52063.fb2 Marcovaldo ovvero Le stagioni in citt? - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 13

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— Siamo padroni d'una lavanderia o d'una banca? — chiese Michelino.

— Comunque sia, siamo milionarii

I ragazzi non dormivano più dall'eccitazione e facevano progetti per il futuro:

— Basta che riscuotiamo tutti questi campioni e metteremo insieme quantità immense di detersivo.

— Dove lo metteremo?

— Dobbiamo affittare un magazzino!

— Perché non un bastimento?

La pubblicità, come i fiori e i frutti, va a stagioni. Dopo qualche settimana, la stagione dei detersivi finì; nelle cassette si trovavano solo avvisi di callifughi.

— Ci mettiamo a raccogliere anche questi? — propose qualcuno. Ma prevalse l'idea di dedicarsi subito alla riscossione delle ricchezze accumulate in detersivi. Si trattava d'andare nei negozi prescritti, t a farsi dare un campione per ogni tagliando: ma questa nuova fase del loro piano, in apparenza semplicissima, si rivelò molto più lunga e complicata della prima.

Le operazioni andavano condotte in ordine sparso: un ragazzo per volta in un negozio per volta. Si potevano presentare anche tre o quattro tagliandi insieme, purché di marche diverse, e se i commessi volevano dare solo un campione d'una marca e nient'altro, bisognava dire: «La mia mamma li vuoi provare tutti per vedere qual è meglio».

I Le cose si complicavano quando, come succedeva in molti negozi, il campione gratis lo davano solo a chi faceva degli acquisti; mai le mamme avevano visto i ragazzi tanto ansiosi d'andare a far commissioni in drogheria.

Insomma, la trasformazione dei buoni in mercé andava per le lunghe e richiedeva spese supplementari perché le commissioni con i soldi delle madri erano poche e le drogherie da perlustrare erano molte. Per procurarsi dei fondi non c'era altro mezzo che attaccare subito la terza fase del piano, cioè la vendita del detersivo già riscosso.

Decisero d'andare a venderlo per le case, suonando i campanelli. — Signora! Le interessa? Bucato I perfetto! — e porgevano la scatola di Risciaquick o la bustina di Blancasol.

— Sì, sì, datemi, grazie, — diceva qualcuna, e appena preso il campione, chiudeva loro la porta in faccia.

— Come? E pagare? — e tempestavano di pugni la porta.

— Pagare? Non è gratis? Andate via, monelli! Proprio in quei giorni, infatti, stavano passando casa per casa incaricati delle varie marche a depositare campioni gratis: era una nuova offensiva pubblicitaria intrapresa da tutto il ramo detersivi, vista poco fruttuosa la campagna dei tagliandi omaggio.

Casa Marcovaldo sembrava il magazzino d'una drogheria, piena com'era di prodotti Candofior, Limpialin, Lavolux; ma da tutta questa quantità di mercé non c'era da tirar fuori neanche un soldo; era roba che si regala, come l'acqua delle fontane.

Naturalmente, tra gli incaricati delle ditte non tardò a spargersi la voce che certi ragazzi stavano facendo il loro stesso giro porta per porta, vendendo gli stessi prodotti che loro pregavano d'accettare gratis. Nel mondo del commercio sono frequenti le ondate di pessimismo: si cominciò a dire che mentre a loro che li regalavano la gente rispondeva che non sapeva cosa farsene di detersivi, da quelli che li facevano pagare, invece, li compravano. Si riunirono gli uffici-studi delle varie ditte, furono consultati specialisti di «ricerca di mercato»: la conclusione cui si giunse fu che una concorrenza così sleale poteva esser fatta solo da ricettatori di mercé rubata. La polizia, dietro regolare denuncia contro ignoti, cominciò a battere il quartiere in cerca dei ladri e del nascondiglio della refurtiva.

