52063.fb2 Marcovaldo ovvero Le stagioni in citt? - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 8

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— Come stai? Era bello? Oh…sì…

— E a casa avevi voglia di tornare? — Sì…

– È bella la montagna?

Era in piedi, di fronte a loro, con le ciglia aggrottate, lo sguardo duro.

— Lavoravo come un mulo, — disse, e sputò davanti a sé. S'era fatta una faccia da uomo. — Ogni sera spostare i secchi ai mungitori da una bestia all'altra, da una bestia all'altra, e poi vuotarli nei bidoni, in fretta, sempre più in fretta, fino a tardi. E al mattino presto, rotolare i bidoni fino ai camion che li portano in città… E contare, contare sempre: le bestie, i bidoni, guai se si sbagliava…

— Ma sui prati ci stavi? Quando le bestie pascolavano?…

— Non s'aveva mai tempo. Sempre qualcosa da fare. Per il latte, le lettiere, il letame. E tutto per che cosa? Con la scusa che non avevo il contratto di lavoro, quanto m'hanno pagato? Una miseria. Ma se ora vi credete che ve ne dia a voi, vi sbagliate. Su, andiamo a dormire che sono stanco morto.

Scrollò le spalle, tirò su dal naso ed entrò in casa.

La mandria continuava a allontanarsi nella via, portandosi dietro i menzogneri e languidi odori di fieno e suoni di campani.

Autunno

11 II coniglio velenoso

Quando viene il giorno d'uscire d'ospedale, fin dal mattino uno lo sa e se è già in gamba gira per le corsie, ritrova il passo per quando sarà fuori, fischietta, fa il guarito coi malati, non per farsi invidiare ma per il piacere d'usare un tono incoraggiante. Vede fuori delle vetrate il sole, o la nebbia se c'è nebbia, ode i rumori della città: e tutto è diverso da prima, quando ogni mattino li sentiva entrare — luce e suono d'un mondo irraggiungibile — svegliandosi tra le sbarre di quel letto. Adesso là fuori c'è di nuovo il suo mondo: il guarito lo riconosce come naturale e consueto; e d'improvviso, riavverte l'odore d'ospedale.

Marcovaldo un mattino così fiutava intorno, guarito, aspettando che gli scrivessero certe cose sul libretto della mutua per andarsene. Il dottore prese le carte, gli disse: — Aspetta qui, — e lo lasciò solo nel suo laboratorio.

Marcovaldo guardava i bianchi mobili smaltati che aveva tanto odiato, le provette piene di sostanze torve, e cercava d'esaltarsi all'idea che stava per lasciare tutto quanto: ma non riusciva a provarne quella gioia che si sarebbe atteso. Forse era il pensiero di tornare alla ditta a scaricare casse, o quello dei guai che i suoi figlioli avevano certo combinato nel frattempo, e più di tutto la nebbia che c'era fuori e che dava l'idea di doversene uscire nel vuoto, di sfarsi in un umido niente. Così girava gli occhi intorno, con un indistinto bisogno d'affezionarsi a qualcosa di là dentro, ma ogni cosa che vedeva gli sapeva di strazio o di disagio.

Fu allora che vide un coniglio in una gabbia. Era un coniglio bianco, di pelo lungo e piumoso, con un triangolino rosa di naso, gli occhi rossi sbigottiti, le orecchie quasi implumi appiattite sulla schiena. Non che fosse grosso, ma in quella gabbia stretta il suo corpo ovale rannicchiato gonfiava la rete metallica e ne faceva spuntar fuori ciuffi di pelo mossi da un leggero tremito. Fuori della gabbia, sul tavolo, c'erano dei resti d'erba, e una carota. Marcovaldo pensò a come doveva essere infelice, chiuso là allo stretto, vedendo quella carota e non potendola mangiare. E gli aprì lo sportello della gabbia. Il coniglio non uscì: stava lì fermo, con solamente un lieve moto del muso come fingesse di masticare per darsi un contegno. Marcovaldo prese la carota, glierawicinò, poi lentamente la ritrasse, per invitarlo a uscire. Il coniglio lo seguì, addentò circospetto la carota e con diligenza prese a rosicchiarla d'in mano a Marcovaldo. L'uomo lo carezzò sulla schiena e intanto lo palpò per vedere se era grasso. Lo sentì un po'

ossuto, sotto il pelo. Da questo, e dal modo come tirava la carota, si capiva che dovevano tenerlo un po' a stecchetto.

