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Francesco aveva dieci anni, faceva la quarta elementare e aiutava il padre a vendere i giornali. Il padre di Francesco, infatti, era uno «strillone»: di quelli che si mettono all'angolo di una piazza o a una fermata del tram, con un fascio di giornali sotto il braccio, e gridano le notizie più importanti, per invogliare la gente a comprare l'ultima edizione.
All'inizio di quell'inverno il babbo si ammalò. Il fascio dei giornali da vendere toccò tutto a Francesco. La legge non permette ai bambini di lavorare e gli «strilloni», assai gelosi del loro mestiere, sulle prime non videro di buon occhio il piccolo giornalaio. Ma ebbero pietà della famiglia del loro collega ammalato e dissero a Francesco: — Conserverai il posto a tuo padre, fin che guarirà.
Quando aveva terminato di vendere i giornali Francesco, prima di tornare a casa, correva a dare un'occhiata al trenino elettrico esposto nella vetrina della Befana. Avrebbe tanto desiderato di possederlo, ma doveva portare a casa tutti i suoi guadagni, fino all'ultimo centesimo.
La mattina, prima di andare a scuola, Francesco doveva preparare la colazione per i suoi due fratelli più piccoli, perché la mamma usciva assai presto, per andare a servizio in casa di certi signori.
Così, tra la scuola, i giornali e i fratellini, egli aveva ben poco tempo per pensare a giocare.
Verso Natale il babbo si aggravò, e pochi giorni prima dell'Epifania morì.
La famigliola dovette abbandonare l'alloggio, perché l'affitto, adesso, era diventato troppo caro. Francesco e la mamma caricarono le loro poche masserizie su un carrettino, ci misero sopra i due più piccoli, e s'avviarono verso la periferia, dove la città si perde nei campi. Là sorgevano certe baracche di legno e di lamiera, con le finestre senza vetri, tappate con vecchi giornali e brandelli di manifesti. In una di quelle baracche andarono ad abitare.
Il ragazzo aveva gettato via le sue vecchie scarpe rotte, dove l'acqua entrava da tutte le parti, come in una barca affondata, e si era messo le scarpe del babbo. Erano vecchie anche quelle, perché avevano fatto tutta la guerra. Non mancava qualche buco sotto la suola, ma la tomaia era sana. I piedi di Francesco ci ballavano fin troppo, ma almeno stavano all'asciutto. (E il cambio delle scarpe, probabilmente, spiega perché Spìcciola, quella famosa notte, non riuscì più a seguire la traccia di Francesco…)
Del resto, anche se per un miracolo Spìcciola fosse riuscito a raggiungere la nuova abitazione del suo amico, la brutta baracca di legno e di lamiera, quella notte non ci avrebbe trovato Francesco.
Dopo la morte del babbo, infatti, egli non aveva potuto proseguire la sua carriera di piccolo «strillone»: non aveva ancora l'età per ottenere una licenza per conto suo. Perciò si era cercato un altro lavoro e l'aveva trovato, in un piccolo cinematografo del centro. Con un berretto azzurro sul ciuffo e con una cassettina al collo, Francesco girava tra gli spettatori, negli intervalli tra un tempo e l'altro del film, a vendere caramelle e gomme da masticare. Il cinema chiudeva assai tardi, dopo la mezzanotte, ma Francesco doveva restarvi ancora un'oretta a scopare il pavimento, che sembrava un cimitero di mozziconi, cartacce e gusci di noccioline.
Il mattino, a scuola, Francesco appariva distratto e pieno di sonno.
Il maestro, che lo conosceva per un ragazzo intelligente e studioso, non si dava pace a vederlo mezzo addormentato, con la testa piegata sul libro di lettura.
— Francesco, — diceva qualche volta severamente — stamattina non ti sei lavato la faccia. Va' subito in gabinetto e cerca di svegliarti con un po' d'acqua fresca.
