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Girò pagina, e le foto non erano molto dissimili. Cambiavano i modelli, ma la situazione era quasi sempre la stessa. Il pittore una volta si stava lavando le mani, un’altra camminava a piedi nudi guardando in basso. Non stava mai dipingendo. Una modella altissima e spigolosa, con grandi orecchie da bambina, sedeva sul bordo di un letto, tenendosi con una mano alla spalliera. Non c’era ragione di pensare che stessero parlando – che si fossero mai parlati.
Allora Jasper Gwyn prese il catalogo e cercò intorno un posto dove sedersi. C’erano solo due poltroncine blu, giusto davanti al tavolo dove una signora stava lavorando, in mezzo a carte e libri. Doveva essere la gallerista, e Jasper Gwyn le chiese se poteva sedersi lì, o se la cosa la disturbava.
– Prego, disse la signora.
Aveva occhiali da vista eccentrici e quando toccava le cose lo faceva con la cautela che hanno le donne con le unghie curate.
Jasper Gwyn si sedette, e benché la distanza dalla signora fosse di quelle che avevano un senso solo alla luce di un desiderio reciproco di scambiare qualche parola, si appoggiò il librone sulle ginocchia e tornò a guardare quelle foto, come se fosse stato solo, a casa sua.
Lo studio del pittore vi appariva vuoto e sgangherato, non c’era traccia di consapevole pulizia, e c’era un’impressione di disordine irreale, poiché non vi era nulla che, all’occorrenza, si sarebbe potuto mettere in ordine. Analogamente, la nudità dei modelli non sembrava l’effetto di un’assenza di vestiti, ma una sorta di condizione originaria, preesistente a qualsiasi vergogna – o molto posteriore. In una delle foto si vedeva un signore sulla sessantina, con dei baffi curati, sul petto lunghi peli bianchi, che stava seduto su una sedia, intento a bere da una tazza, forse un tè, le gambe leggermente aperte, i piedi posati un po’ di taglio sul pavimento freddo. Lo si sarebbe detto assolutamente inadatto alla nudità, al punto di evitarla perfino nell’intimità domestica o amorosa, ma lì stava in effetti perfettamente nudo, il pene appoggiato di lato, piuttosto grande e circonciso, e pur essendo indubitabilmente grottesco era anche, al tempo stesso, così inevitabile che Jasper Gwyn fu sicuro per un istante di ignorare qualcosa che quell’uomo sapeva.
Allora alzò lo sguardo, cercò intorno, e subito trovò il ritratto del signore coi baffi, grande, appeso alla parete di fronte: era proprio lui, senza tazza di tè, ma sulla stessa sedia, nudo, i piedi posati un po’ di taglio sul pavimento freddo. Gli sembrò enorme, ma soprattutto gli apparve arrivato.
– Le piace?, chiese la gallerista.
Jasper Gwyn stava capendo qualcosa di particolare, che poi avrebbe cambiato il corso dei suoi giorni, e così non rispose subito. Tornò a guardare la foto, nel catalogo, poi di nuovo il quadro alla parete – era evidente che qualcosa era successo, tra la foto e il quadro, qualcosa come una peregrinazione. Jasper Gwyn pensò che doveva esserci voluto un sacco di tempo, un qualche esilio, e certo il dissolversi di molte resistenze. Non pensò a qualche trucco tecnico e nemmeno gli sembrò importante l’eventuale bravura del pittore, solo gli venne in mente che un fare paziente si era posto una meta, e alla fine quel che gli era riuscito di ottenere era ricondurre a casa quell’uomo coi baffi. Gli sembrò un gesto bellissimo.