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Era così ostinato che cominciarono a chiamarlo Martino Testadura, ma lui non se la prendeva e continuava a pensare alla strada che non andava in nessun posto.
Quando fu abbastanza grande da attraversare la strada senza dare la mano al nonno, una mattina si alzò per tempo, uscì dal paese e senza esitare imboccò la strada misteriosa e andò sempre avanti. Il fondo era pieno di buche e di erbacce, ma per fortuna non pioveva da un pezzo, così non c'erano pozzanghere. A destra e a sinistra si allungava una siepe, ma ben presto cominciarono i boschi. I rami degli alberi si intrecciavano al di sopra della strada e formavano una galleria oscura e fresca, nella quale penetrava solo qua e là qualche raggio di sole a far da fanale.
Cammina e cammina, la galleria non finiva mai, la strada non finiva mai, a Martino dolevano i piedi, e già cominciava a pensare che avrebbe fatto bene a tornarsene indietro quando vide un cane.
«Dove c'è un cane c'è una casa, - rifletté Martino, - o per lo meno un uomo».
Il cane gli corse incontro scodinzolando e gli leccò le mani, poi si avviò lungo la strada e ad ogni passo si voltava per controllare se Martino lo seguiva ancora.
- Vengo, vengo, - diceva Martino, incuriosito.
Finalmente il bosco cominciò a diradarsi, in alto riapparve il cielo e la strada terminò sulla soglia di un grande cancello di ferro.
Attraverso le sbarre Martino vide un castello con tutte le porte e le finestre spalancate, e il fumo usciva da tutti i comignoli, e da un balcone una bellissima signora salutava con la mano e gridava allegramente:
- Avanti, avanti, Martino Testadura!
- Toh, - si rallegrò Martino, - io non sapevo che sarei arrivato, ma lei sì.
Spinse il cancello, attraversò il parco ed entrò nel salone del castello in tempo per fare l'inchino alla bella signora che scendeva dallo scalone. Era bella, e vestita anche meglio delle fate e delle principesse, e in più era proprio allegra e rideva:
- Allora non ci hai creduto. - A che cosa?
- Alla storia della strada che non andava in nessun posto.
- Era troppo stupida. E secondo me ci sono anche più posti che strade.
- Certo, basta aver voglia di muoversi. Ora vieni, ti farò visitare il castello.
C'erano più di cento saloni, zeppi di tesori d'ogni genere, come quei castelli delle favole dove dormono le belle addormentate o dove gli orchi ammassano le loro ricchezze. C'erano diamanti, pietre preziose, oro, argento, e ogni momento la bella signora diceva: - Prendi, prendi quello che vuoi. Ti presterò un carretto per portare il peso.
Figuratevi se Martino si fece pregare. Il carretto era ben pieno quando egli ripartì. A cassetta sedeva il cane, che era un cane ammaestrato, e sapeva reggere le briglie e abbaiare ai cavalli quando sonnecchiavano e uscivano di strada.
In paese, dove l'avevano già dato per morto, Martino Testadura fu accolto con grande sorpresa. Il cane scaricò in piazza tutti i suoi tesori, dimenò due volte la coda in segno di saluto, rimontò a cassetta e via, in una nuvola di polvere. Martino fece grandi regali a tutti, amici e nemici, e dovette raccontare cento volte la sua avventura, e ogni volta che finiva qualcuno correva a casa a prendere carretto e cavallo e si precipitava giù per la strada che non andava in nessun posto.
Ma quella sera stessa tornarono uno dopo l'altro, con la faccia lunga così per il dispetto: la strada, per loro, finiva in mezzo al bosco, contro un fitto muro d'alberi, in un mare di spine. Non c'era più né cancello, né castello, né bella signora. Perché certi tesori esistono soltanto per chi batte per primo una strada nuova, e il primo era stato Martino Testadura.
Lo spaventapasseri
Gonario era l'ultimo di sette fratelli. I suoi genitori non avevano soldi per mandarlo a scuola, perciò lo mandarono a lavorare in una grande fattoria agricola. Gonario doveva fare lo spaventapasseri, per tener lontani gli uccelli dai campi. Ogni mattina gli davano un cartoccio di polvere da sparo e Gonario, per ore ed ore, faceva su e giù per i campi, e di tratto in tratto si fermava e dava fuoco a un pizzico di polvere. L'esplosio-ne spaventava gli uccelli che fuggivano, temendo i cacciatori.