Francesco si alzava confuso, passava tra i banchi senza guardare i compagni che sghignazzavano alle sue spalle e faceva quel che il maestro gli aveva ordinato, senza protestare.
Sarebbe morto, piuttosto che raccontare i suoi guai. Aveva il suo orgoglio, Francesco. Così nessuno poteva sospettare che quel ragazzino gracile e pallido, con un eterno ciuffo spettinato tra gli occhi, mantenesse già la famiglia col suo lavoro.
La sera dell'Epifania, Francesco era andato, come il suo solito, al Cinema Speranza, si era messo in capo il berretto azzurro dell'uniforme e si era allacciata al collo la cassetta delle caramelle. Mancava ancora qualche minuto al primo intervallo, e Francesco, in piedi, con la schiena appoggiata alla parete, si godeva lo spettacolo.
Sullo schermo bianco passavano due automobili lanciate a folle velocità. Nella prima c'erano quattro banditi con le rivoltelle in pugno. Nella seconda i poliziotti che li rincorrevano. Francesco sperava ardentemente che i banditi fossero raggiunti. Gli pareva di esserci anche lui, sulla macchina della polizia, e gridava dentro di sé:
— Dài! Forza che li acchiappiamo! Forza! Prendi la curva in yelocità, non rallentare! Attento, attento che sparano!
Uno dei banditi, infatti, si era sporto dal finestrino della macchina e stava prendendo di mira il poliziotto che reggeva il volante.
— Attento! — gridavano i ragazzi della sala.
Ma il poliziotto, sullo schermo, non poteva certo sentire. Ed anche se avesse sentito, non avrebbe potuto abbandonare il suo posto.
Proprio in quel momento finì il primo tempo, tornò la luce e Francesco si lanciò tra le file di poltrone, gridando:
— Caramelle! Menta al ghiaccio! Caramelle!
Durante il secondo tempo dovette scopare gli uffici del direttore del cinema, e non potè vedere come fosse andata a finire la sparatoria. Il film fu ripetuto ancora una volta dall'inizio, ma Francesco potè assistere solo al finale, e non riuscì a capire nulla. Gli rimase invece negli occhi il viso spaventevole del bandito che prendeva di mira l'autista con la sua rivoltella. Non riusciva a cacciarlo dalla mente, per quanto si sforzasse di pensare ad altro.
Rimasto solo nella sala per la pulizia notturna, Francesco si guardava continuamente attorno, come se temesse di vedersi comparire alle spalle, da un minuto all'altro, il brutto ceffo del bandito. Era una paura sciocca, come tutte le paure. Ma la paura ha questo di brutto: che più è sciocca e più fa paura.
Anche quando ebbe finito il suo lavoro, e si fu avviato tutto solo, sotto la neve, per tornare alla sua baracca, Francesco dovette
mettersi una mano sul petto per comprimere il cuore che sembrava volesse balzar fuori. Batteva così forte, che il rumore gli riempiva le orecchie e gli impediva di ascoltare. Se non fosse stato così spaventato, avrebbe certamente udito un leggero fischio che usciva dall'ombra di un portone. Avrebbe fatto un salto, si sarebbe messo a correre. Ma non udì nulla. Sentì solo una mano che gli tappava la bocca ed un braccio che gli stringeva il collo. Qualcuno lo attirò violentemente nel portone.
Una voce disse:
— È abbastanza piccolo, ce la farà.
— Ora vedremo — sussurrò qualcun altro.
Le voci risuonavano stranamente soffocate. Quando i suoi occhi si furono un poco assuefatti al buio, Francesco vide che i due tipi avevano una maschera nera sulla faccia, dal naso al mento.
— I ladri — pensò Francesco. Tutta la paura che aveva provato al cinema svanì di colpo, per lasciare il posto ad un'altra paura. Che cosa volevano fare di lui quei tipacci?