Da un momento all'altro il detersivo diventò pericoloso come dinamite. Marcovaldo si spaventò: — Non voglio più neanche un grammo di queste polverine in casa mia! — Ma non si sapeva dove metterlo, in casa non lo voleva nessuno. Fu deciso che i bambini andassero a buttarlo tutto in fiume.

Era prima dell'alba; sul ponte arrivò un carretto tirato da Pietruccio e spinto dai suoi fratelli, carico di scatole di Saponalba e Lavolux, poi un altro carretto uguale tirato da Uguccione, il figlio della portinaia di fronte, e altri, altri ancora. In mezzo al ponte si fermarono, lasciarono passare un ciclista che si voltava a curiosare, poi, — Via! –

Michelino cominciò il lancio delle scatole nel fiume.

— Stupido! Non vedi che galleggiano? — gridò Fi — lippetto. — Bisogna rovesciare nel fiume la polvere, non la scatola!

E dalle scatole aperte una per una, calava soffice una nuvola bianca, si posava sulla corrente che pareva l'assorbisse, ricompariva in un pullulare di minute bollicine, poi sembrava andare a fondo. — Così va bene! — e i ragazzi continuavano a scaricarne miriagrammi e miriagrammi.

— Attenzione, laggiù! — gridò Michelino, e indicò a valle.

Dopo il ponte c'era la rapida. Dove la corrente imboccava la discesa, le bollicine non si vedevano più; tornavano a saltar fuori più sotto, ma adesso erano diventate grosse bolle che si gonfiavano spingendosi l'un l'altra dal basso, un'onda di saponata che s'alzava, s'ingigantiva, già era alta quanto la rapida, una schiuma biancheggiante come la ciotola d'un barbiere rimestata dal pennello. Pareva che tutte quelle polverine di marche concorrenti si fossero messe di puntiglio a dar prova della loro effervescenza: il fiume traboccava di saponata nelle banchine, e i pescatori, che alle prime luci erano già con gli stivali a mollo, tiravano su le lenze e scappavano.

Per l'aria mattutina corse un filo di vento. Un grappolo di bolle si staccò dalla superficie dell'acqua, e volava volava via leggero. Era l'alba e le bolle si coloravano di rosa. I bambini le vedevano passare alte sopra il loro capo e gridavano: — Oooo…

Le bolle volavano seguendo gli invisibili binari delle correnti d'aria sulla città, imboccavano le vie all'altezza dei tetti, sempre salvandosi dallo sfiorare spigoli e grondaie. Ora la compattezza del grappolo s'era dissolta: le bolle una prima una poi erano volate per conto loro, e tenendo ognuna una rotta diversa per altitudine e speditezza e tracciato, vagavano a mezz'aria. S'erano, si sarebbe detto, moltiplicate; anzi: era così davvero, perché il fiume continuava a traboccare di schiuma come un bricco di latte al fuoco. E il vento, il vento levava in alto bave e gale e cumuli che s'allungavano in ghirlande iridate (i raggi del sole obliquo, scavalcati i tetti, avevano ormai preso possesso della città e del fiume), e invadevano il cielo sopra i fili e le antenne.

Ómbre scure d'operai correvano alle fabbriche sui ciclomotori scoppiettanti e lo sciame verdero-sazzurro librato su di loro li seguiva come se ognuno di loro si tirasse dietro un grappolo di palloncini legati al manubrio con un lungo filo.

Fu da un tram che se ne accorsero: — Che guardino! Ehi, che guardino! Cos'è che c'è là in cima? — II tramviere fermò e scese: scesero tutti i passeggeri e si misero a guardare in cielo, si fermavano le bici e i ciclomotori e le auto e i giornalai e i fornai e tutti i passanti mattinieri e tra loro Marcovaldo che stava andando a lavorare, e tutti si misero a naso in su seguendo il volo delle bolle di sapone.