«L'avessi io, — pensò Marcovaldo, — lo rimpinzerei finché non diventa una palla». E lo guardava con l'occhio amoroso dell'allevatore che riesce a far coesistere la bontà verso l'animale e la previsione dell'arrosto nello stesso moto dell'animo. Ecco che dopo giorni e giorni di squallida degenza in ospedale, al momento d'andarsene, scopriva una presenza amica, che sarebbe bastata a riempire le sue ore e i suoi pensieri. E doveva lasciarla, per tornare nella città nebbiosa, dove non s'incontrano conigli.

La carota era quasi finita, Marcovaldo prese la bestia in braccio e andava cercando intorno qualco — s'altro da dargli.

Gli avvicinò il muso a una piantina di geranio in vaso che era sulla scrivania del dottore, ma la bestia mostrò di non gradirla. Proprio in quel momento Marcovaldo sentì il passo del dottore che stava entrando: come spiegargli perché teneva il coniglio tra le braccia? Aveva indosso il suo giubbotto da lavoro, chiuso alla vita. In fretta ci ficcò dentro il coniglio, s'abbottonò, e perché il dottore non gli vedesse quel rigonfio sussultante sullo stomaco, lo fece passare dietro, sulla schiena. Il coniglio, spaventato, stette buono. Marcovaldo prese le sue carte, e riportò il coniglio sul petto perché doveva voltarsi e uscire. Così, col coniglio nascosto nel giubbotto, lasciò l'ospedale e andò al lavoro.

— Ah, sei guarito finalmente? — disse il caporeparto signor Viligelmo vedendolo arrivare. — E cosa ti è cresciuto, lì? — e gli indicò il petto sporgente.

— Ci ho un impiastro caldo contro i crampi, — disse Marcovaldo.

In quella il coniglio dette un guizzo, e Marcovaldo saltò su come un epilettico.

— Cosa ti piglia? — fece Viligelmo.

— Niente: singhiozzo, — rispose lui, e con la mano spinse il coniglio dietro la schiena.

— Sei ancora un po' malandato, vedo, — disse il capo.

Il coniglio cercava di arrampicarglisi sulla schiena e Marcovaldo scrollava le spalle per farlo scendere.

— Hai i brividi. Va' a casa ancora per un giorno. Domani vedi d'essere guarito.

A casa, Marcovaldo arrivò reggendo il coniglio per le orecchie come un cacciatore fortunato.

— Papa! Papa! — l'acclamarono i bambini corren–

dogli incontro. — Dove l'hai preso? Ce lo regali? È un regalo per noi? — e volevano subito afferrarlo.

— Sei tornato? — disse la moglie e dall'occhiata che gli rivolse, Marcovaldo capì che il tempo della sua degenza non era servito ad altro che a farle accumulare nuovi motivi di risentimento contro di lui. — Un animale vivo? E cosa vuoi farne? Sporca dappertutto.

Marcovaldo sgombrò il tavolo e vi piazzò il coniglio in mezzo, che s'appiattì come cercando di sparire. — Guai a chi lo tocca! — disse. — È il nostro coniglio, e ingrasserà tranquillo fino a Natale.

— Ma è un coniglio o una coniglia? — chiese Mi — chelino.

Alla possibilità che fosse una coniglia, Marcovaldo non ci aveva pensato. Subito gli venne in mente un nuovo piano: se era una femmina si poteva farle fare i coniglietti e mettere su un allevamento. E già nella sua fantasia gli umidi muri di casa sparivano e c'era una fattoria verde tra i campi.

Era proprio un maschio, invece. Ma a Marcovaldo quest'idea dell'allevamento ormai gli era entrata in testa. Era un maschio, ma un maschio bellissimo, a cui si poteva cercare una sposa e i mezzi per crearsi una famiglia.

