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Gennaio: I pesci
― Sta’ attento, ― dice il pesce grosso al pesce piccolo, ― quello lì è un amo. Non abboccare.
― Perché? ― domanda il pesce piccolo.
― Per due ragioni, ― risponde il pesce grosso. ― La prima è che se abbocchi, ti pescano, t’infarinano e ti friggono in padella. Poi ti mangiano, con due foglie d’insalata per contorno.
― Ohibò! Anzi, grazie tante. Mi hai salvato la vita. E la seconda ragione?
― La seconda ragione, ― dice il pesce grosso, ― è che ti voglio mangiare io.
Febbraio: Il numero trentatrè
Conosco un piccolo commerciante. Non commercia né in zucchero né in caffè, non vende né sapone né prugne cotte. Vende solo il numero trentatrè.
È una persona onestissima, vende roba genuina e non ruba mai sul peso. Non è di quelli che dicono: “Ecco il suo trentatrè, signore” e invece magari è soltanto un trentuno o un ventinove.
I suoi trentatrè sono tutti garantiti di marca, dispari al cento per cento, tre decine e tre unità, l’accento sull’ultima sillaba.
Non fa grandi affari, però. Di trentatrè non c’è un grande smercio. Solo quelli che debbono andare dal dottore entrano nel negozietto e ne comprano uno. Ma ci sono anche di quelli che comprano un trentatre usato a Porta Portese. Lui ad ogni modo non si lamenta. Potete mandare da lui un bambino, o anche un gatto, con la sicurezza che non farà imbrogli.
È un onesto esercente. Nel suo piccolo, è una colonna della società.
Marzo: La cartolina
C’era una volta una cartolina senza indirizzo. C’era scritto soltanto: “Saluti e baci” E sotto la firma: “Pinuccia”. Nessuno poteva dire se questa Pinuccia fosse signora o signorina, una vecchia bisbetica o una ragazzetta in blue jeans. O magari una spia.
Tanta gente avrebbe voluto prendersi almeno uno di quei saluti e di quei baci, almeno il più piccolo. Ma, come fidarsi?
Aprile: L’assedio
Il generale Tuthià disse al gran Faraone: ― Maestà, quella città lì, con un assedio regolare non la prendiamo neanche a piangere. Ci vuole un trucco.
― E tu, ce l’hai?
― Ce l’ho, sì.
Il generale fece disporre di notte mille grosse giare intorno alla città assediata. Dentro ogni giara c’era un soldato armato di tutto punto. Poi l’esercito egiziano fece armi e bagagli, sgombrò il campo, battè in ritirata. Gli assediati corrono alle mura, non vedono più gli egiziani, vedono le giare e gridano: ― Buone! Per il raccolto delle olive, è quello che ci vuole.
Ci vollero cento carri per portare le giare in città. Di notte, poi, i soldati egiziani ruppero le giare, saltarono fuori, aprirono le Porte, appiccarono il fuoco; il Faraone tornò con tutte le sue truppe. Morale: vittoria completa. Gran festa, fuochi artificiali.
Solo il generale Tuthià non si mostrava troppo contento.
― Ma come, ― fece il Faraone, ― ti ho dato la massima decorazione dell’impero, una pensione di prima categoria, mille cavalli, uno per ogni giara, cosa vuoi di più?
― Niente, Maestà. Ma penso che tra mille anni, alla guerra di Troia, un generale greco farà con un solo cavallo quello che io ho fatto con mille giare. Purtroppo noi non conosciamo ancora il cavallo. E così quello si prenderà tutta la gloria.
― Guardie, ― gridò allora il Faraone, ― acchiappate questo traditore e tagliategli la testa. Lui non voleva la città, voleva la gloria. Voleva un poeta per fargli la biografia. Passare alla storia non gli bastava: voleva passare anche alla poesia. A morte!
Maggio: Dialoghetto
― Che cosa si aspetta da me la gente?
― Che tu da lei non ti aspetti niente.
Giugno: Gli uccelli
Conosco un signore che ama gli uccelli; Tutti: quelli di bosco, quelli di palude, quelli di campagna. I corvi, le cutrettole, i colibrì. Le anatre, le folaghe, i verdoni, i fagiani. Gli uccelli europei, gli uccelli africani. Ha un’intera biblioteca sugli uccelli: tremila volumi, molti dei quali rilegati in pelle.
Egli adora istruirsi sugli usi e costumi degli uccelli. Impara che le cicogne, quando scendono dal Nord al Sud, percorrono la linea Spagna-Marocco o quella Turchia-Siria-Egitto, per schivare il Mediterraneo: ne hanno una gran paura. Non sempre la strada più corta è la più sicura.
Sono anni, lustri, decenni che quel mio conoscente studia gli uccelli. Così sa di preciso quando passano, si mette lì col suo fucile automatico e bang! bang!, non ne sbaglia uno.
Luglio: La catena
La catena si vergognava di se stessa. “Ecco”, pensava, “tutti mi schivano e hanno ben ragione: la gente ama la libertà e odia le catene”.
Passò di lì un uomo, prese la catena, salì su un albero, ne legò i due capi a un ramo robusto e ci fece l’altalena.
Ora la catena serve per far volare in alto i figli di quell’uomo, ed è molto contenta.
Agosto: In treno
In treno faccio conoscenza con un signore. Conversiamo piacevolmente del più, del meno e anche di altre cose. A un certo punto egli dice: ― Sa, io vado a Domodossola!
