi da quelle telecamere si sentono trasportati nel baricentro del mondo. Un'attenzione che sembra per la prima volta concedere a quei luoghi un'esistenza reale. La mattanza di Secondigliano raccoglie un'attenzione che mancava dalle dinamiche di camorra da vent'anni. A nord di Napoli la guerra ammazza in breve tempo, rispetta i criteri giornalistici di cronaca, in poco più di un mese accumula decine e decine di vittime. Sembra fatta apposta per dare il suo morto a ogni inviato. Il successo a tutti. Stagiste vennero inviate a frotte a farsi le ossa. Microfoni spuntarono ovunque a fare interviste a spacciatori, a riprendere il tetro profilo spigoloso delle Vele. Qualcuna riesce persino a intervistare presunti pusher, inquadrandoli di spalle. Quasi tutti invece danno qualche spicciolo agli eroinomani che biascicano la loro storia. Due ragazze, due giornaliste si fecero fotografare dal loro operatore davanti a una carcassa di auto bruciata non ancora rimossa. La loro prima guerra minore da croniste ha il suo souvenir. Un giornalista francese mi telefonò chiedendomi se doveva portare il giubbotto antiproiettile visto che voleva andare a fotografare la villa di Cosimo Di Lauro. Le troupe giravano in auto, fotografavano, riprendevano, come esploratori in una foresta dove tutto ormai si stava mutando in scenografia. Qualche altro giornalista si muoveva con la scorta. Il peggior modo per raccontare Secondigliano era farsi scortare dalla polizia. Scampia non è un luogo inaccessibile, la forza di questa piazza del narcotraffico è proprio l'accessibilità totale e garantita a chiunque. I giornalisti che vanno con la scorta non possono che raccogliere con lo sguardo ciò che trovano in qualsiasi notizia battuta dalle agenzie stampa. Come stare davanti al loro pc redazionale, con la differenza di essere in movimento.

Oltre cento giornalisti in poco meno di due settimane. D'improvviso la piazza della droga d'Europa inizia a esistere. Gli stessi poliziotti si trovano assediati da richieste, tutti vogliono partecipare a operazioni, vedere almeno uno spacciatore arrestato, una casa perquisita. Tutti vogliono ficcare nei quindici minuti di servizio qualche immagine di manette e qualche mitra sequestrato. Molti ufficiali cominciano a liquidare i vari reporter e neogiornalisti d'inchiesta facendogli fotografare poliziotti in borghese che si fingono pusher. Un modo per dargli quello che vogliono senza perdere troppo tempo. Il peggio possibile nel minor tempo possibile. Il peggio del peggio, l'orrore dell'orrore, trasmettere la tragedia, il sangue, le budella, i colpi di mitra, i crani sfondati, le carni bruciate. Il peggio che raccontano è solo lo scarto del peggio. A Secondigliano molti cronisti credono di trovare il ghetto d'Europa, la miseria assoluta. Se riuscissero a non scappare, si accorgerebbero di avere dinanzi i pilastri dell'economia, la miniera nascosta, la tenebra da dove trova energia il cuore pulsante del mercato.

Ricevevo dai giornalisti televisivi le proposte più incredibili. Alcuni mi chiesero di mettermi sull'orecchio una microtelecamera e girare per le strade "che conoscevo io", seguendo persone "che sapevo io". Sognavano di far derivare da Scampia una puntata di un reality dove poter riprendere un omicidio e lo spaccio di droga. Uno sceneggiatore mi diede un dattiloscritto che raccontava una storia di sangue e morte, dove il diavolo del Secolo Nuovo veniva concepito nel rione Terzo Mondo. Per un mese mangiai gratis tutte le sere, venivo invitato dalle troupe televisive per sottopormi a assurde iniziative, per cercare di ricevere informazioni. A Secondigliano e Scampia durante il periodo della faida si creò un vero e proprio indotto di accompagnatori, spiegatori ufficiali, confidenti, guide indiane nella riserva di camorra. Moltissimi ragazzi avevano una tecnica. Gironzolavano vicino alle postazioni dei giornalisti, fingendo di star spacciando o fingendo di essere dei pali, appena qualcuno trovava il coraggio di avvicinarli subito si dichiaravano disponibili a raccontare, spiegare, farsi riprendere. Subito dichiaravano le tariffe. Cinquanta euro per la testimonianza, cento euro per un giro attraverso le piazze di spaccio, duecento per entrare nella casa di qualche spacciatore che abitava alle Vele.

