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Qualcuno in uniforme passava tra i sedili. — Scusi, signor bigliettaio, — disse Marcovaldo, — sa se c'è una fermata dalle parti di via Pancrazio Pancra — zietti?
— Come dice signore? Il primo scalo è Bombay, poi Calcutta e Singapore.
Marcovaldo si guardò intorno. Negli altri posti erano seduti impassibili indiani con la barba e col turbante. C'era pure qualche donna, avvolta in un sari ricamato, e con un tondino di lacca sulla fronte. La notte ai finestrini appariva piena di stelle, ora che l'aeroplano, attraversata la fitta coltre di nebbia, volava nel cielo limpido delle grandi altezze.
Era un tempo in cui i più semplici cibi racchiudevano minacce insidie e frodi. Non c'era giorno in cui qualche giornale non parlasse di scoperte spaventose nella spesa del mercato: il formaggio era fatto di materia plastica, il burro con le candele steari — che, nella frutta e verdura l'arsenico degli insetticidi era concentrato in percentuali più forti che non le vitamine, i polli per ingrassarli li imbottivano di certe pillole sintetiche che potevano trasformare in pollo chi ne mangiava un cosciotto. Il pesce fresco era stato pescato l'anno scorso in Islanda e gli truccavano gli occhi perché sembrasse di ieri. Da certe bottiglie di latte era saltato fuori un sorcio, non si sa se vivo o morto. Da quelle d'olio non colava il dorato succo dell'oliva, ma grasso di vecchi muli, opportunamente distillato.
Marcovaldo al lavoro o al caffè ascoltava raccontare queste cose e ogni volta sentiva come il calcio d'un mulo nello stomaco, o il correre d'un topo per l'esofago. A casa, quando sua moglie Domitilla tornava dalla spesa, la vista della sporta che una volta gli dava tanta gioia, con i sedani, le melanzane, la carta ruvida e porosa dei pacchetti del droghiere e del salumaio, ora gli ispirava timore come per l'infiltrarsi di presenze nemiche tra le mura di casa.
«Tutti i miei sforzi devono essere diretti, — si ripromise, — a provvedere la famiglia di cibi che non siano passati per le mani infide di speculatori». Al mattino andando al lavoro, incontrava alle volte uomini con la lenza e gli stivali di gomma, diretti al lungofiume. «È quella la via», si disse Marcovaldo. Ma il fiume lì in città, che raccoglieva spazzature scoli e fogne, gli ispirava una profonda ripugnanza. «Devo cercare un posto, — si disse, — dove l'acqua sia davvero acqua, i pesci davvero pesci. Lì getterò la mia lenza».
Le giornate cominciavano ad allungarsi: col suo ciclomotore, dopo il lavoro Marcovaldo si spingeva a esplorare il fiume nel suo corso a monte della città, e i fiumicelli suoi affluenti. Lo interessavano soprattutto i tratti in cui l'acqua scorreva più discosta dalla strada asfaltata. Prendeva per i sentieri, tra le macchie di salici, sul suo motociclo finché poteva, poi — lasciatolo in un cespuglio — a piedi, finché arrivava al corso d'acqua. Una volta si smarrì: girava per ripe cespugliose e scoscese, e non trovava più alcun sentiero, né sapeva più da che parte fosse il fiume: a un tratto, spostando certi rami, vide, a poche braccia sotto di sé, l'acqua silenziosa — era uno slargo del fiume, quasi un piccolo calmo bacino —, d'un colore azzurro che pareva un laghetto di montagna.
L'emozione non gli impedì di scrutare giù tra le sottili increspature della corrente. Ed ecco, la sua ostinazione era premiata! un battito, il guizzo inconfondibile d'una pinna a filo della superficie, e poi un altro, un altro ancora, una felicità da non credere ai suoi occhi: quello era il luogo di raccolta dei pesci di tutto il fiume, il paradiso del pescatore, forse ancora sconosciuto a tutti tranne a lui. Tornando (già imbruniva) si fermò a incidere segni sulla corteccia degli olmi, e ad ammucchiare pietre in certi punti, per poter ritrovare il cammino.
Ora non gli restava che farsi l'equipaggiamento.
Veramente, già ci aveva pensato: tra i vicini di casa e il personale della ditta aveva già individuato una decina d'appassionati della pesca. Con mezze parole e allusioni, promettendo a ciascuno d'informarlo, appena ne fosse stato ben sicuro, d'un posto pieno di tinche conosciuto da lui solo, riuscì a farsi prestare un po' dall'uno un po'
dall'altro un arsenale da pescatore il più completo che si fosse mai visto.
