52063.fb2 Marcovaldo ovvero Le stagioni in citt? - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 4

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L'uomo di neve ingoiò anche quello.

Allora provarono a mettergli per naso un pezzo di carbone, di quelli a bacchettina. Marcovaldo lo sputò via con tutte le sue forze. — Aiuto! È vivo! È vivo! — I ragazzi scapparono.

In un angolo del cortile c'era una grata da cui usciva una nube di calore. Marcovaldo, con pesante passo d'uomo di neve, si andò a mettere lì. La neve gli si sciolse addosso, colò in rivoli sui vestiti: ne ricomparve un Marcovaldo tutto gonfio e intasato dal raffreddore.

Prese la pala, soprattutto per scaldarsi, e si mise al lavoro nel cortile. Aveva uno starnuto che s'era fermato in cima al naso, stava lì lì, e non si decideva a saltar fuori. Marcovaldo spalava, con gli occhi semichiusi, e lo starnuto restava sempre appollaiato in cima al suo naso. Tutt'a un tratto: l'«Aaaaah…» fu quasi un boato, e il: «.. ciù!» fu più forte che lo scoppio d'una mina. Per lo spostamento d'aria, Marcovaldo fu sbatacchiato contro il muro.

Altro che spostamento: era una vera tromba d'aria che lo starnuto aveva provocato. Tutta la neve del cortile si sollevò, vortice come in una tormenta, e fu risucchiata in su, polverizzandosi nel cielo.

Quando Marcovaldo riaperse gli occhi dal suo tramortimento, il cortile era completamente sgombro, senza neppure un fiocco di neve. E agli occhi di Marcovaldo si ripresentò il cortile di sempre, i grigi muri, le casse del magazzino, le cose di tutti i giorni spigolose e ostili.

Primavera

5 La cura delle vespe

L'inverno se ne andò e si lasciò dietro i dolori reumatici. Un leggero sole meridiano veniva a rallegrare le giornate, e Marcovaldo passava qualche ora a guardar spuntare le foglie, seduto su una panchina, aspettando di tornare a lavorare. Vicino a lui veniva a sedersi un vecchietto, ingobbito nel suo cappotto tutto rammendi: era un certo signor Rizieri, pensionato e solo al mondo, anch'egli assiduo delle panchine soleggiate. Ogni tanto questo signor Rizieri dava un guizzo, gridava — Ahi! — e s'ingobbiva ancora di più nel suo cappotto. Era carico di reumatismi, di artriti, di lombaggini, che raccoglieva nell'inverno umido e freddo e che continuavano a seguirlo tutto l'anno. Per consolarlo, Marcovaldo gli spiegava le varie fasi dei reumatismi suoi, e di quelli di sua moglie e di sua figlia maggiore Isolina, che, poveretta, non cresceva tanto sana.

Marcovaldo si portava ogni giorno il pranzo in un pacchetto di carta da giornale; seduto sulla panchina lo svolgeva e dava il pezzo di giornale spiegazzato al signor Rizieri che tendeva la mano impaziente, dicendo: — Vediamo che notizie ci sono, — e lo leggeva con interesse sempre uguale, anche se era di due anni prima.

Così un giorno ci trovò un articolo sul sistema di guarire dai reumatismi col veleno d'api.

— Sarà col miele, — disse Marcovaldo, sempre propenso all'ottimismo.

— No, — fece Rizieri, — col veleno, dice qui, con quello del pungiglione, — e gli lesse alcuni brani. Discussero a lungo sulle api, sulle loro virtù e su quanto poteva costare quella cura.

Da allora, camminando per i corsi, Marcovaldo tendeva l'orecchio a ogni ronzio, seguiva con lo sguardo ogni insetto che gli volava attorno. Così, osservando i giri d'una vespa dal grosso addome a strisce nere e gialle, vide che si cacciava nel cavo d'un albero e che altre vespe uscivano: un brusio, un va e vieni che annunciavano la presenza di un intero vespaio dentro al tronco. Marcovaldo s'era messo subito alla caccia. Aveva un barattolo di vetro, in fondo al quale restavano ancora due dita di marmellata. Lo posò aperto vicino all'albero. Presto una vespa gli ronzò intorno, ed entrò, attratta dall'odore zuccherino; Marcovaldo fu svelto a tappare il barattolo con un coperchio di carta.