Per comprendere il ciclo dell'oro non si può solo fissare la pepita e la miniera. Si doveva partire da Secondigliano e poi seguire la traccia degli imperi dei clan. Le guerre di camorra mettono i paesi dominati dalle famiglie sulla cartina geografica, l'entroterra campano, le terre dell'osso, territori che qualcuno chiama il Far West d'Italia, che una violenta leggenda vuole più ricchi di mitra che di forchette. Ma al di là della violenza che nasce in fasi particolari, qui si foggia una ricchezza esponenziale di cui queste terre non vedono che bagliori lontani. Ma nulla di questo venne raccontato, le tv, gli inviati, i loro lavori, tutto venne riempito dall'estetica della suburra napoletana.

H 29 gennaio viene ammazzato Vincenzo De Gennaro. Il 31 gennaio uccidono Vittorio Bevilacqua in una salumeria. Il 1° febbraio Giovanni Orabona, Giuseppe Pizzone e Antonio Patrizio vengono massacrati. Li ammazzano con uno stratagemma antiquato ma sempre efficace, i killer fingono di essere poliziotti. Giovanni Orabona era il ventitreenne attaccante del Real Casavatore. Stavano camminando quando un'auto li fermò. Aveva una sirena sul tetto. Scesero due uomini con i tesserini della polizia. I ragazzi non tentarono di fuggire né di fare resistenza. Sapevano come dovevano comportarsi, si lasciarono ammanettare e caricare in auto. L'auto poi d'improvviso si fermò e li fece scendere. I tre forse non capirono subito, ma quando videro le pistole tutto fu chiaro. Era un'imboscata. Non erano poliziotti, ma gli Spagnoli. Il gruppo ribelle. Due, inginocchiati e sparati alla testa, furono finiti subito, il terzo, dalle tracce ritrovate sul luogo, aveva tentato di scappare, con le mani legate dietro la schiena e la testa come unico perno d'equilibrio. Cadde. Si rialzò. Ricadde. Lo raggiunsero, gli puntarono un'automatica in bocca. Il cadavere aveva i denti rotti, il ragazzo aveva tentato di mordere la canna della pistola, per istinto, come per spezzarla.

Il 27 febbraio da Barcellona arrivò la notizia dell'arresto di Raffaele Amato. Stava giocando in un casinò al black jack, cercava di alleggerirsi di liquidi. I Di Lauro erano riusciti a colpire solo suo cugino Rosario bruciandogli la casa. Amato, secondo le accuse della magistratura napoletana, era il capo carismatico degli Spagnoli. Era cresciuto proprio in via Cupa dell'Arco, la strada di Paolo Di Lauro e della sua famiglia. Amato era diventato un dirigente di spessore da quando mediava sui traffici di droga e gestiva le puntate d'investimento. Secondo le accuse dei pentiti e le indagini dell'Antimafia, godeva di un credito illimitato presso i trafficanti internazionali, e riusciva a importare quintali di cocaina. Prima che i poliziotti in passamontagna lo sbattessero con la faccia per terra, Raffaele Amato aveva già avuto una battuta d'arresto: quando venne arrestato in un hotel a Casandrino insieme a un altro luogotenente del gruppo e a un grosso trafficante albanese, che si faceva aiutare negli affari da un interprete d'eccellenza, il nipote di un ministro di Tirana.