A questo punto non gli mancava nulla: canna lenza ami esca retino stivaloni sporta, una bella mattina, due ore di tempo — dalle sei alle otto — prima d'andare a lavorare, il fiume con le tinche… Poteva non prenderne? Difatti: bastava buttare la lenza e ne prendeva; le tinche abboccavano prive di sospetto. Visto che con la lenza era così facile, provò con la rete: erano tinche così ben disposte che correvano nella rete a capofitto.
Quando fu l'ora d'andarsene, la sua sporta era già piena. Cercò un cammino, risalendo il fiume.
— Ehi, lei! — a un gomito dalla riva, tra i pioppi, c'era ritto un tipo col berretto da guardia, che lo fissava brutto.
— Me? Che c'è? — fece Marcovaldo avvertendo un'ignota minaccia contro le sue tinche.
— Dove li ha presi, quei pesci lì? — disse la guardia.
— Eh? Perché? — e Marcovaldo aveva già il cuore in gola.
— Se li ha pescati là sotto, li butti via subito: non ha visto la fabbrica qui a monte? — e indicava difatti un edificio lungo e basso che ora, girata l'ansa del fiume, si scorgeva, di là dei salici, e che buttava nell'aria fumo e nell'acqua una nube densa d'un incredibile colore tra turchese e violetto. — Almeno l'acqua, di che colore è, l'avrà vista!
Fabbrica di vernici: il fiume è avvelenato per via di quel blu, e i pesci anche. Li butti subito, se no glieli sequestro!
Marcovaldo ora avrebbe voluto buttarli lontano al più presto, toglierseli di dosso, come se solo l'odore bastasse ad avvelenarlo. Ma davanti alla guardia, non voleva fare quella brutta figura. — E se li avessi pescati più su?
— Allora è un altro paio di maniche. Glieli sequestro e le faccio la multa. A monte della fabbrica c'è una riserva di pesca. Lo vede il cartello?
— Io, veramente, — s'affrettò a dire Marcovaldo, — porto la lenza così, per darla da intendere agli amici, ma i pesci li ho comperati dal pescivendolo del paese qui vicino.
— Niente da dire, allora. Resta solo il dazio da pagare, per portarli in città: qui siamo fuori della cinta.
Marcovaldo aveva già aperto la sporta e la rovesciava nel fiume. Qualcuna delle tinche doveva essere ancora viva, perché guizzò via tutta contenta.
La notte durava venti secondi, e venti secondi il GNAC. Per venti secondi si vedeva il cielo azzurro variegato di nuvole nere, la falce della luna crescente dorata, sottolineata da un impalpabile alone, e poi stelle che più le si guardava più infittivano la loro pungente piccolezza, fino allo spolverio della Via Lattea, tutto questo visto in fretta in fretta, ogni particolare su cui ci si fermava era qualcosa dell'insieme che si perdeva, perché i venti secondi finivano subito e cominciava il GNAC.
Il GNAC era una parte della scritta pubblicitaria SPAAK — COGNAC sul tetto di fronte, che stava venti secondi accesa e venti spenta, e quando era accesa non si vedeva nient'altro. La luna improvvisamente sbiadiva, il cielo diventava uniformemente nero e piatto, le stelle perdevano il brillio, e i gatti e le gatte che da dieci secondi lanciavano gnaulii d'amore muovendosi languidi uno incontro all'altro lungo le grondaie e le cimase, ora, col GNAC, s'acquattavano sulle tegole a pelo ritto, nella fosforescente luce al neon.
Affacciata alla mansarda in cui abitava, la famiglia di Marcovaldo era attraversata da opposte correnti di pensieri.
C'era la notte e Isolina, che ormai era una ragazza grande, si sentiva trasportata per il chiar di luna, il cuore le si struggeva, e fino il più smorzato gracchiar di radio dai piani inferiori dello stabile le arrivava come i rintocchi d'una serenata; c'era il GNAC e quella radio pareva pigliare un altro ritmo, un ritmo jazz, e Isolina pensava ai dancing tutti luci e lei poverina lassù sola. Pietruccio e Michelino sgranavano gli occhi nella notte e si lasciavano invadere da una calda e soffice paura d'esser circondati di foreste piene di briganti; poi, il GNAC! e scattavano coi pollici dritti e gli indici tesi, l'uno contro l'altro: — Alto le mani! Sono Nembo Kid! — Domitilla, la madre, a ogni spegnersi della notte pensava: «Ora i ragazzi bisogna ritirarli, quest'aria può far male. E Isolina affacciata a quest'ora è una cosa che non va!» Ma tutto poi era di nuovo luminoso, elettrico, fuori come dentro, e Domitilla si sentiva come in visita in una casa di riguardo.
