51978.fb2 Favole al telefono - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 17

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Però abitava anche a Nuova York, si chiamava Jimmy e suo padre aveva un distributore di benzina.

Quanti ne ho detti? Cinque. Ne mancano due: uno si chiamava Ciú, viveva a Shanghai e suo padre era un pescatore; l'ultimo si chiamava Pablo, viveva a Buenos Aires e suo padre faceva l'imbianchino.

Paolo, Jean, Kurt, Juri, Jimmy, Ciú e Pablo erano sette, ma erano sempre lo stesso bambino che aveva otto anni, sapeva già leggere e scrivere e andava in bicicletta senza appoggiare le mani sul manubrio.

Paolo era bruno, Jean biondo, e Kurt castano, ma erano lo stesso bambino. Juri aveva la pelle bianca, Ciú la pelle gialla, ma erano lo stesso bambino. Pablo andava al cinema in spagnuolo e Jimmy in inglese, ma erano lo stesso bambino, e ridevano nella stessa lingua.

Ora sono cresciuti tutti e sette, e non potranno più farsi la guerra, perché tutti e sette sono un solo uomo.

L'uomo che rubava il Colosseo

Una volta un uomo si mise in testa di rubare il Colosseo di Roma, voleva averlo tutto per sé perché non gli piaceva doverlo dividere con gli altri. Prese una borsa, andò al Colosseo, aspettò che il custode guardasse da un'altra parte, riempì affannosamente la borsa di vecchie pietre e se le portò a casa. Il giorno dopo fece lo stesso, e tutte le mattine tranne la domenica faceva almeno un paio di viaggi o anche tre, stando sempre bene attento che le guardie non lo scoprissero. La domenica riposava e contava le pietre rubate, che si andavano ammucchiando in cantina.

Quando la cantina fu piena cominciò a riempire il solaio, e quando il solaio fu pieno nascondeva le pietre sotto i divani, dentro gli armadi e nella cesta della biancheria sporca. Ogni volta che tornava al Colosseo lo osservava ben bene da tutte le parti e concludeva fra sé: «Pare lo stesso, ma una certa differenza si nota. In quel punto là è già un po' più piccolo». E asciugandosi il sudore grattava un pezzo di mattone da una gradinata, staccava una pietruzza dagli archi e riempiva la borsa. Passavano e ripassavano accanto a lui turisti in estasi, con la bocca aperta per la meraviglia, e lui ridacchiava di gusto, anche se di nascosto: - Ah, come spalancherete gli occhi il giorno che non vedrete più il Colosseo.

Se andava dal tabaccaio, le cartoline a colori con la veduta del grandioso anfiteatro gli mettevano allegria, doveva fingere di soffiarsi il naso nel fazzoletto per non farsi vedere a ridere: - Ih! Ih! Le cartoline illustrate. Tra poco, se vorrete vedere il Colosseo, dovrete proprio accontentarvi delle cartoline.

Passarono i mesi e gli anni. Le pietre rubate si ammassavano ormai sotto il letto, riempivano la cucina lasciando solo uno stretto passaggio tra il fornello a gas e il lavandino, colmavano la vasca da bagno, avevano trasformato il corridoio in una trincea. Ma il Colosseo era sempre al suo posto, non gli mancava un arco: non sarebbe stato più intero di così se una zanzara avesse lavorato a demolirlo con le sue zampette. Il povero ladro, invecchiando, fu preso dalla disperazione. Pensava: «Che io abbia sbagliato i miei calcoli? Forse avrei fatto meglio a rubare la cupola di San Pietro? Su, su, coraggio: quando si prende una decisione bisogna saper andare fino in fondo».

Ogni viaggio, ormai, gli costava sempre più fatica e dolore. La borsa gli rompeva le braccia e gli faceva sanguinare le mani. Quando sentì che stava per morire si trascinò un'ultima volta fino al Colosseo e si arrampicò penosamente di gradinata in gradinata fin sul più alto terrazzo. Il sole al tramonto colorava d'oro, di porpora e di viola le antiche rovine, ma il povero vecchio non poteva veder nulla, perché le lacrime e la stanchezza gli velavano gli occhi. Aveva sperato di rimaner solo, ma già dei turisti si affollavano sul terrazzino, gridando in lingue diverse la loro meraviglia. Ed ecco, tra tante voci, il vecchio ladro distinse quella argentina di un bimbo che gridava: - Mio! Mio!