Una volta il fuoco si appiccò alla giacca di Gonario, e se il bambino non fosse stato svelto a tuffarsi in un fosso certamente sarebbe morto tra le fiamme. Il suo tuffo spaventò le rane, che fuggirono con clamore, e il loro clamore spaventò i grilli e le cicale, che smisero per un attimo di cantare.
Ma il più spaventato di tutti era lui, Gonario, e piangeva tutto solo in riva al fosso, bagnato come un brutto anatroccolo, piccolo, stracciato e affamato. Piangeva così disperatamente che i passeri si fermarono su un albero a guardarlo, e pigolavano di compassione per consolarlo. Ma i passeri non possono consolare uno spaventapasseri.
Questa storia è accaduta in Sardegna.
A giocare col bastone
Un giorno il piccolo Claudio giocava sotto il portone, e sulla strada passò un bel vecchio con gli occhiali d'oro, che camminava curvo, appoggiandosi a un bastone, e proprio davanti al portone il bastone gli cadde.
Claudio fu pronto a raccoglierlo e lo porse al vecchio, che sorrise e disse:
- Grazie, ma non mi serve. Posso camminare benissimo senza. Se ti piace, tienilo.
E senza aspettare risposta si allontanò, e pareva meno curvo di prima. Claudio rimase lì col bastone fra le mani e non sapeva che farne. Era un comune bastone di legno, col manico ricurvo e il puntale di ferro, e niente altro di speciale da notare.
Claudio picchiò due o tre volte il puntale per terra, poi, quasi senza pensarci, inforcò il bastone ed ecco che non era più un bastone, ma un cavallo, un meraviglioso puledro nero con una stella bianca in fronte, che si slanciò al galoppo intorno al cortile, nitrendo e facendo sprizzare scintille dai ciottoli.
Quando Claudio, meravigliato e un po' spaventato, riuscì a rimettere il piede a terra, il bastone era di nuovo un bastone, e non aveva zoccoli ma un semplice puntale arrugginito, né criniera, ma il solito manico ricurvo.
- Voglio riprovare, - decise Claudio, quando ebbe ripreso fiato.
Inforcò di nuovo il bastone, e stavolta esso non fu un cavallo, ma un solenne cammello a due gobbe, e il cortile era un immenso deserto da attraversare, ma Claudio non aveva paura e scrutava in lontananza, per veder comparire l'oasi.
«È certamente un bastone fatato», si disse Claudio, inforcandolo per la terza volta. Adesso era un'automobile da corsa, tutta rossa, col numero scritto in bianco sul cofano, e il cortile una pista rombante, e Claudio arrivava sempre primo al traguardo.
Poi il bastone fu un motoscafo, e il cortile un lago dalle acque calme e verdi, e poi un'astronave che fendeva lo spazio, lasciandosi dietro una scia di stelle.
Ogni volta che Claudio rimetteva il piede a terra il bastone riprendeva il suo pacifico aspetto, il manico lucido, il vecchio puntale.
Il pomeriggio passò veloce tra quei giochi. Verso sera Claudio si riaffacciò per caso sulla strada, ed ecco di ritorno il vecchio dagli occhiali d'oro. Claudio lo osservò con curiosità, ma non poté vedere in lui niente di speciale: era un vecchio signore qualunque, un po' affaticato dalla passeggiata.
- Ti piace il bastone? - egli domandò sorridendo a Claudio.
Claudio credette che lo rivolesse indietro, e glielo tese, arrossendo.
Ma il vecchio fece cenno di no.
- Tienilo, tienilo, - disse. - Che cosa me ne faccio, ormai, di un bastone? Tu ci puoi volare, io potrei soltanto appoggiarmi. Mi appoggerò al muro e sarà lo stesso.
E se ne andò sorridendo, perché non c'è persona più felice al mondo del vecchio che può regalare qualcosa ad un bambino.
Vecchi proverbi
- Di notte, - sentenziava un Vecchio Proverbio, - tutti i gatti sono bigi.
- E io son nero, - disse un gatto nero attraversando la strada.
- E impossibile: i Vecchi Proverbi hanno sempre ragione.
- Ma io sono nero lo stesso, - ripeté il gatto.
Per la sorpresa e per l'amarezza il Vecchio Proverbio cadde dal tetto e si ruppe una gamba.
Un altro Vecchio Proverbio andò a vedere una partita di calcio, prese da parte un giocatore e gli sussurrò nell'orecchio: - Chi fa da sé fa per tre!