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Spìcciola trotterellava col muso basso davanti alla locomotiva. La neve continuava a cadere e copriva il selciato della via con una spessa coltre bianca. Diventava sempre più difficile, per Spìcciola, fiutare la pista delle scarpe rotte di Francesco. Spesso il cane si arrestava, si guardava attorno incerto, tornava sui suoi passi, prendeva un'altra direzione.
— Forse qui Francesco si è fermato a giocare, — mormorava affannosamente, — per questo la pista è così intricata.
Il Macchinista, aguzzando gli occhi, seguiva Spìcciola a lenta andatura. Sul treno, tutti cominciavano ad avere freddo.
— Bisogna andare più in fretta — brontolava Mezzabarba. — Di questo passo temo che arriveremo l'anno venturo, o piuttosto che saremo schiacciati dal primo tram.
Talvolta anche il Capostazione gridava a Spìcciola di far presto. Ma che cosa poteva fare di più il povero cucciolo? Tra l'altro, anche lui cominciava ad aver freddo. La neve gli gelava il naso, e non aveva nemmeno il tempo di stropicciarselo con le zampe.
La pista obbligava la carovana a marciare a zig zag, a salire sui marciapiedi, a scenderne, a fare il giro della piazza, ad attraversare tre o quattro volte una strada nello stesso punto.
— Che maniera è d'andare attorno per le strade? — borbottava il Capostazione. — Ma già. insegnate ai bambini che la linea retta è la più breve fra due punti e loro subito, per applicare i vostri insegnamenti, faranno un girotondo. Guardate questo Francesco: nello spazio di dieci metri ha attraversato dieci volte la strada. Mi meraviglio come non sia andato a finire sotto una macchina.
Spìcciola, instancabile, cercava col naso nella neve l'odore dell'amico e intanto parlava con Francesco, come se lui potesse sentire:
— Stiamo venendo, sai? stiamo arrivando tutti quanti. Sarà una bella sorpresa per te. Un treno carico di giocattoli, una carovana intera. Aspettaci e vedrai.
Ed era tanto occupato a parlare con Francesco, che percorse una buona decina di passi prima di accorgersi di aver perduto la pista.
Tornò indietro di corsa, mentre il Macchinista frenava per la centesima volta.
Cercò disperatamente, ma non gli riusciva di riprendere il filo dell'odore. Esso terminava lì, in mezzo a quella strada stretta e poco illuminata, sotto la neve. Proprio in mezzo alla strada, e non davanti ad un portone, o sul marciapiedi.
— È incredibile, — pensò Spìcciola — non può mica essersi sollevato in volo.
— Che cosa succede laggiù? — gridò il Generale, che odorava dappertutto nemici.
— Spìcciola non trova più la pista di Francesco — informò il Macchinista con calma.
Fu un coro generale di protesta. Le bambole già si vedevano condannate a morire sepolte dalla neve in mezzo alla strada.
— Corpo di mille balene gelate! — esclamò Mezzabarba. — Questa non ci voleva.
— L'avranno rapito — esclamò il Generale, eccitatissimo.
— Rapito chi?
— Il bambino, perbacco. Il nostro Francesco. La sua pista arriva in mezzo alla strada e non continua. Che cosa significa? Che il
bambino è stato sollevato di peso, gettato in una macchina e portato chissà dove a grande velocità.
— Che cosa facciamo? — domandò il Capotreno, che diventava nervoso.
Il Pilota Seduto si offrì di andare in esplorazione, e poiché nessuno aveva un'idea migliore da suggerire la proposta fu accettata. L'apparecchio prese quota e disparve ben presto: lo si rivide un attimo nel cerchio giallastro di un lampione, poi anche il rumore si affievolì e tacque.
— Nessuno mi leva dalla testa che il bambino sia stato rapito — continuava a sostenere il Generale. — Il che vuol dire che un pericolo gravissimo minaccia noi pure. A me, miei soldati: scaricate subito i cannoni e disponeteli in coda al treno, pronti a far fuoco.
Gli artiglieri brontolavano:
— Che gli pigli un raffreddore di testa! — dicevano. — Caricare e scaricare, è tutta la notte che non si fa altro. E intanto le micce ora sono bagnate e non piglierebbero fuoco nemmeno a metterle nel Vesuvio.