Il 5 febbraio è il turno di Angelo Romano. Il 3 marzo Davide Chiarolanza viene ammazzato a Melito. Aveva riconosciuto i killer, forse gli avevano dato persino appuntamento. È stato finito mentre tentava di scappare verso la sua macchina. Ma non è la magistratura, né la polizia e i carabinieri che riescono a bloccare la faida. Le forze dell'ordine tamponano, sottraggono braccia, ma non sembrano riuscire a fermare l'emorragia militare. Mentre la stampa insegue la cronaca nera inciampando su interpretazioni e valutazioni, un quotidiano partenopeo riesce a raggiungere la notizia di un patto tra gli Spagnoli e i Di Lauro, un patto di pace momentanea, siglato con la mediazione del clan Licciardi. Un patto voluto dagli altri clan secondiglianesi e forse anche dagli altri cartelli camorristici, i quali temevano che il silenzio decennale sul loro potere potesse essere interrotto dal conflitto. Bisognava nuovamente permettere allo spazio legale di ignorare i territori di accumulazione criminale. Il patto non è stato trascritto da qualche carismatico boss in una notte in cella. Non è stato diffuso di nascosto, ma pubblicato su un giornale, un quotidiano. In edicola, il 27 giugno 2005 è stato possibile leggerlo, comprenderlo, capirlo. Ecco i punti d'accordo pubblicati:

1) Gli scissionisti hanno preteso la restituzione degli alloggi sgomberati tra novembre e gennaio a Scampia e Secondi-gliano. Circa ottocento persone costrette dal gruppo di fuoco di Di Lauro a lasciare le case.

2) Il monopolio dei Di Lauro sul mercato della droga è spezzato. Non si torna indietro. Il territorio dovrà essere diviso in maniera equa. La provincia agli scissionisti, Napoli ai Di Lauro.

3) Gli scissionisti potranno servirsi dei propri canali per l'importazione della droga senza più ricorrere obbligatoriamente alla mediazione dei Di Lauro.

4) Le vendette private sono separate dagli affari ossia gli affari sono più importanti delle questioni personali. Se tra anni si verificherà una vendetta legata alla faida questa non farà riaccendere le ostilità ma rimarrà sul piano privato.

Il boss dei boss secondiglianesi dev'essere tornato. L'hanno segnalato ovunque, dalla Puglia al Canada. Per beccarlo, da mesi si muovono i servizi segreti. Lascia tracce, Paolo Di Lauro, minuscole, invisibili, come il suo potere prima della faida. Pare si sia fatto operare in una clinica marsigliese, la stessa che avrebbe ospitato il boss di Cosa Nostra Bernardo Provenzano. È tornato per siglare la pace o per limitare i danni. È qui, ormai si sente la sua presenza, l'aria è cambiata. H boss scomparso da dieci anni, colui che in una telefonata di un affiliato "doveva tornare, anche a costo di rischiare il carcere". Il boss fantasma, dal viso sconosciuto persino agli affiliati: "11 prego fammelo vedere, solo per un attimo, solo uno, lo guardo e poi me ne vado" aveva chiesto un affiliato al boss Maurizio Prestieri.

Paolo Di Lauro lo beccano in via Canonico Stornaiuolo, il 16 settembre 2005. Nascosto nella modesta casa di Fortunata Liguori, la donna di un affiliato di basso rango. Una casa anonima come quella in cui trascorreva la latitanza suo figlio Cosimo. Nella foresta di cemento è più facile mimetizzarsi, in case qualsiasi si vive senza facce e senza rumore. Un'assenza più totale quella urbana, più anonima del nascondersi in una botola o in un doppio fondo. Paolo Di Lauro era stato vicino all'arresto il giorno del suo compleanno. La sfida massima era tornare a casa a mangiare con la famiglia, mentre la polizia di mezza Europa lo inseguivano. Ma qualcuno lo avvertì in tempo. Quando i carabinieri entrarono nella villa di famiglia trovarono la tavola apparecchiata con il suo posto vuoto. Questa volta però i reparti speciali dei carabinieri, i ROS, vanno a colpo sicuro. Quando entrano in casa, i carabinieri sono agitatis-simi. Sono le quattro del mattino dopo un'intera notte di osservazione. Il boss però non reagisce, anzi li calma.

"Entrate… io sono calmo… non ci sono problemi."

