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— Dovrebbe intervenire l'autorità: sequestrare la villa! — gridava uno.
— Con che diritto? — protestava un altro.
— In un quartiere moderno come il nostro, una topaia così… Dovrebb'essere proibito…
— Ma se io il mio appartamento l'ho scelto proprio perché ha la vista su questo poco di verde…
— Macché verde! Pensate al bel grattacielo che potrebbero farci!
Anche Marcovaldo avrebbe avuto da dire la sua, ma non trovava il momento adatto. Finalmente, tutto d'un fiato, esclamò: — La marchesa mi ha rubato una trota!
La notizia inaspettata diede nuovi argomenti ai nemici della vecchia, ma i difensori se ne servirono come d'una prova dell'indigenza in cui versava la sfortunata nobildonna. Gli uni e gli altri furono d'accordo sul fatto che Marcovaldo dovesse andare a bussare alla sua porta e a chiederle ragione.
Il cancello non si capiva se fosse chiuso a chiave o aperto: comunque, s'apriva spingendo, con un lamentoso cigolìo.
Marcovaldo si fece largo tra le foglie e i gatti, salì i gradini del portico, bussò forte all'uscio.
A una finestra (la stessa da cui s'era affacciata la padella) si alzò lo scuro della persiana e in quell'angolo si vide un occhio rotondo e turchino, una ciocca dal colore indefinibile dei capelli tinti, e una mano secca secca. Una voce che diceva: — Chi è? Chi bussa? — arrivò insieme a una nuvola d'odore d'olio fritto.
— Io, signora marchesa, sarei quello della trota, — spiegò Marcovaldo, — non per disturbarla, era solo per dirle che la trota, nel caso lei non lo sapesse, quel gatto l'aveva rubata a me, che sarei quello che l'aveva pescata, tant'è vero che la lenza…
— I gatti, sempre i gatti! — fece la marchesa, nascosta dietro la persiana, con una voce acuta e un po' nasale. — Tutte le mie maledizioni vengono dai gatti! Nessuno sa cosa vuoi dire! Prigioniera notte e giorno di quelle bestiacce! E con tutta l'immondizia che la gente butta da dietro i muri, per farmi dispetto!
— Mala mia trota…
— La sua trota! Cosa vuole che ne sappia della sua trota! — e la voce della marchesa diventava quasi un grido, come volesse coprire lo sfrigolìo d'olio in padella che usciva dalla finestra insieme all'odorino di pesce fritto. — Come posso capire qualcosa con tutto quel che mi piove in casa?
— Sì, ma la trota l'ha presa o non l'ha presa?
— Con tutti i danni che subisco per via dei gatti! Ah, vorrei proprio vedere! Io non rispondo di nulla! Dovessi dire io, quello che ho perso! Coi gatti che mi occupano da anni casa e giardino! La mia vita in balia di queste bestie! Valli a trovare, i proprietari, per farti rifondere i danni! Danni? Una vita distrutta: prigioniera qui, senza poter muovere un passo!
— Ma, scusi, chi la obbliga a restare?
Dallo spiraglio della persiana appariva ora un occhio tondo e turchino, ora una bocca con due denti sporgenti; per un momento si vide tutto il viso e a Marcovaldo sembrò confusamente un muso di gatto.
— Loro, mi tengono prigioniera, loro, i gatti! Oh, se me ne andrei! Quanto darei per un appartamentino tutto mio, in una casa moderna, pulita! Ma non posso uscire… Mi seguono, si mettono di traverso ai miei passi, mi fanno inciampare! — La voce divenne un sussurro, come confidasse un segreto. — Hanno paura che venda il terreno… Non mi lasciano… non permettono… Quando vengono gli impresari a propormi un contratto, dovrebbe vetirano derli, i gatti! Si mettono di mezzo, unghie, hanno fatto scappare anche un notaio! Una volta avevo il contratto qui, stavo per firmare, e sono piombati dalla finestra, hanno rovesciato il calamaio, strappato tutti i fogli…
Marcovaldo si ricordò tutt'a un tratto dell'ora, del magazzino, del caporeparto. S'allontanò in punta di piedi sulle foglie secche, mentre la voce continuava a uscire di tra le stecche della persiana avvolta in quella nube come d'olio in padella: — Mi hanno fatto anche un graffio… Ho ancora il segno… Qui abbandonata in balia di questi demonii…
Venne l'inverno. Una fioritura di fiocchi bianchi guarniva i rami e i capitelli e le code dei gatti. Sotto la neve le foglie secche si sfacevano in poltiglia. I gatti li si vedeva poco in giro, le amiche dei gatti meno ancora; i pacchetti di resche venivano consegnati solo al gatto che si presentava a domicilio. Nessuno, da un bel po', aveva più visto la marchesa. Dal comignolo del villino non usciva più fumo.
