52063.fb2 Marcovaldo ovvero Le stagioni in citt? - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 9

Marcovaldo ovvero Le stagioni in citt? - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 9

— Dite alla signora Diomira, — raccomandò la madre, — che poi può tenersi un cosciotto! No, meglio dirle: la testa.

Insomma: veda lei.

I bambini erano appena usciti quando l'alloggio di Marcovaldo fu circondato e invaso da infermieri, medici, guardie e poliziotti. Marcovaldo era in mezzo a loro più morto che vivo. — È qui il coniglio che è stato portato via dall'ospedale? Presto, indicateci dov'è senza toccarlo: ha addosso i germi d'una tremenda malattia! — Marcovaldo li condusse alla gabbia, ma era vuota. — Già mangiato? — No, no! — E dov'è? — Dalla signora Diomira! — e gli inseguitori ripresero la caccia.

Bussarono dalla signora Diomira. — II coniglio? Che coniglio? Siete pazzi? — A vedersi la casa invasa da sconosciuti, in camice bianco e in divisa, che cercavano un coniglio, alla vecchietta venne quasi un colpo. Del coniglio di Marcovaldo non sapeva niente.

Infatti, i tre bambini, volendo salvare il coniglio dalla morte, pensarono di portarlo in un posto sicuro, giocarci un poco e poi lasciarlo andare; e invece di fermarsi al pianerottolo della signora Dio — mira, decisero di salire fino a un terrazzo che c'era sui tetti. Alla madre avrebbero detto che aveva strappato il guinzaglio e era scappato. Ma nessun animale pareva così poco adatto a una fuga quanto quel coniglio. Fargli salire tutte quelle scale era un problema: si rannicchiava spaventato a ogni gradino. Finirono per prenderlo in braccio e portarlo su di peso.

Sul terrazzo volevano farlo correre: non correva. Provarono a metterlo su un cornicione per vedere se camminava come i gatti: ma pareva che soffrisse le vertigini. Provarono a issarlo su un'antenna della televisione per vedere se sapeva stare in equilibrio: no, cascava. Annoiati, i ragazzi strapparono il guinzaglio, lasciarono libera la bestia in un punto dove le si aprivano davanti le vie dei tetti, mare obliquo e angoloso, e se ne andarono.

Quando fu solo, il coniglio prese a muoversi. Tentò alcuni passi, si guardò intorno, cambiò direzione, si girò, poi a piccoli balzi, a saltelli, prese a andare per i tetti. Era una bestia nata prigioniera: il suo desiderio di libertà non aveva larghi orizzonti. Non conosceva altro bene della vita se non il poter stare un po' senza paura. Ecco ora poteva muoversi, senza nulla intorno che gli facesse paura, forse come mai prima in vita sua. Il luogo era insolito, ma una chiara idea di cosa fosse e cosa non fosse solito non aveva potuto mai crearsela. E da quando dentro di sé sentiva rodere un male indistinto e misterioso, il mondo intero lo interessava sempre meno. Così andava sui tetti; e i gatti che lo vedevano saltare non capivano chi era e arretravano timorosi.

Intanto, dagli abbaini, dai lucernari, dalle altane, l'itinerario del coniglio non era passato inosservato. E chi cominciò a esporre catini d'insalata sul davanzale spiando da dietro alle tendine, chi buttava un torsolo di pera sulle tegole e ci tendeva intorno un laccio di spago, chi disponeva una fila di pez — zettini di carota sul cornicione, che seguitavano fino al proprio abbaino. E una parola d'ordine correva in tutte le famiglie che abitavano sui tetti: — Oggi coniglio in umido — o — Coniglio in fricassea — o — Coniglio arrosto.

La bestia s'era accorta di questi armeggii, di queste silenziose offerte di cibo. E sebbene avesse fame, diffidava.

