51978.fb2 Favole al telefono - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 18

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Due impiegati del ministero dell'Istruzione appallottolarono i loro giornali e cominciarono una partita di calcio. E ogni volta che davano un calcio alla palla gridavano: - Al diavolo!

Insomma, non parevano più gli stessi impiegati che un momento prima volevano linciare i tranvieri. Questi, poi, si erano divisi una pagnottella col ripieno di frittata e facevano un picnic sull'erba.

- Attenzione! - gridò ad un tratto l'avvocato.

Il filobus, con uno scossone, stava ripartendo tutto solo, al piccolo trotto. Fecero appena in tempo a saltar su, e l'ultima fu la signora dei ciclamini che protestava: - Eh, ma allora non vale. Avevo appena cominciato a divertirmi.

- Che ora abbiamo fatto? - domandò qualcuno. - Uh, chissà che tardi.

E tutti si guardarono il polso. Sorpresa: gli orologi segnavano ancora le nove meno dieci. Si vede che per tutto il tempo della piccola scampagnata le lancette non avevano camminato. Era stato tempo regalato, un piccolo extra, come quando si compra una scatola di sapone in polvere e dentro c'è un giocattolo.

- Ma non può essere! - si meravigliava la signora dei ciclamini, mentre il filobus rientrava nel suo percorso e si gettava giù per via Dandolo.

Si meravigliavano tutti. E sì che avevano il giornale sotto gli occhi, e in cima al giornale la data era scritta ben chiara: 21 marzo. Il primo giorno di primavera tutto è possibile.

Il paese dei cani

C'era una volta uno strano piccolo paese. Era composto in tutto di novantanove casette, e ogni casetta aveva un giardinetto con un cancelletto, e dietro il cancelletto un cane che abbaiava.

Facciamo un esempio. Fido era il cane della casetta numero uno e ne proteggeva gelosamente gli abitanti, e per farlo a dovere abbaiava con impegno ogni volta che vedeva passare qualcuno degli abitanti delle altre novantotto casette, uomo, donna o bambino. Lo stesso facevano gli altri novantotto cani, e avevano un gran da fare ad abbaiare di giorno e di notte, perché c'era sempre qualcuno per la strada.

Facciamo un altro esempio. Il signore che abitava nella casetta numero 99, rientrando dal lavoro, doveva passare davanti a novantotto casette, dunque a novantotto cani che gli abbaiavano dietro mostrandogli le fauci e facendogli capire che avrebbero volentieri affondato le zanne nel fondo dei suoi pantaloni. Lo stesso capitava agli abitanti delle altre casette, e per la strada c'era sempre qualcuno spaventato.

Figurarsi se capitava un forestiero. Allora i novantanove cani abbaiavano tutti insieme, le novantanove massaie uscivano a vedere che succedeva, poi rientravano precipitosamente in casa, sprangavano la porta abbassavano in fretta gli avvolgibili e stavano zitte zitte dietro le finestre a spiare fin che il forestiero non era passato.

A forza di sentir abbaiare i cani gli abitanti di quel paese erano diventati tutti un po' sordi, e tra loro parlavano pochissimo. Del resto non avevano mai avuto grandi cose da dire e da ascoltare.

Pian piano, a starsene sempre zitti e immusoniti, disimpararono anche a parlare. E alla fine capitò che i padroni di casa si misero ad abbaiare come i loro cani. Loro forse credevano di parlare, ma quando aprivano bocca si udiva una specie di «bau bau» che faceva venire la pelle d'oca. E così, abbaiavano i cani, abbaiavano gli uomini e le donne, abbaiavano i bambini mentre giocavano, le novantanove villette sembravano diventate novantanove canili.

Però erano graziose, avevano tendine pulite dietro i vetri e perfino gerani e piantine grasse sui balconi. Una volta capitò da quelle parti Giovannino Perdigiorno, durante uno dei suoi famosi viaggi. I novantanove cani lo accolsero con un concerto che avrebbe fatto diventare nervoso un paracarro. Domandò un'informazione a una donna ed essa gli rispose abbaiando. Fece un complimento a un bambino e ne ricevette in cambio un ululato.

- Ho capito, - concluse Giovannino, - è un'epidemia.

Si fece ricevere dal sindaco e gli disse: - Io un rimedio sicuro ce l'avrei. Primo, fate abbattere tutti i cancelletti, tanto i giardini cresceranno benissimo anche senza inferriate. Secondo, mandate i cani a caccia, si divertiranno di più e diventeranno più gentili. Terzo, fate una bella festa da ballo e dopo il primo valzer imparerete a parlare di nuovo.

