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Capì d'essere in mezzo al fiume, in viaggio; nessuno rispondeva: era solo, sepolto in un barcone di sabbia alla deriva senza remi né timone. Sapeva che avrebbe dovuto alzarsi, cercare di approdare, chiamare aiuto; ma nello stesso tempo il pensiero che le sabbiature richiedevano una completa immobilità aveva il sopravvento, lo faceva sentire impegnato a star lì fermo più che poteva, per non perdere attimi preziosi alla sua cura.
In quel momento vide il ponte; e dalle statue e lampioni che adornavano le balaustre, dall'ampiezza delle arcate che invadevano il cielo, lo riconobbe: non pensava d'esser arrivato tanto avanti. E mentre entrava nell'opaca regione d'ombra che le volte proiettavano sotto di sé, si ricordò della rapida. Un centinaio di metri dopo il ponte, il letto del fiume aveva un salto; il barcone sarebbe precipitato giù per la cascata ribaltandosi, e lui sarebbe stato sommerso dalla sabbia, dall'acqua, dal barcone, senza alcuna speranza d'uscir vivo. Ma ancora, in quel momento, il suo cruccio maggiore era ai benefici effetti della sabbiatura che si sarebbero persi all'istante.
Attese il crollo. E avvenne: ma fu un tonfo da sotto in su. Sull'orlo della rapida, in quella stagione di magra, s'erano ammucchiati banchi di fanghiglia, qualcuno inverdito da esili cespi di canne e giunchi. Il barcone ci s'incagliò con tutta la sua piatta carena, facendo sobbalzare l'intero carico di sabbia e l'uomo sepolto dentro. Marcovaldo si trovò proiettato in aria come da una catapulta, e in quel momento vide il fiume sotto di lui. Ossia: non lo vide affatto, vide solo il brulichio di gente di cui il fiume era pieno.
Di sabato pomeriggio, una gran massa di bagnanti affollava quel tratto di fiume, dove l'acqua bassa arrivava solo fino all'ombelico, e i bambini vi sguazzavano a scolaresche intere, e donne grasse, e signori che facevano il morto, e ragazze in «bikini», e bulli che facevano la lotta, e materassini, palloni, salvagente, pneumatici di auto, barche a remi, barche a pagaia, barche a palo, canotti di gomma, canotti a motore, canotti del servizio salvataggi, jole delle società di canottieri, pescatori col tremaglio, pescatori con la lenza, vecchie con l'ombrello, signorine col cappello di paglia, e cani, cani, cani, dai barboncini ai sambernardo, così che non si vedeva neanche un centimetro d'acqua in tutto il fiume. E Marcovaldo, volando, era incerto se sarebbe caduto su un materassino di gomma o tra le braccia d'una giunonica matrona, ma d'una cosa era certo: che neppure una goccia d'acqua l'avrebbe sfiorato.
Le gioie di quel recipiente tondo e piatto chiamato «pietanziera» consistono innanzitutto nell'essere svitabile. Già il movimento di svitare il coperchio richiama l'acquolina in bocca, specie se uno non sa ancora quello che c'è dentro, perché ad esempio è sua moglie che gli prepara la pietanziera ogni mattina. Scoperchiata la pietanziera, si vede il mangiare lì pigiato: salamini e lenticchie, o uova sode e barbabietole, oppure polenta e stoccafisso, tutto ben assestato in quell'area di circonferenza come i continenti e i mari nelle carte del globo, e anche se è poca roba fa l'effetto di qualcosa di sostanzioso e di compatto. Il coperchio, una volta svitato, fa da piatto, e così si hanno due recipienti e si può cominciare a smistare il contenuto.
Il manovale Marcovaldo, svitata la pietanziera e aspirato velocemente il profumo, da mano alle posate che si porta sempre dietro, in tasca, involte in un fagotto, da quando a mezzogiorno mangia con la pietanziera anziché tornare a casa. I primi colpi di forchetta servono a svegliare un po' quelle vivande intorpidite, a dare il rilievo e l'attrattiva d'un piatto appena servito in tavola a quei cibi che se ne sono stati lì rannicchiati già tante ore. Allora si comincia a vedere che la roba è poca, e si pensa: «Conviene mangiarla lentamente», ma già si sono portate alla bocca, velocissime e fameliche, le prime forchettate.
