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Una mattina d'aprile verso le sei, al Trullo, i passanti che attendevano il primo autobus per il centro, alzando gli occhi a studiare il tempo, videro il cielo della loro borgata quasi interamente occupato da un enorme oggetto circolare di colore oscuro, che se ne stava al posto delle nuvole, immobile, a un migliaio di metri sopra il livello dei tetti. Ci fu qualche: - Oh, - qualche: - Ah, - poi si udì un grido: - Li marziani!
Fu come un segnale e una parola d'ordine. La gente cominciò a gridare e a correre da tutte le parti. Finestre si aprirono, altra gente si affacciò a curiosare, immaginando il solito incidente d'auto, poi guardò in su, e allora ci fu un gran chiamare e sbattere di imposte e rotolare di avvolgibili e ciabattare per scale e cortili.
- Li marziani!
- Er disco volante!
- Andiamo, sarà un'eclisse.
"La cosa", effettivamente, pareva un gran buco nero nel cielo, e aveva intorno una corona limpida e azzurra.
- Quale eclisse? Questa è la fine del mondo.
- Esagerato. Che, la fine del mondo può venire così, dalla sera alla mattina?
- Già, prima dovranno avvertire lei con una bella raccomandata: "Guardi che il tal giorno alla tal ora il mondo va a gambe all'aria".
Dal bar Italia uscì un cameriere, stropicciandosi le mani nel grembiule sudicio. Diede un'occhiata al cielo e si piegò in due come se gli avessero calato una botta in testa.
Una donna in camicia da notte gli gridò dal balcone:
- Telefona ai pompieri, Augusto.
- E che gli dico?
- Digli che ci stanno i marziani, digli, stupido. Non li vedi?
- Ma che c'entrano i pompieri? Mica gli possono fare "bum" per spaventarli.
- Telefona, telefona, vedrai che loro sapranno.
Augusto rientrò nel bar, infilò un gettone nell'apparecchio e fece il numero dei pompieri.
- Pronto, correte al Trullo, sono arrivati i marziani!
- Chi è che parla?
- Sono Augusto.
- Bravo, e io sono Giulio Cesare. Non ti vergogni, essere già ubriaco a quest'ora?
Il centralinista dei pompieri troncò la comunicazione. Ma nei due minuti seguenti dovette rispondere a una ventina di chiamate dal Trullo, tutte dello stesso tono, e si decise a dare l'allarme, spiegando al tenente di turno:
- Dev'essere un caso di pazzia collettiva. Per me, bisognerebbe avvertire il manicomio.
Al Trullo, chi non stava fuori col naso per aria stava attaccato a un telefono. Chi chiamava la polizia, chi i vigili urbani, chi i carabinieri.
Intanto, dal retrobottega del vapoforno, uscì il cascherino che tutte le mattine, a quell'ora, faceva il giro dei bar con il rifornimento dei maritozzi e dei cornetti. Appoggiò la cesta traboccante e profumata al manubrio della bicicletta, alzò la gamba destra per montare in sella, alzò meccanicamente anche gli occhi: patapumfete, giù per terra lui, la bicicletta e la cesta. Maritozzi e cornetti rotolarono nella polvere in ordine sparso.
I cascherini romani sono famosi perché non cascano mai: ma succede in un minuto quel che non è successo in mille anni. Il garzone del fornaio si rialzò e si rifugiò in bottega, gridando:
- Aiuto! E' caduta la luna!
Per giustificare la sua caduta non ci voleva meno di una catastrofe cosmica.
I dolci giacevano fino a mezza strada. Un cane balzò di chissà dove, ne afferrò uno coi denti e galoppò via di traverso, per schivare una legnata che però non venne.
- E' il cane del sor Meletti, - disse il macellaio alla moglie. - Il cane più ladro di tutta la borgata appartiene a un vigile urbano. E poi protestano perché in Italia le cose vanno storte.
Il vigile Meletti, una volta, per appioppare di sorpresa la multa a un automobilista, si era appostato dietro il cavallo di un vetturino. Da quel giorno certi ragazzi istruiti l'avevano ribattezzato "l'astuto Ulisse". Il suo cane, di conseguenza, lo chiamavano Argo, sebbene il suo nome ufficiale fosse Zorro. Era un cane intelligente, e rispondeva a entrambi i nomi.
Quella mattina però, non avrebbe risposto neanche se l'avessero chiamato Eccellenza. Col maritozzo ben stretto in bocca infilò le scale del Lotto Quinto e volò, di pianerottolo in pianerottolo, fino alla porta di casa Meletti. Paolo, che si era alzato presto per fare il compito, lo udì raspare e gli aperse.
