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Cosi, porta per porta, casa per casa, la nostra comitiva si andava assottigliando. Intere vetture della Freccia Azzurra erano ormai rimaste senza passeggeri. I pochi rimasti scorrazzavano su e giù per il treno, con grande scandalo del capitano, che intendeva far rispettare i regolamenti ferroviari.
— I viaggiatori non debbono attraversare le carrozze — diceva.
— Non sporgetevi dal finestrino perché è pericoloso.
— Chi ha il biglietto di terza non si faccia nemmeno vedere in prima, perché gli farò pagare la multa.
Ma tutti i suoi sforzi erano inutili. I passeggeri erano irrequieti come un treno di bambini di ritorno dalla colonia.
Ad ogni fermata qualcuno scendeva, trillavano gli addii, la corsa riprendeva.
Non è possibile raccontare una per una le storie di tutti i passeggeri della Freccia Azzurra. Ma si sa, per esempio, che i pezzi del Meccano — quelli che si erano salvati dal crollo del ponte nella pozzanghera — si allinearono al comando dell'Ingegnere Capo e in un batter d'occhio costruirono un mulino a vento sul letto del bimbo a cui erano toccati. Il bimbo, appena sveglio, smontò il mulino e si
fabbricò un bulldozer, cosi perfetto che l'Ingegnere Capo non trovò nulla da criticare.
Il Motociclista ebbe qualche noia al carburatore e dovette fermarsi: scelse la casa di un piccolo meccanico, di quelli che riparano le gomme delle biciclette, sperando che si intendesse anche di motori, e passò il taccuino con gli indirizzi al Macchinista della Freccia Azzurra, che finalmente potè guidare il treno a suo piacimento, senza dover marciare dietro la coda di un cane o il tubo di scappamento di una motocicletta.
Gli indiani e i cow-boys faticavano, ormai, a tener dietro alla Freccia Azzurra. Un treno non si stanca mai, questa è la questione: i cavalli invece ad un certo punto hanno bisogno di riposo. I cavalli degli indiani ce l'avrebbero forse fatta ancora a pesticciare la neve; ma i cavalli dei cow-boys non ne potevano più.
Così, quando arrivarono davanti ad una casupola che al posto dei vetri aveva dei giornalini a fumetti, di quelli dove si vedono sempre indiani e cow-boys, i nostri eroi si sentirono in patria. Smontarono da cavallo, entrarono nella stamberga e si accamparono su un pagliericcio disteso per terra, dove dormivano abbracciati due bambini piuttosto sporchi, ma dal viso allegro e simpatico anche nel sonno.
Non accesero i fuochi di campo per non incendiare il pagliericcio, ma drizzarono le loro tende, legarono i cavalli e si sdraiarono placidamente a dormire. Solo Penna d'Argento non dormì. I grandi capi indiani non dormono mai, continuano a fumare la pipa, notte e giorno, e pensano. Chissà che cosa pensano, perché parlano pochissimo: su dieci pensieri che fanno, nove li tengono per sé. Per questo diventano così saggi. C'è un proverbio indiano che dice: «Quelli che tacciono la sanno due volte più lunga dei chiacchieroni».
Sul treno restavano ormai soltanto il Capostazione, il Capotreno, il Macchinista e i pastelli, che erano usciti dalla scatola e occupavano uno scompartimento ciascuno. Così non si davano noia: perché, come sapete, i pastelli hanno le gambe lunghissime ed hanno bisogno di spazio. Nel taccuino degli indirizzi non restavano che due nomi: quello di un certo Franco e quello di un tal Roberto.
A casa di Franco scesero i pastelli, ai quali toccò subito una sorpresa: Franco non dormiva affatto. Egli se ne stava sdraiato nel suo letto, con le mani dietro la nuca, a guardare il soffitto, e vide i pastelli che si infilavano uno dietro l'altro nel buco della serratura e cadevano a terra con un leggero salto e con un piccolo «tac».
— Salve — disse Franco allegramente.
— Salve — risposero i pastelli, quasi senza pensarci.
Ma poi si accorsero che qualcosa non andava. Il Giallo fu il primo a protestare:
— Come, sei sveglio? Questo è contro i regolamenti. La notte della Befana i bambini debbono dormire.
— Lo so, ma…
— È vero che noi siamo arrivati con le nostre gambe, e non nel sacco della Befana. Ma questa non è una buona ragione. Tu non potevi saperne niente.
— Infatti, io…
L'Azzurro interruppe il Giallo, che stava per ricominciare la predica, ed osservò:
— Insomma, che male c'è se è sveglio? Anzi, tanto meglio: faremo amicizia subito.
— Sono di questa opinione anch'io — trillò il Rosso, che era il più allegro di tutti.
— Per conto mio sono d'accordo col Giallo — disse il Verde — anche perché è mio zio.
Come tutti sanno, il Verde ha due zii: il Giallo e l'Azzurro: l'Arancione è cugino del Rosso: il Viola è cugino dell'Azzurro e del Rosso; e poi ci sono tante altre parentele, complicate come tutte le parentele di questa terra.