E al signor Rizieri, appena lo vide, potè dire: — Su, su, ora le faccio l'iniezione! — mostrandogli il flacone con la vespa infuriata prigioniera.

Il vecchietto era esitante, ma Marcovaldo non voleva a nessun costo rimandare l'esperimento, e insisteva per farlo lì stesso, sulla loro panchina: non c'era neanche bisogno che il paziente si spogliasse. Con timore e insieme con speranza, il signor Rizieri sollevò un lembo del cappotto, della giacca, della camicia, e aprendosi un varco tra le maglie bucate si scoperse un punto dei lombi dove gli doleva. Marcovaldo applicò lì la bocca del flacone e strappò via la carta che faceva da coperchio. Da principio non successe niente; la vespa stava ferma: s'era addormentata?

Marcovaldo per svegliarla menò una botta sul fondo del barattolo. Era proprio il colpo che ci voleva: l'insetto sfrecciò avanti e conficcò il pungiglione nei lombi del signor Rizieri. Il vecchietto cacciò un urlo, saltò in piedi e prese a camminare come un soldato che fa il passo di parata, sfregandosi la parte punta e sgranando una sequela di confuse imprecazioni.

Marcovaldo era tutto soddisfatto, mai il vecchietto era stato così diritto e marziale. Ma s'era fermato un vigile lì vicino, e guardava con tanto d'occhi; Marcovaldo prese Rizieri sottobraccio e s'allontanò fischiettando.

Rincasò con un'altra vespa nel barattolo. Convincere la moglie a farsi fare la puntura non fu affare da poco, ma alla fine ci riuscì. Per un po', se non altro, Domitilla si lamentò solo del bruciore della vespa.

Marcovaldo si diede a catturare vespe a tutt'andare. Fece un'iniezione a Isolina, una seconda a Domitilla, perché solo una cura sistematica poteva recare giovamento. Poi si decise a farsi pungere anche lui. I bambini, si sa come sono, dicevano: — Anch'io, anch'io, — ma Marcovaldo preferì munirli di barattoli e indirizzarli alla cattura di nuove vespe, per alimentare il consumo giornaliero.

Il signor Rizieri venne a cercarlo a casa; era con lui un altro vecchietto, il cavalier Ulrico, che trascinava una gamba e voleva cominciare subito la cura.

La voce si sparse; Marcovaldo ora lavorava in serie: teneva sempre una mezza dozzina di vespe di riserva, ciascuna nel suo barattolo di vetro, disposte su una mensola. Applicava il barattolo sulle terga dei pazienti come fosse una siringa, tirava via il coperchio di carta, e quando la vespa aveva punto, sfregava col cotone imbevuto d'alcool, con la mano disinvolta d'un medico provetto. Casa sua consisteva d'una sola stanza, in cui dormiva tutta la famiglia; la divisero con un paravento improvvisato, di qua sala d'aspetto, di là studio. Nella sala d'aspetto la moglie di Marcovaldo introduceva i clienti e ritirava gli onorari. I bambini prendevano i barattoli vuoti e correvano dalle parti del vespaio a far rifornimento. Qualche volta una vespa li pungeva, ma non piangevano quasi più perché sapevano che faceva bene alla salute.

Quell'anno i reumatismi serpeggiavano tra la popolazione come i tentacoli d'una piovra; la cura di Marcovaldo venne in grande fama; e al sabato pomeriggio egli vide la sua povera soffitta invasa d'una piccola folla d'uomini e donne afflitti, che si premevano una mano sulla schiena o sui fianchi, alcuni dall'aspetto cencioso di mendicanti, altri con l'aria di persone agiate, attratti dalla novità di quel rimedio.

— Presto, — disse Marcovaldo ai suoi tre figli maschi, — prendete i barattoli e andatemi ad acchiappare più vespe che potete — I ragazzi andarono.