Uno di loro gli teneva sempre tappata la bocca con la mano, perché non gridasse, e Francesco non si provò nemmeno a mordere. Non avrebbe potuto far nulla, contro due uomini. Forse erano anche armati.
Uno dei ladri gli mostrò un finestrino strettissimo.
— Lo vedi quello?
Francesco accennò di sì.
— Non siamo riusciti ad aprire la porta del negozio. Entrerai da quel finestrino e ci aprirai dal di dentro. Capito? E bada di non farci qualche brutto scherzo, altrimenti ce la paghi.
— Su, non perdiamo altro tempo — interruppe l'altro compare.
Francesco si provò ad opporre resistenza, ma un vigoroso pugno sul braccio gli consigliò di star quieto. Non gli restava che ubbidire.
Uno dei ladri lo afferrò per la vita e lo alzò fino al finestrino.
— È stretto — bisbigliò Francesco — non ci passo.
Sentì solo una mano che gli tappava la bocca…
— Metti prima la testa. Dove passa la testa passa tutto il corpo. Sbrigati.
L'ordine fu accompagnato da un altro pugno, stavolta sulle gambe.
Francesco mise la testa nel finestrino. Era tutto buio là dentro. Un negozio, avevano detto. Chissà che genere di negozio?
I ladri lo tenevano per le gambe, mentre si introduceva penosamente nel finestrino. Ad un certo punto uno di loro fece scaletta all'altro perché continuasse a sorreggere Francesco per i piedi.
Francesco scivolò a testa in giù lungo il muro, fin che sentì il pavimento. Allora agitò le gambe perché lo lasciassero libero e ruzzolò a terra.
Rimase lì immobile per qualche secondo, fin che la voce di uno dei ladri gli ingiunse con un aspro sussurro:
— Che fai ora? Spicciati. La porta è a destra. Ci dev'essere un catenaccio. Toglilo, poi solleva la saracinesca di due palmi. Muoviti, lumaca.
Francesco si alzò e strisciò con le mani lungo la parete. Ecco la porta. Sentì il freddo del catenaccio sulle dita. In quel momento la paura che lo aveva paralizzato, di colpo cessò. Gli venne un'idea.
— Io qui sono al sicuro — pensò. — Qui non mi possono raggiungere. Farò così: non aprirò la porta. Se ne dovranno pure andare, se non vogliono essere sorpresi da qualche guardia notturna.
Dal finestrino gli giungeva la voce concitata del ladro che gli ordinava di far presto, ma Francesco non si mosse. Si mise perfino a sorridere.
— Arrabbiatevi pure — diceva fra sé. — Non potete certo entrare a prendermi. L'avete detto voi stessi che non ci passate.
Ma un altro pensiero venne a rubargli la calma.
— I ladri se ne andranno, ma io come uscirò? Mi vedranno. Mi sorprenderanno qua dentro, o mentre me la svigno. Penseranno che io sia un ladro. Se vado a raccontare che mi hanno spinto dentro dal finestrino nessuno mi crederà.
Non sapeva che fare. Furono i ladri stessi a dargli l'idea. Ad un tratto li udì bussare, cautamente ma con concitazione, alla saracinesca.
— Apri — sussurrava una voce gonfia d'ira — apri subito o te la passerai male.
— Bussate, bussate, vi sentiranno e sarete sorpresi — pensò Francesco. E subito dopo: — Ecco quello che devo fare: far rumore, svegliare qualcuno, dare l'allarme. Allora capiranno che io non facevo parte della banda.
E con le mani strette a pugno cominciò a battere sulla lamiera con tutte le sue forze, gridando:
— Aiuto! Aiuto! Ai ladri, ai ladri!
Udì uno scalpiccio affrettato. Forse i ladri avrebbero fatto in tempo a scappare. Francesco raddoppiò i colpi e gridò con tutta la voce che aveva in gola. Aveva di nuovo una terribile paura, ma gridava che l'avrebbero sentito ad un chilometro di distanza. Si udì il trillo di un fischietto e subito un altro gli rispose. Le guardie notturne, allarmate dal frastuono, si chiamavano per accorrere sul posto.