— E cosa gli diamo da mangiare, se non ce n'è per noi? — disse la moglie, tagliente.

— Lascia pensare a me, — disse Marcovaldo. L'indomani, in ditta, a certe piante verdi in vaso degli uffici della Direzione, che lui doveva ogni mattino portar fuori, innaffiare e riportare a posto, tolse una foglia a ciascuna: larghe foglie lucide da una parte e dall'altra opache; e se le ficcò nella giubba. Poi, a una impiegata che veniva con un mazzetto di fiori chiese: — Glieli ha dati il moroso? E non me ne regala uno? — ed intascò anche quello, i A un ragazzo che sbucciava una pera, disse: — Lasciami le bucce —. E così, qua una foglia, là una scorza, laggiù un petalo, sperava di sfamare la bestiola.

A un certo punto, il signor Viligelmo lo mandò a chiamare. «Si saranno accorti delle piante spelacchiate?» si domandò Marcovaldo, abituato a sentirsi sempre in colpa.

Dal caporeparto c'era il medico dell'ospedale, due militi della Croce Rossa ed una guardia civica. — Senti, — disse il medico, — è sparito un coniglio dal mio laboratorio. Se ne sai qualcosa ti conviene di non fare il furbo. Perché gli abbiamo iniettato i germi di una malattia terribile e può spargerla per tutta la città. Non ti chiedo se l'hai mangiato perché a quest'ora non saresti più tra i vivi.

Fuori aspettava un'autoambulanza; ci salirono di corsa, e con un continuo urlo di sirena, percorsero vie e viali verso la casa di Marcovaldo: e per la via restò una scia di foglie e bucce e fiori che Marcovaldo gettava via dal finestrino tristemente.

La moglie di Marcovaldo quel mattino non sapeva proprio cosa mettere in pentola. Guardò il coniglio che il marito aveva portato a casa il giorno prima, e che ora stava in una gabbia improvvisata, piena di trucioli di carta. «È venuto proprio a proposito, — si disse. — Soldi non ce n'è; il mensile se n'è già andato in medicine extra che la Mutua non paga; le botteghe non ci fanno più credito. Altro che far l'allevamento, o aspettare a Natale per metterlo arrosto! Noi saltiamo i pasti e ancora dobbiamo ingrassare un coniglio!»

— Isolina, — disse alla figlia, — tu sei già grande, devi imparare come si cucinano i conigli. Comincia ad ammazzarlo e a spellarlo e poi ti spiego come devi fare.

Isolina stava leggendo un giornale di novelle sentimentali. — No, — mugolò, — comincia tu ad ammazzarlo e a pelarlo, e poi starò a vedere come lo cucini.

— Brava! — disse la madre. — Io d'ammazzarlo non ho cuore. Ma so che è una cosa facilissima, basta prenderlo per le orecchie e dargli una forte botta sulla collottola. Per spellarlo, poi vedremo.

— Non vedremo niente, — disse la figlia senza alzare il naso dal giornale, — io colpi sulla collottola a un coniglio vivo non ne do. E a spellarlo non ci penso neanche.

I tre bambini erano stati a sentire questo dialogo a occhi spalancati.

La madre restò un po' soprappensiero, li guardò, poi disse: — Bambini…

I bambini, come d'intesa, voltarono le spalle alla madre e uscirono dalla stanza.

— Aspettate, bambini! — disse la madre. — Vi volevo dire se vi piacerebbe uscire col coniglio. Gli metteremo un bel nastro al collo e andate un po' a passeggio.

I bambini si fermarono e si guardarono negli occhi. — A passeggio dove? — chiese Michelino.

— Be', potete fare quattro passi. Poi andate a trovare la signora Diomira, le portate il coniglio e le dite se per favore ce lo ammazza e ce lo spella, lei che è così brava.

La madre aveva toccato il tasto giusto: i bambini, si sa, restano impressionati dalla cosa che a loro piace di più, e al resto preferiscono non pensarci. Così trovarono un lungo nastro coler lillà, lo legarono attorno al collo della bestiola, e l'usarono come guinzaglio, strappandoselo di mano e tirandosi dietro il coniglio riluttante e mezzo strangolato.