Per primo gusto si sente la tristezza del mangiare freddo, ma subito ricominciano le gioie, ritrovando i sapori del desco familiare, trasportati su uno scenario inconsueto. Marcovaldo adesso ha preso a masticare lentamente: è seduto sulla panchina d'un viale, vicino al posto dove lui lavora; siccome casa sua è lontana e ad andarci a mezzogiorno perde tempo e buchi nei biglietti tramviari, lui si porta il desinare nella pietanziera, comperata apposta, e mangia all'aperto, guardando passare la gente, e poi beve a una fontana. Se è d'autunno e c'è sole, sceglie i posti dove arriva qualche raggio; le foglie rosse e lucide che cadono dagli alberi gli fanno da salvietta; le bucce di salame vanno a cani randagi che non tardano a divenirgli amici; e le briciole di pane le raccoglieranno i passeri, un momento che nel viale non passi nessuno.
Mangiando pensa: «Perché il sapore della cucina di mia moglie mi fa piacere ritrovarlo qui, e invece a casa tra le liti, i pianti, i debiti che saltano fuori a ogni discorso, non mi riesce di gustarlo?» E poi pensa: «Ora mi ricordo, questi sono gli avanzi della cena d'ieri». E lo riprende già la scontentezza, forse perché gli tocca di mangiare gli avanzi, freddi e un po' irranciditi, forse perché l'alluminio della pietanziera comunica un sapore metallico ai cibi, ma il pensiero che gli gira in capo è: «Ecco che l'idea di Domitilla riesce a guastarmi anche i desinari lontano da lei».
In quella, s'accorge che è giunto quasi alla fine, e di nuovo gli sembra che quel piatto sia qualcosa di molto ghiotto e raro, e mangia con entusiasmo e devozione gli ultimi resti sul fondo della pietanziera, quelli che più sanno di metallo. Poi, contemplando il recipiente vuoto e unto, lo riprende di nuovo la tristezza.
Allora involge e intasca tutto, s'alza, è ancora presto per tornare al lavoro, nelle grosse tasche del giaccone le posate suonano il tamburo contro la pietanziera vuota. Marcovaldo va a una bottiglieria e si fa versare un bicchiere raso all'orlo; oppure in un caffè e sorbisce una tazzina; poi guarda le paste nella bacheca di vetro, le scatole di caramelle e di torrone, si persuade che non è vero che ne ha voglia, che proprio non ha voglia di nulla, guarda un momento il calcio — balilla per convincersi che vuole ingannare il tempo, non l'appetito. Ritorna in strada. I tram sono di nuovo affollati, s'avvicina l'ora di tornare al lavoro; e lui s'avvia.
Accadde che la moglie Domitilla, per ragioni sue, comprò una grande quantità di salciccia. E per tre sere di seguito a cena Marcovaldo trovò salciccia e rape. Ora, quella salciccia doveva essere di cane; solo l'odore bastava a fargli scappare l'appetito. Quanto alle rape, quest'ortaggio pallido e sfuggente era il solo vegetale che Marcovaldo non avesse mai potuto soffrire.
A mezzogiorno, di nuovo: la sua salciccia e rape fredda e grassa lì nella pietanziera. Smemorato co — m'era, svitava sempre il coperchio con curiosità e ghiottoneria, senza ricordarsi quel che aveva mangiato ieri a cena, e ogni giorno era la stessa delusione. Il quarto giorno, ci ficcò dentro la forchetta, annusò ancora una volta, s'alzò dalla panchina, e reggendo in mano la pietanziera aperta s'avviò distrattamente per il viale. I passanti vedevano quest'uomo che passeggiava con in una mano una forchetta e nell'altra un recipiente di salciccia, e sembrava non si decidesse a portare alla bocca la prima forchettata.
Da una finestra un bambino disse: — Ehi, tu, uomo!
Marcovaldo alzò gli occhi. Dal piano rialzato di una ricca villa, un bambino stava con i gomiti puntati al davanzale, su cui era posato un piatto.
— Ehi, tu, uomo! Cosa mangi?
— Salciccia e rape!
— Beato te! — disse il bambino.
— Eh… — fece Marcovaldo, vagamente.
— Pensa che io dovrei mangiare fritto di cervella…
Marcovaldo guardò il piatto sul davanzale. C'era una frittura di cervella morbida e riccioluta come un cumulo di nuvole. Le narici gli vibrarono.
— Perché: a te non piace, il cervello?… — chiese al bambino.
— No, m'hanno chiuso qui in castigo perché non voglio mangiarlo. Ma io lo butto dalla finestra.
— E la salciccia ti piace?…
— Oh, sì, sembra una biscia… A casa nostra non ne mangiamo mai…
— Allora tu dammi il tuo piatto e io ti do il mio.