Il sindaco gli rispose: - Bau! Bau!

- Ho capito, - disse Giovannino, - il peggior malato è quello che crede di essere sano.

E se ne andò per i fatti suoi.

Di notte, se sentite abbaiare molti cani insieme in lontananza, può darsi che siano dei cani cani, ma può anche darsi che siano gli abitanti di quello strano, piccolo paese.

La fuga di Pulcinella

Pulcinella era la marionetta più irrequieta di tutto il vecchio teatrino. Aveva sempre da protestare, o perché all'ora della recita avrebbe preferito andare a spasso, o perché il burattinaio gli assegnava una parte buffa, mentre lui avrebbe preferito una parte drammatica.

- Un giorno o l'altro, - egli confidava ad Arlecchino, - taglio la corda.

E così fece, ma non fu di giorno. Una notte egli riuscì a impadronirsi di un paio di forbici dimenticate dal burattinaio, tagliò uno dopo l'altro i fili che gli legavano la testa, le mani e i piedi, e propose ad Arlecchino:

- Vieni con me.

Arlecchino non voleva saperne di separarsi da Colombina, ma Pulcinella non aveva intenzione di portarsi dietro anche quella smorfiosa, che in teatro gli aveva giocato centomila tiri.

- Andrò da solo, - decise. Si gettò coraggiosamente a terra e via, gambe in spalla.

«Che bellezza, - pensava correndo, - non sentirsi più tirare da tutte le parti da quei maledetti fili. Che bellezza mettere il piede proprio nel punto dove si vuole».

Il mondo, per una marionetta solitaria, è grande e terribile, e abitato, specialmente di notte, da gatti feroci, pronti a scambiare qualsiasi cosa che fugge per un topo cui dare la caccia. Pulcinella riuscì a convincere i gatti che avevano a che fare con un vero artista, ma ad ogni buon conto si rifugiò in un giardino, si acquattò contro un muricciolo e si addormentò.

Allo spuntare del sole si destò e aveva fame. Ma intorno a lui, a perdita d'occhio, non c'erano che garofani, tulipani, zinnie e ortensie.

- Pazienza, - si disse Pulcinella e colto un garofano cominciò a mordicchiarne i petali con una certa diffidenza. Non era come mangiare una bistecca ai ferri o un filetto di pesce persico: i fiori hanno molto profumo e poco sapore. Ma a Pulcinella quello parve il sapore della libertà, e al secondo boccone era sicuro di non aver mai gustato cibo più delizioso. Decise di rimanere per sempre in quel giardino, e così fece. Dormiva al riparo di una grande magnolia le cui dure foglie non temevano pioggia né grandine e si nutriva di fiori: oggi un garofano, domani una rosa. Pulcinella sognava montagne di spaghetti e pianure di mozzarella, ma non si arrendeva. Era diventato secco secco, ma così profumato che qualche volta le api si posavano su di lui per suggere il nettare, e si allontanavano deluse solo dopo aver tentato invano di affondare il pungiglione nella sua testa di legno.

Venne l'inverno, il giardino sfiorito aspettava la prima neve e la povera marionetta non aveva più nulla da mangiare. Non dite che avrebbe potuto riprendere il viaggio: le sue povere gambe di legno non lo avrebbero portato lontano.

«Pazienza, - si disse Pulcinella, - morirò qui. Non è un brutto posto per morire. Inoltre, morirò libero: nessuno potrà più legare un filo alla mia testa, per farmi dire di sì o di no».

La prima neve lo seppellì sotto una morbida coperta bianca.

In primavera, proprio in quel punto, crebbe un garofano. Sottoterra, calmo e felice, Pulcinella pensava: «Ecco, sulla mia testa è cresciuto un fiore. C'è qualcuno più felice di me?»

Ma non era morto, perché le marionette di legno non possono morire. È ancora là sotto e nessuna lo sa. Se sarete voi a trovarlo, non attaccategli un filo in testa: ai re e alle regine del teatrino quel filo non dà fastidio, ma lui non lo può proprio soffrire.

Il muratore della Valtellina

Un giovane della Valtellina, non trovando lavoro in patria, emigrò in Germania, e proprio a Berlino trovò un posto in un cantiere come muratore. Mario - così si chiamava il giovane - ne fu molto contento: lavorava sodo, mangiava poco, e quel che guadagnava lo metteva da parte per sposarsi.

Un giorno però, mentre si stavano gettando le fondamenta di un palazzo nuovo, un ponte crollò, Mario cadde nella gettata di cemento armato, morì, e non fu possibile recuperare il suo corpo.