— Non sarà una roba atomica? — chiese una vecchia, e la paura corse nella gente, e chi vedeva una bolla scendergli addosso scappava gridando: — È radioattiva!

Ma le bolle continuavano il loro sfarfallio, iridate e fragili e leggere, che bastava un soffio, e piff! non c'eran più; e presto nella gente l'allarme si spense così come s'era acceso. — Macché radioattive! È sapone! Bolle di sapone come quelle dei bambini! — e una frenetica allegria s'impadronì di loro. — Guarda quella! E quella! E quella! — perché ne vedevano volare delle enormi, di dimensioni incredibili, e allo sfiorarsi tra loro queste bolle si fondevano, diventavano doppie e triple, e il cielo i tetti i grattacieli attraverso queste cupole trasparenti apparivano di forme e colori che non s'erano mai visti.

Dalle loro ciminiere, le fabbriche avevano cominciato a buttar fuori fumo nero come ogni mattino. E gli sciami di bolle s'incontravano con le nubi di fumo e il cielo era diviso tra correnti di fumo nero e correnti di schiuma iridata, e in qualche mulinello di vento pareva che lottassero, e per un momento, un momento solo, parve che la cima dei fumaioli fosse conquistata dalle bolle, ma presto ci fu una tale mescolanza — tra il fumo che imprigionava l'arcobaleno della schiuma e le sfere di saponata che imprigionavano un velo di granelli di fuliggine —, da non capirci più niente. Finché a un certo punto Marcovaldo cerca cerca nel cielo non riusciva a vedere più le bolle ma solo fumo fumo fumo.

Estate

18 La città tutta per lui

La popolazione per undici mesi all'anno amava la città che guai toccargliela: i grattacieli, i distributori di sigarette, i cinema a schermo panoramico, tutti motivi indiscutibili di continua attrattiva. L'unico abitante cui non si poteva attribuire questo sentimento con certezza era Marcovaldo; ma quel che pensava lui — primo — era difficile saperlo data la scarsa sua comunicativa, e — secondo — contava così poco che comunque era lo stesso.

A un certo punto dell'anno, cominciava il mese d'agosto. Ed ecco: s'assisteva a un cambiamento di sentimenti generale. Alla città non voleva bene più nessuno: gli stessi grattacieli e sottopassaggi pedonali e autoparcheggi fino a ieri tanto amati erano diventati antipatici e irritanti. La popolazione non desiderava altro che andarsene al più presto: e così a furia di riempire treni e ingorgare autostrade, al 15 del mese se ne erano andati proprio tutti. Tranne uno. Marcovaldo era l'unico abitante a non lasciare la città.

Uscì a camminare per il centro, la mattina. S'aprivano larghe e interminabili le vie, vuote di macchine e deserte; le facciate delle case, dalla siepe grigia delle saracinesche abbassate alle infinite stecche delle persiane, erano chiuse come spalti. Per tutto l'anno Marcovaldo aveva sognato di poter usare le strade come strade, cioè camminandoci nel mezzo: ora poteva farlo, e poteva anche passare i semafori col rosso, e attraversare in diagonale, e fermarsi nel centro delle piazze. Ma capì che il piacere non era tanto il fare queste cose insolite, quanto il vedere tutto in un altro modo: le vie come fondovalli, o letti di fiumi in secca, le case come blocchi di montagne scoscese, o pareti di scogliera.

Certo, la mancanza di qualcosa saltava agli occhi: ma non della fila di macchine parcheggiate, o dell'ingorgo ai crocevia, o del flusso di folla sulla porta del grande magazzino, o dell'isolotto di gente ferma in attesa del tram; ciò che mancava per colmare gli spazi vuoti e incurvare le superfici squadrate, era magari un'alluvione per lo scoppio delle condutture dell'acqua, o un'invasione di radici degli alberi del viale che spaccassero la pavimentazione. Lo sguardo di Marcovaldo scrutava intorno cercando l'affiorare d'una città diversa, una città di cortecce e squame e grumi e nervature sotto la città di vernice e catrame e vetro e intonaco. Ed ecco che il caseggiato davanti al quale passava tutti i giorni gli si rivelava essere in realtà una pietraia di grigia arenaria porosa; la staccionata d'un cantiere era d'assi di pino ancora fresco con nodi che parevano gemme; sull'insegna del grande negozio di tessuti riposava una schiera di farfalline di tarme, addormentate.