Fiordaligi, invece, giovinetto melanconico, vedeva ogni volta che si spegneva il GNAC apparire dentro la voluta del gì la finestrina appena illuminata d'un abbaino, e dietro il vetro un viso di ragazza color di luna, color di neon, color di luce nella notte, una bocca ancor quasi da bambina che appena lui le sorrideva si schiudeva impercettibilmente e già pareva aprirsi in un sorriso, quando tutt'un tratto dal buio risaettava fuori quello spietato gì del GNAC e il viso perdeva i contorni, si trasformava in una fioca ombra chiara, e della bocca bambina non si sapeva più se aveva risposto al suo sorriso.
In mezzo a questa tempesta di passioni, Marcovaldo cercava d'insegnare ai figlioli la posizione dei corpi celesti.
— Quello è il Gran Carro, uno due tre quattro e lì il timone, quello è il Piccolo Carro, e la Stella Polare segna il Nord.
— E quell'altra, cosa segna?
— Quella segna ci. Ma non c'entra con le stelle. È l'ultima lettera della parola COGNAC. Le stelle invece segnano i punti cardinali. Nord Sud Est Ovest.
La luna ha la gobba a ovest. Gobba a ponente, luna crescente. Gobba a levante, luna calante.
— Papa, allora il cognac è calante? La ci ha la gobba a levante!
— Non c'entra, crescente o calante: è una scritta messa lì dalla ditta Spaak.
— E la luna che ditta l'ha messa?
— La luna non l'ha messa una ditta. È un satellite, e c'è sempre.
— Se c'è sempre, perché cambia di gobba?
— Sono i quarti. Se ne vede solo un pezzo.
— Anche di COGNAC se ne vede solo un pezzo.
— Perché c'è il tetto del palazzo Pierbernardi che è più alto.
— Più alto della luna?
E così, ad ogni accendersi del GNAC, gli astri di Marcovaldo andavano a confondersi coi commerci terrestri, ed Isolina trasformava un sospiro nell'ansimare d'un mambo canticchiato, e la ragazza dell'abbaino scompariva in quell'anello abbagliante e freddo, nascondendo la sua risposta al bacio che Fiordaligi aveva finalmente avuto il coraggio di mandarle sulla punta delle dita, e Filippetto e Mi — chelino coi pugni davanti al viso giocavano al mi — tragliamento aereo, — Ta — ta — ta — tà… — contro la scritta luminosa, che dopo i venti secondi si spegneva.
— Ta — ta — tà… Hai visto, papa, che l'ho spenta con una sola raffica? — disse Filippetto, ma già, fuori della luce al neon, il suo fanatismo guerriero era svanito e gli occhi gli si riempivano di sonno.
— Magari! — scappò detto al padre, — andasse in pezzi! Vi farei vedere il Leone, i Gemelli…
— Il Leone! — Michelino fu preso d'entusiasmo. — Aspetta! — Gli era venuta un'idea. Prese la fionda, la caricò del ghiaino di cui sempre aveva in tasca una riserva, e tirò una sventagliata di sassolini con tutte le forze contro il GNAC.
Si sentì la gragnuola cadere sparpagliata sulle tegole del tetto di fronte, sulle lamiere della gronda, 3 tintinnio dei vetri d'una finestra colpita, il gong d'un sassolino picchiato giù sulla scodella d'un fanale, una voce in strada: –
Piovono pietre! Ehi lassù! Mascalzone! — Ma la scritta luminosa proprio sul momento del tiro s'era spenta per la fine dei suoi venti secondi. E tutti nella mansarda presero mentalmente a contare: uno due tre, dieci undici, fino a venti. Contarono diciannove, tirarono il respiro, contarono venti, contarono ventuno ventidue nel timore d'aver contato troppo in fretta, ma no, nulla, il GNAC non si riaccendeva, restava un nero ghirigoro male decifrabile intrecciato al suo castello di sostegno come la vite alla pergola. — Aaah! — gridarono tutti e la cappa del cielo s'alzò infinitamente stellata su di loro.