Francesco non smise di picchiare sulla saracinesca fin che non udì i loro passi, le voci forti e minacciose che intimavano:
— Alto là! Fermi o sparo! Non fate un passo di più o siete morti.
— Per fortuna li hanno presi — mormorò Francesco lasciandosi cadere a terra.
Poco dopo qualcuno bussò alla saracinesca.
— Chi c'è lì dentro? Aprite e venite fuori: ormai non avete scampo.
Francesco sollevò di qualche centimetro la saracinesca e subito una mano vigorosa la spinse in alto. Apparve sulla porta una guardia notturna con una pistola in pugno. Fuori, in mezzo alla strada, altre guardie stavano ammanettando i ladri.
— Ma è un bambino — esclamò la guardia, afferrando Francesco per una spalla.
— Io non c'entro… — mormorò Francesco con un fil di voce. — Sono loro che…
— Ah, non c'entri? E come mai ti trovi nella bottega allora? Forse volevi prenderti un regalino per la Befana?
Francesco guardò il negozio, illuminato dalla lampadina tascabile della guardia. Soltanto allora lo riconobbe, e il sangue gli diede un tuffo. Era il negozio dei giocattoli, il negozio della Freccia Azzurra! Ma i ladri non andavano certo in cerca di treni elettrici: essi miravano alla cassaforte, che stava nel retrobottega.
— Io non capisco…
— Ma bene, non capisci. Forse sei venuto fin qui in sogno, no? Presto, seguici e non fare storie. Spiegherai tutto al commissario.
Intanto era giunta una vettura della polizia. Francesco venne caricato in mezzo ai due ladri ammanettati, i quali si affrettarono a vendicarsi, dandogli con i gomiti colpi dolorosi al petto ed alle spalle.
— Non la passerai liscia, — sibilò uno dei compari — diremo alla polizia che eri d'accordo con noi. Anzi, le diremo che sei stato tu ad indicarci "il negozio della Befana. Ci penserà la polizia a fare la nostra vendetta.
— Silenzio, là dietro — ordinò un poliziotto — o vi farò cucire la bocca.
— Signore, — pregò Francesco — le dico che io non c'entro. Io non ne so nulla.
— Va bene, va bene. Ma adesso sta' zitto. Guarda un po', nemmeno per l'Epifania ci lasciano riposare.
— Per noi non ci sono feste — ghignò uno dei ladri. — Per noi è sempre giorno di lavoro.
— Vorrai dire notte di lavoro — ribatté il poliziotto. — Ma ora sta' buono e tieni i tuoi scherzi per i topi.
Mezz'ora più tardi Francesco sedeva su una panca in un corridoio del commissariato, guardato a vista da un poliziotto. Non l'avevano messo nella stessa cella dei due ladri perché era un bambino, ma era in arresto anche lui, come un delinquente.
Francesco avrebbe voluto raccontare la sua storia, spiegare come erano andate le cose, ma nessuno lo stava a sentire. Il poliziotto, anzi, si mise perfino a fargli la predica:
— Vergogna, alla tua età! Dovresti essere a nanna a sognare la Befana, ed eccoti in giro a rubare per le botteghe, in compagnia dei peggiori malviventi della città. Se avessi un figlio come te, gli avrei già staccato le orecchie a furia di schiaffi, te lo dico io, e gli avrei consumato a pedate il fondo dei pantaloni.
Francesco inghiottì le lagrime senza parlare: erano amare e salate.
— Piangi, adesso: proprio come i coccodrilli.
Un altro poliziotto venne invece a offrirgli un goccio del suo caffè, e sbuffò come se qualcosa gli desse noia.
Francesco appoggiò la testa alla parete e si addormentò.