Si sarebbe detto che, appena disertata dagli uomini, la città fosse caduta in balia d'abitatori fino a ieri nascosti, che ora prendevano il sopravvento: la passeggiata di Marcovaldo seguiva per un poco l'itinerario d'una fila di formiche, poi si lasciava sviare dal volo d'uno scarabeo smarrito, poi indugiava accompagnando il sinuoso incedere d'un lombrico. Non erano solo gli animali a invadere il campo: Marcovaldo scopriva che alle edicole dei giornali, sul lato nord, si forma un sottile strato di muffa, che gli alberelli in vaso davanti ai ristoranti si sforzano di spingere le loro foglie fuori dalla cornice d'ombra del marciapiede. Ma esisteva ancora la città? Quell'agglomerato di materie sintetiche che rin — serrava le giornate di Marcovaldo, ora si rivelava un mosaico di pietre disparate, ognuna ben distinta dalle altre alla vista e al contatto, per durezza e calore e consistenza.

Così, dimenticando la funzione dei marciapiedi e delle strisce bianche, Marcovaldo percorreva le vie con zig-zag da farfalla, quand'ecco che il radiatore d'una «spider» lanciata a cento all'ora gli arrivò a un millimetro da un'anca.

Metà per lo spavento, metà per lo spostamento d'aria, Marcovaldo balzò su e ricadde tramortito.

La macchina, con un gran gnaulìo, frenò girando quasi su se stessa. Ne saltò fuori un gruppo di giovanotti scamiciati. «Qui mi prendono a botte, — pensò Marcovaldo, — perché camminavo in mezzo alla via!»

I giovanotti erano armati di strani arnesi. — Finalmente l'abbiamo trovato! Finalmente! — dicevano, circondando Marcovaldo. — Ecco dunque, — disse uno di loro reggendo un bastoncino color d'argento vicino alla bocca, — l'unico abitante rimasto in città il giorno di ferragosto. Mi scusi, signore, vuoi dire le sue impressioni ai telespettatori? — e gli cacciò il bastoncino argentato sotto il naso.

Era scoppiato un bagliore accecante, faceva caldo come in un forno, e Marcovaldo stava per svenire. Gli avevano puntato contro riflettori, «telecamere», microfoni. Balbettò qualcosa: a ogni tre sillabe che lui diceva, sopravveniva quel giovanotto, torcendo il microfono verso di sé: — Ah, dunque, lei vuoi dire… — e attaccava a parlare per dieci minuti.

Insomma, gli fecero l'intervista.

— E adesso, posso andare?

— Ma sì, certo, la ringraziamo moltissimo… Anzi, se lei non avesse altro da fare… e avesse voglia di guadagnare qualche biglietto da mille… non le dispiacerebbe restare qui a darci una mano?

Tutta la piazza era sottosopra: furgoni, carri attrezzi, macchine da presa col carrello, accumulatori, impianti di lampade, squadre di uomini in tuta che ciondolavano da una parte all'altra tutti sudati.

— Eccola, è arrivata! è arrivata! — Da una fuoriserie scoperta, scese una stella del cinema.

— Sotto, ragazzi, possiamo cominciare la ripresa della fontana!

Il regista del «teleservizio» Follie di Ferragosto cominciò a dar ordini per riprendere il tuffo della famosa diva nella principale fontana cittadina.

Al manovale Marcovaldo avevano dato da spostare per la piazza un padellone di riflettore dal pesante piedestallo.