― Bravo! ― esclamo con ammirazione. ― Lei ha fatto un magnifico complemento di moto a luogo.
Egli assume di colpo un’espressione severa, persino un po’ disgustata.
― Guardi, ― dice seccamente, ― che certe cose io le lascio fare agli altri.
E per tutto il resto del viaggio non mi rivolge la parola.
Settembre: L’Aida
La nostra cittadina ha festeggiato ieri il signor Trombetti Giovancarlo, che in trent’anni di lavoro ha registrato da solo e senza aiutanti l’opera Aida del maestro Giuseppe Verdi.
Ha cominciato che era quasi un ragazzo, cantando davanti al microfono del suo registratore la parte di Aida, poi quella di Amneris, poi quella di Radamès. Una dopo l’altra ha cantato e registrato tutte le parti.
Anche i cori. Siccome il coro dei sacerdoti doveva essere di trenta cantanti, lo ha dovuto cantare trenta volte. Poi ha studiato tutti gli strumenti, dal violino alla grancassa, dal fagotto al clarino, dalla tromba al corno inglese, eccetera. Ha inciso le parti una per una, poi le ha fuse in un nastro comune per ottenere l’effetto dell’orchestra.
Tutto questo lavoro l’ha fatto in uno scantinato affittato all’uopo, lontano dal suo domicilio. Alla famiglia diceva che andava a fare gli straordinari. E invece andava a fare l’Aida. Ha fatto i rumori degli elefanti, quelli dei cavalli, i battimani alla fine delle arie più famose. Per fare l’applauso alla fine del primo atto, ha applaudito tutto da solo, per la durata di un minuto, tremila volte, perché aveva deciso che allo spettacolo assistessero tremila persone, delle quali quattrocentodiciotto dovevano gridare: “Bravi!”, centoventuno: “Benissimo!”, trentasei: “Vogliamo il bis!”, dodici, invece: “Cani! Andatevi a nascondere”.
E ieri, come ho detto, quattromila persone, stipate nel teatro comunale, hanno avuto la prima audizione dell’eccezionale opera. Alla fine quasi tutti erano d’accordo nel dire: “Straordinario! Pare proprio un disco!”
Ottobre: Divento piccolo
È terribile diventare piccoli a questo modo, tra gli sguardi divertiti della famiglia. Per loro è uno scherzo, la cosa li mette di buon umore. Quando il tavolo mi sorpassa, si fanno carezzevoli, teneri, affettuosi. I nipotini corrono a preparare la cesta del gatto: evidentemente si propongono di farne la mia cuccia; mi sollevano da terra con delicatezza, prendendomi per la collottola, mi posano sul vecchio cuscino stinto, chiamano amici e parenti a godersi lo spettacolo del nonno nella cesta. E divento sempre più piccolo. Mi possono chiudere, ormai, in un cassetto insieme ai tovaglioli, puliti o sporchi. Nel giro di pochi mesi non sono più un padre, un nonno, uno stimato professionista, ma un affanno che si fa passeggiare sul tavolo quando la televisione non è accesa. Prendono la lente d’ingrandimento per guardarmi le unghie piccolissime. Tra poco basterà una scatola di cerini a contenermi. Poi qualcuno troverà la scatola vuota e la butterà via.
Novembre: I giornali
Conosco un altro signore in treno. È salito a Terontola con sei giornali sotto il braccio. Comincia a leggere.
Legge la prima pagina del primo giornale, la prima pagina del secondo giornale, la prima pagina del terzo giornale, e così via fino al sesto.
Poi passa a leggere la seconda pagina del primo giornale, la seconda pagina del secondo giornale, la seconda pagina del terzo giornale, e avanti così.
Poi attacca la terza pagina del primo giornale, la terza pagina del secondo, con metodo e diligenza, prendendo ogni tanto qualche appunto sui polsini della camicia.
A un tratto mi coglie un pensiero spaventoso: “Se tutti i giornali hanno lo stesso numero di pagine, va bene; ma che cosa succederà se un giornale ha sedici pagine, un altro ventiquattro, un altro soltanto otto? Vedendo fallire il suo metodo, che cosa farà quel povero signore?”
Per fortuna scende a Orte e io non faccio in tempo ad assistere alla tragedia.
Dicembre: Il vocabolario
Una pagina del vocabolario su cui medito spesso è quella in cui coabitano silenziosamente, senza mai salutarsi né farsi gli auguri di buon anno, l’ortensia, l’ortica, l’ortolano e l’ortografia.
La cosa mi intriga assai. Fin che immagino l’ortolano intento a strappare l’ortica perché l’ortensia cresca liberamente, la mia pace non è turbata. Ma poi l’ortolano si mette a insegnare l’ortografia all’ortensia, la quale, essendo un fiore, se ne infischia. A questo punto passa, nella stessa pagina, un prete ortodosso. Per chi sta pregando? Per l’ortensia defunta, per l’ortolano matto o per tutti quelli che soffrono a causa dell’ortografia? Questo interrogativo spalanca davanti ai miei occhi un vero e proprio abisso, in fondo al quale - cioè in fondo alla pagina - vagola solitario il verbo ortografizzare. Pare che significhi: “seguire le regole dell’ortografia”. Ma il suo suono è spaventoso. Forse è un verbo cannibale.