— Ma bene — rise Franco — vedo che litigate. E io che pensavo che i colori andassero sempre d'accordo.
— Sbagliavi — sentenziò il Giallo. — Non hai mai sentito parlare dei contrasti dei colori? Intanto, però, non ci hai ancora spiegato perché non dormivi.
— Oh, bella, perché il sonno non mi viene.
— Segno che sei stato cattivo. Solo i bambini che non hanno la coscienza pulita non possono dormire.
— Io ho la coscienza pulita ma lo stomaco vuoto, perché non ho avuto nulla per cena.
— Vedete — disse l'Azzurro conciliante — io l'ho detto subito che era un bravo ragazzo.
— Al contrario — squittì il Verde — se non ha avuto nulla per cena, significa che è stato cattivo.
— No — spiegò Franco — significa soltanto che non c'era nulla in dispensa. La mamma mi ha messo a dormire presto, sperando che il sonno mi facesse passare la fame, invece è successo il contrario: la fame mi ha fatto passare il sonno. Ma per una volta, non mi lamento: mi sono divertito tanto a vedervi entrare dal buco della serratura. Sapete che non ho mai ricevuto un regalo dalla Befana prima d'ora? E voi siete il regalo più bello che io potessi ricevere. Figuratevi che voglio diventare un pittore.
Franco aveva parlato con tanta cordialità, che i pastelli gli si avvicinarono saltellando, contenti di sentirsi apprezzati. Con tipi come il Giallo e come il Verde, basta una buona parola e subito anche loro smettono le loro arie e diventano dei pastelli per bene.
— Se vuoi fare il pittore — disse il Marrone, il più pacifico di tutti i colori — ti consiglio di disegnare scene di campagna, così potrai adoperarmi.
— Per me fa lo stesso — disse l'Azzurro. — Un po' di cielo^ci vuole sempre.
— Ragazzi — disse il Rosso — perché stiamo a perdere tempo in chiacchiere? Io ho un'idea.
— Sentiamo.
— Dal momento che Franco non dorme, perché non lo teniamo un poco allegro? Disegniamo qualcosa per lui.
— Oh, bene, che bell'idea — esclamò Franco. — Guardate su quel tavolo: ci dovrebbe essere qualche foglio di carta bianca. Non sarà una gran bella carta: sono i fogli dove il droghiere mette il caffè, e io li tengo da parte per disegnare.
— Comincio io — sentenziò il Nero, con solennità.
Distese un foglietto sul comodino, a due palmi dagli occhi di Franco, e saltellando qua e là vivacemente disegnò il tronco ed i rami di un albero.
Subito il Marrone si gettò sul tronco e lo colorò a meraviglia, il Verde invece si mise coscienziosamente all'opera tra i rami e li riempì di foglie.
Franco applaudiva, ma il Giallo torse il naso.
— Questo è un disegno fuori stagione — disse — d'inverno gli alberi non sono verdi. Tutt'al più conservano qualche foglia gialla.
— Dimentichi i pini e gli abeti, che non perdono mai le foglie.
— Io ho un'idea migliore — annunciò l'Azzurro.
Prese un foglio, vi strisciò la punta facendo un segno bizzarro e pochi minuti dopo una bellissima mucca azzurra si levò dal foglio e batté gli zoccoli sul comodino, facendo tintinnare il campanello azzurro che portava al collo.
— Muu! — muggì graziosamente la Mucca Azzurra.
— Forse deve fare il latte, — disse Franco — quando le mucche si lamentano, debbono fare il latte. Io però non la so mungere.
Ci si provò il Marrone che era un colore campagnolo: la Mucca Azzurra faceva un bellissimo latte azzurro.
— Questa poi non l'avevo mai vista — rise Franco.
— È colpa dell'Azzurro — sentenziò il Giallo — ha voluto fare tutto da solo. Tutti sanno invece che il latte è giallo.
— Giallo? Ma che cosa ci vieni a raccontare?
— Oh, non stiamo a discutere — disse il Rosso — ora tocca a
me.
A vederlo balzare qua e là sul foglio con la velocità di un ballerino, metteva addosso un'allegria irresistibile. Ancora prima di vedere il suo disegno c'era da scommettere che sarebbe stato qualcosa di assai buffo.
— Ecco fatto — annunciò con una risatina.
Aveva disegnato uno strano ometto che non si riusciva a indovinare come facesse a stare assieme, perché era tutto a pezzetti stac-
cati. Le mani non erano attaccate alle braccia, le braccia e le gambe non erano attaccate al tronco, il naso non era attaccato alla faccia e la testa non era attaccata al collo.
— Viva l'Omino a Pezzettini! — gridò Franco.
L'omino provò a sollevarsi dal foglio e subito perdette una gamba.
Si curvò a raccoglierla e se l'attaccò con gran pena, ed ecco che una mano gli schizzò via.
— Ho perduto una mano! Dov'è la mia mano?
Si mise in ginocchio a cercare la sua mano per terra e la testa gli rotolò via come una palla. Anche rotolando, la testa non cessò di lamentarsi e di gridare:
— Aiuto, aiuto! Sono stato ghigliottinato! Sono innocente, perché volete tagliarmi la testa?
