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20.

Nel mese in cui aveva aspettato la musica di David Barber, o quel che era, Jasper Gwyn si era dato da fare per mettere a punto tutti gli altri particolari. Aveva incominciato dal mobilio. Nel deposito di un rigattiere di Regent Street aveva trovato tre sedie e un letto di ferro, piuttosto malconcio, ma con una sua eleganza. Ci aveva aggiunto due poltrone sfondate di cuoio che avevano il colore delle palline da cricket. Affittò due tappeti enormi e costosissimi e comprò a prezzo irragionevole un appendiabiti da muro che veniva da una brasserie francese. A un certo punto fu tentato da un cavallo proveniente da una giostra del Settecento e lì capì che gli stava scappando la mano.

Una cosa che non riuscì subito a mettere a fuoco era come lui avrebbe scritto, se in piedi o seduto a una scrivania, con un computer, a mano, su grandi fogli, o su piccoli taccuini. C’era anche da capire se effettivamente avrebbe scritto, o si sarebbe limitato ad osservare e a pensare, raccogliendo poi in un secondo tempo, magari a casa, quello che gli fosse venuto in mente. Per i pittori era semplice, avevano la tela a cui stare davanti, quello non era strano. Ma uno che avesse voluto, invece, scrivere? Poteva mica starsene a un tavolo, davanti a un computer. Alla fine capì che qualunque cosa sarebbe stata ridicola tranne iniziare a lavorare e scoprire sul posto, al momento buono, cosa aveva un senso fare e cosa no. Dunque nessuna scrivania, niente portatile, neanche una matita, il primo giorno, decise. Si concesse solo una scarpiera, modesta, da appoggiare in un angolo: si immaginò che gli sarebbe piaciuto, ogni volta, poter mettere le scarpe che quel giorno gli sarebbero sembrate più adatte.

Occuparsi di tutte queste cose l’aveva fatto sentire immediatamente meglio e per un po’ non aveva più dovuto badare alle crisi che l’avevano afflitto per mesi. Quando sentiva arrivare una certa evanescenza che aveva imparato a riconoscere, evitava di spaventarsi e si concentrava sulle sue mille occupazioni, svolgendole con uno scrupolo ancora più maniacale. Nella cura dei dettagli trovava immediato sollievo. Questo lo portava, alle volte, a raggiungere vette di perfezionismo quasi letterarie. Gli accadde, ad esempio, di trovarsi davanti a un artigiano che faceva lampadine. Non lampade: lampadine. Le faceva a mano. Era un vecchietto con un lugubre laboratorio dalle parti di Camden Town. Jasper Gwyn l’aveva a lungo cercato, senza neppure sapere se esistesse, e alla fine l’aveva trovato. Quello che aveva in mente di chiedergli non era soltanto una luce molto particolare – infantile, avrebbe spiegato – ma soprattutto una luce che durasse un certo tempo determinato. Voleva lampadine che morissero dopo trentadue giorni di funzionamento.

– Di colpo, o agonizzando un po’?, chiese il vecchietto, come se conoscesse a fondo il problema.