Venti volanti scortano l'auto in cui viene fatto salire, più quattro lepri, le motociclette che anticipano il percorso, controllando che tutto sia tranquillo. Il corteo fugge, il boss è sul blindato. I percorsi per trasportarlo in caserma potevano essere tre. Attraversare via Capodimonte per poi sfrecciare lungo via Pessina e piazza Dante, oppure bloccare ogni accesso al corso Secondigliano e imboccare la tangenziale per dirigersi al Vomero. Nel caso di massimo pericolo avevano previsto di far atterrare un elicottero e trasportarlo per aria. Le lepri segnalano che lungo il percorso c'è un'auto sospetta. Tutti si aspettano un agguato. Ma è un falso allarme. Trasportano il boss alla caserma dei carabinieri in via Pastrengo, nel cuore di Napoli. L'elicottero si abbassa e la polvere e il terriccio dell'aiuola al centro della piazza iniziano ad agitarsi in un mulinello a mezz'aria pieno di buste di plastica, fazzo-lettini di carta, fogli di giornale. Un mulinello di spazzatura.

Non c'è alcun pericolo. Ma bisogna strillare l'arresto, mostrare che si è riusciti a prendere l'imprendibile, ad arrestare il boss. Quando arriva il carosello di blindati e volanti, e i carabinieri vedono che i giornalisti sono già presenti all'entrata della caserma, si siedono sulla portiera dell'auto a cavalcioni. Finestrini come sellini, impugnano vistosamente la pistola, hanno sul viso il passamontagna e indossano la pettorina dei carabinieri. Dopo l'arresto di Giovanni Brusca non c'è carabiniere e poliziotto che non voglia farsi riprendere in quella posizione. Lo sfogo per le nottate d'appostamenti, la soddisfazione per la preda catturata, la furbizia da ufficio stampa per occupare le prime pagine con certezza. Quando Paolo Di Lauro esce dalla caserma, non ha la spavalderia di suo figlio Cosimo, si piega in due, faccia per terra, lascia solo la pelata nuda a telecamere e fotografi. È forse soltanto un modo per tutelarsi. Farsi fotografare da centinaia di obiettivi da ogni angolatura, farsi riprendere da decine di telecamere avrebbe mostrato il suo volto a tutt'Italia, facendo magari denunciare a ignari vicini di casa di averlo visto, di essergli stati vicino. Meglio non agevolare le indagini, meglio non disvelare i propri percorsi clandestini. Ma qualcuno legge la sua testa bassa come semplice fastidio per flash e telecamere, il fastidio di essere ridotto a bestia da mostra.

Dopo alcuni giorni Paolo Di Lauro venne portato in tribunale, nell'aula 215. Presi posto tra il pubblico di parenti. L'unica parola che il boss pronunciò fu "presente". Tutto il resto lo articolò senza voce. Gesti, occhiolini, ammiccamenti, sorrisi, divengono la sintassi muta attraverso cui comunica dalla sua gabbia. Saluta, risponde, rassicura. Alle mie spalle prese posto un omone brizzolato. Paolo Di Lauro sembrava fissarmi, in realtà aveva intravisto l'uomo dietro me. Si guardarono per qualche secondo, poi il boss gli fece l'occhiolino.

Sembrava che dopo aver saputo la notizia dell'arresto molti fossero venuti a salutare il boss che per anni, a causa della latitanza, non avevano potuto incontrare. Paolo Di Lauro era in jeans e polo scura. Ai piedi le Paciotti, le scarpe che indossano tutti i dirigenti dei clan da queste parti. I secondini gli liberarono i polsi togliendogli i ceppi, le manette. Per lui un'unica gabbia. In aula entra tutto il gotha dei clan del nord di Napoli: Raffaele Abbinante, Enrico D'Avanzo, Giuseppe Cri-scuoio, Arcangelo Valentino, Maria Prestieri, Maurizio Pre-stieri, Salvatore Britti e Vincenzo Di Lauro. Uomini ed ex uomini del boss, ora divisi in due gabbie: fedeli e Spagnoli. Il più elegante è Prestieri, giacca blu e camicia oxford azzurra. E lui il primo che dal gabbione si avvicina al vetro di protezione che lo separa dal boss. Si salutano. Arriva anche Enrico D'Avanzo, riescono persino a bisbigliare qualcosa tra le fessure del vetro antiproiettile. Molti dirigenti non lo vedevano da anni. Suo figlio Vincenzo non lo incontra più da quando nel 2002 divenne latitante, rifugiandosi a Chivasso in Piemonte dove fu arrestato nel 2004.