Come stonava, com'era brutta quella parola lassù, davanti a tanta bellezza. Il vecchio, adesso, lo capiva, e avrebbe voluto dirlo al bambino, avrebbe voluto insegnargli a dire «nostro», invece che «mio», ma gli mancarono le forze.

Ascensore per le stelle

A tredici anni Romoletto venne assunto come aiuto garzone al bar Italia. Gli affidarono i servizi a domicilio, e tutto il giorno egli correva su e giù per strade e per scale, reggendo in equilibrio vassoi pericolosamente carichi di chicchere, tazze e bicchieri. Più che altro gli davano fastidio le scale: a Roma, come del resto in altri posti del mondo, le portinaie sono gelose dei loro ascensori e ne vietano l'accesso, di persona o con cartelli, a baristi, lattai, fruttaroli e simili.

Una mattina telefonò al bar l'interno quattordici del numero centotre, voleva quattro birre e un tè ghiacciato, «ma subito, o li butto dalla finestra», aggiunse una voce burbera, ed era quella del vecchio marchese Venanzio, terrore dei fornitori.

L'ascensore del numero centotre era di quelli proibitissimi, ma Romoletto sapeva come ingannare la sorveglianza della portinaia, che sonnecchiava nella guardiola: sgattaiolò non visto nella cabina, infilò le cinque lire nell'apparecchio a scatto, schiacciò il bottone del quinto piano e l'ascensore partì cigolando. Ecco il primo piano, il secondo, il terzo. Dopo il quarto piano, invece di rallentare, l'ascensore accelerò la corsa, schizzò davanti al pianerottolo del marchese Venanzio senza fermarsi, e prima che Romoletto avesse il tempo di meravigliarsi tutta Roma giaceva ai suoi piedi e l'ascensore saliva alla velocità di un razzo verso un cielo tanto azzurro da sembrar nero.

- Ti saluto, marchese Venanzio, - mormorò Romoletto con un brivido. Con la mano sinistra egli reggeva sempre in equilibrio il vassoio con le consumazioni, e la cosa era piuttosto da ridere, considerando che intorno all'ascensore si allargava ormai ai quattro venti lo spazio interplanetario, e la terra, laggiù laggiù, in fondo all'abisso celeste, ruotava su se stessa trascinando nella sua corsa il marchese Venanzio che aspettava le quattro birre e il tè ghiacciato.

«Almeno non arriverò tra i marziani a mani vuote», pensò Romoletto, chiudendo gli occhi. Quando li riaperse, l'ascensore aveva ricominciato a scendere, e Romoletto tirò un respiro di sollievo:

- Dopo tutto, il tè arriverà ghiacciato ugualmente. Purtroppo l'ascensore toccò terra nel cuore di una selvaggia foresta tropicale e Romoletto, guardando attraverso i vetri, si vide circondato da strane scimmie barbute che se lo indicavano eccitate, chiacchierando con straordinaria rapidità in una lingua incomprensibile. «Forse siamo cascati in Africa», rifletté Romoletto. Ma ecco che il cerchio delle scimmie si apriva per lasciar passare un personaggio inatteso: uno scimmione in divisa blu, montato su un enorme triciclo.

- Una guardia! Forza, Romoletto!

E senza contare né uno né due il giovane aiuto garzone del bar Italia schiacciò un bottone dell'ascensore, il primo che gli capitò sotto le dita. L'ascensore ripartì a velocità supersonica, e solo quando fu a una certa distanza Romoletto, guardando in basso, si rese conto che il pianeta dal quale stava fuggendo non poteva essere la Terra: i suoi continenti e i suoi mari avevano un disegno del tutto diverso, e mentre dallo spazio la Terra gli era apparsa di un bell'azzurro tenero, i colori di questo globo variavano dal verde al viola.

- Sarà stato Venere, - decise Romoletto, - ma al marchese Venanzio cosa dirò?

Toccò con le nocche delle dita i bicchieri sul vassoio: erano gelati come quando era uscito dal bar. Tutto sommato, non dovevano essere trascorsi che pochi minuti.