Mario era morto, ma non sentiva alcun dolore. Era chiuso in uno dei pilastri della casa in costruzione, e ci stava un po' stretto, ma a parte questo pensava e sentiva come prima. Quando si fu abituato alla sua nuova situazione, poté perfino aprire gli occhi e guardare la casa che cresceva intorno a lui. Era proprio come se fosse lui a reggere il peso del nuovo edificio, e questo compensava la tristezza di non poter più dare notizie di sé a casa, alla povera fidanzata.

Nascosto nel muro, nel cuore del muro, nessuno poteva vederlo o almeno sospettare che fosse lì, ma questo a Mario non importava.

La casa crebbe fino al tetto, furono collocate al loro posto porte e finestre, gli appartamenti vennero venduti e comperati, e popolati di mobili, e da ultimo ci vennero ad abitare numerose famiglie. Mario le conobbe tutte, dai grandi ai piccini. Quando i bambini zampettavano sul pavimento, studiando i loro primi passi, gli facevano il solletico alla mano. Quando le ragazze uscivano sui balconi o si affacciavano alle finestre per veder passare i loro innamorati, Mario sentiva contro la propria guancia il morbido fruscio dei loro capelli biondi. Di sera udiva i discorsi delle famiglie radunate intorno alla tavola, di notte i colpi di tosse degli ammalati, prima dell'alba il trillo della sveglia di un fornaio che era il primo ad alzarsi. La vita della casa era la vita di Mario, le gioie della casa, piano per piano, e i suoi dolori, stanza per stanza, erano le sue gioie e i suoi dolori.

Ed ecco che un giorno scoppiò la guerra. Cominciarono i bombardamenti su tutta la città e Mario sentì che anche per lui si avvicinava la fine. Una bomba colpì la casa e la fece crollare al suolo. Non rimase che un mucchio informe di macerie, di mobili infranti, di suppellettili schiacciate sotto cui dormivano per sempre donne e bambini sorpresi nel sonno.

Fu soltanto allora che Mario morì davvero, perché era morta la casa nata dal suo sacrificio.

La coperta del soldato

Il soldato Vincenzo Di Giacomo, alla fine di tutte le guerre, tornò a casa con una divisa lacera, una gran tosse e una coperta militare. La tosse e la coperta rappresentavano tutto il suo guadagno per quei lunghi anni di guerra.

- Ora mi riposerò, - disse ai suoi familiari. Ma la tosse non gli diede riposo, e in pochi mesi lo portò alla tomba. Alla moglie ed ai figli rimase solo la coperta per ricordo. I figli erano tre, e il più piccolo, nato tra una guerra e l'altra, aveva cinque anni. La coperta del soldato toccò a lui. Quando vi si avvolgeva per dormire, la mamma gli narrava una lunga favola, e nella favola c'era una fata che tesseva una coperta grande abbastanza da coprire tutti i bambini del mondo che avevano freddo. Ma c'era sempre qualche bambino che restava fuori, e piangeva, e chiedeva invano un angolo di coperta per scaldarsi. Allora la fata doveva disfare tutta la coperta e ricominciare da capo a tesserla, per farla un po' più grande, perché doveva essere una coperta di un solo pezzo, tessuta tutta in una volta, e non si potevano fare aggiunte. La buona fata lavorava giorno e notte a fare e disfare, e non si stancava mai, e il piccolo si addormentava sempre prima che la favola fosse finita, e non seppe mai come andava a finire.

Il piccolo si chiamava Gennaro, e quella famigliola abitava dalle parti di Cassino. L'inverno fu molto rigido, da mangiare non ce n'era, la madre di Gennaro si ammalò. Gennaro venne affidato a certi vicini, che erano girovaghi, e avevano un carrozzone, e viaggiavano per i paesi un po' chiedendo l'elemosina, un po' suonando la fisarmonica, un po' vendendo ceste di vimini che fabbricavano nelle soste lungo la strada. A Gennaro diedero una gabbia con un pappagallo che, col becco, toglieva da una cassettina un biglietto con i numeri da giocare al lotto. Gennaro doveva mostrare il pappagallo alla gente, e se gli davano qualche moneta faceva pescare un bigliettino al pappagallo. Le giornate erano lunghe e noiose, spesso si capitava in paesi dove la gente era povera e non aveva niente da dare in elemosina, e allora a Gennaro toccava una fetta di pane più sottile, e una scodella di minestra più vuota. Ma quando la notte calava Gennaro si avvolgeva nella coperta del babbo soldato, che era tutta la sua ricchezza, e nel suo odoroso tepore si addormentava sognando un pappagallo che gli raccontava una favola.