Non staccai lo sguardo dal boss. Ogni gesto, ogni smorfia mi sembrava sufficiente per riempire intere pagine di interpretazioni, per fondare nuovi codici della grammatica dei gesti. Col figlio però avvenne un dialogo silenzioso strano. Vincenzo indicò con l'indice l'anulare della sua mano sinistra come per chiedere al padre: "La fede?". Il boss si passò le mani ai lati della testa, poi mimò un volante come se stesse guidando. Non riuscivo a decifrare bene i gesti. L'interpretazione che i giornali ne diedero fu che Vincenzo aveva chiesto al padre come mai fosse senza la fede e il padre gli avesse fatto capire che i carabinieri gli avevano tolto tutto l'oro. Dopo i gesti, gli ammiccamenti, i labiali veloci, gli occhiolini e le mani attaccate sul vetro blindato, Paolo Di Lauro si bloccò in un sorriso guardando il figlio. Si diedero un bacio attraverso il vetro. L'avvocato del boss al termine dell'udienza chiese di poter permettere un abbraccio tra i due. Venne concesso. Sette poliziotti lo presidiarono:

"Sei pallido" disse Vincenzo e il padre gli rispose fissandolo negli occhi: "Da molti anni questa faccia non vede il sole".

I latitanti arrivano spesso allo stremo delle forze prima di essere catturati. La fuga continua mostra l'impossibilità di godere della propria ricchezza e questo rende i boss ancora più in simbiosi con il proprio stato maggiore, che diviene l'unica vera misura del loro successo economico e sociale. I sistemi di protezione, la morbosa e ossessiva necessità di pianificare ogni passo, la parte maggiore del tempo rinchiusi in una stanza a moderare e coordinare gli affari e le imprese fanno vivere i boss in latitanza come ergastolani del proprio business. Una signora nell'aula del tribunale mi raccontò un episodio della latitanza di Di Lauro. D'aspetto poteva sembrare una professoressa, aveva una tintura più gialla che bionda, con evidente ricrescita alla scriminatura. Quando iniziò a parlare aveva una voce rauca e pesante. Raccontava di quando Paolo Di Lauro ancora girava per Secondigliano costretto a muoversi con strategie meticolose. Sembrava quasi fosse dispiaciuta per le privazioni del boss. Mi confidava che Di Lauro aveva cinque auto dello stesso colore, modello e targa. Le faceva partire tutte e cinque quando doveva spostarsi, ma ovviamente sedeva solo in una. Tutte e cinque avevano la scorta e nessuno dei suoi uomini sapeva con certezza se nell'auto ci fosse lui o meno. La macchina usciva dalla villa e loro si accodavano dietro per scortarla. Un modo sicuro per evitare tradimenti: fosse anche quello più immediato di segnalare che il boss si stava muovendo. La signora lo raccontava con un tono di profonda commiserazione per la sofferenza e la solitudine di un uomo sempre costretto a pensare di essere ammazzato. Dopo le tarantelle di gesti e abbracci, dopo i saluti e gli ammiccamenti dei personaggi appartenenti al potere più feroce di Napoli, il vetro blindato che separava il boss dagli altri era pieno di tracce di tutt'altro tipo: manate, strisce di grasso, ombre di labbra.