Sapeva che ogni volta che gli uomini cercavano d'attirarlo offrendogli cibo, capitava qualcosa d'oscuro e doloroso: o gli conficcavano una siringa nelle carni, o un bisturi, o lo cacciavano di forza in un giubbotto abbottonato, o lo trascinavano con un nastro al collo… E la memoria di queste disgrazie faceva una cosa sola col male che sentiva dentro di sé, col lento alterarsi d'organi che avvertiva, col presentimento della morte. E con la fame. Ma come se di tutti questi disagi sapesse che solo la fame poteva essere alleviata, e riconoscesse che questi infidi esseri umani gli potevan dare — oltre a sofferenze crudeli — un senso — di cui pur aveva bisogno — di protezione, di calore domestico, decise d'arrendersi, di prestarsi al gioco degli uomini: andasse poi come voleva. Così, cominciò a mangiare i pezzettini di carota, seguendo la scia che, lo sapeva bene, l'avrebbe fatto ancora prigioniero e martire, ma tornando a gustare forse per l'ultima volta il buon sapore terrestre degli ortaggi. Ecco si avvicinava alla finestra dell'abbaino', ecco che una mano si sarebbe protesa a ghermirlo: invece, tutt'a un tratto, la finestra si chiuse e lo lasciò fuori.

Questo era un fatto estraneo alla sua esperienza: una trappola che si rifiutava di scattare. Il coniglio si volse, cercò gli altri segni d'insidia intorno, per scegliere a quale d'essi gli conveniva arrendersi. Ma intorno le foglie d'insalata venivano ritirate, i lacci gettati via, la gente affacciata spariva, sbarrava finestre e lucernari, i terrazzi si spopolavano.

Era successo che una camionetta della polizia aveva attraversato la città, gridando da un altoparlante: — Attenzione attenzione! È stato smarrito un coniglio bianco dal pelo lungo, affetto da una grave malattia contagiosa! Chiunque lo rintracci sappia che la sua carne è velenosa, e anche il contatto può trasmettere germi nocivi! Chiunque lo veda lo segnali al più vicino posto di polizia, ospedale o caserma dei pompieri!

Il terrore si sparse sui tetti. Ognuno stava in guardia e appena avvistava il coniglio che con un floscio balzo passava da un tetto a quello vicino, dava l'allarme e tutti sparivano come all'avvicinarsi d'uno sciame di locuste. Il coniglio procedeva in bilico sulle cimase; questo senso di solitudine, proprio nel momento in cui aveva scoperto la necessità della vicinanza dell'uomo, gli pareva ancora più minaccioso, intollerabile.

Intanto il cavalier Ulrico, vecchio cacciatore, aveva caricato il suo fucile con cartucce da lepre, ed era andato ad appostarsi su un terrazzo, dietro un fumaiolo. Quando vide nella nebbia affiorare l'ombra bianca del coniglio, sparò; ma tant'era la sua emozione al pensiero dei malefici della bestia, che la rosa dei pallini grandine un po' discosto, sulle tegole. Il coniglio sentì la fucilata rimbalzare intorno, e un pallino trapassargli un orecchio. Comprese: era una dichiarazione di guerra; ormai ogni rapporto con gli uomini era rotto. E in dispregio a loro, a questa che in qualche modo sentiva come una sorda ingratitudine, decise di farla finita con la vita.

Un tetto coperto di lamiera scendeva obliquo, e terminava nel vuoto, nel nulla opaco della nebbia. Il coniglio ci si posò con tutte e quattro le zampe, cautamente dapprima, poi abbandonandosi. E così scivolando, divorato e circondato dal male, andava verso la morte. Sul ciglio, la grondaia lo trattenne un secondo, poi sbilanciò giù…

E finì tra le mani guantate d'un pompiere, issato in cima a una scala portatile. Impedito fin in quell'estremo gesto di dignità animale, il coniglio venne caricato sull'ambulanza che partì a gran carriera verso l'ospedale. A bordo c'erano anche Marcovaldo, sua moglie e i suoi figlioli, ricoverati in osservazione e per una serie di prove di vaccini.

Inverno

12 La fermata sbagliata

Per chi ha in uggia la casa inospitale, il rifugio preferito nelle serate fredde è sempre il cinema. La passione di Marcovaldo erano i film a colori, sullo schermo grande che permette d'abbracciare i più vasti orizzonti: praterie, montagne rocciose, foreste equatoriali, isole dove si vive coronati di fiori. Vedeva il film due volte, usciva solo quando il cinema chiudeva; e col pensiero continuava ad abitare quei paesaggi e a respirare quei colori. Ma il rincasare nella sera piovigginosa, l'aspettare alla fermata il tram numero 30, il constatare che la sua vita non avrebbe conosciuto altro scenario che tram, semafori, locali al seminterrato, fornelli a gas, roba stesa, magazzini e reparti d'imballaggio, gli facevano svanire lo splendore del film in una tristezza sbiadita e grigia.