— Silenzio! Ubbidite e tacete — ordinò severamente il Generale.
I bersaglieri, immobili sul tetto delle vetture, guardavano i loro fratelli sudare sotto il peso dei cannoni.
— Beati loro che sudano — pensavano. — A noi la neve arriva già al ginocchio. Tra poco saremo diventati tante statue di neve.
Quelli della fanfara, poi. erano disperati, perché la neve otturava le trombe.
Allora sì che accadde una cosa strana. Il primo cannone venne calato dal carro merci… e subito disparve sotto la neve! Il secondo sprofondò come se l'avessero tuffato in un lago. II terzo fu inghiottito dalla terra e non lasciò che un buco nella neve al suo posto. A farla breve, appena posati a terra, i cannoni scomparivano senza lasciar traccia.
— Che cosa… Ma… Acci… Oh, insomma… — Il Generale non riusciva a parlare per la sorpresa e l'indignazione. Si buttò in ginocchio nella neve e cominciò a scavare con le mani. Così il mistero fu subito chiarito. Del resto non si trattava di un mistero, ma di un tombino. I cannoni, disgraziatamente, erano scivolati tra le sbarre ed erano precipitati nel canale della fogna.
Il Generale rimase lì in ginocchio come se fosse stato colpito dal fulmine. Poi si scosse, si strappò il berretto, si strappò i capelli e probabilmente si sarebbe strappato anche la pelle dal capo se non avesse sentito che i suoi artiglieri ridevano come matti.
— Disgraziati! Le migliori batterie, anzi le uniche batterie del nostro esercito finiscono in un tranello del nemico e voi scoppiate a ridere. Non vi rendete conto che siamo ormai disarmati? Vi sembra una cosa tanto divertente? Sciagurati! Tutti agli arresti! Appena di ritorno in caserma sarete processati per alto tradimento.
Gli artiglieri misero subito su la faccia più seria che si trovavano sottomano, ma le risate scoppiavano loro in gola e li facevano sussultare.
— Menomale! — pensavano. — Abbiamo finito ormai di caricare e scaricare. Noi stiamo bene anche senza cannoni, anzi, stiamo meglio perché siamo più leggeri.
Il Generale in due minuti sembrava invecchiato di vent'anni. I capelli gli erano diventati tutti bianchi, anche perché aveva buttato il berretto e la neve gli si posava liberamente sulla testa.
— È finita — egli singhiozzò amaramente. — È finita, per me non c'è più nulla da fare.
Proprio come uno che sta mangiando una bella pasta dolce e ad un tratto, chissà per quale magia, tutto lo zucchero scompare, e lui si accorge che sta masticando una specie di cartone senza nessun gusto. Senza i cannoni, la vita del Generale non aveva più alcun sapore, come la minestra senza sale.
E non si alzava. Macché, restava lì in ginocchio, sordo a tutte le preghiere, senza scuotersi la neve di dosso.
— Signor Generale, la neve vi sta ricoprendo — gli dicevano ora premurosamente gli artiglieri, e facevano l'atto di ripulirgli le spalle.
— Lasciatemi, lasciatemi stare.
— La neve vi seppellirà completamente. Già non vi si vedono più le gambe.
— Non me ne importa.
— Signor Generale, la neve vi arriva alla pancia.
— Non sento freddo. Ho il cuore più freddo della neve.
— Signor Generale, la neve vi arriva fino al collo.
Il Generale non rispose. Per giunta, gli cadeva addosso anche la neve che gli altri si scrollavano dalle spalle per non soffocare. Così, in un batter d'occhio, il Generale fu interamente ricoperto. Si vedevano ancora un poco i suoi baffetti, è vero. Ma si videro per poco. Infine, al posto del signor Generale, si vide una statuina di neve.
Tutti erano commossi e rattristati. E non si accorgevano che un pericolo gravissimo minacciava la carovana della Freccia Azzurra. Stavolta si trattava nientemeno che di un gatto. Un gatto vero, non un gatto-giocattolo. Un gatto grosso quanto cinque ò sei carrozze della Freccia Azzurra.