- Da dove vieni, vagabondo?
Zorro, troppo affannato per rispondere, attraversò di corsa la cucina, si gettò sul terrazzino e qui finalmente si accucciò per mangiarsi in pace la sua colazione.
- Cosa? Un maritozzo? Dammene un pezzo o lo dico a papà quando torna.
Il sor Meletti era uscito prestissimo per ragioni del suo ufficio; sua moglie, la sora Cecilia, era stata chiamata a fare un'iniezione d'urgenza. In casa erano rimasti Paolo e Rita, che dormiva ancora. Toccava a Paolo, come maggiore, svegliarla in tempo e far bollire il latte.
- Da' qua!
Ma Zorro, per paura di dover dividere quella sciccheria, la mandò giù in un boccone.
Paolo lo seguì sul balcone, ben deciso a fargli pagare la mancanza di rispetto, ma quello che vide gli fece dimenticare sia il cane che il maritozzo.
- Rita, - gridò, - vieni, presto! Rita!
- Che c'è? - rispose una vocina assonnata.
- Vieni a vedere, muoviti.
- E' già ora di andare a scuola?
- Mi sa tanto che oggi a scuola non si va.
La bambina, a quell'annuncio, fu subito sveglia e corse sul balcone, accompagnata dall'ululare di una sirena: i pompieri facevano in quel momento il loro ingresso sulla piazza del Trullo.
- O mamma, il fuoco.
- Ma quale fuoco! Guarda lassù.
- Già, che brutta nuvola. Verrà certo un gran temporale.
- Sei proprio stupida. Secondo me è una stazione spaziale.
- Stazione di che?
- Sei proprio ignorante. Chissà cosa t'insegnano, in seconda.
- Proprio quello che insegnano a te in quinta. E i pompieri debbono salire fin lassù con la scala?
- Sì, i pompieri, a spegnere la luna... Lassù ci vanno gli astronauti.
- Ah, ho capito. Chiamami quando cominciano. Intanto vado a lavarmi i denti.
E Rita si allontanò virtuosamente in direzione del bagno. Le era venuto in mente che avrebbe potuto approfittare dell'assenza della mamma per lavare i capelli alla sua bambola.
Paolo non la trattenne, giudicando inutile proseguire la conversazione "con quella là". Cose nuove, del resto, accadevano sulla piazza di minuto in minuto. Dopo i pompieri piombavano sulla borgata le camionette della Questura. E che cosa spuntava già dalla strada di Roma? Un'autoblindo, due, tre. Un carro armato, un altro. Forse dei cannoni? Sì, anche dei cannoni. Accidenti, perfino i missili!
"Pare la grande parata", si disse Paolo, eccitatissimo.
Ma lo spettacolo più interessante era sempre quello che forniva dal cielo il gigantesco oggetto misterioso. A occhio e croce doveva avere il diametro di un chilometro. L'ombra che proiettava sulle grosse e brutte case popolari, sugli stenditoi di cemento, sulle strade rombanti di mezzi corazzati era livida e piena di minaccia.
- Non sarà scoppiata la guerra?
Giungeva ronzando da est un elicottero, come una zanzara di metallo. Si accostò fino a cento metri dalla circonferenza del disco e lentamente, lentamente, cominciò a farne il giro: pareva che cercasse il punto adatto per pungerlo.
"Vedrai come ti concia", pensò Paolo, prendendo le parti del più forte.
Zorro, ora, guaiolava e mugolava penosamente.
- Hai fifa, eh? - fece Paolo, e si chinò a grattargli la schiena.
- Attenzione, attenzione, - tuonò la voce di un altoparlante issato su una camionetta della polizia, - la popolazione è invitata a mantenere la calma. Il comando militare controlla perfettamente la situazione. E' decretato lo stato d'allarme. Nessuno può entrare o uscire dalla borgata fino a nuovo ordine. Rientrate nelle vostre case, scendete nelle cantine e attendete con fiducia nuove istruzioni.
- Attenzione, attenzione, - ricominciò.
- Cosa dicono? - strillò Rita, dal bagno.
- Niente.
- Come, niente? Con tutto il chiasso che fanno. Io credo che sia una pubblicità. Sta' attento se regalano qualcosa. L'altra volta che distribuivano i palloncini non mi hai fatto arrivare in tempo.
Rita comparve sul balcone, strofinandosi vigorosamente gli occhi asciuttissimi in un asciugamano, per dimostrare al fratello che si era lavata a dovere.