Quella sera, il film che aveva visto si svolgeva nelle foreste dell'India: dal sottobosco paludoso s'alzavano nuvole di vapori, e i serpenti salivano per le liane e s'arrampicavano alle statue d'antichi templi inghiottiti dalla giungla.

All'uscita del cinema, aperse gli occhi sulla via, tornò a chiuderli, a riaprirli: non vedeva niente. Assolutamente niente. Neanche a un palmo dal naso. Nelle ore in cui era restato là dentro, la nebbia aveva invaso la città, una nebbia spessa, opaca, che involgeva le cose e i rumori, spiaccicava le distanze in uno spazio senza dimensioni, mescolava le luci dentro il buio trasformandole in bagliori senza forma né luogo.

Marcovaldo si diresse macchinalmente alla fermata del 30 e sbattè il naso contro il palo del cartello. In quel momento, s'accorse d'essere felice: la nebbia, cancellando il mondo intorno, gli permetteva di conservare nei suoi occhi le visioni dello schermo panoramico. Anche il freddo era attutito, quasi che la città si fosse rincalzata addosso una nuvola come una coperta. Marcovaldo, imbacuccato nel suo pastrano, si sentiva protetto da ogni sensazione esterna, librato nel vuoto, e poteva colorare questo vuoto con le immagini dell'India, del Gange, della giungla, di Calcutta.

Venne il tram, evanescente come un fantasma, scampanellando lentamente; le cose esistevano appena quel tanto che basta; per Marcovaldo quella sera lo stare in fondo al tram, voltando la schiena agli altri passeggeri, fissando fuori dai vetri la notte vuota, attraversata solo da indistinte presenze luminose e da qualche ombra più nera del buio, era la situazione perfetta per sognare a occhi aperti, per proiettare davanti a sé dovunque andasse un film ininterrotto su uno schermo sconfinato.

Così fantasticando aveva perso il conto delle fermate; a un tratto si domandò dov'era; vide il tram ormai quasi vuoto; scrutò fuori dai vetri, interpretò i chiarori che affioravano, stabilì che la sua fermata era la prossima, corse all'uscita appena in tempo, scese. Si guardò intorno cercando qualche punto di riferimento. Ma quel poco d'ombre e luci che i suoi occhi riuscivano a raccogliere, non si componevano in nessuna immagine conosciuta. S'era sbagliato di fermata e non sapeva dove si trovava.

A incontrare un passante, era niente farsi indicare la via; ma, fosse il luogo solitario, l'ora, il tempo impervio, non si vedeva ombra di persona umana. Finalmente la vide, un'ombra, e attese che s'avvicinasse. No: s'allontanava, forse stava attraversando, o camminava in mezzo alla via, poteva essere non un pedone ma un ciclista, su una bicicletta senza luci.

Marcovaldo gridò: — Per piacere! Per piacere, monsù! Sa dov'è via Pancrazio Pancrazietti?

La figura s'allontanava ancora, quasi non si vedeva più. Disse: — Di lààà… — ma non si sapeva da quale parte indicasse.

— Destra o sinistra? — gridò Marcovaldo ma non sapeva se si rivolgeva al vuoto.

Una risposta arrivò, o uno strascico di risposta: un «… istra!» che poteva anche essere «… estra!» Comunque, poiché l'uno non vedeva com'era voltato l'altro, destra o sinistra non volevano dir niente.

Marcovaldo ora camminava verso un chiarore che pareva venire dall'altro marciapiede, un po' più in là. Invece la distanza era molto più lunga: occorreva attraversare una specie di piazza, con in mezzo un isolotto erboso, e le frecce (unico segno intellegibile) della rotazione obbligatoria per le auto. L'ora era tarda ma certo era aperto ancora qualche caffè, qualche osteria; l'insegna luminosa che cominciava a decifrarsi diceva: Bar… E si spense; su quello che doveva essere un vetro illuminato calò una lama di buio, come una saracinesca. Il bar stava chiudendo, ed era ancora — gli sembrò di capire in quel momento — lontanissimo.