Mentre tutti stavano voltati dalla parte del Generale e assistevano al suo sacrificio, la terribile fiera si era avvicinata furtivamente nella neve, aveva scrutato la scena con i suoi occhi verdi, aveva scelto la sua preda.
Appesa a un finestrino della Freccia Azzurra dondolava tristemente la gabbietta col Canarino a molla. All'inizio del viaggio la gabbia era ospite di uno scompartimento di prima classe. Ad ogni scossa del treno la molla scattava e il Canarino trillava i suoi festosi cip cip.
— Carino — disse qualcuno, al primo trillo.
Al centesimo, il Canarino — era venuto a noia a tutti ed era stato sfrattato senza misericordia.
Appeso fuori, al freddo, alla neve, al buio, esso non cessava di cinguettare allegramente: non sapeva fare altro, del resto. Non ebbe nemmeno il buon senso di star zitto mentre il Generale si faceva seppellire dalla neve.
Fu allora che il gatto lo adocchiò e decise di farne un boccone.
— Mi basterà una zampata per aprire la gabbia — pensò.
E così fu.
— Mi basterà un'altra zampata per far tacere il Canarino — pensò il gatto. Ma così non fu. Il Canarino sentì gli artigli aguzzi che gli laceravano le ali, lanciò un disperato cip cip. poi qualcosa si spezzò, si udì uno scatto e l'aggressore fu colpito in pieno naso dalla molla.
Mezzo accecato dal dolore e spaventato dal colpo inatteso — chi si sarebbe aspettato una difesa tanto energica da parte di un canarino? — il gatto si allontanò miagolando lamentosamente. I cow-boys si provarono ad inseguirlo, ma i loro cavalli sprofondavano nella neve e dovettero abbandonare l'impresa.
No. quella volta il gatto aveva fatto i conti senza l'oste, anzi senza la molla. Ma intanto nella neve giaceva, orribilmente squar-
ciato, il povero Canarino. Di sotto le ali gli usciva il filo d'acciaio della molla. Il becco, spalancato, fisso in un'espressione di stupore.
Nello spazio di pochi minuti la carovana della Freccia Azzurra aveva perduto due dei suoi componenti. Un terzo, il Pilota Seduto, chissà dove stava aggirandosi, col suo apparecchio. Forse la tormenta lo aveva gettato contro un comignolo. Forse il peso della neve sulle ali lo aveva schiacciato contro terra. Chissà.
Il Canarino fu sepolto sotto un mucchio di neve con gli onori militari. Prima i bersaglieri scossero la neve dalle trombe e intonarono una marcia funebre. A dire la verità, la voce delle trombe era piuttosto raffreddata: la musica sembrava venire di lontano, da un'altra strada. Ma era sempre meglio che niente.
Poi il corpo del Canarino fu rimesso nella gabbia, e gli operai del Meccano gli gettarono addosso la neve con le pale.
Eppure la storia del Canarino non finisce qui. I suoi compagni della Freccia Azzurra non lo sanno, perché subito dopo avergli dato sepoltura ripresero la loro marcia nella notte. Ma se qualcuno fosse rimasto un poco da quelle parti a spiare avrebbe visto una guardia notturna scendere dalla bicicletta, perché la ruota aveva urtato contro qualcosa, e quel qualcosa era la gabbia del Canarino.
La guardia notturna la raccolse, l'appese al manubrio e lì, in mezzo alla strada, si provò a riparare la molla. Che cosa non sanno fare due mani abili? Dopo qualche minuto il cip cip del Canarino echeggiava di nuovo, un poco velato, non più così allegro e spensierato, forse, perché il Canarino l'aveva vista brutta. Ma era pur sempre un suono vivo.
— Piacerà al mio bambino — pensò la guardia notturna. — Gli dirò che me l'ha dato la Befana. Gli dirò che l'ho vista, perché io lavoro di notte: che gli manda tanti saluti e gli ordina di stare allegro.
Questo pensò la guardia notturna, mentre pedalava nella neve, e quando doveva svoltare, invece di schiacciare il campanello della sua bicicletta agitava la gabbia, e faceva risuonare i cip cip del Canarino. Un bel sistema anche questo.