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Spesso arrivava in ritardo, quando Rebecca già era nello studio. Poteva essere una decina di minuti, ma anche un’ora. Lo faceva deliberatamente. Le piaceva trovarla già scomparsa a se stessa nel fiume sonoro di David Barber e in quella luce – quando lui aveva ancora addosso invece la crudezza e il ritmo del mondo fuori. Allora entrava facendo meno rumore possibile e sulla soglia si fermava, cercandola con lo sguardo come in una grande voliera: nell’istante in cui la trovava, quella era l’immagine che più distinta gli sarebbe rimasta nella memoria. Lei nel tempo si era abituata, e non muoveva, all’aprirsi delle porte, ma solo stava del suo stare. Da giorni avevano ormai tralasciato qualsiasi inutile liturgia di saluto, nel trovarsi e nel lasciarsi.
Un giorno entrò e Rebecca dormiva. Sdraiata sul letto, leggermente girata su un fianco. Respirava lenta. Jasper Gwyn avvicinò silenziosamente una poltrona ai piedi del letto. Si sedette e rimase a lungo a guardarla. Come non aveva ancora mai fatto, da vicino seguiva i dettagli, le pieghe del corpo, le sfumature di bianco della pelle, le piccole cose. Non gli importava di fissarle nella memoria, non sarebbero servite al suo ritratto, ma attraverso quel guardare acquistava una vicinanza clandestina che invece lo aiutava, e lo portava lontano. Lasciò che il tempo passasse senza mettere fretta alle idee che sentiva arrivare, rade e disordinate come gente da un confine. A un certo punto Rebecca aprì gli occhi, lo vide. Istintivamente richiuse le gambe. Ma poi lentamente le riaprì, ritrovando la posizione che aveva abbandonato – lo fissò per qualche istante, e alla fine richiuse gli occhi.
Jasper Gwyn non si mosse dalla poltrona, quel giorno, e tanto si avvicinò a Rebecca che fu naturale finire dov’era lei, prima attraversando un torpore pieno di immagini, poi scivolando nel sonno, senza opporre resistenza, abbandonato nella poltrona. L’ultima cosa che sentì fu la voce della signora con il foulard impermeabile. Bel modo di lavorare, diceva.
Ma invece parve normale a Rebecca, quando riaprì gli occhi – qualcosa che doveva accadere. Lo scrittore addormentato. Che strana dolcezza. Silenziosamente scese dal letto. Le otto erano passate. Prima di rivestirsi si avvicinò a Jasper Gwyn e rimase a guardarlo – quest’uomo, pensò. Gli girò intorno, e poiché lui aveva un gomito appoggiato sul bracciolo, la mano abbandonata nel vuoto, avvicinò i suoi fianchi a quella mano, fino quasi a sfiorarla, e rimase per un attimo immobile – le dita di quest’uomo e il mio sesso, pensò. Si rivestì senza far rumore. Uscì che lui ancora dormiva.
Come ogni sera, fece i primi passi per strada con un’incertezza da animale appena nato.