Tanto valeva puntare su un'altra luce: Marcovaldo camminando non sapeva se seguiva una linea retta, se il punto luminoso verso il quale si dirigeva fosse sempre lo stesso o si sdoppiasse o triplicasse o cambiasse di posto. Il pulviscolo d'un nero un po' lattiginoso dentro il quale si muoveva era così minuto che già lo sentiva infiltrarsi per il pastrano, tra filo e filo del tessuto, come in un setaccio, imbeverlo come una spugna.

La luce che raggiunse era l'uscio fumoso d'un'o — steria. Dentro c'era gente seduta e in piedi al banco, ma, fosse l'illuminazione cattiva, fosse la nebbia penetrata dappertutto, anche lì le figure apparivano sfocate, come appunto in certe osterie che si vedono al cinema, situate in tempi antichi o in paesi lontani.

— Cercavo… se magari loro sanno… Via Pancrazietti… — cominciò a dire, ma nell'osteria c'era rumore, ubriachi che ridevano credendolo ubriaco, e le domande che riuscì a fare, le spiegazioni che riuscì a ottenere, erano anch'esse nebbiose e sfocate. Tanto più che, per scaldarsi, ordinò — o meglio: si lasciò imporre da quelli che stavano al banco

— un quarto di vino, dapprincipio, e poi ancora mezzo litro, più qualche bicchiere che, con gran manate sulle spalle, gli fu offerto dagli altri. Insomma, quando uscì dall'osteria, le sue idee sulla via di casa non erano più chiare di prima, ma in compenso più che mai la nebbia poteva contenere tutti i continenti ed i colori.

Con in corpo il calore del vino, Marcovaldo camminò per un buon quarto d'ora, a passi che sentivano continuamente il bisogno di spaziare a sinistra e a destra per rendersi conto dell'ampiezza del marciapiede (se ancora stava seguendo un marciapiede) e mani che sentivano il bisogno di tastare continuamente i muri (se ancora stava seguendo un muro). La nebbia nelle idee, camminando, gli si diradò; ma quella di fuori restava fitta.

Ricordava che all'osteria gli avevano detto di prendere un certo corso, seguirlo per cento metri, poi domandare ancora. Ma adesso non sapeva di quanto s'era allentanato dall'osteria, o se non aveva fatto che girare intorno all'isolato.

I luoghi parevano disabitati, tra muri di mattoni come recinti di fabbriche. A un cantone c'era certamente la tabella col nome della via, ma la luce del lampione, sospeso in mezzo alla carreggiata, non arrivava fin lassù. Marcovaldo per avvicinarsi alla scritta s'arrampicò al palo d'un divieto di sosta. Salì fino a mettere il naso sulla targa, ma la scritta era sbiadita e lui non aveva fiammiferi per illuminarla meglio. Sopra la tabella il muro culminava in un orlo piano e largo, e sporgendosi dal palo del divieto di sosta Marcovaldo riuscì a issarsi là in cima. Aveva intravisto, piantato sopra l'orlo del muro, un grande cartello biancheggiante. Mosse qualche passo sull'orlo del muro, fino al cartello; qui il lampione rischiarava le lettere nere sul fondo bianco, ma la scritta «L'ingresso è severamente vietato alle persone non autorizzate» non serviva a dargli nessun lume.

L'orlo del muro era abbastanza largo da poterci star sopra in equilibrio e camminare; anzi, a pensarci bene, era meglio del marciapiede, perché i lampioni erano all'altezza giusta per illuminare i passi, segnando una striscia chiara in mezzo al buio. A un certo punto il muro terminava e Marcovaldo si trovò contro il capitello d'un pilastro; no, faceva un angolo retto e continuava…

Così tra angoli rientranze biforcazioni pilastri il percorso di Marcovaldo seguiva un disegno irregolare; più volte egli credeva che il muro terminasse e poi scopriva che continuava in un'altra direzione; tra tante giravolte non sapeva più in che senso era voltato, cioè da che parte avrebbe dovuto saltare, volendo ridiscendere in strada.