Paolo si voltava per dirle qualcosa, quando un'ombra attraversò rapida il cielo. Un uccello? No, troppo grosso.
- A terra! - gridò, gettandosi egli stesso sul pavimento e cingendo con un braccio le spalle di Rita che gli si era buttata accanto, spaventata.
- Ma cosa succede?
L'oggetto cadde nell'angolo destro del balcone, a un metro dalla mano di Paolo, a trenta centimetri dalla zampa di Zorro, che si ritrasse con un brontolio. Cadde ma non scoppiò. Emise soltanto un morbido "plaff", e rimase lì, tra due vasi di gerani. Era dello stesso colore della cosa in cielo, come Paolo poté constatare lanciandogli un'occhiata tra le dita stese davanti alla faccia. Una bomba non era. Forse un messaggio?
- Ho paura, - bisbigliò Rita, - scendiamo in cantina anche noi.
- Così non vedremo niente di niente.
- Ma io ho paura. E poi, senti l'altoparlante cosa dice...
La voce dell'altoparlante ripeteva monotona le istruzioni, cortile per cortile.
Paolo sentiva che sarebbe stato suo dovere avvicinarsi al proiettile caduto sul balcone, per osservarlo in modo scientifico.
"Se Cristoforo Colombo avesse avuto la mia paura, - pensava per farsi coraggio, - l'America a quest'ora sarebbe ancora da scoprire".
- Che facciamo? - piagnucolò Rita. - A stare sdraiata mi sporco il pigiama, poi senti, la mamma.
- Sta' zitta, devo pensare.
Ma qualcun altro pensò per lui. Zorro allungò cautamente una zampa in direzione dell'oggetto, battendo la coda per l'eccitazione, e gli diede un colpetto, per prova.
- Pussa via, Zorro!
- Non toccare!
Il cane si voltò, quasi per tranquillizzarli. I suoi occhi umidi dicevano: "Calma, calma, lasciate fare a me. Ho buon fiuto, io".
Cacciò un palmo di lingua e strisciò sul ventre in avanti. Meno 5... meno 4... meno 3... meno 2... meno uno... Contatto!
La lingua di Zorro fu sul bersaglio e leccava furiosamente. La coda, adesso, pareva la pala di un elicottero.
Allora Paolo si decise: saltò su, allontanò il cane con un calcio e prese il suo posto accanto alla "cosa".
- Che è? - domandò Rita, sollevando la testa spettinata.
- Ora vedrò. Ci potrebbe essere un messaggio, dentro.
- Ma non senti un profumino?
- Un profumo? Tu stai ancora sognando.
Anche Rita si avvicinò alla "cosa", respingendo il cane che tentava di riconquistare la posizione perduta.
- Vuoi che lo tocchi io? - domandò al fratello.
- Stupida, credi che abbia paura? E' che prima voglio studiarci sopra un momento.
- Ma l'odore non lo senti proprio?
- Si vede che ho il raffreddore.
Rita passò ai fatti. Toccò la "cosa", e una macchia scura le rimase sul dito. La bambina considerò la macchia con attenzione, poi si ficcò decisamente il dito in bocca. Lo succhiò, se lo mise davanti agli occhi, roseo e umido di saliva. Infine lanciò un grido di trionfo: - Cioccolato! Avevo ragione io. Prova, prova se non è vero.
Paolo provò. Rita riprovò. Paolo tornò a provare. Nessun dubbio: il misterioso oggetto caduto dal cielo non era altro che un grosso pezzo di cioccolato. Roba di marca, a giudicare dal profumo, dal sapore, dalla lunga delizia che lasciava in bocca.
- Uhm, che buono! - disse Rita.
- Una meraviglia, - ammise Paolo, riempiendosi la bocca. - Chissà, forse ci hanno visti, ci hanno buttato il cioccolato per fare amicizia.
- Chi?
- I marziani, insomma, quelli lassù. Chi siano non lo so.
- Secondo me, - sentenziò Rita, indicando la gran macchia rotonda in cielo, - quella è una pizza.
Secondo voi, probabilmente, Rita avrebbe dovuto dire "una torta". Ma al Trullo esiste una parola sola per indicare la pizza al pomodoro e la torta al cioccolato, e questa parola è "pizza". Qualche volta si può dire "pizza dolce", per distinguere le due "pizze". E se le torte, nobili figlie della pasticceria, si offendono a esser chiamate "pizze", come le loro più umili sorelle, peggio per loro.