— Evviva! — II bambino era tutto contento. Porse all'uomo il suo piatto di maiolica con una forchetta d'argento tutta ornata, e l'uomo gli diede la pietan — ziera colla forchetta di stagno.
Così si misero a mangiare tutti e due: il bambino al davanzale e Marcovaldo seduto su una panchina lì di fronte, tutti e due leccandosi le labbra e dicendosi che non avevano assaggiato mai un cibo così buono.
Quand'ecco, alle spalle del bambino compare una governante colle mani sulle anche.
— Signorino! Dio mio! Che cosa mangia?
— Salciccia! — fa il bambino.
— E chi gliel'ha data?
— Quel signore lì, — e indicò Marcovaldo che interruppe il suo lento e diligente mastichio d'un boccone di cervello.
— Butti via! Cosa sento! Butti via!
— Ma è buona…
— E il suo piatto? La forchetta?
— Ce l'ha il signore… — e indicò di nuovo Marcovaldo che teneva la forchetta in aria con infilzato un pezzo di cervello morsicato.
Quella si mise a gridare: — Al ladro! Al ladro! Le posate!
Marcovaldo s'alzò, guardò ancora un momento la frittura lasciata a metà, s'avvicinò alla finestra, posò sul davanzale piatto e forchetta, fissò la governante con disdegno, e si ritrasse. Sentì la pietanzie — ra rotolare sul marciapiede, il pianto del bambino, lo sbattere della finestra che veniva richiusa con mal garbo. Si chinò a raccogliere pietanziera e coperchio. S'erano un po' ammaccati; il coperchio non avvitava più bene. Cacciò tutto in tasca e andò al lavoro.
II freddo ha mille forme e mille modi di muoversi nel mondo: sul mare corre come una mandra di cavalli, sulle campagne si getta come uno sciame di locuste, nelle città come lama di coltello taglia le vie e infila le fessure delle case non riscaldate. A casa di Marcovaldo quella sera erano finiti gli ultimi stecchi, e la famiglia, tutta incappottata, guardava nella stufa impallidire le braci, e dalle loro bocche le nuvolette salire a ogni respiro. Non dicevano più niente; le nuvolette parlavano per loro: la moglie le cacciava lunghe lunghe come sospiri, i figlioli le soffiavano assorti come bolle di sapone, e Marcovaldo le sbuffava verso l'alto a scatti come lampi di genio che subito svaniscono.
Alla fine Marcovaldo si decise: — Vado per legna; chissà che non ne trovi —. Si cacciò quattro o cinque giornali tra la giacca e la camicia a fare da corazza contro i colpi d'aria, si nascose sotto il cappotto una lunga sega dentata, e così uscì nella notte, seguito dai lunghi sguardi speranzosi dei familiari, mandando fruscii cartacei ad ogni passo e con la sega che ogni tanto gli spuntava dal bavero.
Andare per legna in città: una parola! Marcovaldo si diresse subito verso un pezzette di giardino pubblico che c'era tra due vie. Tutto era deserto. Marcovaldo studiava le nude piante a una a una pensando alla famiglia che lo aspettava battendo i denti…
Il piccolo Michelino, battendo i denti, leggeva un libro di fiabe, preso in prestito alla bibliotechina della scuola. Il libro parlava d'un bambino figlio di un taglialegna, che usciva con l'accetta, per far legna nel bosco. — Ecco dove bisogna andare, — disse Michelino, — nel bosco! Lì sì che c'è la legna! — Nato e cresciuto in città, non aveva mai visto un bosco neanche di lontano.
Detto fatto, combinò coi fratelli: uno prese un'accetta, uno un gancio, uno una corda, salutarono la mamma e andarono in cerca di un bosco.
Camminavano per la città illuminata dai lampioni, e non vedevano che case: di boschi, neanche l'ombra.
Incontravano qualche raro passante, ma non osavano chiedergli dov'era un bosco. Così giunsero dove finivano le case della città e la strada diventava un'autostrada.
Ai lati dell'autostrada, i bambini videro il bosco: una folta vegetazione di strani alberi copriva la vista della pianura.
Avevano i tronchi fini fini, diritti o obliqui; e chiome piatte e estese, dalle più strane forme e dai più strani colori, quando un'auto passando le illuminava coi fanali. Rami a forma di dentifricio, di faccia, di formaggio, di mano, di rasoio, di bottiglia, di mucca, di pneumatico, costellate da un fogliame di lettere dell'alfabeto.
— Evviva! — disse Michelino, — questo è il bosco!
E i fratelli guardavano incantati la luna spuntare tra quelle strane ombre: — Com'è bello…