Saltare… E se il dislivello fosse aumentato? S'accoccolò in cima a un pilastro, cercò di scrutare in basso, da una parte e dall'altra, ma nessun raggio di luce arrivava fino al suolo: poteva trattarsi d'un saltello di due metri come d'un abisso. Non gli restava che proseguire là in cima.

La via di scampo non tardò ad apparire. Era una superficie piana, biancheggiante, contigua al muro: forse il tetto d'un edificio, in cemento — come Marcovaldo si rese conto prendendo a camminarci — che si prolungava nel buio. Si pentì subito d'esser — cisi inoltrato: adesso aveva perso qualsiasi punto di riferimento, s'era allontanato dalla fila dei lampioni, e ogni passo che faceva poteva portarlo sull'orlo del tetto, o più in là, nel vuoto.

Il vuoto era veramente un baratro. Dal basso trasparivano piccole luci, come ad una gran distanza, e se laggiù erano i lampioni, il suolo doveva essere molto più in basso ancora. Marcovaldo si trovava sospeso in uno spazio impossibile da immaginare: a tratti in alto apparivano luci verdi e rosse, disposte in figure irregolari come costellazioni. Scrutando quelle luci a naso in su, non tardò a succedergli d'allungare un passo nel vuoto e di precipitare.

«Sono morto!» pensò, ma nel momento stesso si trovò seduto su di un terreno molle; le sue mani tastavano dell'erba; era caduto in mezzo a un prato, incolume. Le luci basse, che gli erano sembrate così lontane, erano tante lampadine in fila al livello del suolo.

Un posto insolito per mettere delle luci, però comodo, perché gli tracciavano un cammino. Il suo piede adesso non calpestava più l'erba ma l'asfalto: in mezzo ai prati passava una grande via asfaltata, illuminata da quei raggi luminosi raso terra. Intorno, niente: solo gli altissimi bagliori colorati, che apparivano e sparivano.

«Una strada asfaltata porterà da qualche parte», Marcovaldo pensò, e prese a seguirla. Arrivò a una biforcazione, anzi a un incrocio, ogni ramo di strada fiancheggiato da quelle piccole lampade basse, e con enormi cifre bianche segnate al suolo.

Si scoraggiò. Cosa importava scegliere da che parte andare se intorno non c'era che questa piatta prateria d'erba e nebbia vuota? Fu a questo punto che vide, a altezza d'uomo, un movimento di raggi di luce. Un uomo, veramente un uomo con le braccia aperte, vestito — pareva — d'una tuta gialla, agitava due palette luminose come quelle dei capistazione.

Marcovaldo corse verso quest'uomo e prima ancora d'averlo raggiunto prese a dire, tutto affannato: — Ehi, lei, dica, io qui, in mezzo a questa nebbia, come si fa, ascolti…

— Non si preoccupi, — rispose tranquilla e cortese la voce dell'uomo in giallo, — sopra i mille metri non c'è nebbia, vada sicuro, la scaletta è lì avanti, gli altri sono già saliti.

Era un discorso oscuro, ma incoraggiante: a Marcovaldo soprattutto piacque di sentire che a poca distanza c'erano altre persone; avanzò per raggiungerle senza fare altre domande.

La scaletta misteriosamente preannunciata era proprio una piccola scala con comodi scalini fiancheggiati da due parapetti, che biancheggiava nel buio. Marcovaldo salì. Sulla soglia d'una porticina una ragazza lo salutò con tanta gentilezza che pareva impossibile si rivolgesse proprio a lui.

Marcovaldo si profuse in riverenze: — I miei rispetti, signorina! Tante belle cose! — Imbevuto di freddo e di umidità com'era non gli pareva vero di trovar rifugio sotto un tetto…

Entrò, sbattè gli occhi abbagliato dalla luce. Non era in una casa. Era, dove? in un autobus, credette di capire, un lungo autobus con molti posti vuoti. Si sedette; di solito per rincasare prendeva non l'autobus ma il tram perché il biglietto costava un po' meno, ma stavolta s'era smarrito in una zona così lontana che certamente c'erano solo autobus che facevano servizio. Che fortuna d'essere arrivato in tempo per questa che doveva essere l'ultima corsa!