Un giorno di nevicata, nel giardino erano tornati tanti gatti come fosse primavera, e miagolavano come in una notte di luna. I vicini capirono che era successo qualcosa: andarono a bussare alla porta della marchesa. Non rispose: era morta.
A primavera, al posto del giardino un'impresa di costruzioni aveva impiantato un gran cantiere. Le scavatrici erano scese a gran profondità per far posto alle fondamenta, il cemento colava nelle armature di ferro, un'altissima gru porgeva sbarre agli operai che costruivano le incastellature. Ma come si faceva a lavorare? I gatti passeggiavano su tutte le impalcate, facevano cadere mattoni e secchi di calcina, s'azzuffavano in mezzo ai mucchi di sabbia. Quando s'andava per innalzare un'armatura si trovava un gatto appollaiato in cima che sbuffava inferecito. Mici più sornioni s'arrampicavano sulle spalle dei muratori con l'aria di voler far le fusa e non c'era verso di scacciarli. E gli uccelli continuavano a fare il nido in tutti i tralicci, il casotto della gru sembrava una voliera… E non si poteva prendere un secchio d'acqua senza trovarlo pieno di ranocchi che gracidavano e saltavano…
Non c'è epoca dell'anno più gentile e buona, per il mondo dell'industria e del commercio, che il Natale e le settimane precedenti. Sale dalle vie il tremulo suono delle zampogne; e le società anonime, fino a ieri freddamente intente a calcolare fatturato e dividendi, aprono il cuore agli affetti e al sorriso. L'unico pensiero dei Consigli d'amministrazione adesso è quello di dare gioia al prossimo, mandando doni accompagnati da messaggi d'augurio sia a ditte consorelle che a privati; ogni ditta si sente in dovere di comprare un grande stock di prodotti da una seconda ditta per fare i suoi regali alle altre ditte; le quali ditte a loro volta comprano da una ditta altri stock di regali per le altre; le finestre aziendali restano illuminate fino a tardi, specialmente quelle del magazzino, dove il personale continua le ore straordinarie a imballare pacchi e casse; al di là dei vetri appannati, sui marciapiedi ricoperti da una crosta di gelo s'inoltrano gli zampognari, discesi da buie misteriose montagne, sostano ai crocicchi del centro, un po' abbagliati dalle troppe luci, dalle vetrine troppo adorne, e a capo chino danno fiato ai loro strumenti; a quel suono tra gli uomini d'affari le grevi contese d'interessi si placano e lasciano il posto ad una nuova gara: a chi presenta nel modo più grazioso il dono più cospicuo e originale. Alla Sbav quell'anno l'Ufficio Relazioni Pubbliche propose che alle persone di maggior riguardo le strenne fossero recapitate a domicilio da un uomo vestito da Babbo Natale.
L'idea suscitò l'approvazione unanime dei dirigenti. Fu comprata un'acconciatura da Babbo Natale completa: barba bianca, berretto e pastrano rossi bordati di pelliccia, stivaloni. Si cominciò a provare a quale dei fattorini andava meglio, ma uno era troppo basso di statura e la barba gli toccava per terra, uno era troppo robusto e non gli entrava il cappotto, un altro troppo giovane, un altro invece troppo vecchio e non valeva la pena di truccarlo.