Era una giornata di sole, molte vespe ronzavano nel corso. I ragazzi erano soliti dar loro la caccia un po' discosti dall'albero in cui era il vespaio, puntando sugli insetti isolati. Ma quel giorno Michelino, per far presto e prenderne di più, si mise a cacciare proprio intorno all'imboccatura del vespaio. — Così si fa, — diceva ai fratelli, e cercava di acchiappare una vespa cacciandole sopra il barattolo appena si posava. Ma quella ogni volta volava via e ritornava a posarsi sempre più vicino al vespaio. Ora era proprio sull'orlo della cavità del tronco, e Michelino stava per calarle sopra il flacone, quando sentì altre due grosse vespe awentarglisi contro come se volessero pungerlo al capo.

Si schermì, ma sentì la trafittura dei pungiglioni e, gridando dal dolore, lasciò andare il barattolo. Subito, l'apprensione per quel che aveva fatto gli cancellò il dolore: il barattolo era caduto dentro la bocca del vespaio. Non si sentiva più nessun ronzio, non usciva più nessuna vespa; Michelino senza la forza neppure di gridare, indietreggiò d'un passo, quando dal vespaio scoppiò fuori una nuvola nera, spessa, con un ronzio assordante: erano tutte le vespe che avanzavano in uno sciame infuriato!

I fratelli sentirono Michelino cacciare un urlo e partire correndo come non aveva mai corso in vita sua. Pareva andasse a vapore, tanto quella nuvola che si portava dietro sembrava il fumo d'una ciminiera.

Dove scappa un bambino inseguito? Scappa a casa! Così Michelino.

I passanti non avevano il tempo di capire cos'era quell'apparizione tra la nuvola e l'essere umano che saettava per le vie con un boato misto a un ronzio.

Marcovaldo stava dicendo ai suoi pazienti: — Abbiate pazienza, adesso arrivano le vespe, — quando la porta s'aperse e lo sciame invase la stanza. Nemmeno videro Michelino che andava a cacciare il capo in un catino d'acqua: tutta la stanza fu piena di vespe e i pazienti si sbracciavano nell'inutile tentativo di scacciarle, e i reumatizzati facevano prodigi d'agilità e gli arti rattrappiti si scioglievano in movimenti furiosi.

Vennero i pompieri e poi la Croce Rossa. Sdraiato sulla sua branda all'ospedale, gonfio irriconoscibile dalle punture, Marcovaldo non osava reagire alle imprecazioni che dalle altre brande della corsia gli lanciavano i suoi clienti.

Estate

6 Un sabato di sole, sabbia e sonno

— Per i suoi reumi, — aveva detto il dottore della Mutua, — quest'estate ci vogliono delle belle sabbiature —. E Marcovaldo un sabato pomeriggio esplorava le rive del fiume, cercando un posto di rena asciutta e soleggiata. Ma dove c'era rena, il fiume era tutto un gracchiare di catene arrugginite; draghe e gru erano al lavoro: macchine vecchie come dinosauri che scavavano dentro il fiume e rovesciavano enormi cucchiaiate di sabbia negli autocarri delle imprese edilizie fermi lì tra i salici. La fila dei secchi delle draghe salivano diritti e scendevano capovolti, e le gru sollevavano sul lungo collo un gozzo da pellicano stillante gocce della nera mota del fondo. Marcovaldo si chinava a tastare la sabbia, la schiacciava nella mano; era umida, una palta, una fanghiglia: anche là dove al sole si formava in superficie una crosta secca e friabile, un centimetro sotto era ancora bagnata.

I bambini di Marcovaldo, che il padre s'era portati dietro sperando di farli lavorare a ricoprirlo di sabbia, non stavano più nella pelle dalla voglia di fare il bagno. — Papa, papa, ci tuffiamo! Nuotiamo nel fiume!

— Siete matti? C'è il cartello «Pericolosissimo bagnarsi»! Si annega, si va a fondo come pietre! — E spiegava che, dove il fondo del fiume è scavato dalle draghe, restano degli imbuti vuoti che risucchiano la corrente in mulinelli o vortici.