A Franco, dal gran ridere, vennero le lagrime agli occhi.
— Su, coraggio! — diceva, tentando di rimettere insieme i pezzettini. — Ecco, ora sei tutto intero: facci vedere come cammini.
L'Omino a Pezzettini fece qualche passo, perdette mezzo braccio destro e mezza gamba sinistra e rovinò a terra miseramente.
Tutti i pastelli disegnarono qualcosa: le figurine, appena terminate, si sollevavano dalla carta e se ne andavano attorno a curiosare. L'Azzurro disegnò una barchetta con un marinaio, il quale, vedendo il latte della Mucca Azzurra, credette che fosse il mare e cominciò subito a navigare.
Ad un tratto si sentì una vocetta che chiamava:
— Ehi! Ehi!
— Chi va là? — domandò il Giallo, che conosceva tutti i regolamenti, compresi quelli delle sentinelle.
— Eh, non fare tante storie, amico. Sono un povero topo affamato, e credo che qualcuno di voi dovrà sacrificarsi a servirmi da cena. Le matite mi sono sempre piaciute, nere o colorate che fossero.
I pastelli si raggrupparono in fretta vicino a Franco, che stese una mano per difenderli.
— Dico, messerTopo, se hai intenzione di sfamarti a spese dei miei amici, ti avverto che hai sbagliato indirizzo.
— In questa casa non ci si resiste — brontolò il Topo, mostrando i dentini. — Mai una crosta di formaggio, mai un uovo da rubare, mai un fiasco d'olio da potervi intingere la coda, mai un sacchetto di grano o di farina da potervi scavare delle gallerie. In una settimana ho perso metà del mio peso.
— Mi rincresce — disse Franco — ma anch'io sono andato a letto senza cena. Non posso fare nulla per aiutarti. E i miei pastelli non sono legno per i tuoi denti.
— Almeno — gridò il Topo. — Almeno ordina loro che mi disegnino qualcosa da mangiare. Ho visto che sono così bravi.
— D'accordo, questo si può fare.
— Ci penso io — disse il Giallo. E in quattro e quattr'otto disegnò una fettina di groviera, con i buchi e la lagrima.
— Tante grazie — esclamò il Topo leccandosi i baffi. Nessuno aveva fatto in tempo a vedere la fettina sparire nella sua bocca. Era stato più svelto di un lampo.
— Alla grazia, che appetito — disse il Rosso. — Ma ora aspetta. Ti accomodo io.
Stese un foglio pulito e vi disegnò un cerchio rosso.
— Dev'essere formaggio olandese — disse il Topo. — Ricordo di averne assaggiato una volta, ed aveva proprio quella bella crosta rossa.
— Aspetta, non ho ancora finito.
Il Rosso disegnò un altro cerchio più piccolo sopra il primo e continuò per un bel pezzo a fare strani segni.
— Strano — osservò il topo — non ho mai visto del formaggio olandese con i buchi così grossi. Ci dev'essere già passata una famiglia di topi. E adesso, per favore, fatti da parte.
— Ih, che fretta, — ridacchiò il Rosso — se ho appena cominciato! Ti voglio preparare un piattino che te lo ricorderai per tutta la tua vita.
E continuando a disegnare aggiunse alla sua strana figura una specie di coda, che al topo parve un pezzo di salsiccia.
— Salsiccia? Ecco una buona idea. Non ricordo quando ne ho mangiato l'ultima volta. Forse, anzi, non ne ho mai mangiato in vita mia, e la riconosco solo perché assomiglia ai racconti di mio padre, che abitava nella bottega di un pizzicagnolo. Ma adesso, per favore, fatti in là e lascia che ci metta i denti, perché l'acquolina mi scende per la gola a cascate, e credo che finirà col soffocarmi.
— Adesso, adesso ho finito — annunciò il Rosso. E con un ultimo tocco…
Il Topo guardò inquieto la figura che si svegliava e si sollevava pigramente dalla carta.
— Ma questo… ohi, dico, che scherzo è questo… volete forse… Aiuto! Mamma mia!
E corse via così in fretta che perse la coda. Il Rosso scoppiò a ridere allegramente. Egli aveva disegnato un gatto, un terribile gat-tone rosso che si lucidava gli artigli e si leccava i baffi. Miagolò pigramente e si strofinò contro la mano di Franco, per farsi accarezzare.
— Almeno gli occhi, li dovevi lasciare a me — protestò il Verde, che si era specializzato per anni a colorare gli occhi dei gatti.
Per Franco, fu una notte indimenticabile. I pastelli, uno dopo l'altro, gli mostrarono quello che sapevano fare. Per esempio, gli disegnarono e dipinsero tante bandiere, che la stanza sembrava un giorno di festa nazionale.
Fecero la bandiera tricolore e la bandiera rossa, si accapigliarono perché ciascuno voleva che la propria bandiera fosse la più bella, poi fecero la pace e disegnarono tutti insieme una bandiera di sette colori.
— Ecco qui, ci siamo tutti e sette, e non si fa torto a nessuno. Ora andremo veramente d'accordo.