Dopo meno di ventiquattr'ore dall'arresto del boss, venne trovato alla rotonda di Arzano un ragazzo polacco che tremava come una foglia mentre cercava con difficoltà di buttare nella spazzatura un enorme fagotto. Il polacco era imbrattato di sangue e la paura rendeva difficile ogni suo gesto. Il fagotto era un corpo. Un corpo martoriato, torturato, sfigurato in modo talmente atroce che sembrava impossibile si potesse conciare così un corpo. Una mina fatta inghiottire a qualcuno e poi esplosa nello stomaco avrebbe fatto meno scempio. Il corpo era di Edoardo La Monica, ma non si distinguevano più i lineamenti. La faccia aveva soltanto le labbra, il resto era tutto sfondato. Il corpo pieno zeppo di buchi era ovunque incrostato di sangue. L'avevano legato e poi con una mazza chiodata seviziato lentamente, per ore. Ógni botta sul corpo era un foro, botte che non rompevano solo le ossa ma foravano la carne, chiodi che entravano e uscivano. Gli avevano tagliato le orecchie, mozzato la lingua, spaccato i polsi, cavato gli occhi con un cacciavite, da vivo, da sveglio, da cosciente. E poi per ucciderlo gli avevano sfondato la faccia con un martello e con un coltello inciso una croce sulle labbra. Il corpo doveva finire nella spazzatura per farlo ritrovare marcio, tra la monnezza in una discarica. Il messaggio scritto sulla carne viene da tutti decifrato con chiarezza, anche se non vi sono altre prove che quella tortura. Tagliate le orecchie con cui hai sentito dove il boss era nascosto, spezzati i polsi con cui hai mosso le mani per ricevere i soldi, cavati gli occhi con cui hai visto, tagliata la lingua con la quale hai parlato. La faccia sfondata che hai perso dinanzi al Sistema facendo quello che hai fatto. Sigillate le labbra con la croce: chiuse per sempre dalla fede che hai tradito. Edoardo La Monica era incensurato. Un cognome pesantissimo il suo, quello di una delle famiglie che avevano reso Secondigliano terra di camorra e miniera d'affari. La famiglia dove Paolo Di Lauro aveva mosso i primi passi. La morte di Edoardo La Monica somiglia a quella di Giulio Ruggiero. Entrambi dilaniati, torturati con meticolosità a poche ore dagli arresti dei boss. Scarnificati, pestati, squartati, scuoiati. Da anni non si vedevano più omicidi con così tanta diligente e sanguinaria volontà simbolica: con la fine del potere di Cutolo e del suo killer Pasquale Barra detto "'o rumale" famoso per aver ucciso in carcere Francis Turatello, e avergli azzannato il cuore dopo averglielo strappato dal petto con le mani. Queste ritualità si erano estinte, ma la faida di Secondigliano le aveva riesumate rendendo ogni gesto, ogni centimetro di carne, ogni parola uno strumento di comunicazione di guerra.

In conferenza stampa gli ufficiali dei ROS dichiararono che l'arresto era avvenuto individuando la vivandiera che acquistava il pesce preferito da Di Lauro, la pezzogna. Il racconto sembrava sin troppo adatto a sgretolare l'immagine di un boss potentissimo, capace di muovere centinaia di sentinelle ma che infine si era fatto beccare per un peccato di gola. Neanche per un attimo a Secondigliano sembrò credibile la traccia dell'inseguimento della pezzogna. Molti indicavano piuttosto il SISDE come unico responsabile dell'arresto. Il SISDE era intervenuto, lo confermavano anche le forze dell'ordine, ma della sua presenza a Secondigliano era difficile, difficilissimo intuirne la presenza. La traccia di qualcosa che si avvicinasse molto all'ipotesi che seguivano molti cronisti, ossia che il SISDE avesse messo a stipendio diverse persone della zona in cambio di informazioni o di non-interferenza, l'avevo trovata in alcuni spezzoni di chiacchiere da bar. Uomini che prendendo il caffè o cappuccino con cornetto, pronunciavano frasi tipo:

"Visto che tu prendi i soldi da James Bond…" !

Mi capitò due volte, in quei giorni, di sentir nominare in modo furtivo o allusivo 007, un fatto troppo piccolo e risibile per trarne qualsiasi cosa, al tempo stesso troppo anomalo per passare inosservato.

La strategia dei servizi segreti nell'arresto di Di Lauro potrebbe essere stata quella di individuare i responsabili tecnici delle vedette, assoldarli così da poter far dislocare tutti i pali e le sentinelle in altre zone impedendo di dare allarme e far fuggire il boss. La famiglia di Edoardo La Monica smentisce ogni suo possibile coinvolgimento, affermando che il ragazzo non aveva mai fatto parte del Sistema, che aveva paura dei clan e dei loro affari. Forse ha pagato al posto di qualcun altro della sua famiglia, ma la chirurgica tortura sembra essere stata commissionata per venire ricevuta e non spedita attraverso il suo corpo a qualcun altro.