L'ascensore, dopo aver attraversato a velocità incredibile un enorme spazio deserto, riprese a scendere. Romoletto, stavolta, non poteva aver dubbi:

- Accipicchia! - esclamò, - stiamo atterrando sulla Luna. Che ci faccio io qui?

I famosi crateri lunari si avvicinavano rapidamente. Romoletto corse con le dita della mano libera dal vassoio alla bottoniera dell'ascensore, ma:

- Alt! - si ordinò, prima di schiacciare un bottone qualsiasi, - riflettiamo un momentino.

Esaminò la fila dei bottoni. L'ultimo in basso recava in rosso la lettera «T», che vuol dire terra.

- Proviamo! - sospirò Romoletto.

Schiacciò il bottone del pianterreno e l'ascensore invertì immediatamente la rotta. Pochi minuti dopo riattraversava il cielo di Roma, il tetto del numero centotre, la tromba delle scale, e atterrava accanto alla nota portineria, dove la portinaia, ignara di quel dramma interplanetario, continuava a sonnecchiare.

Romoletto si precipitò fuori, senza nemmeno voltarsi a richiudere la porta. Stavolta le scale le fece a piedi. Bussò all'interno quattordici e ascoltò a testa bassa, senza fiatare, le proteste del marchese Venanzio:

- Be', ma dove sei stato tutto questo tempo? Ma ce lo sai che da quando vi ho ordinato queste maledette birre e questo stramaledetto tè ghiacciato sono passati ben

quattordici minuti? Al posto tuo Gagarin sarebbe già arrivato sulla Luna.

«Anche più in là», pensò Romoletto, ma non aprì bocca. E per fortuna le bevande erano ancora ghiacciate a puntino.

Eh, ne deve fare di corse, in un giorno, l'aiuto garzone del bar Italia addetto ai servizi a domicilio...

Il filobus numero 75

Una mattina il filobus numero 75, in partenza da Monteverde Vecchio per Piazza Fiume, invece di scendere verso Trastevere, prese per il Gianicolo, svoltò giù per l'Aurelia Antica e dopo pochi minuti correva tra i prati fuori Roma come una lepre in vacanza.

I viaggiatori, a quell'ora, erano quasi tutti impiegati, e leggevano il giornale, anche quelli che non lo avevano comperato, perché lo leggevano sulla spalla del vicino. Un signore, nel voltar pagina, alzò gli occhi un momento, guardò fuori e si mise a gridare:

- Fattorino, che succede? Tradimento, tradimento! Anche gli altri viaggiatori alzarono gli occhi dal giornale, e le proteste diventarono un coro tempestoso: - Ma di qui si va a Civitavecchia!

- Che fa il conducente? - È impazzito, legatelo! - Che razza di servizio!

- Sono le nove meno dieci e alle nove in punto debbo essere in Tribunale, - gridò un avvocato, - se perdo il processo faccio causa all'azienda.

Il fattorino e il conducente tentavano di respingere l'assalto, dichiarando che non ne sapevano nulla, che il filobus non ubbidiva più ai comandi e faceva di testa sua. Difatti in quel momento il filobus uscì addirittura

di strada e andò a fermarsi sulle soglie di un boschetto fresco e profumato.

- Uh, i ciclamini, - esclamò una signora, tutta giuliva.

- È proprio il momento di pensare ai ciclamini, - ribatté l'avvocato.

- Non importa, - dichiarò la signora, - arriverò tardi al ministero, avrò una lavata di capo, ma tanto è lo stesso, e giacché ci sono mi voglio cavare la voglia dei ciclamini. Saranno dieci anni che non ne colgo.

Scese dal filobus, respirando a bocca spalancata l'aria di quello strano mattino, e si mise a fare un mazzetto di ciclamini.

Visto che il filobus non voleva saperne di ripartire, uno dopo l'altro i viaggiatori scesero a sgranchirsi le gambe o a fumare una sigaretta e intanto il loro malumore scompariva come la nebbia al sole. Uno coglieva una margherita e se la infilava all'occhiello, l'altro scopriva una fragola acerba e gridava:

- L'ho trovata io. Ora ci metto il mio biglietto, e quando è matura la vengo a cogliere, e guai se non la trovo.

Difatti levò dal portafogli un biglietto da visita, lo infilò in uno stecchino e piantò lo stecchino accanto alla fragola. Sul biglietto c'era scritto: «Dottor Giulio Bollati».