Mentre il capo dell'Ufficio Personale faceva chiamare altri possibili Babbi Natali dai vari reparti, i dirigenti radunati cercavano di sviluppare l'idea: l'Ufficio Relazioni Umane voleva che anche il pacco — strenna alle maestranze fosse consegnato da Babbo Natale in una cerimonia collettiva; l'Ufficio Commerciale voleva fargli fare anche un giro dei negozi; l'Ufficio Pubblicità si preoccupava che facesse risaltare il nome della ditta, magari reggendo appesi a un filo quattro palloncini con le lettere S, B, A, V.
Tutti erano presi dall'atmosfera alacre e cordiale che si espandeva per la città festosa e produttiva; nulla è più bello che sentire scorrere intorno il flusso dei beni materiali e insieme del bene che ognuno vuole agli altri; e questo, questo soprattutto — come ci ricorda il suono, firulì firulì, delle zampegne —, è ciò che conta.
In magazzino, il bene — materiale e spirituale — passava per le mani di Marcovaldo in quanto mercé da caricare e scaricare. E non solo caricando e scaricando egli prendeva parte alla festa generale, ma anche pensando che in fondo a quel labirinto di centinaia di migliaia di pacchi lo attendeva un pacco solo suo, preparatogli dall'Ufficio Relazioni Umane; e ancora di più facendo il conto di quanto gli spettava a fine mese tra «tredicesima mensilità» e «ore straordinarie». Con quei soldi, avrebbe potuto correre anche lui per i negozi, a comprare comprare comprare per regalare regalare regalare, come imponevano i più sinceri sentimenti suoi e gli interessi generali dell'industria e del commercio.
Il capo dell'Ufficio Personale entrò in magazzino con una barba finta in mano: — Ehi, tu! — disse a Marcovaldo. –
Prova un po' come stai con questa barba. Benissimo! Il Natale sei tu. Vieni di sopra, spicciati. Avrai un premio speciale se farai cinquanta consegne a domicilio al giorno.
Marcovaldo camuffato da Babbo Natale percorreva la città, sulla sella del motofurgoncino carico di pacchi involti in carta variopinta, legati con bei nastri e adorni di rametti di vischio e d'agrifoglio. La barba d'ovatta bianca gli faceva un po' di pizzicorino ma serviva a proteggergli la gola dall'aria.
La prima corsa la fece a casa sua, perché non resisteva alla tentazione di fare una sorpresa ai suoi bambini.
«Dapprincipio, — pensava, — non mi riconosceranno. Chissà come rideranno, dopo!»
I bambini stavano giocando per la scala. Si voltarono appena. — Ciao papa.
Marcovaldo ci rimase male. — Mah… Non vedete come sono vestito?
— E come vuoi essere vestito? — disse Pietruccio. — Da Babbo Natale, no?
— E m'avete riconosciuto subito?
— Ci vuoi tanto! Abbiamo riconosciuto anche il signor Sigismondo che era truccato meglio di te!
— E il cognato della portinaia!
— E il padre dei gemelli che stanno di fronte!
— E lo zio di Ernestina quella con le trecce!
— Tutti vestiti da Babbo Natale? — chiese Marcovaldo, e la delusione nella sua voce non era soltanto per la mancata sorpresa familiare, ma perché I sentiva in qualche modo colpito il prestigio azien—, dale.
— Certo, tal quale come te, uffa, — risposero i bambini, — da Babbo Natale, al solito, con la barba finta, — e voltandogli le spalle, si rimisero a badare ai loro giochi.
Era capitato che agli Uffici Relazioni Pubbliche di molte ditte era venuta contemporaneamente la stessa idea; e avevano reclutato una gran quantità di persone, per lo più disoccupati, pensionati, ambulanti, per vestirli col pastrano rosso e la barba di bambagia. I bambini dopo essersi divertiti le prime volte a riconoscere sotto quella mascheratura conoscenti e persone del quartiere, dopo un po' ci avevano fatto l'abitudine e non ci badavano più.
Si sarebbe detto che il gioco cui erano intenti li appassionasse molto. S'erano radunati su un pianerottolo, seduti in cerchio. — Si può sapere cosa state complottando? — chiese Marcovaldo.
— Lasciaci in pace, papa, dobbiamo preparare i regali.
— Regali per chi?
— Per un bambino povero. Dobbiamo cercare un bambino povero e fargli dei regali.
— Ma chi ve l'ha detto?