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Si voltò verso la gallerista, le doveva una risposta.
– No, disse. Non mi piacciono mai i quadri.
– Ah, disse la gallerista.
Sorrideva, comprensiva, come se un bambino le avesse detto che da grande voleva fare il lavavetri.
– E cosa non le piace dei quadri?, chiese, paziente.
Di nuovo Jasper Gwyn non rispose. Stava pensando a quella storia del ricondurre a casa. Non gli era mai venuto in mente che un ritratto potesse riportare a casa qualcuno, anzi, gli era sempre sembrato proprio l’opposto, era evidente che i ritratti si facevano per esibire una falsa identità, e spacciarla come vera. Chi avrebbe mai pagato per farsi smascherare da un pittore e per appendere in casa quello che di se stesso si affannava a nascondere tutti i giorni?
Chi avrebbe mai pagato?, si ripeté lentamente.
Alzò lo sguardo sulla gallerista.
– Scusi, ce l’ha un foglietto e qualcosa per scrivere, per favore?
La gallerista gli avvicinò un blocco di carta e una matita.
Jasper Gwyn scrisse qualcosa, due righe. Poi stette a lungo a guardarle. Sembrava assorto in un pensiero così fragile che la gallerista rimase immobile, come quando non si vuole far volar via un passero dalla ringhiera. Diceva anche qualcosa a bassa voce, Jasper Gwyn, ma qualcosa di indecifrabile. Alla fine prese il foglietto, lo piegò in quattro e se lo mise in tasca. Rialzò lo sguardo sulla gallerista.
– Sono muti, disse.
– Prego?
– Non mi piacciono i quadri perché sono muti. Sono come persone che parlano muovendo le labbra, ma non si sente la voce. Bisogna immaginarla. Non mi piace fare quello sforzo lì.
Poi si alzò, andò a mettersi davanti al ritratto del signore con i baffi e a lungo, ancora, rimase assorto nei suoi pensieri – molto a lungo.
Tornò a casa senza badare alla pioggia che cadeva battente, e fredda. Ogni tanto diceva qualche frase a voce alta. Stava parlando con la signora dal foulard impermeabile.