— Il mulinello, facci vedere il mulinello! — Per i bambini, la parola suonava allegra.

— Non si vede: ti prende per un piede, mentre nuoti, e ti trascina giù.

— E quello, perché non va giù? Cos'è, un pesce?

— No, è un gatto morto, — spiegava Marcovaldo. — Galleggia perché ha la pancia piena d'acqua.

— Il mulinello al gatto lo prende per la coda? — chiese Michelino.

Il pendio della riva erbosa, a un certo punto, s'allargava in uno spiazzo pianeggiante dov'era alzato un gran setaccio.

Due renaioli stavano setacciando un mucchio di sabbia, a colpi di pala, e sempre a colpi di pala la caricavano su di un barcone nero e basso, una specie di chiatta, che galleggiava lì legata a un salice. I due uomini barbuti lavoravano sotto il solleone con indosso cappello e giacca, ma tutta roba stracciata e muffita, e pantaloni che finivano in brandelli, sul ginocchio, lasciando nudi gambe e piedi.

In quella rena rimasta ad asciugare giorni e giorni, fine, separata dalle scorie, chiara come sabbia marina Marcovaldo riconobbe quel che ci voleva 1 per lui. Ma l'aveva scoperta troppo tardi: già la sta–1 vano ammucchiando su quel barcone per portarla via…

No, non ancora: i renaioli, sistemato il carico, diedero mano a un fiasco di vino, e dopo esserselo passato un paio di volte e aver bevuto a garganella, si sdraiarono all'ombra dei pioppi per lasciar passare l'ora più calda.

«Finché loro se ne stanno lì a dormire, io potrò coricarmi nella loro rena e far le sabbiature!» pensò Marcovaldo, e ai bambini, sottovoce, ordinò: — Presto, aiutatemi!

Saltò sul barcone, si tolse camicia pantaloni e scarpe, e si cacciò sotto la sabbia. — Copritemi! con la pala! — disse ai figli. — No, la testa no; quella mi serve per respirare e deve restar fuori! Tutto il resto!

Per i bambini era come quando si fanno le costruzioni di sabbia. — Ci giochiamo con le formine? No, un castello con i merli! Macché: ci vien bene un circuito per le biglie!

— Adesso andate via! — sbuffò Marcovaldo, da sotto il suo sarcofago d'arena. — Cioè: prima mettetemi un cappello di carta sulla fronte e sugli occhi. E poi saltate a riva e andate a giocare più lontano, se no i renaioli si svegliano e mi cacciano!

— Possiamo farti navigare per il fiume tirando il barcone da riva con la fune, — propose Filippetto, e già aveva mezzo slegato l'ormeggio.

Marcovaldo, immobilizzato, torceva bocca e occhi per sgridarli. — Se non ve ne andate subito e mi obbligate a uscire di qui sotto, vi bastono con la pala! — i ragazzi scapparono.

Il sole dardeggiava, la sabbia bruciava, e Marcovaldo grondando sudore sotto il cappelluccio di carta provava, nella sofferenza di star lì immobile a cuocere, il senso di soddisfazione che danno le cure faticose o le medicine sgradevoli, quando si pensa: più è cattiva più è segno che fa bene.

S'addormentò, cullato dalla corrente leggera che un po' tendeva, un po' rilassava l'ormeggio. Tendi e rilassa, il nodo, che prima Filippetto aveva già mezzo slegato, si sciolse del tutto. E la chiatta carica di sabbia scese libera per il fiume.

Era l'ora più calda del pomeriggio; tutto dormiva: l'uomo sepolto nella sabbia, le pergole degli imbarcaderi, i ponti deserti, le case che spuntavano a persiane chiuse oltre le murate. Il fiume era in magra, ma il barcone, spinto dalla corrente, evitava le secche di fanghiglia che affioravano ogni tanto, o bastava una scossa leggera sul fondo a rimetterlo nel filo dell'acqua più profonda.